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Atti della Giornata di Studi “Carcere: La salute appesa a un filo” Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione (Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)
Andrea Boraschi
Io ringrazio Segio per avermi introdotto in maniera così precisa. Rispondo immediatamente nel merito di quelli che sono stati definiti “suicidi annunciati”. Io con Luigi Manconi, come Segio stava dicendo, conduco da anni una ricerca sul fenomeno dell’autolesionismo e dei suicidi in carcere. Negli aggiornamenti più recenti abbiamo voluto occuparcene addentrandoci un po’ di più nelle biografie vere e proprie di chi si toglie la vita, di quei casi di suicidio che riguardano persone che stavano in carcere, pur essendo già state dichiarate incompatibili con il regime carcerario e che avevano gia tentato il suicidio o l’avevano minacciato a più riprese e non erano stati creduti, che versavano cioè in condizioni gravissime di depressione. Chiaramente questo è il dato, da un certo punto di vista, per alcuni versi, più interessante, della ricerca che abbiamo fatto, dall’altro è anche il più delicato, nel senso che proprio per quel problema di opacità che contraddistingue il mondo del carcere, andare a fare ricerca non solo sui numeri, non solo sulle statistiche, ma addirittura sulle evidenze biografiche di chi in carcere si toglie la vita, diventa difficilissimo. Voglio prendermi un secondo per ringraziare Ristretti Orizzonti, anche se Ornella Favero ha dichiarato la sua allergia ai ringraziamenti, perché comunque nel lavoro che abbiamo fatto in questa ricerca sui suicidi in carcere, il lavoro di questa associazione è risultato utilissimo. Io credo che sia estremamente prezioso per chiunque in Italia si voglia occupare in maniera minimamente seria e consapevole di carcere. Dicevo dunque, andare poi a studiare questi cosiddetti “suicidi annunciati” è cosa ancor più difficile e ancor più complicata. È lì che l’opacità, la reticenza dell’Amministrazione penitenziaria, rispetto alle condizioni di detenzione in cui il suicida se n’é andato, a quelle che erano le relazioni, le possibili motivazioni al suo gesto, è lì che le opacità e le reticenze si fanno più forti. Dunque, tanto per intenderci, rispetto al fenomeno dei suicidi in carcere, di cui dirò più estesamente sul complesso e sul totale delle persone che ogni anno in carcere si tolgono la vita, possiamo ragionevolmente stimare che questi che abbiamo definito “suicidi annunciati”, che riguardano persone che non avrebbero dovuto trovarsi in carcere, perché già dichiarate incompatibili, persone depresse, persone che avevano già tentato il suicidio o che l’avevano minacciato, ecco, questa percentuale io credo possa essere stimata sul 25%. Si tratta quindi di casi in cui il disagio era estremamente evidente. Qui chiaramente c’è un problema che emerge in maniera veramente macroscopica di relazione tra il detenuto e la struttura, di assoluta incapacità di ascolto, perché si badi purtroppo in carcere succede anche l’esatto contrario, cioè succede anche che si tolga la vita chi non aveva mai manifestato un disagio particolare, un disagio sopra le righe, peggiore di quello di altri compagni o di altri detenuti, eppure giunge ugualmente a quel gesto estremo. Ci sono invece altri casi, secondo la nostra ricerca circa il 25%, in cui i sintomi di questo disagio sono molto più forti. Abbiamo deciso di occuparci di suicidi e di autolesionismo perché crediamo siano questi i due fenomeni che sono al contempo una spia, un sintomo molto preciso del disagio che si vive nell’ambiente penitenziario italiano. Sono un termometro estremamente sensibile di come vanno le cose. Allora, se è vero che ogni suicidio fa storia a sé, è anche vero che contiene degli elementi che non possono essere facilmente generalizzabili