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La rappresentazione della pena Carcere invisibile e corpi segregati (da "Communitas", mensile diretto da Aldo Bonomi)
La teoria dei vasi comunicanti: carcere e territorio
Da Genova a Milano, passando da Eboli, ho imparato che lo scopo dell’istituzione totale è ancora quello di eliminare l’identità del prigioniero, per poterlo controllare. Il carcere comincia a cambiare quanto la gestione dell’istituto è presa in carico da tutto il territorio
di Lucia Castellano, direttore del carcere sperimentale di Bollate
La mia esperienza della pena ha inizio il 26 giugno del 1991 nel carcere di Marassi, a Genova. Del primo giorno di lavoro come vicedirettore ricordo centinaia di detenuti ammassati nell’enorme cortile-passeggio che mi chiedevano in coro, scandendo le parole, «Vogliamo il calcetto». Il primo impatto con quell’umiliazione verbale, quella richiesta incessante di piccole cose avrebbe poi caratterizzato e scandito i miei successivi quindici anni di lavoro nell’istituzione totale, qualunque fosse il livello di qualità della vita dei diversi penitenziari da me diretti. Mi colpivano gli avvisi della direzione, affissi nelle bacheche dei reparti: erano destinati “alla popolazione detenuta” e disciplinavano ogni più elementare aspetto della vita quotidiana. A Genova, città civile e attenta al mondo del carcere, ero all’interno di una cittadella fortificata: era ben percepibile, per dirla con Goffman, che in quel posto la mortificazione dei reclusi era funzionale alla gestione del carcere. Era altrettanto chiaro lo stridente contrasto tra l’obiettivo dichiarato – la rieducazione del condannato – e la gestione quotidiana della vita, fondata sulla più totale spoliazione dell’identità del recluso.
Mi colpirono la confusione e la frustrazione che la schizofrenia istituzionale produceva nello staff degli operatori tutti. Gli educatori, gli psicologi, gli assistenti sociali erano chiamati a realizzare obiettivi puntualmente vanificati dal quotidiano scorrere della vita intramoenia. Il percorso della rieducazione e del reinserimento non poteva nemmeno tentarsi nel luogo della negazione di ogni autonomia dell’agire umano; per contro non si intravedeva, se non nella perdita dell’identità individuale, altra possibilità di sopravvivenza della cittadella sovraffollata e fatiscente, composta da un’umanità povera, dolente e dalla provenienza così diversificata. L’altra categoria di operatori (quelli del settore sicurezza) viveva una fase professionale delicatissima; appena smilitarizzato, il corpo di Polizia penitenziaria era chiamato dalla legge di riforma a «partecipare al trattamento del condannato». Il terreno su cui fino ad allora aveva fondato la propria professionalità sembrava vacillare: contribuire al “trattamento” significava la progressiva cessione, o condivisione con altri, di quel potere assoluto su cui poggiava la loro quotidiana fatica, garantendo (al caro prezzo di una vita professionale massacrante e rischiosa) la sicurezza delle carceri e la sopravvivenza dell’Istituzione. Su quali basi costruire una nuova professionalità? Come modificare il delicatissimo equilibrio su cui si reggeva la cittadella, che non poteva rieducare nessuno ma che garantiva ai cittadini liberi la sicurezza dell’esclusione e, all’interno, la sopravvivenza degli esclusi? L’impianto positivista della legge di riforma del 1975 (il carcere come luogo dove colmare le carenze che avevano fatto del recluso un deviante), era ben lontano dalla realtà. Era l’utopia. Le parole rieducazione, osservazione e trattamento risuonavano tra carcerati e carcerieri in una confusione di significati che evidenziava la malattia generica del sistema. Ricordo in un carcere del Sud un episodio emblematico: il poliziotto accompagna un detenuto al colloquio con il direttore. Prima di entrare, gli dice testualmente: «Bussa, butta la sigaretta e dì buongiorno». Il recluso, prontamente, obbedisce e poi entra. Alla mia domanda sul perché dell’imposizione di quel cerimoniale, la risposta semplice del poliziotto: «Dobbiamo pur dare loro un’educazione». Il carcere appariva come un mondo (ancorché regolato da un apparato normativo di notevole apertura e garantismo) geneticamente impossibilitato alla realizzazione della funzione rieducativa, nonché piagato da una sistematica violazione dei più elementari diritti umani dei suoi abitanti.
