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Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia
Seminario nazionale "Carcere e salute" Padova, 17 maggio 2003
Susanna Ronconi, Gruppo Abele, Torino
Io vi presento un lavoro di ricerca che ha a che fare con la salute in carcere e, in modo particolare, con tutta la questione HIV/AIDS, che è stato promosso dal Centro studi e ricerche del Gruppo Abele di Torino, in partnership con il Coordinamento nazionale dei giornali dal carcere. Questo non è solo un progetto di ricerca (poi vi dirò brevemente quali erano gli obiettivi di questa ricerca, come è stata svolta, e vi anticipo i primi risultati). Il rapporto non è ancora pubblicato, siamo in attesa dell’autorizzazione dell’Istituto Superiore di Sanità, che è il committente nonché il finanziatore di questo lavoro. Il progetto ha dunque una duplice finalità. La prima è una finalità propriamente di ricerca sociale e l’altra è una finalità più operativa, cioè avevamo l’ambizione, con questo progetto, di rilanciare una campagna di informazione, sensibilizzazione e prevenzione, in relazione all’HIV, sperimentando anche qualche modalità diversa nel processo comunicativo che sta alla base di questa campagna. Cercherò di raccontarvi anche come abbiamo intenzione di muoverci, rispetto a questa seconda parte. Come ci è venuto in mente di fare questo tipo di ricerca? Storicamente il Centro Studi del Gruppo Abele si è sempre occupato di ricerca sociale, sia sul carcere che sull’AIDS, quindi è un terreno che ci è noto e che ci sta anche particolarmente a cuore. Secondariamente, ci sembrava importante aggiornare un po’ le nostre conoscenze su questo, perché abbiamo rilevato, con dati empirici di conoscenza delle situazioni carcerarie, attraverso la nostra osservazione ma anche un po’ attraverso la letteratura, soprattutto a livello europeo, sembra abbastanza evidente che nella seconda parte degli anni 90 sia sostanzialmente calato l’impegno nel lavoro di informazione e prevenzione sull’AIDS, a fronte anche di quello che possiamo definire un processo di normalizzazione della malattia. Cioè le nuove terapie, introdotte negli ultimi anni, la stanno trasformando in una malattia cronica, grave ma cronica, che in qualche modo può essere tenuta sotto controllo e rispetto alla quale le persone con AIDS possono avere una speranza di vita che oggi può essere significativa. Allora, questo aspetto, che sicuramente è positivo, ha portato con sé, probabilmente, un abbassamento dell’attenzione per quanto riguarda l’informazione e la prevenzione. E questo soprattutto per alcuni tipi di popolazione, come gli adolescenti. Due anni fa, come Centro Studi del Gruppo Abele abbiamo condotto una ricerca europea su cosa si fa per fare prevenzione tra gli adolescenti e avevamo in effetti verificato, a livello europeo, che la seconda parte degli anno 90 avevano visto un sostanziale disimpegno, da questo punto di vista. L’altra popolazione oggetto di questo disimpegno, a livello europeo, era proprio la popolazione detenuta, quindi ci sembrava interessante, ma anche urgente, aggiornare le nostre conoscenze su che cosa questa popolazione sa di questa malattia, qual è la percezione del rischio e cosa si fa, in ambito penitenziario, per continuare a fare prevenzione. La terza motivazione è che la prevenzione sull’HIV in ambito penitenziario, a livello nazionale, c’è stata ma c’è stata in maniera non soddisfacente, non coordinata e, sicuramente, a macchia di leopardo. Quindi noi abbiamo degli istituti penitenziari in cui si è lavorato egregiamente, ma abbiamo anche delle situazioni dove il silenzio è stato quasi totale, quindi c’era anche una responsabilità, in questo lavoro, di rilancio della prevenzione. Ultimissima cosa, nelle poche ricerche che ci sono, sull’HIV in carcere, è a tutt’oggi dominante la voce e il punto di vista degli operatori penitenziari. È molto più silenziosa e meno ascoltata la voce della popolazione detenuta. Questo non credo per perversa volontà di qualcuno, forse anche perché fare ricerca con i detenuti, dentro il carcere, non è semplicissimo. Però con questo lavoro voglio anche comunicare questo fatto, che non è semplicissimo ma è possibile. Noi abbiamo avuto delle difficoltà, perché nonostante alla fine abbiamo avuto l’autorizzazione dal dipartimento della amministrazione penitenziaria, questa autorizzazione l’abbiamo aspettata dieci mesi e stavamo rischiando di dover telefonare a Roma, all’Istituto Superiore di Sanità e dire: guardate, grazie, ma non ce la facciamo. Perché, come Centro Studi del Gruppo Abele non abbiamo detto: bene, ce lo facciamo da soli, questo progetto? In fondo siamo dei