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Atti della Giornata di Studi “Carcere: La salute appesa a un filo” Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione (Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)
Dall’attenzione alla prevenzione: sintesi di una esperienza multiprofessionale di attenzione e prevenzione al disagio in corso nella casa circondariale di Torino, di Pietro Buffa
Premessa
La gestione della quotidianità penitenziaria implica la necessità di una continua riflessione tesa alla comprensione dei suoi fenomeni e dei loro continui cambiamenti normativi, strutturali ed umani. Un elemento costante e trasversale di tale gestione è il disagio espresso, a diversi livelli di gravità, da una larga parte dei detenuti. Manconi (2001), ad esempio, ha rilevato che l’incidenza dei suicidi è circa sedici volte maggiore che nella vita libera (il tasso all’interno degli istituti di pena è pari a 11,6 suicidi ogni 10.000 detenuti contro lo 0,7 su 10.000 abitanti). A questi si devono aggiungere tutti gli eventi autolesivi, i rifiuti di nutrirsi e di curarsi. A questo proposito la letteratura (Ceraudo F., 1990; Galliani I., 1990; Giroldi L., Manfredonia M., 1990; Buffa P., Pirfo E., 2000) è costante e concorde nel ricordarci che non possono intendersi generalmente ed automaticamente quali manifestazioni psicopatologiche, bensì come modalità marginali di rivendicazione ed espressione. In taluni casi s’intuiscono vere e proprie “strategie” autolesive, capaci di collegare efficacemente fine e modalità (Buffa, 2003) senza produrre danni irreparabili (De Fazio G.L. Gualandri G., 1990; Galliani I., 1990; Paolillo P., 1990). Rimane il fatto che questi comportamenti indicano sicuramente profondi stati di disagio di cui occorre prendersi cura. Cause, motivazioni, modalità di manifestazione di questi fenomeni evolvono e s’intrecciano continuamente rendendo difficile organizzare una risposta congrua e capace di mantenere la sua validità nel corso del tempo. Occorre, quindi, sperimentare, valutare, provare e riprovare, consci che, uscendo dalla logica burocratica dell’adempimento, così lineare e rassicurante con le sue prassi consolidate, si rischia di incorrere in errori e nelle conseguenti responsabilità. Come ho avuto modo di argomentare (Buffa, 2001a) l’attività dell’Amministrazione penitenziaria è pervasa dalla responsabilità delle azioni conseguenti al preciso onere di tutelare il diritto alla salute di soggetti che vivono la compressione di molti degli altri loro diritti. Questo può comportare la strutturazione di azioni apparentemente “assurde” e paradossali, meglio comprensibili solo attraverso un’ottica istituzionale sclerotizzata e ripiegata sull’autoreferenzialità. Quest’ultima si basa sul fatto che la conoscenza di un fatto, nell’ambito di un sistema burocratico, costituisce un precedente ineliminabile di cui si deve tener conto necessariamente, per il futuro, pena il rilievo di non averne adeguatamente previsto le contromisure pur essendo a conoscenza di effetti già rilevati in situazioni analoghe. La necessità di garantire l’incolumità dei ristretti determina, allora, decisioni e conseguenze grottesche ed insensate, che consentono però di poter affermare, un domani, di aver provveduto per quanto umanamente possibile. E’ il sedimentarsi di fatti e circostanze che determina la procedura. Si creano così automatismi valutativi e decisionali che generano quel fenomeno, ben conosciuto nelle pubbliche amministrazioni, per cui “l’iperegolamentazione delle procedure di funzionamento dei servizi pubblici finisce con il togliere qualità ai servizi stessi” e determinano la trasposizione dei mezzi ai fini (Soda, 2000). Chiunque si ponga nell’ottica di snellire, semplificare, umanizzare le procedure, si espone al rischio di essere smentito dai fatti che tutti potrebbero in seguito dichiarare come prevedibili alla luce dell’esperienza. La codificazione sedimentata, d’altra parte, è sicuramente peggiorativa della vita detentiva. La durezza e l’inutilità dello stato di osservazione e cautela generalmente adottato nei confronti dei soggetti che hanno evidenziato volontà suicidiarie o autolesive è stata stigmatizzata da Antigone (2000). Queste le considerazioni preliminari dalle quali è nata l’idea di riorganizzare, nella casa circondariale di Torino, alcuni servizi penitenziari con l’obiettivo di sostituire al mero contenimento dei fenomeni di disagio personale espresso dai detenuti un’attenzione meno formale e più puntuale. Il presente contributo intende ripercorrere le tappe fondamentali di questo percorso, dando conto dei risultati ottenuti, degli ostacoli e problemi ancora insoluti e delle prospettive future.
La necessità di un nuovo atteggiamento culturale per la modifica dell’organizzazione e degli interventi.
Alle considerazioni preliminari riportate in premessa ne hanno fatto seguito altre. Tra le prime il fatto che una corretta e concreta attenzione ai problemi può sicuramente non essere sufficiente ad escludere errori di valutazione ma consente di dimostrare che, più che sulle “carte”, si è concretamente cercato di gestire la criticità e il disagio dell’individuo a noi affidato. Fa da corollario l’affermazione che evitando di ricercare “l’infallibilità burocratica” si possono limitare alcuni dei paradossi che quotidianamente verifichiamo, atteso che non è certamente l’infallibilità che si ricerca quanto la serietà e la fondatezza degli interventi. Queste semplici affermazioni, in realtà, costituiscono un vero e proprio passaggio culturale, soggettivo ed organizzativo. A mio modesto avviso è questo il dato più importante che va sottolineato La cura e la comprensione della cultura e dell’atteggiamento degli operatori verso un fenomeno umano così grave, quale il disagio di una persona rinchiusa in un carcere, costituiscono il vero nocciolo del problema. A questo si connettono sicuramente altre questioni problematiche, ma il loro approccio e risoluzione non possono prescindere temporalmente dalla questione culturale. E’ banale ricordare che declinare in un verso piuttosto che in un altro l’approccio mentale e professionale dell’operatore e, di conseguenza, dell’organizzazione risultante dall’agire dell’insieme degli operatori, comporta risultati ed effetti molto diversi. Se questo può apparire banale non è affatto scontato che questo costituisca una consapevolezza per tutti. Questo è stato il primo risultato di questi mesi di lavoro e riflessione. Lo vedremo nel prosieguo; nulla è stato considerato banale o scontato, bensì tutto è stato soggetto a critica e verifica: dalle idee all’organizzazione, dai tempi ai metodi, dalle convinzioni alle critiche. Purtroppo l’abbrivio delle prassi, frutto di quotidianità, frustrazione, ansia, scarsità di risorse, autoreferenzialità, banalizza e rende omogenee le cose e i fenomeni, li “normalizza”, quasi li fa scomparire, sicuramente li rende indistinti. Da questo discende la standardizzazione nella comprensione e nell’intervento. Il primo passo è stato quindi quello di analizzare l’esistente (Buffa, 2001a) per verificarne le criticità, partendo da una considerazione di Pavarini (1994) che testualmente afferma “come il male anche il carcere è banale. Nessuna grandiosità nel supplizio penitenziario; quello che produce sul corpo del condannato lo produce più per ottusità che per sadismo”.
