La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Giorgio Concato

 

Il tema di cui vorrei parlarvi è l’autolesionismo, intendiamo questo termine con esito suicida e autolesionismo come non suicidarlo. Quest’ultimo fenomeno è un fenomeno molto rilevante, perché riguarda 5800 casi l’anno, perlomeno quelli registrati nel 2003, quindi è un fenomeno di ampie proporzioni. Se poi a questo aggiungiamo 670 tentati suicidi, raggiungiamo un numero veramente spaventoso. Ecco, direi che parlando dell’autolesionismo dobbiamo un pochino affacciarci su nuove ipotesi, nel senso che è un tema, una questione, un grosso problema che segna una grave mancanza di comprensione dell’essenza della questione e di prevenzione di intervento, quindi siamo ancora molto indietro rispetto a questo e diciamo che nel problema della comprensione siamo probabilmente abituati ad utilizzare vecchie categorie.

L’idea ad esempio che la maggior parte dei  casi di autolesionismo siano comunque collegati a disturbi mentali, questo non è affatto vero: chi ha esperienza, chi vive in carcere, sa benissimo che gli autolesionismi sono soprattutto legati a questioni che ad un esterno apparirebbero banali, cioè alla difesa dei più elementari diritti umani, come quello di poter parlare con un magistrato, di non poter essere cambiato di cella perché in quella dove si sta non si sta bene, oppure di non essere trasferito. Di poter avere una visita medica in tempi ragionevoli, di poter avere una visita specialistica in tempi altrettanto ragionevoli. Ecco, molto spesso gli atti di autolesionismo sono collegati a questi fatti, quindi non possiamo parlare di psicopatologia, cioè perlomeno sarebbe porre la questione in termini un pò fuorvianti. Un altro elemento che appare interessante è il fatto che l’incidenza degli autolesionismi fra la popolazione straniera è esattamente il doppio rispetto all’incidenza che ha sulla popolazione italiana, quindi non in numero assoluto, ma in numero relativo alla quantità di persone straniere e italiane presenti, mentre i suicidi avvengono in proporzione inversa.

Sono più gli italiani a suicidarsi, in ragione doppia rispetto agli stranieri. Questo cosa ci dice? Anche qui a volte affrontiamo il problema in termini con delle spiegazioni che fanno parte di una cultura di pratiche discorsive e di un regime culturale molto istituzionale, e diciamo ad esempio che gli stranieri si suicidano per motivi culturali. Ora, se andiamo a guardare, questi motivi culturali non esistono: non c’è una cultura dell’autolesionismo tra i nordafricani e semplicemente se guardiamo il fenomeno che i nordafricani vivono nelle parti peggiori e nelle condizioni peggiori di detenzione e quindi possiamo immaginare che l’autolesionismo è legato alle condizioni in cui vivono, e non a motivi culturali.

Quindi abbiamo un po’ di difficoltà di comprensione, a volte usiamo altri termini nel definire e nel distinguere gli autolesionismi, in autolesionismi per attirare l’attenzione, questa è una frase che circola normalmente, che uno si faccia del male per attirare l’attenzione. Sapete benissimo, si dice di bambini che cascano per attirare l’attenzione, dimostra anche un atteggiamento di infantilizzazione, come diceva Corleone stamani, che non va soltanto sui temi come “domandina e richiestina”, ma proprio in certe interpretazioni di fenomeni molto gravi, eppure diciamo che ci sono degli autolesionismi per rivendicazione. Una rivendicazione c’è quando parliamo di un rapporto sindacale, ma quando uno non ha nessun potere sindacale, non rivendica nulla, allora dobbiamo capire meglio e faccio riferimento alle ricerche di Buffa, che non è venuto stamani, però ha scritto una relazione che potete trovare tra il materiale che vi è stato dato.

 

 

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