Che fare? Come trovare la strada giusta per produrre i risultati per cui l’istituto vive? E, soprattutto, esiste una strada che dia senso all’istituzione totale, o più semplicemente, dobbiamo auspicarne l’eliminazione? Avevo maturato una sola certezza: questo tipo di pena, così totalizzante nell’annullare la dignità e la personalità, la cui esecuzione tracima ogni aspetto della vita umana, non solo la libertà, è un prezzo veramente molto alto da far pagare; andrebbe dunque irrogata solo quando il disvalore sociale dell’atto criminoso davvero lo richieda. È una verità elementare quella che il carcere debba essere ultima ratio, ma non è abbastanza assimilata nella cultura del nostro Paese, che non riesce ancora ad applicare primariamente altre forme di pena: questo, a mio parere, è un vero dramma sociale. Successivamente ho avuto la fortuna di dirigere un Istituto di pena molto piccolo, per tossicodipendenti, ad Eboli, in provincia di Salerno. La vivibilità della struttura, l’esiguo numero degli ospiti mi hanno dato la possibilità di tentare altre strade che restituissero, nei limiti del possibile, significato all’istituzione e dignità ai suoi abitanti. Abbiamo cercato, con l’équipe di operatori, di guardare a ciascun recluso come ad una risorsa umana e non solo come un problema, chiamandolo a gestire il proprio tempo detentivo in modo, per quanto possibile, autonomo e responsabile. Abbiamo cercato di sovvertire la logica perversa della spoliazione dell’identità, condividendo progressivamente il potere gestionale con i detenuti e chiedendo loro la responsabilità di scelte e l’autoregolamentazione del loro tempo.
Molte resistenze iniziali da parte dei detenuti: preferivano abbandonarsi al maternage (ancorché maligno) dell’istituzione, piuttosto che condividere la responsabilità delle decisioni. Soprattutto è stato complicato lavorare sul concerto di responsabilità collettiva, all’interno di una vita comunitaria non scelta dai propri membri. Abbiamo imparato quotidianamente, sulla nostra e sulla loro pelle, che la misura del cambiamento di stili di vita e modalità relazionali poteva sperimentarsi solo fuori dalle mura del carcere. Dentro, “in vitro” tutto appariva falsato e irreale, la strumentalità dei comportamenti faceva da padrona. Abbiamo organizzato uscite collettive, legate alla condivisione con il territorio delle varie attività dell’Istituto. Abbiamo largamente utilizzato gli istituti del lavoro all’esterno e del permesso premiale: ci siamo resi conto che le forme di esecuzione penale esterna (troppo facilmente scambiate per libertà) conservano un notevole grado di afflittività, tentando efficacemente nel contempo quella funzione di inserimento nella vita sociale da sempre auspicata, ma mai realizzata, dalla pena detentiva. I detenuti organizzavano e regolamentavano le uscite premiali, la magistratura ci dava fiducia. Nel percorso di progressiva riappropriazione della libertà l’istituzione si collocava metaforicamente alle spalle di ogni detenuto, che decideva autonomamente la direzione da prendere. Le ricadute venivano affrontate dall’Istituzione ed elaborate dal recluso con l’aiuto degli esperti dei servizi per le tossicodipendenze: erano battute d’arresto, mai sconfitte. Scrive un detenuto di quegli anni: «Ero sempre più attivo e presente a me stesso, nonostante la condizione immutabile di persona mortificata nella propria individualità». Partivamo dall’assunto che la mortificazione dell’individualità sia parte integrante della pena detentiva, e imparavamo tuttavia a costruire una città penitenziaria dove l’uomo non fosse annientato, incattivito, peggiorato. A costruire un tempo detentivo presente, non sospeso tra il prima e il dopo-pena. Offrivamo all’utenza opportunità lavorative, formative e terapeutiche, con reciproca soddisfazione: anche la qualità della vita professionale di noi carcerieri traeva notevoli benefici da questo modo di lavorare. Questi i risultati che posso affermare di aver raggiunto, in quegli anni: sulla capacità ‘rieducativa’ di questo tipo di struttura non ho risposte, anche perché le possibilità di reinclusione sociale dipendono da fattori esterni all’istituzione, su cui è impossibile per noi intervenire; ma anche, e soprattutto, perché l’inclusione sociale passa difficilmente attraverso le sbarre.
