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Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia
Seminario nazionale "Carcere e salute" Padova, 17 maggio 2003
Claudio Sarzotti, docente Università di Torino
Il mio compito di oggi è quello di parlare di una ricerca, sulla sanità penitenziaria, che ho condotto recentemente, per conto dell’Associazione "Antigone" di cui faccio parte. Però, prima di parlavi di questa ricerca, i cui dati sono ancora in fase di elaborazione, vorrei fare qualche considerazione di carattere teorico. Io ho studiato, nella mia prospettiva di sociologo del diritto della vita carceraria, le ambiguità esistenti all’interno dell’universo carcerario e il conflitto, più o meno sommerso, tra i vari gruppi che compongono l’universo carcerario. E farei mie le parole del professor Merluzzi, che mi ha preceduto, sulla centralità del concetto di relazione, che ovviamente nel suo caso è più in una prospettiva di relazione interpersonale, anche terapeutica, mentre nella mia prospettiva di sociologo è più una prospettiva di relazione tra gruppi, o tra gruppi di persone che si percepiscono professionalmente diverse dalle altre. È molto importante, secondo me, concentrare l’attenzione sulle relazioni tra i gruppi che lavorano all’interno del mondo carcerario e quelli che si occupano di carcere, in qualche modo, pur rimanendo all’esterno. Solitamente la sociologia della vita carceraria si è molto concentrata sull’analizzare le culture professionali presenti all’interno del mondo carcerario, secondo me invece è molto importante analizzare le culture, professionali e non, di quei soggetti che lavorano all’interno ma hanno un radicamento nella società libera. Nella prospettiva dello studio dei conflitti che insorgono tra i gruppi degli operatori penitenziari, c’è tradizionalmente una contrapposizione, un conflitto più o meno sommerso, tra i gruppi che appartengono al cosiddetto settore trattamentale e quelli del cosiddetto settore custodiale: ho cercato, nelle mie precedenti ricerche, di contrapporre una cultura giuridica e professionale di tipo paterno, che caratterizzerebbe gli operatori del custodiale, con una cultura giuridica e professionale di tipo materno, che caratterizzerebbe gli operatori del trattamentale. In questa dicotomia, direi che esiste un terzo gruppo, che è quello che ho cercato di analizzare più in dettaglio con questa ricerca, che è il gruppo degli operatori penitenziari che si occupano di sanità penitenziaria, che non possono essere collocati in maniera netta né con la cultura professionale e giuridica del custodiale, né con quella del trattamentale. Mi pare importante e mi pare che la sociologia della vita carceraria, soprattutto di stampo francese (cito qui una ricerca di Bruno Migli, che è stata recentemente pubblicata in Francia e che secondo me è una delle più importanti di questi ultimi anni sulla sanità penitenziaria francese). Bruno Migli ha sottolineato molto bene l’importanze di studiare la cultura professionale dei soggetti che lavorano all’interno del carcere per ricostruire le dinamiche, gli atteggiamenti e le rappresentazioni sociali esistenti nell’universo carcerario. E un’esperienza comune degli operatori che si occupano di carcere è quella, a volte, della percezione di una scarsa o problematica professionalità degli operatori, soprattutto per quanto riguarda il custodiale. Ecco, io credo che studiare la cultura professionale degli operatori trattamentali, sanitari, e custodiali sia anche, in qualche modo, studiare i rapporti di potere che insorgono tra questi gruppi all’interno dell’universo carcerario. Quando parlo di cultura professionale, faccio riferimento a quell’insieme di rappresentazioni, atteggiamenti, valori, percezioni, che i vari gruppi hanno della propria professione e di quella degli altri, cioè di quella dei gruppi che collaborano all’interno del carcere. Questo insieme di culture professionali secondo me è molto importante per quella che Webber