Grazia Zuffa

 

Grazia Zuffa

 

Seguendo l’invito di Luigi Ciotti a problematizzare anche i concetti che appaiono più ovvi. vorrei discutere un’idea che sembra riscuotere un consenso generalizzato, nell’ambito della politica delle droghe.

Comunemente si pensa infatti che si fronteggino e si contrappongano due approcci: uno repressivo, caratterizzato da un impatto penale duro, l’altro sociale, caratterizzato appunto da uno sviluppo dei servizi sociali. Quest’ultimo sarebbe l’approccio di welfare, ispirato alla solidarietà sociale, applicato alle droghe. Conformemente lo slogan ricorrente sotto molti cieli politici, e non solo in Italia, è: "Meno carcere, più stato sociale (ossia più servizi e trattamenti)".

Per dirla in modo più articolato: vi sarebbe un approccio centrato sulla risposta penale e carceraria, che si sposa con modelli di stato sociale residuale o assente; mentre l’altro, quello sociale, ruoterebbe intorno alla strategia di prevenzione – trattamento - recupero, leggendo la droga come un problema di disagio sociale, e cercando di combatterla con un’articolata estensione di servizi, specifici e non (ma più spesso specifici). Questi due diversi indirizzi sarebbero ispirati a due distinti modelli di interpretazione del consumo di droghe: al modello morale, che identifica il consumatore come deviante, si ricollega l’approccio repressivo, al modello "malattia" o disease si ricollega l’approccio "sociale", che punta sulla risposta preventiva e trattamentale. Ovviamente, l’approccio repressivo, nella sua forma più estrema, sarebbe rappresentato dagli Stati Uniti, che tra l’altro è un Paese che non ha una tradizione di welfare a differenza della gran parte dei Paesi europei.

A ben guardare però, questa rappresentazione della dialettica politica in tema di droghe è troppo semplificata, se non fuorviante. Per prima cosa, essa contrasta coi dati a nostra disposizione. Il Paese che attua le politiche repressive più marcate, l’alzabandiera dell’approccio penale, cioè gli Stati Uniti, sono anche un Paese che ha un enorme sistema trattamentale. È il Paese con il più alto numero di detenuti e con la più alta percentuale di detenuti per semplice consumo di droga; ma è anche il Paese che impiega ben 250.000 addetti ai lavori nei servizi.

L’aumento della spesa nella lotta alla droga è stato vertiginoso: nel 1980 era di un miliardo di dollari, nel 1996 era salita a 14 miliardi di dollari. Di questi la gran parte, il 63%, è per la repressione, il restante è per la prevenzione e i trattamenti. Va ricordato però che anche nei Paesi europei il grosso degli investimenti è concentrato sul versante penale, in proporzione non dissimile dagli Stati uniti. comunque, negli usa, anche il versante sociale ha beneficiato della forte lievitazione della spesa sulla droga.

Basti pensare alla mole di investimenti profusi in un’opera capillare di prevenzione nelle scuole, che inizia fin dalle elementari, con i famosi programmi DARE (Drug Abuse Resistance Education), insieme ai più recenti e sofisticati programmi di Life skills education. Ciò non significa che la mancata tradizione di welfare non comporti conseguenze. Il sistema americano è composto di servizi sovvenzionati dai fondi pubblici o dai fondi privati: le prestazioni che fanno capo a questi ultimi (i fondi assicurativi) sono di qualità assai migliore di quelle erogate dai fondi pubblici, destinati ai poveri che non possono pagarsi le assicurazioni.