Dopo sette anni di sperimentazione ebolitana ho cercato di spostare il modello sui grandi numeri e sono approdata alla periferia nord di Milano, a Bollate, a dirigere una enorme Casa di reclusione. Il mio predecessore, Luigi Pagano, l’aveva già inaugurata e organizzata come struttura a “custodia attenuata”, in ottemperanza al disposto dell’articolo 115 del nuovo regolamento di esecuzione del 2000. Secondo il principio di differenziazione dei circuiti penitenziari, la funzione retributiva e quella rieducativa della pena sono bilanciare in modo differente, a seconda del tipo di risposta punitiva a cui sottoporre il condannato, in relazione alla pericolosità sociale e alla gravità del reato. Potevo dunque contare su un ulteriore supporto normativo e su un istituto di pena già organizzato verso obiettivi ben precisi. La cinta muraria di questa nuova cittadella penitenziaria era più permeabile: la città metropolitana molto più aperta a farsi carico dei drammi sociali che si consumavano all’interno. Mi trovavo, per dirla con Margara, davanti alla “clientela di sempre, con i problemi di sempre”, quelli derivanti dalla povertà e dalla marginalità della “detenzione sociale”, ma sentivo attorno al mio lavoro tutta l’attenzione di una città di tradizioni illuminare, che guarda alle fasce deboli con uno spirito civico e laico, mai riscontrato prima. Milano sente il carcere come parte integrante del proprio tessuto sociale: enorme valore aggiunto per chi cerca un senso alla pena detentiva. La ricchezza del territorio circostante e le opportunità lavorative (ahimè così diverse rispetto al salernitano!) mi confortavano ulteriormente. Ad Eboli avevo sperimentato, grazie anche all’esiguità dei numeri dell’utenza, la possibilità di rinunciare al potere assoluto sui detenuti, avevo imparato a condividerlo con loro. A Milano potevo aggiungere a questo bagaglio professionale un ulteriore elemento: la progressiva perdita dell’autoreferenzialità dell’istituzione penitenziaria, la condivisione del potere gestionale con le altre istituzioni e agenzie territoriali. Qui era possibile, molto più che altrove. Abbiamo dato vita a tavoli di lavoro interistituzionali, dove l’organizzazione delle attività interne (dal lavoro, alla scuola e alla formazione) viene programmata e finanziata da Regione, Provincia e Comune, in coordinamento con il carcere. Non solo. La destinazione d’uso di ogni spazio, di ogni capannone viene decisa da commissioni che rappresentano il mondo dell’impresa (profit e non), sulla base di valutazioni legate alla possibilità di sviluppo sul mercato esterno dell’attività proposta eccetera. Abbiamo creato momenti di confronto periodici tra tutti gli operatori che, a qualunque titolo, ruotino attorno al carcere, per comunicare e condividere gli obiettivi per il periodo in corso. I detenuti partecipano all’organizzazione delle attività interne, si riuniscono in commissioni, fanno sentire la loro voce tanto alla direzione che agli interlocutori esterni. Lo staff degli operatori si sente osservato dalla città: stiamo imparando ad adeguare gli elefantiaci tempi del carcere al ritmo del mondo lavorativo esterno. Il nostro lavoro non è più unicamente sotto il nostro controllo. L’acceleratore è, beninteso, sempre premuto sulla progressiva decarcerizzazione, con ogni possibile strumento. Su una popolazione detenuta di circa 800 unità, abbiamo attualmente un reparto abitato da 50 reclusi che beneficiano del lavoro all’esterno del carcere. Speriamo di raddoppiarne il numero entro la fine dell’anno. A Milano mi muovo all’interno della cittadella penitenziaria percependola come un sottoinsieme della città metropolitana, con la stessa suddivisione in classi sociali. Ci sono quartieri alti e quartieri bassi, c’é la piaga dell’immigrazione clandestina, della droga, della povertà. Ci sono gli stessi problemi di assistenza sanitaria, istruzione, alfabetizzazione degli stranieri, benessere dei cittadini. Nella comunità degli esclusi c’è la stessa attenzione alla sicurezza interna, alla qualità della vita che c’è fuori (l’unica preoccupazione che non ho è il problema del traffico…). Come se fossi il sindaco di un piccolo comune, vivo nel contenitore metropolitano esterno applicando il principio dei vasi comunicanti, gestendo l’utenza congiuntamente al territorio, in tutti i settori condivisibili. La vera rivoluzione culturale, che crea non poche difficoltà a un sistema così autoreferenziale, consiste nell’accettare di essere messi in discussione dall’esterno, non solo dai propri superiori gerarchici. Accogliere l’operatore esterno che, inserito nella gestione di un settore, ti fa notare le piccole e grandi illegalità quotidiane in cui si consuma la vita del penitenziario; rispondere al detenuto che, nella rubrica “reclami” del giornale interno autogestito, ti chiede perché nel carcere all’avanguardia la docce funzionano così male. Piccoli esempi di domande a cui non sempre so dare una risposta.