La staticità dell’approccio giuridico- formale
Dall’analisi sono scaturiti dati di particolare interesse. Ad esempio una significativa sfasatura diagnostica in sede di primo ingresso; in particolare per quanto riguarda la valutazione del rischio autolesivo e il comportamento del soggetto. A livello regionale i dati di una ricerca condotta nel 2000 (Buffa, Pirfo, 2000) hanno evidenziato che il 62% dei soggetti protagonisti di gesti autolesivi era stato classificato, in sede di primo ingresso, come a basso rischio di violenza autodiretta e solo il 6% quale portatore di un alto o altissimo rischio autolesivo. La stessa capacità del servizio “nuovi giunti” di intercettare realmente i soggetti in ingresso è risultata ampiamente limitata (tab.1). La copertura garantita dagli esperti, incrociata con gli orari di effettivo ingresso dei detenuti, variabile a sua volta dipendente dall’andamento temporale degli arresti e dai movimenti delle forze di polizia esterne che prediligono alcuni orari per accompagnare gli arrestati in carcere, si sovrappongono solo parzialmente. Non si arriva mai a superare il 45% dei casi, sino ad un minimo del 26,5% registrato nel mese di agosto. I giorni festivi sono quelli peggiori, con un massimo del 34.9% ed un minimo del 16.7%. Migliori i risultati registrati nei giorni feriali che si attestano tra il 50.8% e il 30.1% dei soggetti in ingresso. I dati parlano di un servizio “nuovi giunti” incapace di una intercettazione reale e, nei casi che passano al suo vaglio, la sua capacità diagnostica e prognostica appare incompleta e fallace.
Tra le concause ipotizzabili si può menzionare il dato strutturale. Le Forze di Polizia che operano sul territorio privilegiano alcune fasce orarie per condurre gli arrestati in carcere (tab.2). In particolare dopo le 19 e per tutto l’arco della notte si registrano i maggiori picchi di affluenza e complessivamente, in quest’arco temporale, si sono registrati oltre il 50% degli ingressi. Il servizio “nuovi giunti”, da parte sua, è mediamente attivo tra le 12.00 e le 22.00. Non esiste infatti la possibilità di coprire maggiormente l’arco della giornata per questioni di organico ma anche di disponibilità dei professionisti. Senza voler approfondire quest’ultimo argomento è però da accennarsi all’assoluta incapacità concorrenziale dell’Amministrazione penitenziaria dal punto di vista economico nel reclutamento degli esperti. A ciò consegue l’impossibilità di strutturare servizi sicuramente onerosi in termini di impegno ma necessari se si intende ricercare l’efficacia. Circa gli interventi ipotizzabili per migliorare tale servizio, che si ritiene di indubbia utilità se gestito in modo corretto, alcune indicazioni verranno fornite in sede di conclusioni.
Al di là dell’intercettazione del disagio al momento dell’ingresso, in ogni caso, il sistema prevede l’innalzamento di un’attenzione formale nel caso di eventi critici. Tali eventi, di prassi, prevedono la disposizione di modalità custodiali più attente quali grandi o massime sorveglianze e la richiesta d’intervento di psichiatri ed esperti ex art. 80 o.p. L’automatismo delle disposizioni, come già detto, è più diretto all’autotutela che alla vera e propria presa in carico dei soggetti. Nei casi esaminati nella sede torinese, gli stessi strumenti e le modalità adottate sono apparsi elementi critici. Spesso le disposizioni non hanno tenuto conto delle motivazioni registrate, e quando lo hanno fatto, il tutto si è svolto in un contesto denotato da una bassa discriminazione nella casistica del disagio ed in ogni caso non si è riscontrato alcun profilo di integrazione tra la parte custodiale e quella psichiatrica/psicologica. L’organizzazione del lavoro è apparsa fortemente frammentata con difficoltà al confronto e alla costruzione condivisa di programmi d’intervento ad hoc. Il sistema delle comunicazioni ha risentito di questa frammentarietà e si è fondato sulle varie registrazioni effettuate in cartella clinica, sulle disposizioni di servizio, sulle informative e sulle direttive, raccomandazioni ed allertamenti. Si è riscontrata anche l’”impersonalità” delle varie segnalazioni, o perché non indirizzate specificatamente all’operatore o perché lasciate su registri di consegna. Non si è registrato un feed back strutturato delle informazioni le quali, semmai, sono circolate in modo informale e non finalizzato. Di fatto le prescrizioni di grande sorveglianza e di supporto continuativo e costante da parte dell’esperto psicologo non sono mai state rivalutate ed annullate. Dal punto di vista custodiale questo determina fisiologicamente, dopo un certo periodo di tempo e a seguito della mancata reiterazione di episodi reattivi palesi, una riduzione della sorveglianza che permane, tuttavia, a livello formale. Le informazioni dirette all’Autorità Giudiziaria e agli organi superiori dell’Amministrazione Penitenziaria generano a loro volta, e in particolare in questo secondo caso, comunicazioni di ritorno standardizzate consistenti in allertamenti e disposizioni tese a scongiurare, almeno formalmente, eventuali rischi di reiterazione. Tali comunicazioni implicano la riattivazione automatica di ulteriori allertamenti formali all’interno dell’istituto che inducono a comunicazioni ridondanti con effetti inflattivi e potenzialmente controproducenti. In sintesi è emerso un quadro di comunicazioni ed interventi frammentati, non progettualmente integrati, condotti da gruppi di operatori non particolarmente comunicativi ed organizzati secondo schemi di forte instabilità all’interno della struttura. L’instabilità limita, se non addirittura impedisce del tutto, la capacità di attivare relazioni di rete in grado di intercettare e gestire condizioni di disagio manifesto che viene trattato in modo grandemente standardizzato e secondo automatismi. Da non sottacersi il forte senso di frustrazione degli operatori a fronte della percezione di un lavoro fortemente imperfetto non dotato di valenza strategica, che non interpreta né interviene concretamente sulla gestione del rischi connessi ai vari disagi psichici e comportamentali che caratterizzano l’ambito penitenziario e che, quindi, genera a sua volta potenziali rischi nei confronti degli operatori stessi che possono essere chiamati a rispondere della gestione di strumenti così imperfetti. Evidente la necessità di procedere all’attivazione di processo di cambiamento teso ad ottenere, per citare Gonin (1994), l’“accentuazione della presenza di ognuno (al fine di soddisfare) l’esigenza di uno sforzo di informazione e un maggiore ascolto del detenuto”.