Ancora un esempio, stavolta nel cuore dell’Europa del welfare: la Svezia. È un Paese fra i primi nel mondo per la spesa sociale, in questo come in altri settori, ma è anche il Paese che applica le politiche più repressive d’Europa. Il "modello svedese" sulle droghe affonda le sue radici in una complessità di ragioni culturali: da un lato la tradizione puritana, con la forte avversione per l’alcol, che si è estesa anche alle altre droghe; dall’altro, una tendenza paternalistica, che spesso ricorre nella cultura socialista. La tutela sociale prende il sopravvento sulle libertà individuali, e ciò più facilmente capita quando si ha a che fare con soggetti "deboli", o rappresentati come tali. L’esempio del Paese scandinavo è utile per dimostrare come l’approccio intollerante/repressivo non si opponga affatto all’approccio sociale: al contrario i due si integrano, nel senso che l’intolleranza "antidroga" impregna di se il sistema dei servizi. Ed infatti, fino a poco tempo fa era prevista la coazione esplicita al trattamento, e ancora si usano forme di coazione indiretta: ad esempio gli operatori sociali possono minacciare i consumatori di privarli dei sussidi sociali, qualora siano restii a sottoporsi alle cure. Nonostante si stiano lentamente estendendo anche i trattamenti sul territorio, la gran parte sono ancora residenziali, originariamente ispirati ai riformatori giovanili disegnati sul modello della "educazione socialista".

Ma possiamo guardare anche all’Italia. La legge Jervolino-Vassalli del 1990 è un buon esempio dell’interconnessione fra la repressione e gli interventi sociali. Non si può dire che la legge sia stata avara su questo terreno: basti ricordare il rafforzamento dei servizi tossicodipendenze, con l’istituzione dei Ser.T., e lo stanziamento del Fondo nazionale antidroga. L’impronta repressiva della legge, con la penalizzazione del consumo e il "declassamento del consumatore a cittadino di serie B", come giustamente osserva Livio Pepino, non contrasta affatto con gli investimenti nel sociale. Se ripercorriamo il dibattito parlamentare, ci imbattiamo in ripetute profferte di solidarietà al tossicodipendente da parte dei sostenitori della legge: la pena e la minaccia del carcere sarebbero utili, anzi necessarie, per convincere/costringere il consumatore alla "cura".

Onde, con un paradossale (ma non tanto) rovesciamento, sono i fautori della svolta punitiva a rigettare sugli oppositori l’accusa di egoismo e "indifferenza"sociale. È la concezione del "solidarismo autoritario", secondo l’acuta definizione di Luigi Manconi, ben radicata nella cultura italiana, non solo a destra. Per meglio comprendere questo intreccio fra repressione e "cura", occorre risalire dalle politiche ai modelli di interpretazione del consumo e alle rappresentazioni sociali sottostanti. Come si è detto, i due paradigmi storici sono rappresentati dal modello morale e dal modello disease, o medico: il primo centrato sull’approccio penale, il secondo sull’approccio medico, per l’appunto. Le due rappresentazioni in larga parte divergono, com’è evidente, ma in parte colludono, come già osservato da molti studiosi (tra gli altri Virginia Berridge e Freek Polak). La collusione sta nella condivisione degli obiettivi ultimi: sia l’ottica morale che quella medica del consumo tendono alla sua completa eliminazione. Qui sta la radice della cosiddetta "tolleranza zero", che non si riferisce tanto, ne solo, alla durezza repressiva, quanto all’ideale o alla retorica della drug free society. Perciò il modello disease tende a patologizzare qualsiasi forma di consumo. L’esempio più vistoso è quello dei consumi giovanili di canapa. Kelle scuole superiori degli Stati uniti, ad esempio, il consumo sperimentale di canapa fra gli studenti sfiora il 60%.

un fenomeno così di massa dovrebbe escludere letture patologiche, ciononostante l’interpretazione prevalente è che i giovani consumino per deficit psicologici o di competenze sociali. Inoltre la rappresentazione di malato (nel senso di posseduto dalla sostanza) spinge ad un indirizzo "contenitivo", quando non direttamente costrittivo dei servizi di cura.

