La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Giuseppe Mosconi

 

A me l’ingrato ruolo di tormentarvi, di torturarvi in questi ultimi dieci minuti consentiti. In realtà avevo intenzione di sollevare delle domande che potevano essere oggetto di discussione, e il fatto di parlare adesso ovviamente dà più a questo mio discorso il senso di lasciare aperte delle questioni, di lasciare, considerando anche le cose di cui oggi si è discusso, dei punti in sospeso su cui continuare a riflettere. Anche perché ritengo che i temi che sono stati toccati oggi abbiano sullo sfondo la grande domanda del “perché il carcere”. Oggi abbiamo considerato un aspetto molto drammatico che in qualche modo testimonia del carattere profondamente pressante, oggi più che mai di questa domanda. Il modo di guardare al problema della salute, della malattia, dell’integrità fisica, psicofisica in carcere dall’esterno, qui siamo una piccola parte della società di fuori che è venuta a guardare queste cose. Credo si possano registrare due atteggiamenti diversi: uno è l’atteggiamento di chi considera la malattia, l’autolesionismo, il suicidio come l’espressione più drammatica, più pregnante, più intensa di tutto ciò che il carcere storicamente nelle sue radici, nel suo evolversi rappresenta e di ciò che sostanzialmente oggi per molti aspetti continua a tessere.

Un altro approccio che ritengo profondamente diverso è quello di considerare questi aspetti così drammatici da meritare quel tanto di attenzione che si associa pure alla comprensione e alla disponibilità a dire sì, questi diritti vanno riconosciuti quindi ne facciamo una questione di diritti minimali di dove la salute è in pericolo. Almeno questo deve comportare una umanizzazione della pena, credo siano due atteggiamenti sostanzialmente contrastanti tra di loro e che in qualche modo hanno vagato tra le pieghe inconsce di tanti discorsi di oggi. Per orientarsi tra questi due opposti atteggiamenti, ripeto, cioè uno che assume il problema nel suo complesso, l’altro che guarda questo come una semplice appendice che va declinata con il linguaggio dei diritti da affermare ma in qualche modo si ferma lì, ritengo si debbano sollevare degli interrogativi attorno a quattro punti.

Primo punto, il fatto che la persona in carcere soffre, sta male, non controlla più la situazione e se stesso, e dall’altro solo se la persona in carcere sta bene, è consapevole e può dare alla sofferenza un significato adeguato che le consente di capire il senso della pena e quindi di viverla in modo positivo, in senso autoemancipatorio e automaturante. Anche questa ambiguità resta irrisolta, per cui se una persona è sana deve soffrire, o se la persona soffrendo si ammala e quindi non ha più senso che continui a soffrire, questo è un primo modo di ambiguità concettuale ma culturale.

Il secondo aspetto è un surplus di normatività che definisce ciò che è normale e ciò che è anormale, attorno al concetto di normalità e quindi eventualmente di malattia. Gli antipsichiatri credo che potrebbero confermarci un patrimonio storico del discorso di Basaglia e della sua scuola e cioè che la malattia mentale esiste  in quanto c’è una regola sociale, cioè esiste una norma che definisce quel comportamento con dei canoni tali da classificarlo come sostanzialmente anormale. Non che questa sia l’unica causa ovviamente della malattia, ma la rappresentazione del disagio mentale, secondo questo paradigma, ne drammatizza sia la sostanza che gli effetti e le tendenze interattive con il resto della società. Si da il caso che se per il semplice malato mentale c’è la violazione della regola della salute mentale, mentre per il detenuto con sindromi psichiatriche i riferimenti di normalità, in base ai quali giudichiamo la sua malattia, sono molto più complicati, articolati, pesanti. Nel senso che chi è in carcere e ha problemi psichiatrici, ha violato la legge penale, sociale della normalità del comportamento, ha violato la legge della sua credibilità e accettabilità, ha violato la legge morale, rischia quindi ogni giorno di violare la legge della disciplina interna all’istituzione e viola una legge di equilibrio mente-corpo in qualche modo acquisita nella cultura esterna.

La mole delle aspettative riferibili a questo, insieme di normalità che si riferiscono al detenuto, è tale per il quale l’esito non può venire giudicato come livello di salute accettabile, inevitabilmente  molto basso, perché non potrà mai rispondere a tutte queste aspettative oppure si ritualizza il concetto di normalità, attorno alla semplice regolarità del comportamento o all’assunzione di alcune attività abbastanza normali: lavorare, studiare, seguire un corso e con quello si è tranquillizzati. Il caso Izzo la dice lunghissima in proposito, e questa ritualizzazione allontana ancora una volta dalla conoscenza del soggetto; questo surplus di normalità pretesa si traduce in ritualità della normalità che inevitabilmente allontana da ciò che è il soggetto.