Condividere il potere significa accettare il rischio di essere messi all’angolo, di non avere risposte, di ritrovarsi senza coperture possibili. È un rischio a cui, quotidianamente, sottopongo tutta l’amministrazione a cui appartengo. Ma è la sola possibilità che vedo per rendere sostanzialmente credibile il nostro lavoro, e quindi il luogo di espiazione delle pene. Non credo che il carcere da me gestito realizzi il dettato costituzionale, anche perché (e mi ripeto) non so se la pena detentiva possa anche solo tendere alla rieducazione. Bollate, come Eboli, è ancora il luogo dove si osserva il decalogo del “non”: non peggiorare chi lo abita, non violare i diritti umani, non credere di essere gli unici detentori del potere sulla vita del recluso, non cedere alle lusinghe dell’autoreferenzialità. Anche qui, come ad Eboli, questo è il faticoso risultato ottenuto: le bacheche dei vari reparti sono tappezzate di avvisi dei detenuti ai loro compagni, nel segno dell’autogestione. I reclusi si muovono liberamente all’interno della struttura, gli orari sono elastici, la morsa del controllo totale è allentata. Le porte sono aperte all’esecuzione penale esterna. Rispondiamo del nostro operato alla città metropolitana, che entra quotidianamente nel carcere.
La mia microstoria personale di esperienza della pena è costellata di dubbi. Alcune, poche certezze: il carcere, dal più progredito al più retrogrado, è “vita nuda”, per utilizzare la metafora cara ad Aldo Bonomi. La spoliazione annulla, non redime. In carcere si possono tentare percorsi diversi (che ho cercato di tracciare), lavorando sul rispetto della dignità personale e sulla conservazione della capacità di autodeterminazione del recluso: il tempo della pena acquista così un po’ di significato, con effetti meno dannosi sulla vita futura (e con di conseguenza una maggiore sicurezza sociale). Un carcere avulso ed escluso dalla città che lo contiene favorisce la perdita di senso dell’intero sistema: il sentimento dell’esclusione permea di sé tanto i carcerati quanto i carcerieri. Partendo da Genova e approdando a Milano ho imparato che, al di là dell’obbiettivo dichiarato, lo scopo reale dell’istituzione totale è ancora quello di eliminare l’identità del prigioniero, per gestirlo più agevolmente. Il carcere che cambia deve accettare il rischio di mettere in discussione il suo stesso atto fondativo. Deve rivoluzionare se stesso. Con queste nuove basi porrà sperare di produrre la definitiva libertà dei suoi abitanti. Ex ladrone fornito di coscienza: giornali e giornalisti dal carcere
La grande informazione tende a banalizzare e omologare il racconto dell’esperienza del carcere. Per tutta risposta, chi nel carcere ci vive ha deciso di dare vita a un’informazione in prima persona. Oggi esistono 50 giorni realizzati dentro al carcere, che escono fuori
di Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti
Ex ladrone fornito di coscienza: ricordo che fu proprio questa definizione, così autoironica ed essenziale, data di sé da un detenuto in una delle prime riunioni della futura redazione di Ristretti Orizzonti, a farmi capire come avrebbe dovuto essere questo giornale che stava per nascere dentro al carcere di Padova. Doveva far capire prima di tutto che lì dentro ci stavano persone, e non reati; ladroni sì, ma capaci di ripensare in modo critico se stessi e la propria vita. Doveva usare uno stile immediato, scarno, privo di fronzoli, per raccontare una realtà così complessa; doveva tirar fuori dove possibile l’ironia, perché la galera è fatta anche di voglia di ridere un po’. Eppure, mettere insieme questi ingredienti, apparentemente così semplici, in un carcere non è affatto facile. “Scrivo, dunque esisto”: in carcere è un po’ così, la scrittura ti fa sancire vivo, mantiene saldo un piccolo filo sortile che ti collega con il mondo fuori, ti permette di sfogare le tue ansie e le tue rabbie. Ma il rischio è tutto lì, in agguato sempre: usare il giornale come uno “sfogatoio”, scrivere per buttar fuori il rancore e la frustrazione che la vita in carcere ti fa accumulare. E invece bisogna essere consapevoli che i racconti di vita suscitano interesse ed emozione solo se riescono a trasmettere la sensazione della sincerità, senza ricerca di abbellimenti: i “santini” non piacciono a nessuno, e tanto meno l’impressione che il “colpevole” si faccia vittima. E questa è stata davvero una battaglia dura, per spiegare che si può essere vittime davvero – a volte anche in carcere lo si è, soprattutto per le condizioni in cui ti costringono a vivere, ben al di là della pena che ti è stata inflitta – ma bisogna imparare a comunicare sfrondando le proprie parole da ogni vittimismo, da ogni tentazione di prendersela con il mondo intero, da ogni smania di rivalsa nei confronti della società. Meglio uno stile asciutto e poco urlato: è più efficace ed evita la reazione tipica di chi, se ti lamenti, risponde automaticamente “potevate pensarci prima”.