Non a caso, nelle leggi e nelle pratiche penali, si è affermata l’idea di sospendere la pena e sostituirla col trattamento, o anche di obbligare i consumatori alla cura tramite le "ingiunzioni terapeutiche" ordinate dal giudice (in Gran Bretagna, per esempio), fino ad arrivare al vero e proprio trattamento coatto, oggi riproposto nel disegno di legge della maggioranza per azzerare la riforma Basaglia.

Quale insegnamento politico possiamo ricavare da questa lettura, quando cerchiamo di promuovere una strategia di inclusione sociale per i consumatori di droghe? Da quanto ho detto, risulta chiaro che sia la devianza che la malattia sono accomunate dal fatto di costituire elementi da espungere dalla società. Il modello medico nasce anche per attenuare i rigori del modello morale - punitivo, ma con i limiti che derivano dall’idea stessa del consumo come malattia.

La "patologizzazione" del consumo produce, lo si voglia o meno, esclusione sociale. Dunque l’espansione dei servizi sociosanitari in se non è affatto indizio di un processo di inclusione sociale; anzi, come si è visto, i servizi possono perfino far parte di una rete di "contenzione" e segregazione del consumo, spesso in continuità con la risposta carceraria. Non è un fenomeno di ieri. Il criminologo britannico Roger Matthews punta il dito su un processo recente, che egli definisce "transcarcerazione": il carcere è l’anello di un circuito di cui fanno parte integrante anche le agenzie terapeutiche e sociali. Il sistema non funziona per re inserire le persone, ma al contrario "trattiene" le persone nel circuito stesso, facendole transitare dall’una all’altra agenzia.

Qual è allora il modello di welfare che risponde effettivamente all’obbiettivo dell’inclusione sociale? Spunti interessanti ci sono offerti dal volume di qualche anno fa della sociologa Ota de Leonardis, In un diverso welfare. De Leonardis ci ricorda le origini del welfare, quando la sua funzione principale non era tanto quella di erogazione di servizi, bensì "di costruzione di un discorso pubblico intorno ai beni sociali da tutelare". Ciò presuppone che i soggetti sociali prendano la parola in prima persona, costruendo il discorso, appunto, intorno a se stessi e ai propri bisogni. La creazione di servizi iene dopo, a seguito e in sintonia col protagonismo sociale.

Ma come possono parlare, o meglio, come possono essere ascoltati soggetti "invalidati" e incapacitati come i consumatori/tossicodipendenti, considerato che questa è un’immagine sociale che contrasta radicalmente con la soggettività? È molto difficile, tanto che ancora oggi parlare di associazioni di consumatori (invece che di ex tossicodipendenti) desta incredulità, se non rifiuto. E, non a caso, l’opinione pubblica ignora, o vuole ignorare, che le più diffuse ed efficaci pratiche di riduzione del danno, lo scambio di siringhe e le safe injection rooms, sono state inventate e promosse dai consumatori stessi.

Tra gli "addetti ai lavori" questo fatto è più conosciuto, ovviamente, ma raramente valorizzato. Eppure sono state proprio le associazioni dei consumatori olandesi, agli inizi degli anni 80, ben prima dell’emergenza Hiv a organizzare questi interventi come forma di auto-aiuto, e poi a negoziare con le municipalità perché questi servizi entrassero a far parte della rete sociosanitaria. ovviamente le richieste dei consumatori hanno trovato ascolto tra le autorità olandesi perché in sintonia con l’approccio di public health, un tratto originario della cultura di welfare. Peraltro i tossicodipendenti olandesi beneficiano di un sistema generale di protezione sociale avanzata, ad iniziare dai sussidi di disoccupazione. Tuttavia, a mio avviso, l’elemento qualificante del welfare olandese non sta tanto nella erogazione di servizi, quanto nella politica di "normalizzazione" del consumo, perseguita fin dagli anni 70.