avrebbe chiamato la legittimazione del potere dei gruppi di operatori all’interno dell’universo carcerario. Mi pare di poter dire, molto schematicamente, che ci troviamo di fronte a tre tipi di legittimazione del potere, quando parliamo di custodiale, trattamentale e sanitario, nel senso che fondamentalmente gli operatori della sanità penitenziaria fondano la legittimità del proprio intervento su un sapere tecnico, gli operatori del trattamentale fondano il loro potere non tanto su un sapere tecnico quanto su un’empatia morale nei confronti dei detenuti, quindi il sapere tecnico dell’educatore, piuttosto che dell’assistente sociale o dello psicologo, è un sapere molto meno legittimato, nell’ambito della cultura carceraria (l’ho potuto constatare in ricerche, precedenti a questa, ed emergeva in maniera molto netta). Quindi il potere dell’operatore del trattamentale è ancora un potere fondamentalmente basato sul fatto che l’operatore del trattamentale sta dalla parte del detenuto, è il "buono", che cerca in qualche modo di aiutare a reinserire. Non è che questo in realtà sia così: sto parlando di percezioni. Anzi, poi c’è un’ambiguità: io ho parlato di cultura materna dell’operatore del trattamentale perché c’è una forte ambiguità, quindi poi il pericolo che non ci sia un rapporto adulto tra l’operatore e il detenuto, ma questo vale ovviamente per tutti gli operatori sociali, non solo per quelli del trattamentale carcerario. Abbiamo poi, paradossalmente, un potere non legittimato, da parte dell’operatore del custodiale, che non ha dalla sua né un sapere tecnico, né una valenza morale, nel proprio agire. Quando noi intervistiamo un agente di polizia penitenziaria, lui non sa bene dirci qual è l’obiettivo del suo lavoro, non sa che professione va a svolgere, perché non sa esplicitare qual è il sapere tecnico che utilizza. Poi, in realtà, utilizza un sapere pratico, a volte molto complesso e tutt’altro che rozzo, ma di fatto gli agenti non sanno esplicitarlo e, quindi, fondamentalmente, il potere degli operatori del custodiale è un potere non legittimato. È un potere di fatto, perché ovviamente nella gestione della vita carceraria il fatto di chiudere o aprire un cancello è un fatto estremamente importante (i tempi in cui si apre o si chiude un cancello diventano fondamentali), ma non è legittimato, quindi produce, rispetto alla percezione dell’agente di polizia penitenziaria, tutta una serie di forme di disagio che poi si estrinsecano in diversi modi. Tornando al sapere tecnico degli operatori sanitari penitenziari, mi pare importante sottolineare come questo potere è stato studiato soprattutto nella situazione francese, dove con la riforma del 1994 c’è stato il passaggio totale della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Bruno Migli ha studiato molto bene l’aspetto dell’incremento del potere tecnico degli operatori della sanità penitenziaria, con l’avvenuto trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale. Quindi mi sembra che le resistenze che ci sono state nei confronti della riforma italiana, anche nell’ambito della medicina penitenziaria, siano resistenze di corto respiro, cioè ho l’impressione che non si rendano conto, neanche i medici penitenziari, che in realtà un passaggio al Servizio Sanitario Nazionale sarebbe produttivo anche dal punto di vista dei rapporti all’interno del carcere. Dove si fonda questo potere? Soprattutto su una sempre maggiore autonomia gestionale e organizzativa della sanità penitenziaria rispetto alle direzioni degli Istituti. Bruno Migli ha studiato questo molto bene e ha visto come il potere dei medici penitenziari si sia incrementato, dopo la riforma, proprio perché è un sapere tecnico, che quindi è, almeno da un punto di vista organizzativo e gestionale, scollegato dalle esigenze securitarie a volte tipiche delle direzioni degli Istituti e, quindi, questo ha prodotto una maggiore legittimità d’intervento da parte della sanità penitenziaria. Quindi una maggiore