Una scrittura sobria, onesta, pulita: la più grande fatica è stata insegnare ai ladroni questo. Il primo passo è stato di proibire ogni ringraziamento: sì, perché gli articoli che ricevevo erano pieni di grazie a tutti, dato che il carcere ti insegna un po’ questo, che non hai diritti e se qualcosa ti viene dato, devi sempre ringraziare la generosità di qualcuno, che sia il direttore, o il magistrato, o l’educatore. Il secondo passo è stato di capire insieme che, se tra le righe del racconto personale si possono riconoscere problemi comuni, condivisi da tanti, è più facile che il lettore sia indotto a riflettere, a porsi domande, a sentirsi chiamato direttamente in causa e a non potersi sottrarre a un confronto vero, profondo, sincero. Il terzo passo è stato di ripulire, sfrondare, ridurre all’osso i testi. Perché in galera succede una cosa strana: che tanti “assorbono” e fanno proprio il linguaggio dei giudici e degli avvocati, come a dire che “dato che qualcuno mi ha condannato usando quel linguaggio, allora se me ne impadronisco un po’ forse anch’io avrò più potere e più considerazione”. La conseguenza? Testi complessi, illeggibili, da ripulire come a volte verrebbe voglia di fare anche con quelli che scrivono gli uomini di legge…
Un reato, mille persone diverse. Quando mi guardo intorno nelle riunioni di redazione vedo una umanità che mai, nella mia vita da “regolare”; avrei potuto conoscere, e mi dico ogni volta che a voler rinchiudere e basta le persone che hanno commesso reati si perde tanto, si perde la possibilità, prima di tutto, di capire che storie, che vite, che disastri ci sono dietro un reato, e poi ancora di rendersi conto che la divisione tra il bene e il male non è così semplice come ci piacerebbe. Mi ricordo che la prima volta che venne in redazione il magistrato di sorveglianza, quello che si occupa dell’esecuzione delle pene, e che quindi ha a che fare ogni giorno con i “delinquenti” e i loro fascicoli personali, a volte pesanti come macigni per i continui dentro e fuori dal carcere, una delle prime cose che disse di se stesso è di essere abbastanza certo che mai avrebbe potuto fare il rapinatore, ma di non sentirsi altrettanto sicuro rispetto alla possibilità di commettere un omicidio. Ecco, io in questi anni ho imparato esattamente questo, che tanti di quelli che hanno ammazzato qualcuno, prima conducevano vite normali e si sentivano lontanissimi da qualsiasi rischio. Qualcosa poi nella loro vita è degenerato, qualcosa non ha funzionato, il confine tra il bene e il male è diventato più sottile, la ragione è stata schiacciata, ma sono persone, persone maledettamente simili a noi normali. E questa è una delle prime cose che abbiamo cercato di raccontare con il nostro giornale. Ma la fatica è stata tanta. C’é prima di tutto il pudore nello scoprire parti di sé che si vorrebbe piuttosto cancellare, e poi il desiderio di dimenticare, la paura di mettersi a nudo, l’ansia di fare ancora del male, questa volta con le parole. Questo problema in redazione lo abbiamo affrontato fino a scarnificarlo, a vederne le più piccole sfumature, a star male per quanto le persone sono state spietate con se stesse. La discussione è partita da un progetto che ha portato in tante scuole di Padova “il carcere” e i suoi abitanti, e poi ha fatto entrare in galera tanti studenti. E la prima domanda, inevitabilmente, è sempre quella: «Ma tu, perché sei dentro?». Vale la pena, allora, cercare di spiegare ai ragazzi che forse è bene pazientare, forse è bene prima cercare di capire qualcosa di quella persona, e poi magari sapere il suo reato. Con i detenuti, invece, la discussione è sempre stata per convincerli di quanto pesi in positivo, nel cercare di avvicinare il mondo “fuori” a quello “dentro”; la capacità che hanno le persone di raccontarsi, di parlare di sé, di scrivere le proprie storie. È una sofferenza, credo indicibile, scrivere per esempio un pezzo che si intitola “Nella testa di un uomo che ha ucciso”, e spiegare che cosa si è scatenato nella propria mente e nel proprio cuore dopo quell’atto: ma un detenuto l’ha fatto e io credo che con quel gesto ha permesso a tanti di capire che la categoria “mostro” forse è meglio bandirla dal nostro vocabolario.