La dinamica dell’attenzione: selettività, tempestività, lavoro di gruppo, ovvero i “gruppi di attenzione”
Nascono così i “gruppi di attenzione” (Buffa, 2001b), ovvero un sistema di intercettazione del disagio e un flusso informativo diretto all’ascolto, monitoraggio ed intervento integrato e progettuale nei confronti di quei soggetti che hanno messo in atto gesti autolesivi o che sono ancora silenti ma che lasciano prevedere una evoluzione ingravescente. Non è pensabile attivare un programma di così vasta portata senza spendere molto tempo ad ordinare i problemi che si vogliono affrontare, lo abbiamo visto, ma anche, e forse soprattutto, a riflettere con gli operatori che dovranno poi concretizzare l’idea, ascoltando i loro problemi, verificando se all’interno dell’organizzazione esistente sussistono le condizioni quantitative e qualitative necessarie, accettando ma contrastando gli stereotipi, le ansie e i timori che ogni cambiamento alimenta. In altri termini, come già accennato, si tratta di porre in essere un’operazione che si svolge su piani teorici, organizzativi e culturali. In un altro contributo (Buffa, 2003), trattando della fase iniziale di quest’esperienza, ho volutamente parlato di un “cammino tutto in salita”. La diffusa percezione tra gli operatori del trattamento di essere pochi ed insufficienti, schiacciati da compiti routinari, implica conseguenze di non poco conto sul livello qualitativo e quantitativo delle prestazioni. La sensazione di solitudine, di scarsa gratificazione e l’assenza di progetti organici e finalizzati determinano fenomeni di corto circuito che limitano la propensione alla sperimentazione che, se da un lato viene vista come improponibile tenuto conto dei carichi di lavoro eccessivi, d’altro canto è l’unico modo per uscire da situazioni di stasi. Non è stato semplice anche solo soffermarsi sul fatto che il conto delle risorse umane e professionali disponibili può essere modificato dalla percezione che si vuole dare all’insieme delle persone che lavorano in un istituto penitenziario e non dei loro semplici ruoli formali. Se ad esempio si crede, come è diffuso fare, che solo la categoria degli educatori, o quella degli esperti ex art. 80 o.p. possono occuparsi del disagio, allora il conteggio delle risorse si attesta su numeri risibili ed insufficienti, confermando l’impossibilità di agire efficacemente. Ma se a questi si aggiungono anche i medici, i poliziotti penitenziari, gli assistenti volontari e gli stessi funzionari direttivi, certo ognuno con compiti e metodi diversi ma indirizzati verso un unico obiettivo, allora si scopre che il rapporto tra problemi e risorse si modifica e assume dimensioni accettabili. Si tratta in altri termini di superare le barriere culturali per le quali l’attenzione ad una persona detenuta è compito solo di una o alcune categorie professionali e percorrere un percorso più laico e pragmatico che, nel rispetto delle varie professionalità, sia in grado di costruire un’integrazione tra gli operatori impegnati a costruire un progetto su quella persona. La legge penitenziaria e le circolari ministeriali indicano chiaramente questa strada e danno ampia facoltà organizzativa in tal senso (Buffa, 2003) e la migliore e più aggiornata letteratura scientifica in materia lo sostiene ormai nettamente (Peloso, Ferranini, 2002) Tutte le figure citate hanno pieno titolo per occuparsi, a diversi livelli, dell’osservazione e dell’intervento sul disagio dei ristretti. Si tratta di modificare l’interpretazione delle proprie professionalità. Non è ovviamente sufficiente. Il dato organizzativo non è certo secondario. Abbiamo già sottolineato che l’instabilità e la circolazione non governata degli operatori all’interno dell’istituto annulla la possibilità di organizzare una rete che accolga qualunque iniziativa che si voglia dire strategica. I gruppi di attenzione, quindi, si sono fondati su una preliminare azione di scomposizione organizzativa dell’istituto che per la sua vastità non consentiva né la conoscenza né, tantomeno, l’aggregazione degli operatori, molti dei quali impegnati in turnazioni nell’arco delle ventiquattro ore o, comunque, con orari molto flessibili. Poliziotti, educatori, esperti ex art. 80 o.p., assistenti volontari, vicedirettori, sono stati tutti suddivisi e assegnati ai vari padiglioni con l’evidente obiettivo di creare gruppi stabili e ristretti in modo tale da facilitare la reciproca conoscenza del ruolo di ognuno, la specificità del loro contributo, le sue finalità, la sua utilità rispetto all’utenza ma anche rispetto al lavoro di ognuno degli altri operatori. Individuati i poli della rete si è agito sulla comunicazione che da impersonale è diventata personale e specifica nel senso che, oggi, è chiaro da chi parte e perché, come a chi e diretta. Questo ha facilitato la responsabilizzazione degli operatori anche se si deve contestualmente registrare la crescita di fenomeni ansiogeni, segno evidente che il sistema precedente, seppur sostanzialmente imperfetto, era, grazie alla sua vacuità ed autoreferenzialità, “protettivo” e “contenitivo delle ansie. L’ individuazione di punti di riferimento e di flussi di comunicazione in andata e in ritorno ha avuto quale corollario lo svilupparsi di interventi sempre meno individuali e sempre più integrati. Brevemente i “gruppi di attenzione”, da un punto di vista organizzativo, sono così sintetizzabili. Elemento importante è il filtro iniziale rispetto alle segnalazioni e alla loro discriminazione in ragione dei motivi dei comportamenti critici effettuata dai vicedirettori in sede di decisione dei registri mattinali. l’Ufficio Comando, gestito da operatori di polizia penitenziaria, ha a sua volta il compito di smistare celermente queste segnalazioni formali agli educatori, secondo la loro competenza per blocco. A questi ultimi il compito di valutare le relazioni di cui sopra, optando per sentire direttamente il soggetto o assegnarlo, in riferimento alla gravità del fatto e alle caratteristiche personali e penitenziarie del soggetto, ad un assistente volontario o ad un esperto ex art. 80 O.P. operanti nello stesso blocco. L’assegnazione è nominativa sulla base delle presenze di queste figure in istituto e obbliga il delegato a riportare il risultato conoscitivo dell’approfondimento. Gli educatori di riferimento valutano le