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Ripartire dal carcere
Claudio Sarzotti
La crescente domanda di penalità, in Italia e in gran parte del mondo occidentale, sembra essere alla base del massiccio aumento della popolazione detenuta verificatosi negli ultimi vent’anni. I.:allarme sicurezza nelle città, le vecchie e nuove dipendenze da sostanze psico-attive, i crescenti flussi migratori tra Sud e Nord del mondo, la criminalità organizzata tradizionale e transnazionale, appaiono un insieme di temi che convergono nell’incremento di politiche criminali di tipo repressivo, fondate in via principale sulla carcerazione. Temi che fino a qualche anno fa erano coniugati col registro delle politiche sociali, sono progressivamente transitati nel campo delle politiche criminali. La cosiddetta "società del rischio" classifica come pericolose intere categorie sociali (il drogato, lo straniero, la prostituta), ponendole in via preventiva sotto lo sguardo pervasivo di un controllo sociale che sempre più spesso prende le forme dell’esclusione e dell’emarginazione. Mentre, da un lato, il diritto penale svolge la sua funzione simbolica di risposta immediata ai problemi sociali da spendere sul mercato mediatico della politica, dall’altro il carcere riacquista la sua dimensione di "discarica sociale" e di mero contenitore degli esclusi dal mercato del lavoro. Se questa è, a grandi linee, la situazione culturale e politica generale del mondo occidentale, alla quale nemmeno le forze politiche progressiste hanno saputo sottrarsi, la posizione dell’attuale coalizione governativa si caratterizza, nell’ambito delle politiche criminali e penitenziarie, per un ulteriore inasprimento della cosiddetta "ossessione securitaria". Impegnata, per un verso, nella sua sfida infinita al potere giudiziario e, per altro verso, a soddisfare gli istinti più immediati del proprio elettorato sul piano della risposta repressiva ai fenomeni di devianza (si pensi alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione o alle proposte di legge in tema di prostituzione), l’attuale coalizione di governo sembra porsi in una posizione di asettico efficientismo, peraltro non sostenuto da un’adeguata consapevolezza dell’arretratezza della macchina amministrativa dello Stato. Primi tentativi di privatizzazione di alcuni servizi all’interno degli istituti carcerari; tentazioni autoritarie di imposizione del lavoro carcerario come obbligo anzi che come risorsa di risocializzazione; valorizzazione della comunità terapeutica quale modello di carcere a custodia attenuata e come panacea per la soluzione del problema droga in carcere; sviluppo dell’edilizia penitenziaria attraverso il tentativo di attingere anche a risorse private con nuovi strumenti finanziari; potenziamento e ristrutturazione in chiave gerarchica della polizia penitenziaria: controriforma della sanità penitenziaria, tesa a porre un rifiuto all’apertura del servizio sanitario di base del carcere al territorio e agli operatori sociali esterni all’istituzione totale, Si tratta di un insieme di abbozzi di riforma più o meno espliciti che, oltre che segnare un indubbio arretramento rispetto allo spirito "costituzionale" della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, si scontreranno contro il "muro di gomma" della struttura amministrativa, refrattaria a qualsiasi mutamento. L’atteggiamento del mondo dell’associazionismo e del volontariato davanti a queste proposte sembra oscillare tra un pessimismo della ragione che contiene in se la tentazione della pura invettiva, del girotondismo fine a se stesso, e l’ottimismo della volontà, che invece persiste nel credere di poter migliorare l’esistente con progetti locali che costringano l’amministrazione ad assumersi la responsabilità dell’attuazione del dettato costituzionale in tema di pena, In questa dialettica tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà si possono inscrivere due tipi di proposte che vanno lette in una prospettiva del tutto complementare. Da un lato, proposte per così dire "difensive", tese a porre dei paletti per impedire arretramenti rispetto ad alcuni fondamentali principi costituzionali. Su questo piano si possono ricordare alcune possibili richieste:
È da valutare la possibilità che il tener fermi tali principi costituzionali possa essere ottenuto attraverso lo strumento giuridico delle cosiddette "cause pilota", ovvero la richiesta di pronunce giurisprudenziali su casi giudiziari che appaiano particolarmente significativi per la loro valenza simbolica e operativa. Strategia che, tra l’altro, è stata proficuamente praticata in altri Paesi in passato (si pensi al movimento di protesta nelle carceri statunitensi degli anni Settanta, che mutò radicalmente il diritto penitenziario di quel Paese). Dal lato, invece, delle proposte più strettamente legate all’attività quotidiana degli operatori sociali, i temi non sono di minor rilevanza e richiedono un dialogo e una collaborazione continui con quegli operatori penitenziari che in questi anni si sono mostrati desiderosi di lavorare per un reale mutamento della situazione carceraria. In tema di tossicodipendenza in carcere, occorre ribadire la necessità che la comunità terapeutica non venga considerata l’unica strategia d’intervento. Molteplici esperienze internazionali hanno ormai dimostrato la praticabilità anche all’interno degli istituti penitenziari di strategie di riduzione del danno (distribuzione di siringhe e preservativi) che in Italia sembrano rappresentare ancora un tabù per l’amministrazione; oltre a progetti sperimentali di questo tipo, occorre garantire l’uso per i detenuti tossicodipendenti delle terapie metadoniche di mantenimento, che in molti istituti ancora oggi stentano a trovare una piena legittimazione. Strettamente legata al punto precedente è il tema dell’effettiva autonomia dell’intervento dei Ser.T. all’interno degli istituti carcerari. Sebbene la competenza di tale interventi sia ormai passata in toto agli operatori pubblici, in molte realtà locali si è manifestata una forte resistenza della logica securitaria della struttura penitenziaria ad adeguarsi alle esigenze e alle modalità di approccio con l’utente dei Ser.T.. Il tema del lavoro intra ed extra-murario è un altro nodo fondamentale dell’attività trattamentale; le tentazioni di concepirlo come un obbligo più che come una risorsa, come si è detto in precedenza, vanno rigorosamente respinte, pretendendo, al tempo stesso, la piena attuazione della legge Smuraglia attraverso adeguati finanziamenti e la costituzione delle cooperative sociali di detenuti e di ex-detenuti. Piena attuazione deve essere richiesta anche del nuovo regolamento penitenziario, documento normativo per molti aspetti innovativo, ma per il momento largamente inattuato e per certi aspetti inattuabile, considerato lo stato materiale di abbandono e d’incuria in cui versano buona parte degli istituti penitenziari; da quest’ultimo punto di vista, grande attenzione dovrà essere posta nel controllo che l’annunciato sviluppo dell’edilizia penitenziaria si conformi pienamente agli standard qualitativi necessari alla completa attuazione del regolamento del 2000. Un altro tema è quello della forn1azione degli operatori penitenziari, con particolare attenzione al personale della polizia penitenziaria. In questi ultimi anni, soprattutto in materia di tossicodipendenza, molti dei corsi di formazione finanziati dal Ministero della Giustizia sono stati gestiti da organizzazioni del privato sociale che hanno contribuito in misura rilevante ad aprire il carcere al mondo degli operatori sociali. Su questo terreno occorre non arretrare e ribadire l’importanza di un contatto tra il mondo degli operatori penitenziari e il territorio.
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