Si può ridere della galera? In carcere ho pensato spesso che ognuno di noi ha almeno un ricordo di un momento in cui è stata l’ironia a salvargli la vita, in galera l’ironia è ancor di più un’ancora di salvezza poderosa, perché tiene viva la capacità di essere uomini a tutti gli effetti, quindi anche con una gamma di sensazioni e di reazioni, che vanno dalla tristezza alla disperazione, alla voglia di sorridere, e anche di ridere. Il diritto di ridere, magari soprattutto di se stessi, quello ho pensato che va difeso ad ogni costo, anche contro i tanti che ritengono che chi ha fatto soffrire gli altri deve a sua volta ricevere solo sofferenza. In fondo, una società “generosa” verso chi ha commesso il male forse disarmerebbe più di tutti i castighi del mondo: io a questo un po’ ci credo, e da quando “frequento” le galera mi esercito, anche fuori, a ridurre il mio bisogno di “fargliela pagare” a chi mi fa star male o mi tratta in un modo che ritengo ingiusto. Ed un po’ questo l’esercizio a cui sono chiamati tutti i nostri lettori. Non mi piace quindi l’idea del carcere raccontato o fotografato esclusivamente come un concentrato di tutti i disagi e i disastri umani, perché la disperazione certo è una componente della vita ma non l’unica né la più rappresentativa, neppure in galera. Eppure, c’è paura a usare l’ironia e la risata sul carcere perché vale quello che mi ha detto una detenuta una volta, che “se si fa vedere che ridiamo come persone normali, fuori poi pensano che stiamo bene, che non siamo così malridotte, che non ce la passiamo poi così male”. Invece bisogna avere il coraggio di dire che non è un buon servizio alla verità far vedere che le persone qui sono solo persone che soffrono, e la ricchezza di vita che c’è dentro dovrebbe emergere sempre, qualunque strumento si usi per rappresentare il carcere: foto, film, libri, un giornale.
“Egregio signor ladro, permettimi di darti del tu, anche perché dopo quattro visite che tu hai fatto a casa mia sei quasi uno di famiglia”. Comincia così lo strano carteggio, pubblicato sul nostro giornale, che ha due protagonisti: un cittadino onesto, o meglio, come preferisce definirsi lui, un “cittadino incensurato” la cui casa è stata più volte visitata dai ladri, e un detenuto della nostra redazione che di furti “se ne intende”. È una corrispondenza nata per caso, un giorno che il cittadino incensurato è approdato nel nostro sito, e gli è venuta la curiosità di scriverci, ma è stata anche, per la nostra redazione, la dimostrazione che se nascesse davvero un dialogo franco e aperto tra il mondo fuori e quello dentro, tutti ne avrebbero da guadagnare, gli onesti e i ladroni, i cittadini “regolari” e quelli che hanno scelto l’illegalità. Abbiamo allora proseguito su questa strada, di non “parlarci addosso” ma di osare e rivolgerci anche a quei cittadini normali poco propensi, come invece sono i volontari, ad essere indulgenti con chi è finito in carcere. Sono lettori severi, come quello che ci ha scritto: “Nel vostro sito ho trovato anche articoli di detenuti condannati per avere ucciso delle persone. Da una parte penso che non dovreste permettergli di parlare pubblicamente, però penso anche che scrivono cose importanti, per se stessi e per chi li legge. A me questa cosa ha fatto pensare, mettendo in crisi l’opinione che avevo del carcere”. Ecco, questo per noi è stato l’esempio più chiaro del senso che volevamo dare a un giornale dal carcere: far venire dei dubbi alle persone, far capire che le semplificazioni, come quella di pensare che siano davvero i buoni e i cattivi, e i cattivi siano appunto quelli c stanno rinchiusi, forse ci aiutano a vivere più tranquilli, ma senz’altro rendono la nostra vita più povera e più noiosa. La galera, paradossalmente, insegna a vedere la complessità della realtà, proprio stessa che invece la televisione ammazza, semplificando alla grande.
Quella di imparare a parlare con tutti è diventata un po’ 1a nostra ambizione, al punto che ci sono detenuti che “investono” sul loro futuro fuori spendendo giorni di permessi premio per andare nelle scuole a confrontarsi con i ragazzi. I ragazzi spesso, con l’estremismo dell’età, passano da posizioni “feroci” nei confronti di chi ha commesso reati a una simpatia fin troppo indulgente dopo che hanno conosciuto qualche “delinquente” direttamente. Tanto che, visto che il senso critico resta L’elemento fondamentale del nostro lavoro, abbiamo dovuto correre ai ripari, e un detenuto ha scritto un articolo dal titolo significativo: “Perché non siamo ladri di marmellata”. Io mi pongo ancora sempre il problema di come si può trasmettere, davvero qualcosa di diverso sul carcere, intendo dire trasmettere l’idea della normalità della gran parte delle persone che ci stanno dentro: non del carcere, che non ha nulla di normale, ma la normalità intesa come persone che ci somigliano, che non sono diverse da noi che stiamo fuori. Ma c’è un rischio, che riguarda ugualmente la difficoltà di comunicare cos’è il carcere, ed è quello che corrono tanti articoli e filmati dove, mostrando solo le attività più interessanti, e ce ne sono naturalmente, si finisce per fare un “santino” di tutte le iniziative ben gestite, le esperienze innovative, gli spettacoli teatrali organizzati dentro. Allora se si fa vedere solo questo, poi fuori non ci si rende conto di cosa è davvero la privazione della libertà, e anzi tanti cominciano a pensare: “Però, non stanno mica molto peggio di noi!”. Ricordo per esempio che in una scuola, a un incontro con i ragazzi, i detenuti hanno faticato a spiegare che poter guardare la televisione 24 ore su 24 non significa stare bene.