e non si può altrettanto facilmente ricondurre quel suicidio a una tipologia. E se è vero che, per altro, ogni suicidio nasconde un segreto, ovvero dietro a quel gesto ci sono motivazioni, circostanze, fattori, dinamiche che nessuna ricerca potrà mai portare definitivamente alla luce, è anche vero che la somma di queste unicità prende un fenomeno che si ripete, si riproduce di anno in anno, che oramai ha dei connotati, delle caratteristiche che sono piuttosto stabili, drammaticamente stabili, anzi in via di lento peggioramento, e che possiamo in sostanza così riassumere, proprio perché ci sono dei dati strutturali e ambientali che lo spiegano. In carcere ci si toglie ogni anno la vita tra le 17 e le 19 volte più di quando si faccia tra la popolazione libera. Per ogni cittadino libero che si toglie la vita, in carcere se la tolgono tra i diciassette e i diciannove. Gli ultimi anni da questo punto di vista sono stati terribili. Il 2001 ha fatto registrare un picco negativo, ci sono stati 72 casi di suicidio in un anno. Il 2003 è stato un anno parimenti drammatico: ha visto 65 morti, più altri due che si sono realizzati in istituti minorili. Si viaggia su una media di circa un suicidio ogni 5 giorni. Questo è il quadro al quale dobbiamo fare riferimento. Rispetto a questo quadro, vorrei dire poche cose sulle quali maturare anche qualche spunto più politico. La prima è questa: che in carcere ci si suicida non quando è troppo tardi, ma quando è troppo presto. Questo vuol dire che circa il 60% dei detenuti che in carcere si tolgono la vita sono giovani o giovanissimi, diciamo identificati in quelle fasce anagrafiche tra i 18 e 24/25/34 anni, che sono per lo più in carcere per la prima volta, hanno una carriera criminale alle spalle esigua, trascurabile. È chiaro che l’età media della popolazione è più bassa rispetto alla popolazione libera, cioè quando dico che in carcere si uccidono i più giovani, lo dico equiparando questo dato ad un problema di disparità, appunto di età media tra popolazione libera e reclusa. Se per un attimo ce la dimentichiamo, ci dimentichiamo di questo problema, lo stesso rapporto che ho espresso prima, che per ogni persona libera che si suicida, in carcere se ne suicidano tra le 17 e le 19. Su questa questione dell’età, se andiamo a considerare la fascia tra i 18/24 anni, possiamo dire che per ogni cittadino libero tra i 18/24 anni che si toglie la vita, in carcere se ne suicidano 50, cioè il rapporto è di 50 a 1. Spesso ci si toglie la vita nei primi mesi di detenzione, ancor più spesso nelle prime settimane. Il 60% dei suicidi che si verificano in carcere ogni anno riguarda detenuti che erano reclusi da meno di 12 mesi, ma se andiamo a scavare vediamo che il 50% dei suicidi interessa detenuti che erano in carcere da meno di 6 mesi. Addirittura negli ultimi anni circa il 15% dei suicidi che si verificano riguarda detenuti che sono in carcere da meno di una settimana: 15 suicidi su 100 si verificano nella prima settimana di detenzione, e ancora non quando è troppo tardi, ma quando è troppo presto, in una terza accezione. La popolazione penitenziaria italiana è costituita dal 60% di definitivi. Non è tra questi che si concentra la maggior parte dei suicidi: c’è anche qui un dato paradossale, com’è paradossale che siano i più giovani ad uccidersi, quelli che avrebbero teoricamente maggiori possibilità e maggiori aspettative di inserimento e riabilitazione, è anche paradossale che la maggior parte dei suicidi si concentri, in proporzione doppia di quanto avvenga tra i detenuti definitivi, tra i giudicabili. Ovvero tra quei detenuti che non hanno ancora sostenuto il primo grado di giudizio e che quindi sono, così dobbiamo considerarli se vogliamo mantenere un minimo di liberalità, cittadini che godono a tutti gli effetti della presunzione di innocenza. Allora, da