ricercatori, possiamo farci la nostra ricerca, abbiamo esperienza sull’AIDS e possiamo anche produrre la nostra campagna informativa. Cioè, perché siamo andati a cercare questa partnership con il Coordinamento dei giornali? La risposta sta in questa lapidaria frase di Michael Foucault, tratta da "Sorvegliare e punire", che è una sinteticissima massima descrizione di uno dei meccanismi che sta alla base del carcere: "Il detenuto è oggetto di informazione, mai soggetto di comunicazione". È una frase che io condivido molto, perché secondo me è molto efficace, e che però proprio in un lavoro sulla salute ci pone non pochi problemi. Il fatto che il detenuto ricava continuamente messaggi e non sia esso stesso il soggetto di una comunicazione, cioè che i gradi di libertà all’interno dell’istituzione non siano sufficienti a garantire un suo protagonismo e una sua reale attivazione rispetto alla sua vita, tutto questo per fare lavoro di promozione della salute è un ostacolo enorme. Perché il lavoro di promozione della salute non è un lavoro che fanno i tecnici, o le tecnostrutture sanitarie preposte, ma il lavoro di promozione della salute è un lavoro che i soggetti fanno per sé, a partire dalle proprie culture, dalla propria idea di salute. E l’idea di salute è fortemente legata alla propria soggettività, alla propria idea della vita e, quindi, il prodotto salute è prima di tutto il prodotto di una possibilità dei soggetti di attivarsi per se stessi. Questa sembra una contraddizione insanabile: come si fa a fare un lavoro sulla salute, che chiede il protagonismo dei soggetti con i quali noi vogliamo lavorare, in un’istituzione che non consente questo tipo di protagonismo. Personalmente, io ho un pessimismo cosmico, su questa domanda, al contempo il gruppo che ha lavorato a questa ricerca ha anche il "famoso" ottimismo della volontà, nel senso se è vero che è davvero difficile spostare la potenza di questo meccanismo, possiamo nel nostro piccolo innestare dei processi e qui parlo, in particolare, del discorso sulla salute, che provino ad aprire degli spazi in questo senso. Allora, ritorno al discorso del perché i giornali del carcere. Perché queste testate sono un veicolo di possibile attivazione delle persone detenute anche sul tema della salute. I giornali del carcere sono dei gruppi di detenuti che prendono l’iniziativa, che producono cultura, che danno voce e che esprimono la propria soggettività. Abbiamo pensato che potesse essere un’alleanza necessaria con un soggetto attivo all’interno dell’istituzione, che pure funziona su quel meccanismo ma che forse, incontrare questo soggetto attivo e protagonista ci consentiva di fare un discorso sulla salute con qualche chance in più. Come abbiamo lavorato? Abbiamo costruito una ricerca che possiamo definire una ricerca – azione, nel senso che abbiamo fatto il questionario, abbiamo raccolto le nostre informazioni, ma lo abbiamo fatto in questo processo di coinvolgimento attivo degli attori. Quindi una ricerca che conosce e, al contempo, modifica un po’ la realtà che vuole conoscere. Abbiamo poi puntato su un’altra metodologia, che è quella dell’educazione tra pari e del supporto tra pari, che è molto positiva e molto utilizzata nel lavoro di promozione della salute. Cioè abbiamo pensato che le persone detenute che fanno parte delle redazioni dei giornali sono dei pari, sono delle persone anch’esse detenute che hanno delle capacità che comunicano all’interno del loro gruppo e, quindi, abbiamo pensato che, anche per quanto riguarda la salute, la comunicazione orizzontale, cioè tra pari in uno stesso gruppo, per esempio di messaggi informativi, di messaggi di salute, avesse un’efficacia molto più forte di quella che è la comunicazione verticale classica, tra un tecnico e un soggetto che riceve delle informazioni. E abbiamo anche pensato che, nel discorso della salute, il sapere dell’esperienza delle persone potesse essere un sapere da mettere in gioco in tutto questo processo che noi andavamo costruendo. In una parola, noi ci siamo mossi dentro il solco di tutte quelle che sono le varie metodologie dell’empowerment, che sono quelle metodologie che puntano a fare un lavoro, per esempio sociale, per esempio sulla salute, con l’obiettivo di restituite potere alle persone, su di sé, sulla propria vita, di riconoscere le loro risorse e anche di investire sulla capacità del soggetto a produrre il suo proprio stato di benessere, è come se ci fosse un po’ il passaggio di potere tra il tecnico che di questo si occupa e il soggetto a cui si riferisce. Quindi vuol dire anche legittimare un po’ l’esperienza e anche il potere dei gruppi di persone con le quali si lavora. Gli