Non è facile far capire che la privazione della libertà è fatta di un milione di piccole privazioni: non puoi telefonare al tuo amico, non puoi andare a mangiare una pizza, non puoi farti la doccia se ne hai voglia. Io se dovessi ritrovare il momento in cui, dopo anni che entro in carcere da volontaria, ho capito più pesantemente cos’é il carcere, dico sempre che è quando riaccompagno qualche detenuto che rientra da una uscita in permesso, magari in una sera di estate, e mentre fuori la vita continua, le piazze sono piene, c’è musica, si respira un’aria più libera, vedi invece le persone inghiottite da questo posto grigio e deprimente. Un’altra difficoltà è la naturale “autocensura” dei detenuti quando scrivono per il giornale: nessun rappresentante dell’istituzione, per esempio, ha mai fatto una lettura preventiva dei nostri articoli, ma il rischio è che le persone si autocensurino per non dispiacere al direttore, al magistrato di sorveglianza e così via. Ho dovuto lavorare molto su questa questione, per la quale non ci sono ricette semplici: bisogna imparare che, comunque, se si usa sempre una scrittura sobria, “raffreddando” il più possibile i toni, e cercando di riportare su ogni argomento tante voci diverse, senza “innamorarsi” di una sola voce, è difficile prestare il fianco a critiche. Per ultimo, bisogna cercare di trasmettere alle persone detenute l’idea che discutere, leggere approfondire temi importanti, che hanno a che fare con la vita in carcere, il rapporto con la famiglia, le difficoltà del reinserimento, significa prendersi in mano il proprio destino, e non affidarlo sempre agli altri, che a volte hanno la faccia e la buona volontà del volontariato, a volte invece hanno l’indifferenza e la mancanza di interesse di tanta parte della società. Credo che una persona informata, abituata a parlare dei propri problemi, capace di discutere e di esercitare un po’ di capacità critica sia una persona che ha qualche opportunità in più di non essere esclusa dalla società. Per questo, le esperienze di giornali realizzati da detenuti stanno crescendo e mettendosi insieme in una “Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere” che ha la voglia e la passione per rispondere colpo su colpo ai luoghi comuni e alle tante banalità sulla galera dell’informazione “grande”, quella dei giornali e della televisione, che tante volte si esercitano a costruire mostri e a descrivere il mondo “dentro” come se fosse totalmente privo di sfumature. E sono circa cinquanta oggi i giornali che “escono” dalle carceri, dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dagli Istituti Penali Minorili, con fatica e contraddizioni, ma soprattutto con la forza delle testimonianze dirette, sincere, coraggiose. E poi ci sono anche piccoli giornali “ospitati” in giornali più importanti, trasmissioni radio, qualche TG, siti internet: insomma, la voglia di informare dalla galera cresce, si allarga, osa ogni giorno di più. Il carcere numero per numero
L’anagrafe e l’anamnesi delle patrie galere. Il chi è e il quant’è della popolazione carceraria al 31 dicembre 2005. tutte le contraddizioni e lo stato di salute dei 207 istituti di pena in numeri e percentuali
di Riccardo Bonacina, direttore editoriale del settimanale Vita
L’anagrafe
La popolazione carceraria al 31 dicembre 2005 era di 59.523 soggetti reclusi. Dei soggetti detenuti sono 37.861 i condannati in via definitiva, 21.662 gli imputati (il 56,9% dei quali in attesa di giudizio, gli altri appellanti o ricorrenti). Gli uomini rappresentano la stragrande maggioranza (95,2%), ma 44 delle 2.523 donne recluse convivono dietro le sbarre con 45 figli con meno di tre anni. Le prigioniere in stato di gravidanza, al 30 giugno 2005, erano invece 38. I condannati in via definitiva sono il 61,6% (37.861) e le pene tra i 3 e i 6 anni comprendono la percentuale più consistente dei “definitivi”. Il 31% sconta pene inferiori ai tre anni, perciò il 61,7% della popolazione carceraria è detenuto con pene sotto i sei anni. Un dato su cui riflettere. Nella graduatoria dei reati, quelli contro il patrimonio svettano con il 30,8%, davanti alle violazioni della normativa sulle armi (16,4%) e di quella sulla droga (14,9%). I reati contro la