indipendenza della sanità penitenziaria rispetto all’amministrazione penitenziaria, un maggiore collegamento del Servizio Sanitario Penitenziario con il Servizio Sanitario esterno, il che rende anche più facili i rapporti professionali del medico con la propria categoria nella società libera. E questo, ovviamente, potenzia molto la professionalità dell’operatore sanitario, cioè rende i medici che lavorano in carcere molto più simili a quelli che lavorano all’esterno, dà una maggiore legittimità, una maggiore autorevolezza all’intervento del medico penitenziario. Poi, ancora, il terzo elemento che sottolinea Migli, è la priorità del diritto alla salute rispetto alle esigenze securitarie: tradizionalmente in carcere il diritto alla salute ha sempre un limite, laddove iniziano i problemi della sicurezza. Il passaggio alla Sanità pubblica in Francia, secondo Migli, ha fatto sì che in maggior misura si dia priorità al diritto alla salute rispetto alle esigenze securitarie. Questi cambiamenti di carattere organizzativo e gestionale hanno modificato la cultura professionale degli operatori, ma poi si sono anche tradotti in conseguenze pratiche, che riguardano la gestione concreta degli Istituti. In particolare, ricorda Migli, su due fondamentali aspetti: il primo è quello della gestione del tempo, cioè della capacità del Servizio Sanitario Penitenziario di intervenire tempestivamente sui problemi sanitari, cosa che ovviamente è fondamentale per la buona riuscita degli interventi sanitari e, seconda questione, l’intervento della Sanità Penitenziaria sui cosiddetti eventi critici che si producono all’interno del carcere, vale a dire episodi di violenza, episodi di autolesionismo, suicidi e tentati suicidi, i problemi di carattere psichiatrico. Tutta una serie di questioni sulle quali poi si scatena il conflitto di competenza tra la direzione, che tendenzialmente fa prevalere le esigenze di sicurezza, che hanno poi anche una loro legittimità, e la Sanità Penitenziaria, la cui mission è invece tutta collocata sul versante della tutela del diritto alla salute del detenuto. Adesso vorrei esporre alcuni dei risultati di questa ricerca, finanziata dall’Istituto Superiore di Sanità sui bandi specifici della prevenzione alla diffusione del virus HIV. Quindi noi abbiamo avuto come focus principale il tema della prevenzione all’HIV, ma abbiamo cercato di costruire uno strumento che ci consentisse di fare delle considerazioni più ampie sulla Sanità Penitenziaria. Abbiamo deciso di intervistare un campione di operatori sanitari, divisi in due grossi settori: da un lato i dirigenti sanitari e, dall’altro lato, i medici che non sono dirigenti sanitari, avendo quindi come obiettivo quello di fare un confronto. Abbiamo costruito due questionari, molto simili, per i dirigenti sanitari e per i non dirigenti sanitari, in modo tale da vedere la differenza tra la percezione che hanno i dirigenti sanitari (e, parlando di dirigenti sanitari, pensavamo alla percezione che ha l’Amministrazione penitenziaria) e quella di operatori sanitari che dovrebbero avere una maggiore autonomia, una maggiore indipendenza rispetto all’Amministrazione penitenziaria. Dirò subito che nei primi risultati, in realtà, questa differenza tra il campione dirigenti sanitari e il campione non dirigenti sanitari, non c’è. Abbiamo notato, quindi, un certo appiattimento delle due posizioni e questo potrebbe fa pensare che, in realtà, anche i medici che non sono dirigenti sanitari, ma che lavorano all’interno degli istituti, in qualche modo abbiano interiorizzato determinati status mentali, rappresentazioni, atteggiamenti simili ai dirigenti sanitari. È importante dire che fare una ricerca in carcere non è come fare una ricerca demoscopica, o di mercato, nella società esterna. È molto difficile fare queste ricerche, non a caso in Italia ce n’è molto poca di ricerca fatta sugli operatori penitenziari, perché ci vogliono tutta una serie di autorizzazioni. Anche noi abbiamo avuto