Terzo punto: nei rapporti terapeutici credo che funzioni molto il paradigma della deprivazione, cioè il terapeuta, in quanto tale, è consapevole di essere di fronte a un soggetto molto a disagio, che ha molti problemi e che parte da una situazione di inferiorizzazione sociale, culturale e di salute, di equilibrio psico-fisico, rispetto al quale non può che assumere un ruolo sostanzialmente emergenziale, perché la prima cosa che non controlla è il contesto in cui può gestire il disagio, se questo è già molto problematico nella società normale e se fa parte dell’itinerario terapeutico l’indurre un senso di realtà che in qualche modo riequilibri il rapporto della persona con il contesto in cui vive. Questo è estremamente più difficile in un contesto rigido e etero-diretto quale può essere la realtà carceraria, quindi il rapporto terapeutico non può che essere un rapporto di tamponamento e di gestione dell’emergenza, ma non potrà mai essere sostanzialmente e fattivamente terapeutico; oggi avrei avuto piacere di poter discutere effettivamente di questo.

L’ultimo punto è la questione del rapporto con l’opinione pubblica esterna. Io credo che oggi noi viviamo una grossa ambivalenza: si ripete fino alla noia che il carcere deve essere solo per i casi estremi, deve essere ridotto a un numero circoscritto di persone. Questi discorsi si facevano, anche con maggior radicalità, più di vent’anni fa, nell’84 ad esempio, quando è venuto alla luce il movimento “Liberarsi dalla necessita del carcere”, ma rispetto a quegl’anni, ci troviamo con il doppio dei detenuti. Allora scusatemi, c’è qualcosa che non funziona, non nel carcere ma nel rapporto tra carcere e società. Questa società non riesce a elaborare una sua cultura, un suo modo di vedere le cose da poter effettivamente giungere a proporre in modo realistico, produttivo, una gestione diversa di questo grosso problema sociale, che è la presenza del carcere nella nostra società.

Questo vuol dire che c’è una grossa ambivalenza da parte dell’opinione pubblica, cioè è troppo facile dire che il carcere deve essere ridotto all’extrema ratio, al minimo numero di casi, e allo stesso tempo accettare che i 2/3 delle persone che sono in carcere ci stiano e in qualche modo è inevitabile che ci stiano, e che qualcuno inconsciamente pensi che è bene che ci stiano, perché sono  persone che ci danno fastidio, che sono sgradevoli, che non parlano come noi, che non vestono come noi, che non si comportano come noi. Vogliono le stesse cose che vuole la media dell’opinione pubblica fuori, e in questo humus inespresso, non manifestato, di accettazione di qualcosa che procede secondo una dinamica propria, che l’area del controllo penale si espanda in modo incontenibile in una società che è sempre più assente dal punto di vista delle elaborazioni culturali positive e propositive, in una società in cui l’accettazione dell’inevitabile come contropartita di un profondo disagio individuale, in cui, visto che non riesco a risolvere in modo accettabile i miei problemi quotidiani, figurarsi se ho tempo e modo di occuparmi di qualcosa che esula dalla mia sfera di controllo individuale.

Le cose vanno avanti secondo una dinamica che mi sembra accomunare in un pensiero unico l’inevitabilità della reclusione degli strati sociali sgradevoli o inquietanti con l’inevitabilità della guerra come sistema di mantenere un’area di benessere, frutto di uno sviluppo distorto che ci è sempre più messo in pericolo e che verrà difeso sempre di più con la violenza. Io credo che tra la violenza della tutela del benessere raggiunto dall’Occidente e l’accettazione della violenza di uno strumento che ci protegge dal nostro benessere quotidiano, ci sia una drammatica inconsapevole sintonia, il che poi di fatto viene a determinare un’inevitabile profondo disadattamento tra chi è dentro rispetto le prospettive esterne, perché è chiaro che chi è dentro non trova fuori quello che diversi psichiatri oggi hanno invocato come necessario, e cioè un’offerta di opportunità, un carattere realistico concreto di reinserimento sociale, che solo la società che guarda meno al benessere, alla sicurezza intesa come successo economico può essere disponibile ad offrire. Non possiamo solo affidare al terzo settore, solo al volontariato il reinserimento sociale di cittadini, che inevitabilmente così saranno di serie B e che inevitabilmente così coltiveranno, in modo isolato, i loro disagi con gli esiti drammatici di cui abbiamo sentito parlare oggi.

Questi ritengo siano punti aperti, questioni che meritano un approfondimento, l’ambivalenza delle aspettative esterne si traduce in una profonda frattura fra la normalità esterna e la possibile normalità interna, e all’origine del disagio e del disadattamento che produce poi sindromi psichiatriche ci sta questa sfasatura, questa incomunicabilità tra due normalità, le quali non hanno molto senso di esistere se non si mettono rispettivamente profondamente in discussione in vista del superamento del problema nella sua radice reale.

 

 

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