risultanze di questi primi colloqui e i dati in loro possesso proponendo, se del caso, alla direzione, nelle persone dei funzionari delegati per ogni blocco e/o al direttore eventuali interventi di sostegno trattamentale che sono discussi in équipe. Quale valutazione è possibile dare a distanza di diversi mesi di attività? E’ sicuramente aumentata la capacità di interlocuzione con i soggetti che hanno espresso un disagio reattivo (tab.3). Se si pensa che antecedentemente alla costituzione dei “gruppi di attenzione” l’incontro tra un operatore ed il soggetto avveniva in modo estremamente disarticolato e questo determinava anche un notevole numero di mancati contatti, non quantificabili in assenza di un monitoraggio specifico, sono di tutto rispetto i dati rilevati che oscillano tra il 79.3 e il 97.5% degli avvenuti contatti sul totale delle segnalazioni. Trattandosi di un istituto metropolitano di grande dimensioni, soggetto ad un forte turn-over, i casi non intercettati devono essere considerati quali soggetti che sono usciti dall’istituto prima che un operatore potesse recarsi da lui per approfondire il suo caso.
Un altro indice di qualità è rappresentato dai tempi di reazione, ovvero dal tempo intercorrente dal momento della segnalazione a quello dell’incontro con il soggetto. I dati oggi a disposizione (tab.4) coprono i primi tre quadrimestri dell’intervento e consegnano risultati assolutamente degni di nota. L’attività del primo quadrimestre aveva segnato una rapidità d’intervento non particolarmente brillante. Si erano infatti registrati (Buffa, 2003) 32 casi di contatti intercorsi nei primi sette giorni dopo la segnalazione, pari al 47.8% dei casi riscontrati. Gli altri contatti, pari al 52.2%, erano intercorsi con tempi superiori alla settimana. Il secondo quadrimestre, corrispondente al periodo compreso tra il gennaio e l’aprile 2002, ha segnato un notevole incremento dei contatti avvenuti entro la prima settimana, 126 casi sui 147 registrati, pari all’85.7% dei casi, percentuale che sale all’87.6% nel terzo quadrimestre esaminato, 170 casi sui 194 registrati. Ma l’analisi nel dettaglio consente di scoprire che, in questi due ultimi quadrimestri, rispettivamente nel 35.3 e nel 37.1% dei casi i contatti avvengono nella stessa giornata della segnalazione. Se allarghiamo il range ai primi tre giorni dalla segnalazione scopriamo che in questo lasso di tempo avviene rispettivamente il 74.8 e il 79.4% dei contatti.
Un punto che deve essere ancora affrontato e migliorato è quanto avviene dopo il contatto e il feed back tra l’educatore che coordina l’intervento e l’operatore eventualmente incaricato. In altre parole, oggi, tale fase, che progettualmente è quella dedicata alla valutazione del caso e alla proposizione dell’intervento vero e proprio, non è ancora adeguatamente strutturata e lasciata, viceversa, all’iniziativa degli operatori coinvolti, in particolare agli esperti ex art. 80 o.p.. Questi sono professionalmente caratterizzati dalla propensione ad una presa in carico del soggetto di tipo individuale e non di gruppo. E’ parere di chi scrive che occorrerà approfondire tale argomento, tentando un tipo di risposta connotata maggiormente in termini interprofessionali.
La necessità di una bussola e le sorprese della conoscenza
Fin dall’inizio di questo cammino innovativo ci si rese conto della necessità di dotarsi di strumenti di misurazione dei fenomeni in questione. Un primo studio (Buffa, 2003) ha valutato la distribuzione degli eventi autolesivi nell’istituto, incrociando questo dato con altre variabili quali la vivibilità detentiva e la povertà dei detenuti. I risultati sono stati per certi versi sorprendenti. La prima evidenza è che non tutte le sezioni hanno “espresso” tale criticità e che, viceversa, alcune altre hanno visto l’assommarsi significativo di più casi. In prima battuta si è quindi ipotizzato che fossero le caratteristiche del regime detentivo a facilitare o limitare il disagio. La riflessione conseguente ha portato alla costruzione di un indice che abbiamo definito “grado trattamentale o di vivibilità detentiva” quale sintesi di alcune caratteristiche dei regimi detentivi delle varie sezioni. La distribuzione è stata quindi aggregata secondo una polarizzazione a secondo che tale grado fosse considerato alto o basso. Occorre meglio definire tali etichette. Il grado sarà considerato alto laddove avremo un regime detentivo che prevede un numero maggiore di ore di permanenza fuori dalla cella, un maggior numero di operatori trattamentali attivi nel reparto, una consistente presenza di opportunità di lavoro, studio, attività ricreativo-sportive, la prevalenza di condannati definitivi, un maggior livello di stanzialità ed una integrazione nel contesto penitenziario che possa definirsi quale una sorta di “approvazione sociale penitenziaria”. Tale indice sarà considerato basso in presenza di caratteristiche opposte con una prevalenza di soggetti non condannati ed in transito e collocati in reparti caratterizzati da una separazione dal restante contesto penitenziario e da una “disapprovazione sociale penitenziaria”. L’aggregazione dei dati della distribuzione generale secondo gli indici indicati ha evidenziato la non casualità del fenomeno e la bontà dell’ipotesi posta in campo. Le sezioni connotate da un basso indice trattamentale o di vivibilità hanno “espresso” l’85.1% dei casi critici rilevati nel quadrimestre. Quelle ad alto indice solo il restante 14.9%. Se poi si considera che dei 16 casi in questione, 7 afferiscono al reparto di osservazione psichiatrica, 5 alla sezione di degenza del Centro clinico dell’istituto e i restanti 4 alle sezioni “alta sicurezza”, l’ipotesi appare ancor più validata. Al primo studio se ne è affiancato un secondo finalizzato alla rilevazione delle condizioni di povertà nelle varie sezioni. I parametri impiegati sono stati da un lato una predefinita soglia della povertà individuale stabilita nella disponibilità individuale pari o inferiore ai 15 euro al mese e dall’altra in una percentuale di soglia di povertà di sezione pari o superiore al 25% delle presenze in una sezione di soggetti definiti “poveri” secondo il parametro individuale testé indicato. L’analisi in questione ha interessato solo 35 delle 44 sezioni che costituiscono l’insieme dei reparti detentivi dell’istituto di pena