queste prime analisi io vorrei trarre delle primissime conclusioni e dire che emerge un profilo di chi in carcere più frequentemente ricorre al suicidio: è un detenuto molto giovane spesso, come dicevo prima, con una carriera criminale assolutamente trascurabile, spesso è dentro per reati minori e alla sua prima esperienza e dunque emerge qui una prima posizione. Nel 1987 in una circolare, il ministro della Giustizia Amato istituì i reparti dei Nuovi giunti: erano delle strutture, da prevedersi in ogni carcere, proprio per andare a ridurre il disagio, lo shock, il trauma dell’ingresso in un mondo del quale non si conoscono regole e gerarchie, un mondo che risulta fatalmente, in prima battuta, assolutamente ostile. Dal 1987 ad oggi, i reparti Nuovi giunti in Italia sono 16 su 205 istituti di pena. Allora il dato che vi ho citato prima sul fatto che in carcere ci si uccida frequentissimamente nei primi mesi, ancor più nelle prime settimane di reclusione, è un dato che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, come chiunque abbia voglia di andarsi a scartabellare un po’ di statistiche, sa bene che è acquisito da tempo, non da oggi. Sono anni che si sa benissimo che la maggior parte dei suicidi si concentra nel primo periodo di detenzione. Prima questione: i reparti dei nuovi giunti sono da considerarsi un’esperienza fallita e da abbandonare. Se ne potrebbe promuovere una diversa, più efficace o forse si può tornare su quella già sperimentata e potenziarla, destinare qualche risorsa in più di quanto non sia stato fatto fin’ora. Un’ultima cosa: la nostra ricerca è andata anche a verificare se esiste una correlazione tra affollamento, autolesionismo e suicidio. L’affollamento: tanto per ricordarlo, ma forse non ce n’è bisogno, dietro a questa parolina un po’ burocratica si annidano tutti i mali del sistema penale italiano: strutture fatiscenti, difficoltà di relazione con l’Amministrazione penitenziaria, carenze di educatori, di psicologi, di personale medico-sanitario, promiscuità, difficoltà di accesso al lavoro. Allora anche qui abbiamo verificato che la correlazione, che supponevamo potesse esistere tra affollamento e propensione al suicidio, è fortissima. Tanto per dare un’idea su 205 istituti di pena che ci sono nel Paese, mediamente ogni anno 145/150 risultano affollati. Nel 2002, se nelle carceri non affollate si registravano 6.2 suicidi ogni 10.000 abitanti reclusi, in quelle affollate se ne registravano 10.8, cioè significa 4.6 suicidi in più ogni 10.000 detenuti. Allora anche qui io penso che, fin quando le risorse vengono destinate nelle finanziarie alla costruzione di nuove carceri, di nuovi istituiti penitenziari, sarà un po’ come una soluzione emergenziale che, invece di sanare strutturalmente il sistema penitenziario italiano, continua a metterci delle toppe sulle troppe falle che ogni giorno sono via via più evidenti. Io credo che bisognerebbe fare una riflessione molto seria sulla possibilità di indulto, amnistia. Qualche mese fa Adriano Sofri, in un pezzo molto bello, ricordava che non c’è mai stato un periodo tanto lungo nella storia di questa Repubblica in cui non si sia preso un provvedimento di questo genere, in cui non si sia ricorsi all’amnistia. Ecco questo periodo così eccezionalmente lungo coincide con il fatto che negli ultimi anni la crescita di presenze negli istituti sia stata esponenziale, e che esponenziale è stata la crescita dei suicidi. Concludo dicendo che appunto, rispetto a questa questione dell’affollamento, oltre ad un intervento di questo genere – amnistia, indulto – credo che bisognerebbe iniziare a ragionare molto seriamente di una riforma del Codice penale che depenalizzi e al contempo preveda delle misure alternative al carcere che in Italia è solo politica penale.
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