dei problemi ad avere le autorizzazioni, il ministero ci ha controllato esattamente le domande e abbiamo trovato difficoltà notevoli, soprattutto in alcune regioni italiane (il campione degli intervistati è stato raccolto in sette regioni: Piemonte, Triveneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Puglia). L’obiettivo era di raggiungere i 200 questionari e, al momento, ne abbiamo raccolto circa 140, quindi vi darò le prime elaborazioni rispetto a questi 140 questionari. Vi dicevo che abbiamo avuto delle resistenze, non del tutto secondarie, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, e soprattutto abbiamo trovato delle resistenze da parte di dirigenti sanitari di singoli Istituti penitenziari. In alcune regioni c’è stata proprio una divisione tra chi aderiva alla ricerca e, quindi, ha deciso di collaborare, e chi ha rifiutato di compilare il questionario, che pure era stato approvato e autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Vi do alcune indicazioni soprattutto su quella che è la struttura del questionario. È un questionario piuttosto complesso, quello per i dirigenti sanitari ha addirittura 124 domande, quindi richiede una partecipazione piuttosto forte da parte dell’intervistato. La preparazione del questionario è stata fatta anche con la collaborazione di alcuni medici penitenziari, tra l’altro con il dottor Libianchi, che oggi è qui presente e che ringrazio pubblicamente. Nel questionario c’è tutta una parte riguardante le strutture sanitarie, quindi chiediamo al dirigente sanitario una serie di informazioni sulle strutture sanitarie esistenti nel suo Istituto e sul funzionamento di queste strutture. Alcune informazioni che riguardano il personale sanitario dell’Istituto stesso. Poi una serie di domande che riguardano la fase di ingresso in carcere, che come sappiamo è molto delicata, da un punto di vista sia sanitario sia psicologico. Una serie di domande che riguardano le visite mediche specialistiche che si svolgono all’interno degli Istituti, gli esami di laboratorio e i ricoveri esterni ospedalieri, che è un altro nodo fondamentale dell’efficienza del Servizio Sanitario Penitenziario. Poi c’è una parte relativa agli interventi d’urgenza, quindi a quegli interventi nei quali il tempo ha un grosso peso, quindi gli interventi d’urgenza sugli eventi critici e sulle situazioni d’urgenza dal punto di vista medico. Abbiamo una parte relativa alle patologie più diffuse all’interno degli Istituti, una parte, ovviamente abbastanza cospicua, dato il bando nel quale eravamo collocati, riguarda i progetti di prevenzione e di informazione sanitaria per i detenuti sieropositivi, o comunque per la popolazione detenuta e per gli operatori penitenziari, riguardo alla diffusione dell’HIV. C’è una parte relativa all’assistenza delle persone detenute tossicodipendenti ed alcoliste e poi anche una parte, interessante, sull’approvvigionamento e sulla qualità dei farmaci e sulla somministrazione dei farmaci all’interno dell’universo carcerario. Naturalmente nel questionario non chiedevamo solamente dati oggettivi, dati statistici, ma chiedevamo tutta una serie di informazioni dove dovevano emergere le percezioni, gli atteggiamenti, le rappresentazioni che gli operatori sanitari hanno rispetto a queste tematiche. Chiedo scusa se l’analisi dei dati sarà in qualche modo impressionistica, perché si tratta veramente di dati sfornati pochissimo tempo fa, quindi darò qualche indicazione di massima sulle cose che mi sembrano più interessanti, facendo solo un’analisi delle frequenze che sono emerse. Il campione, al momento, è di 140 questionari, di cui 47 dirigenti sanitari e 93 medici non dirigenti sanitari, quindi un campione leggermente sbilanciato sui medici non dirigenti, proprio perché in alcuni Istituti da parte dei dirigenti c’è stata una maggiore propensione al rifiuto all’intervista, a resistenze di carattere istituzionale e professionale.
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