torinese, pari al 75 % del totale delle sezioni. Incrociando i dati della povertà con quelli del livello trattamentale e di vivibilità nelle 35 sezioni confrontabili si sono riscontrati risultati particolarmente significativi. Delle 14 sezioni definite “povere”, ben 12, pari all’85.7% del campione, sono connotate da un basso indice di trattamento e di vivibilità. Per converso delle 21 sezioni definite “non povere”, ben 16, pari al 76.2%, sono connotate da un alto indice di vivibilità.. Verrebbe da concludere che “piove sempre sul bagnato”. La stessa disaggregazione può essere letta in altro verso. Delle 18 sezioni connotate da un alto indice trattamentale solo 2, pari all’11.1%, sono contemporaneamente caratterizzate da un livello di povertà sotto la soglia prestabilita. Delle 17 sezioni interessate da un basso indice trattamentale la soglia della povertà è superata ben 12 volte, ovvero nel 70.6% dei casi. Escludendo la volontà cosciente di penalizzare le sezioni più povere limitandone le opportunità per migliorare il livello di vivibilità, rimane l’ipotesi che così come già Berzano (1994) e poi Racinaro (1996), ma prima di loro Goffman (1968), avevano indicato, le persone in carcere agiscano sulle proprie risorse e prospettive personali e sociali per trovare una migliore e più vivibile condizione detentiva. Significative, a tal proposito, le parole di Racinaro:”…la vera differenza, la linea di netta demarcazione, nel carcere, sta proprio qui. E’ la linea che divide chi, dopo, ha una prospettiva, sia pure incerta, sia pure esile e chi non ha nulla”. In questo modo si perpetua una società carceraria polarizzata tra soggetti “forti”, dotati di strumenti personali e trattamentali che consentono l’espressione e la soddisfazione di diritti e bisogni, e soggetti “deboli”, che per la loro marginalità ed incapacità non raggiungono tali obiettivi (in tal senso si veda anche Clemmer, 1941). Questa selezione “naturale” produce sacche di disperazione e disagio umano che si esprimono o attraverso l’esternazione plateale e strumentale o con l’introiezione silente ma gravissima dal punto di vista della destrutturazione psichica vera e propria. In tal senso si conferma la visione dell’autolesionismo quale strumento che conferisce ai più poveri e marginali “un potere contrattuale in un contesto che li priva sostanzialmente di qualsiasi potere” e che è ”rivolto a quelle figure istituzionali che detengono effettivamente qualche forma di potere” (Galliani I., 1990). Anche per altri Autori “una parte non trascurabile delle condotte autolesive in carcere rinvia al tentativo di riappropriarsi di un potere contrattuale attraverso l’unico mezzo che alcuni di essi percepiscono di avere a disposizione, e cioè il corpo. Non per niente i soggetti che mettono in atto tali condotte sono quelli che, anche tra i detenuti, hanno meno potere, vale a dire i soggetti più deboli (De Fazio G.L., Gualandri G., 1990). Al di là di queste considerazioni, che ci porterebbero lontano, i dati a disposizione hanno fornito utili indicazioni per una potenziale strategia di attenzione ed intervento preventivo. Da questi dati è infatti nato un secondo filone d’intervento denominato progetto S.a.r.a. (Sezioni ad alto rischio di autolesionimo).
Il progetto S.a.r.a.: il presidio della marginalità
L’idea è semplice. Consentire ad assistenti volontari penitenziari ex art. 78 o.p. specificatamente individuati di occuparsi, in modo stabile, di una sezione detentiva, scelta tra quelle che hanno espresso un maggior livello di autolesionismo e di disagio. L’attività di ascolto si svolge, dal mese di dicembre dello scorso anno, direttamente all’interno della sezione in giornate ed orari prestabiliti e noti a tutti, in modo da connotarlo in termini di servizio strutturato. L’ascolto non parte da una richiesta del ristretto ma da un approccio di accoglienza nei confronti di tutti e solo successivamente da richieste particolari. I risultati, anche in questo caso, sono stati molto interessanti. All’inizio non è stato semplice, da un lato modificare l’atteggiamento ed il comportamento degli assistenti volontari, abituati a spaziare per l’intero istituto sulla base delle “domandine” dei detenuti e delle conoscenza pregressa dei ristretti, d’altro canto anche il personale di polizia penitenziaria operante nelle sezioni ha fatto fatica ad accettare una tale “intrusione”. Gli stessi detenuti hanno espresso stupore e diffidenza nei confronti degli assistenti volontari che, senza richiesta esplicita, iniziavano ad occuparsi delle sezioni a loro assegnate. Oggi la situazione è ben diversa. Si apprezza ormai chiaramente un nuovo rapporto tra l’assistente volontario, il personale di polizia penitenziaria e i detenuti. La continuità e la regolarità del servizio ha consentito l’accettazione dell’assistente che è stato, con il trascorrere del tempo, percepito nella sua pratica utilità da parte degli altri due poli della triade, al punto che, partendo dalla naturale iniziale diffidenza nei confronti dell’intruso, ormai si registra la segnalazione da parte del personale di polizia dei casi più bisognosi di ascolto. Gli assistenti volontari impegnati sono 19 e coprono le 17 sezioni ritenute più ad alto rischio. I bisogni espressi dai detenuti contattati per il tramite di questo servizio sono essenzialmente d’ordine materiale e riguardano principalmente i contatti con l’esterno (familiari, legali, servizi sociali) e la soluzione di questioni pratiche all’interno dell’istituto (richieste per la fornitura di indumenti, cancelleria, sgabelli ed arredi della cella). Non possiamo dimenticare che tali bisogni, per un soggetto non particolarmente dotato ed in una condizione di “povertà” materiale degenerano spesso molto velocemente in un disagio agito contro se stessi e/o contro l’istituzione che lo detiene e contiene. L’azione degli assistenti volontari è pertanto di natura spiccatamente preventiva. In questa fase si sta lavorando su tre direttrici. Coordinare la soddisfazione dei bisogni espressi mettendo gli assistenti volontari in condizione di valutare quanto è legittimamente consentito offrire; costruire un programma di monitoraggio di tale servizio, in modo da valutare il suo impatto sul contesto nel quale agisce; ampliare il servizio anche in altre sezione alla luce delle caratteristiche problematiche delle stesse.