La normalizzazione dell’uso di droghe illegali supera sia l’immagine del consumatore come deviante, sia quella del "malato", "posseduto" (dalla chimica delle sostanze e/o dallo stile di vita deviante ad esse correlate): è un processo di "abilitazione", ossia di riconoscimento di abilità sociali, e di soggettività. Solo la "normalizzazione" produce inclusione sociale, riducendo quanto più possibile lo stigma, (ovvero l’immagine sociale "invalidata"), legata al consumo: in direzione, se non dell’accettazione, almeno della tolleranza per stili di vita differenti.

Ma non può darsi normalizzazione senza ridurre la "significazione" della legge penale, che riflette, e ribadisce ad un tempo, la rappresentazione di devianza/malattia legata alla droga. Nel cosiddetto modello olandese per le droghe, la politica di decriminalizzazione, ossia di riduzione dell’impatto penale. dà significato e qualifica l’approccio sociale. Ciò per dire che la depenalizzazione del consumo di tutte le droghe e la legalizzazione "di fatto" delle droghe leggere sono tasselli di un approccio sociale, che tende a non escludere, o almeno a ridurre l’esclusione dei consumatori di droghe illegali, poiché è ovvio che non esiste processo di esclusione più radicale del criminalizzare un comportamento o uno stile di vita.

Torniamo allo slogan politico, tanto in voga, "meno carcere, più trattamenti", che ho citato all’inizio. Non solo, come si è detto, esso è fuorviante. poiché la realtà va semmai nella direzione di "più carcere, più trattamenti". È anche ingannevole quando lo si voglia contrabbandare per una politica di inclusione sociale. Molti, che parlano di "meno carcere". non intendono affatto limitare l’impatto proibizionista e penale della legge. Anzi, in genere lo inv-ocano per "dare un segnale di disapprovazione sociale" dell’uso di droga: in altri termini per mantenere alta l’intolleranza sociale nei confronti di quel comportamento.

È una riflessione utile, spero, per questo nostro movimento che cerca un approccio sociale alla questione droghe. Ma anche per lo schieramento politico di sinistra, mi auguro. Negli anni del centro-sinistra, i governi succedutisi si sono sempre rifiutati di promuovere la ben che minima riforma di alleggerimento penale. Fino ad arrivare all’ultima conferenza governativa di Genova, quando fu proposto in alternativa di ampliare le possibilità di trattamenti in comunità per detenuti tossicodipendenti, al posto del carcere. Una proposta non dissimile da quella dell’attuale maggioranza di centro-destra, tra l’altro. È chiaro che questa via è meno indolore politicamente, proprio perché non scalfisce la retorica della drug free society, mantenendo, anzi per certi versi rafforzando l’immagine di "malattia invalidante" della tossicodipendenza (in virtù della quale alla punizione si sostituisce la "cura").

Un’ultima considerazione circa il decentramento del welfare, al momento in atto anche in Italia. Molti interventi hanno sottolineato i pericoli di questo processo. È bene però non dimenticare un altro aspetto, direttamente relativo alla politica delle droghe. Se oggi si può parlare di un’Europa della riduzione del danno, lo dobbiamo alle autonomie regionali e locali, che hanno reso possibili le sperimentazioni. Basti l’esempio della Germania, Paese segnato da politiche molto repressive. Ciononostante, la città di Francoforte è stata pioniera nelle strategie di riduzione del danno. Dunque, al di là dell’ingegneria istituzionale, io mi porrei un quesito squisitamente politico: il movimento di riforma sulle droghe ha in questo momento le risorse, l’intelligenza, le alleanze, la voglia di battersi per far sì che in alcune Regioni si proceda alla sperimentazione di strategie di riduzione del danno, quali ad esempio le safe injection rooms? Abbiamo oggi interlocutori politici in grado di comprendere l’importanza di tutto ciò? Su questo molto si gioca, oggi, delle sorti del movimento di riforma sulle droghe nel nostro Paese.

 

 

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