persona riguardano, invece, il 14,6% delle condanne e l’associazione di stampo mafioso il 2,6%. Nel 2005 il numero di ingressi in carcere ha quasi toccato la soglia dei 90.000 (esattamente 89.887 di cui il 45% stranieri). Fra detenzioni, misure alternative e pratiche pendenti presso i tribunali di sorveglianza, in Italia l’area penale è arrivata a coinvolgere 190 mila persone. Nel 1990 erano 36.300. Una moltiplicazione tale da suggerire il conio della formula “Stato penale, che ormai nel vocabolario dei maggiori esperti di questioni giudiziarie ha sostituito quella di “Stato sociale”. I detenuti in regime di semilibertà nel 2005 erano 1.785, i soggetti in detenzione domiciliare 8.695, gli affidamenti in prova 16.788. La fascia d’età fra i 25 e i 39 anni comprende il 53,6% dei ristretti. Gli stranieri sono in crescita (per lo più marocchini, il 21,5%, e albanesi, il 15,2%). Al 30 giugno 2005 si contavano 16.179 tossicodipendenti (il 27,4% della popolazione carceraria); 1.386 gli alcool-dipendenti (2,3% della popolazione), 1.974 i soggetti in trattamento metadonico (3,3%). 3 detenuti su 4 hanno bassa o nulla istruzione. 1 su 4 aveva un’occupazione prima di finire in carcere. 1 su 4 non ha un’abitazione dove andare al termine della pena. Gli agenti penitenziari in servizio, cioè l’altra faccia dell’umanità che vive dentro il carcere, sono 42.000.
Questo, invece, lo stato del personale non giudiziario
Gli assistenti sociali in servizio sono 1.223 rispetto ai 1.630 previsti dalla pianta organica (1 assistente sociale ogni 48 detenuti). Gli educatori: 551 (1 ogni 107 detenuti) anziché 1.376 come previsto dalla pianta organica. Gli psicologi in servizio sono 400, con una media di sole 2 ore per istituto: uno psicologo ogni 148 detenuti. Insomma, un carcere in cui della dimensione riabilitativa rimane memoria solo sulle piante organiche, non nella realtà quotidiana delle carceri.
I luoghi
Le carceri italiane sono in tutto 207; le Case di reclusione sono 36, le Case circondariali 163, gli istituti per le misure di sicurezza 8. La capienza complessiva prevista nei 207 penitenziari italiani è di 41.470 detenuti. Attualmente, perciò, nelle carceri italiane abbiamo un sovraffollamento quantificabile in oltre 18.000 unità. L’Italia si colloca così al terzo posto nella classifica europea della densità peniterziaria, alle spalle di Grecia e Ungheria. Perciò, secondo una recente statistica, 1 detenuto su 3 (37,33%) dice di vivere in condizioni di affollamento intollerabili, e il 52,08% in condizioni non regolamentari solo il 10,59% ritiene di vivere in condizioni regolamentari. Il 69,31% dei detenuti non ha l’acqua calda in cella, il 60% dorme a fianco del bidet o del water e il 55,6% vive senza poter accedere ai colloqui in spazi aperti. I detenuti lavoranti, al 30 giugno 2005, erano 14.595, ossia il 24,5% dei reclusi: la gran parte alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo 2.771 assunti da datori esterni. Nel 1991 i detenuti che lavoravano erano il 34% della popolazione carceraria. In quindici anni cioè sono stati fatti molti passi indietro.
Anamnesi
Nel 57,5% delle carceri si sono registrati casi di TBC e nel 66% di scabbia. Il 38% dei detenuti è risultato positivo al test per l’epatite C nel 2005 e il 50% a quello dell’epatite B, mentre il 7% presenta l’infezione in atto e il 18% risulta positivo al test della TBC. I suicidi in carcere nel 2005 sono stati 58. Nel 2005 sono state 112 le morti per malattia. I tentati suicidi nel 2004, 713. Gli atti di autolesionismo, nel 2004 hanno raggiunto la cifra record di 5.939. Nel 2004 le manifestazioni di protesta collettive sono state ben 330 e gli atti di protesta individuali sono stati 10.268. Negli ultimi otto anni, dietro le sbarre sono morte 1.191 persone e 448 di queste si sono tolte la vita volontariamente.
Perché? Dal 1861 ad oggi sono stati approvati 333 provvedimenti di clemenza, uno ogni 4 anni. Nessun provvedimento di clemenza è stato varato negli ultimi 13 anni.
Perché? Lo Stato per ogni recluso spende 131,67 euro al giorno. Ma la spesa reale relativa al mantenimento dei reclusi, due pasti più la colazione, è solamente di 1,60 curo a persona.
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