Il nocciolo duro del disagio: i quadri psicopatologici e l’intervento del Dipartimento di Salute Mentale.
Dal 1 giugno dello scorso anno è partito anche un ambizioso progetto per l’osservazione ed il trattamento dei quadri più spiccatamente psicopatologici da parte del Dipartimento di Salute Mentale “G Maccacaro” dell’Azienda Sanitaria Locale 3, in stretta collaborazione con la direzione della Casa circondariale. Il progetto, denominato Sestante, è stato finanziato nei primi dodici mesi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dalla Compagnia di San Paolo. Oggi il finanziamento è a carico totalmente alle due Fondazioni bancarie di Torino; infatti alla predetta Compagnia di San Paolo si è aggiunta la Fondazione della Cassa di Risparmio di Torino. Il servizio in questione intende riproporre integralmente le modalità di lavoro che il D.S.M. attua per i propri utenti territoriali, anche ai detenuti. L’intervento prevede un’attività consulenziale e una di osservazione e trattamento della patologia psichiatrica. L’attività consulenziale, precedentemente svolta da psichiatri libero professionisti organizzativamente svincolati da altre figure, ora è garantita dagli specialisti del D.S.M. che operano quotidianamente in tutte le sezioni dell’istituto su richiesta del medico di guardia o della direzione, per un totale di 20 ore settimanali. Questi interventi specialistici sono orientati alla diagnosi e all’impostazione terapeutica in caso di urgenza presso la sezione di appartenenza del soggetto in crisi. Il controllo ambulatoriale garantisce anche la valutazione costante dell’evoluzione delle condizioni psichiche di tutti quei detenuti sottoposti a grande o massima sorveglianza custodiale e ne determina la cessazione o la prosecuzione che, nei casi di massima sorveglianza, prosegue nel reparto di osservazione attrezzato e presidiato come di seguito verrà descritto. Viene garantito inoltre il controllo periodico delle condizioni cliniche per quei detenuti portatori di disturbo psichico per cui è in atto una terapia farmacologica di mantenimento. Vengono altresì sottoposti a controllo psichiatrico i detenuti tossicodipendenti che, terminata la terapia sostituitiva con metadone, presentino ancora una sintomatologia riferibile ad uno stato carenziale o di dipendenza. Nel corso dell’anno compreso tra il 1 ottobre 2002 e il 1 ottobre 2003 sono state effettuate circa 3000 consulenze specialistiche di questo genere su un totale di 1280 detenuti, a dimostrazione di monitoraggio clinico particolarmente capillare. Tra l’altro significativa pare la diminuzione dei piantonamenti a vista registrata nel primo semestre del 2002 rispetto al dato riferito al secondo semestre del 2001, pari al 35.9% (118 contro 184) La parte più significativa del progetto Sestante è però l’attivazione delle aree di osservazione e trattamento psichiatrico Due sono le sezioni detentive interessate, specificatamente attrezzate per accogliere soggetti portatori, o presunti tali, di quadri psicopatologici. Nella prima, destinata all’osservazione e all’accoglienza degli stati acuti, sono state previste telecamere a circuito chiuso controllate da una sala regia interna alla sezione stessa per ovviare, là dove disposto dal medico, alla sorveglianza a vista con piantonamento. Ogni cella è arredata in modo da facilitare il controllo e limitare le possibilità di tentare il suicidio. I posti a disposizione assommano a 23. In questo settore si procede all’inquadramento clinico-psichiatrico di tutte le situazioni di disagio psichico evidenziatosi durante la detenzione, sia che esso si manifesti in soggetti già precedentemente affetti da patologie psichiatriche sia che si tratti di detenuti privi di anamnesi psichiatrica positiva. Si svolge quindi il trattamento di situazioni cliniche acute. L’organizzazione del lavoro prevede un intervento prevalentemente individuale con visite mediche, controlli psichiatrici frequenti, colloqui psicologici regolari, intervento psicoeducativo mirato ai bisogni emergenti e la terapia farmacologia. La seconda sezione con una disponibilità di 30 posti è destinata all’accoglienza e al trattamento dei soggetti più compensati. Quest’ultimo reparto è organizzato in ragione di un più alto indice di socializzazione. Vi si attuano infatti tutte quelle attività prevalentemente gruppali tese al recupero delle abilità perse a causa del disturbo psichico e allo sviluppo di capacità di adattamento alla detenzione più funzionali; esso presenta una connotazione comunitaria di tipo riabilitativo e risocializzante maggiormente improntata all’intervento gruppale che prevede un regime custodiale attenuato con apertura alla socialità durante tutto il giorno, attività risocializzanti di gruppo, attività psicoterapiche in gruppo ristretto, possibilità di attività lavorative interne alla sezione oltre naturalmente ai controlli medici e psichiatrici e alle terapie farmacologiche necessarie. In sintesi nella prima sezione viene svolta un’attività di tipo diagnostico-terapeutica e, nella seconda, un’attività prevalentemente trattamentale-riabilitativa. Il passaggio dall’una all’altra sezione è previsto ed auspicato nei tempi più brevi possibili, compatibilmente con l’espressione sintomatologia del disturbo presente al momento. La decisione del passaggio viene proposta e valutata in equipe e viene successivamente disposta dallo psichiatra che ha in carico il caso. Il personale di polizia penitenziaria è organizzato in un raggruppamento scelto e stabile che interagisce con l’equipe medico-trattamentale in un’ottica spiccatamente multiprofessionale che utilizza l’integrazione dei saperi come principale strumento di osservazione e terapia. Il gruppo è composto da varie figure professionali dipendenti del Dipartimento di Salute Mentale “Maccacaro” dell’Azienda Sanitaria 3 di Torino. In particolare la copertura del servizio prevede la presenza di 4 ore al giorno di un medico psichiatra per un totale di 10 psichiatri coinvolti, 5 ore al giorno di uno psicologo per un totale di 5 psicologi, ai quali si aggiungono altri 2 psicologi che curano esclusivamente la formazione e la supervisione per 4 ore alla settimana a testa, 12 ore al giorno da parte di due educatori psichiatrici, 13 ore al giorno di figure infermieristiche per un totale complessivo di 15 infermieri coinvolti ed, infine, 3 ore settimanali di una assistente sociale. I risultati del primo anno di attività evidenziano dati particolarmente interessanti. Dal 1 giugno dello scorso anno al 31 maggio di quello in corso si sono registrati ben 334 ingressi nel reparto in questione. Di questi 89, pari al 26.6%, erano cittadini stranieri. Il progetto Sestante non risponde solo alle esigenze del carcere torinese. Il 55% dei casi trattati sono stati trasferiti da altri istituti di pena da parte del Dipartimento e dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria e, in alcuni casi, dalla Magistratura. Una delle critiche che sono state avanzate all’iniziativa già nel corso della sua ideazione era quella che paventava la possibilità di creare una struttura psichiatrica detentiva finalizzata al mero internamento. Uno dei dati più significativi, quindi, è quello relativo alla permanenza dei soggetti inviati. Il 63.9% di questi permane nella struttura meno di tre mesi, un ulteriore 19.0% da tre a sei mesi e solo l’8.3% per periodi superiori a questo termine (l’ 8.8% rimanente è allo stato presente). Risulta evidente la “fluidità” temporale dell’intervento e, di conseguenza, la chiara volontà di scongiurare una struttura per cronici indesiderati Tra l’altro uno degli obiettivi che ci si è posti è quello di entrare in contatto, con il consenso dei ristretti, con i D.S.M. di competenza territoriale sulla zona di residenza degli stessi in modo da attivare una possibile presa in carico al momento dell’eventuale scarcerazione.
L’andamento del disagio
L’andamento degli eventi critici (tab.5) può essere assunto come un indicatore spurio per valutare l’impatto dei vari interventi descritti. Se rapportiamo i valori con il numero di ingressi annui in istituto risulta molto chiaramente il dimezzamento dei tentati suicidi nel biennio 2001/2002 rispetto al biennio precedente (20 – 25 casi contro i 41 all’anno del periodo precedente. Dal 14 aprile del 2001 a tutt’oggi non si sono registrati suicidi contro i dieci casi registrati nel periodo precedente. Anche l’autolesionismo pare in decremento percentuale con picchi che vanno dal 3.2% sul totale delle presenze del 2000 all’1.9% del primo semestre del 2003. A quest’ultimo proposito si sottolinea che sia i “gruppi di attenzione” che l’intervento psichiatrico proprio del progetto Sestante non si pongono obiettivi di prevenzione bensì di ascolto e cura post factum. Solo il progetto S.a.r.a. ha finalità preventive. In tal senso il dato dell’autolesionismo che, così come ampiamente dimostrato dalla letteratura citata sull’argomento, assume connotazioni rivendicative poste in essere da soggetti fortemente deprivati, potrebbe ulteriormente diminuire a fronte della messa a regime delle attività spiccatamente preventive dei gesti di natura rivendicativo strumentale del progetto S.a.r.a. Solamente il monitoraggio futuro potrà lasciarci intravedere un possibile effetto. Difficile comunque sostenere che questi dati, di cui si da una valutazione positiva, siano direttamente e soprattutto esclusivamente connessi agli effetti dei vari interventi posti in essere. Certo è che si può oggi apprezzare una rete diffusa e più cosciente di operatori che si muovono in un contesto organizzato finalizzato all’attenzione e alla prevenzione del disagio. Questo ha determinato l’innalzamento del livello delle relazioni interprofessionali, generandosi, in tal modo, un “clima” orientato al comune fine dell’attenzione al fenomeno del disagio psichico e comportamentale. Significativo, a questo proposito, il dato relativo al rapporto tra i casi di autolesionismo e il numero di segnalazioni ai gruppi di attenzione che nel 2002 era di 226 su 701, segno della maggiore sensibilità complessiva. A questo devono aggiungersi i vari interventi descritti e curati dagli assistenti volontari e dell’equipe del D.S.M.. Tra l’altro il concetto di “clima” è stato più volte rimarcato nel corso delle riunioni organizzate dall’U.M.E.S. (Unità di Monitoraggio degli Eventi Suicidiari; un gruppo di studio voluto dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per valutare il fenomeno e proporre interventi utili per il suo contenimento e contrasto) con i direttori degli istituti penitenziari che hanno registrato casi di suicidio nel corso degli ultimi quattro anni, e citato quale elemento fondamentale e discriminante nel determinare il successo o meno di una efficace prevenzione degli eventi autolesivi.
Conclusioni e prospettiveConcludendo si è dato conto di un processo progressivo di analisi organizzativa ma anche culturale, tuttora in divenire, finalizzata a migliorare l’intercettazione e la gestione dei casi di disagio espresso da persone ristrette in un grosso carcere metropolitano.
Il lavoro svolto si è via via incrementato di nuove iniziative che si sono successivamente integrate in un sistema sempre più articolato. Ma non è tanto il dato strutturale od organizzativo che deve essere sottolineato, quanto quello umano e, in particolare, quello percettivo e volitivo, che risulta trasformato in ragione dall’uscita da schemi rigidi circa l’agire dei rispettivi ruoli e funzioni. La sofferenza umana e materiale pare essere sempre più una competenza ed un onere collettivo, semmai da segnalare ad altri per aspetti specifici e particolari ma la cui intercettazione riguarda tutti. Per fare questo si è dovuto mettere in azione un grosso sforzo di analisi e riflessione che non può arrestarsi nel momento in cui si registrano i primi risultati ma che, viceversa, deve continuare sulla base di un sistema di monitoraggio dei fenomeni e delle loro dinamiche il più possibile strutturato. Ma si è dovuto anche far conto sulle capacità degli operatori di uscire da schemi d’intervento rigidi, preconfezionati, per molti versi paradossali e peggiorativi per le condizioni di vivibilità dei detenuti oggetto degli interventi stessi, purtuttavia rassicuranti e deresponsabilizzanti per gli operatori che li disponevano e li attuavano. Ci vuole indubbiamente molta buona volontà e capacità di critica che si spinge sino alle proprie azioni e convinzioni, forti solamente di alcune poche certezze. Tra queste da citarsi, in quanto fondamenta di tutto il sistema descritto, quella per cui una corretta e concreta attenzione ai problemi può sicuramente non essere sufficiente ad escludere errori di valutazione ma consente di dimostrare che, più che sulle “carte”, si è concretamente cercato di gestire la criticità e il disagio dell’individuo a noi affidato. La seconda è che evitando di ricercare “l’infallibilità burocratica” si possono limitare alcuni dei paradossi che quotidianamente verifichiamo, atteso che non è certamente l’infallibilità che si ricerca quanto la serietà e la fondatezza degli interventi. In questo modo si è andati verso un sistema che tende alla depsichiatrizzazione e alla depsicologizzazione dell’intervento e vede il confluire di molte altre figure professionali e anche atecniche e aprofessionali, in una logica che intende mettere in crisi le prassi autoreferenziali che tendono a rendere omogenei fenomeni spesso diversi al punto da “normalizzarli” e delegarli a ruoli sempre più tecnici ed isolati. A tutto questo si è aggiunta la riflessione e la modifica del piano organizzativo del quale si sono presi in esame la tenuta e i livelli di comunicazione, fondamentali se si intende far circolare la conoscenza dei problemi e dei passi intrapresi da questo o da quell’operatore in ragione di un lavoro che deve, necessariamente, essere il più integrato possibile. Anche in questo caso solo da qualche mese gli operatori iniziano a riconoscere che la suddivisione in gruppi ristretti e vincolati ciascuno a parti ben definite dell’istituto ed una comunicazione più circolare consentono un lavoro più efficace. L’indefinitezza precedente consentiva la possibilità di occuparsi di alcune parti o soggetti, trascurandone altre, in ragione di una competenza altra che non fosse la propria. Come accennato il cammino non può considerarsi finito. E non solo perché i fenomeni si modificano con il tempo e quindi implicano una riflessione continua, ma anche perché i servizi posti in essere, le metodologie applicate, la loro integrazione e i loro livelli di comunicazione necessitano di ulteriori verifiche sulla base di un sistema informativo omogeneo e ben organizzato. Si pensi, ad esempio, al presidio “nuovi giunti” e ai suoi limiti strutturali e metodologici, ma anche ai”gruppi di attenzione” alla loro capacità di intercettazione, reazione, ma soprattutto d’intervento integrato che, allo stato, necessita di una progettazione più approfondita. Oltre a ciò si aprono anche prospettive nuove da percorrere. Si ipotizza, infatti, di integrare il sistema descritto percorrendo alcune direttrici. Innanzitutto “la creazione di un sistema di intercettazione del disagio e dei comportamenti a rischio prima dell’ingresso in istituto” E’ infatti possibile stimolare e facilitare la segnalazione di pregresse situazioni psicopatologiche o di forte disagio psichico dall’esterno del carcere accordandosi, ad esempio, con l’Ordine degli Avvocati e i Dipartimenti di salute mentale che possono essere a conoscenza di problematiche psicopatologiche o di pregressi tentativi di suicidio da parte dei loro assistiti. Analogamente anche nei confronti dei Procuratori della Repubblica e dei Giudici delle Indagini preliminari potrebbe crearsi un canale di comunicazione privilegiato e standardizzato in modo da consentire loro di segnalare l’ingresso di soggetti che, in sede di interrogatorio o giudizio, hanno evidenziato problematiche psicopatologiche rilevanti o intenzioni suicidiarie In ragione dell’integrazione istituzionale anche il Centro di Servizio Sociale Adulti potrebbe connettersi con l’Istituto per la segnalazione di eventuali rientri in istituto per revoca di una misura di detenuti portatori di disagio psichico affidati al Centro stesso. Il miglioramento della “capacità diagnostico – prognostica” del Presidio “nuovi giunti” costituisce una seconda direttrice ipotizzabile. In tal senso, a Torino, qualche passo è già stato effettuato attraverso la ridefinizione dei criteri diagnostici così come riportati dalla circ. 3233/5683 del 30.12.1987; in particolare si è svolta una lettura critica individuale e plenaria con gli Esperti ex art.80 O.P. operanti nel Presidio NG e gli Esperti Psichiatri convenzionati, finalizzata ad ottenere una griglia di criteri omogenea e condivisa tra gli operatori del presidio. Questo ovviamente non è sufficiente e il processo dovrebbe proseguire attraverso il monitoraggio costante della coerenza dello strumento così ridefinito ponendo in relazione la prognosi di rischio stabilita all’ingresso e il comportamento futuro del soggetto. Il miglioramento della capacità di intercettazione del disagio all’interno dell’istituto costituisce la terza direttrice. In tal senso occorre migliorare la sensibilità di ascolto e attenzione degli operatori penitenziari. Si pensa perciò di elaborare e diffondere un “protocollo osservativo – diagnostico” ad uso della Polizia penitenziaria e degli Assistenti volontari Occorre inoltre continuare a perseguire l’analisi e la realizzazione di filiere comunicative efficaci tra chi rileva comportamenti o stati di disagio e chi se ne deve materialmente occupare. L’ultima direttrice è quella della predisposizione di supporti e metodologie strutturali. Alcuni, come abbiamo visto, sono già stati attivati come l’allestimento di spazi idonei per il trattamento dei casi di spiccata valenza psichiatrica, il posizionamento di telecamere nelle celle del reparto di osservazione in modo da consentire, nei casi dovuti, la sorveglianza continua e a vista, l’individuazione di gruppi fissi di operatori suddivisi per padiglione in modo da facilitare la comunicazione e l’interazione. In aggiunta si renderebbe opportuno predisporre l’ elaborazione e la diffusione di protocolli custodiali operativi (procedure di controllo, perquisizione, oggetti ed arredi consentiti, ecc.) in modo da ottenere una prassi consolidata di attenzione e prevenzione anche dal punto di vista custodiale.
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