obiettivi di questo lavoro. Intanto la ricerca voleva studiare le percezioni e i livelli di conoscenza, l’informazione acquisita e i bisogni informativi e la valutazione che le persone detenute davano dei servizi sanitari ricevuti in ambito penitenziario. Quindi la ricerca che vi presento non dice come stanno le cose, dice qual è la percezione delle cose da parte delle persone detenute e, questo, è ciò che ci interessava. Noi volevamo ascoltare questa voce. In seconda battuta, letti i risultati di questa prima fase, ideare uno strumento comunicativo dei massaggi e la modalità di portare questi messaggi di prevenzione. E, in terza battuta, sensibilizzare e coinvolgere i gruppi leader, in questo caso le redazioni dei giornali e i detenuti che ne fanno parte, in tutto questo processo. Per quanto riguarda la ricerca, abbiamo lavorato in 18 Istituti penitenziari, distribuendo i questionari in alcune sezioni, non a tutta la popolazione degli Istituti: le sezioni raggiungibili concretamente dalle redazioni dei giornali e dalle persone detenute che hanno gestito la somministrazione del questionario. Le sezioni in cui le direzioni ci davano il permesso di farlo. Quindi il campione che abbiamo raggiunto è anche il risultato di tutte queste difficoltà. Abbiamo distribuito 1.100 questionari, ne sono tornati indietro circa 850, quelli validi sono 811, ed è un numero che noi abbiamo valutato come discreto, per una ricerca di questo tipo. Nelle percentuali tra uomini e donne, le donne sono leggermente sovra rappresentate rispetto al dato nazionale ed è un campione particolare, perché per il 76% è composto di persone in espiazione della pena, quindi questa è una cosa da considerare. Sono persone soprattutto ristrette in sezioni penali, con pene mediamente lunghe e, comunque, con un periodo di carcerazione, al momento dell’intervista, non inferiore ad un anno e mediamente lungo. Sono molto sotto rappresentati, invece, i detenuti stranieri. Quindi il campione, da questo punto di vista, ha delle particolarità e anche dei limiti, rispetto alla popolazione generale. Abbiamo lavorato con un questionario a domande chiuse e, questo, mi rendo conto, è un limite quando si lavora sulla percezione dei rischi sarebbe meglio lavorare con strumenti molto più qualitativi come le interviste in profondità ma, essendo questa ricerca gestita da ricercatori non professionisti, cioè le persone delle redazioni, abbiamo dovuto costruire degli strumenti di rilevazione che fossero correttamente e facilmente gestibili. Le aree delle domande erano un po’ queste: dati anagrafici, posizione giuridica, percezione dei rischi per la salute, strategie individuali di informazione e prevenzione messe in atto dai singoli detenuti, informazione e prevenzione ricevute in ambito penitenziario, informazione e conoscenze in tema di HIV e AIDS. Quindi il questionario aveva proprio una sezione nella quale facevamo delle domande tecniche, con diverse risposte, una sola delle quali era la risposta corretta. E poi una sezione nella quale chiedevamo alle persone quali erano le cose sulle quali avrebbero voluto essere informate maggiormente e anche qualche idea su come fare, come produrre prevenzione all’interno del carcere. Non vi propongo tutti i dati, perché il questionario è molto lungo, ha 70 domande, e coloro che lo hanno somministrato sono stati bravissimi, perché portare così tante persone a compilare 70 domande non è facile. Allora, leggendo i risultati, la prima affermazione che ci verrebbe da fare è che è molto netta la percezione che il carcere è una situazione che ammala, che produce malattia. Le persone si sentono mediamente a rischio, rispetto alla loro salute e i rischi maggiormente percepiti, nell’ordine, sono: contrarre una malattia trasmissibile, subire le conseguenze della mancanza di spazio e di movimento, soffrire di disturbi psicologici (questa cosa la sottolineerei, mi sembra importante che una persona si senta a rischio di perdere il proprio equilibrio personale) e, in quarta posizione, c’è il non essere abbastanza assistiti in caso di malattia (il fatto di percepire questo rischio è, se mi permettete, una sorta di giudizio implicito). Ci sono poi altri rischi, in percentuali minori. Rispetto alle malattie trasmissibili, ad alto rischio sono state indicate le malattie della pelle, seguite dalle epatiti e l’HIV, in questo blocco di domande era messo in una posizione non prevalente. Quindi, da questo tipo di risposte si può dire che il rischio è percepito ma non c’è una drammatizzazione particolare di questo. Sui fattori di rischio, c’è enfasi notevole sulla mancanza di igiene, sui cibi non lavati, sulla scarsa aerazione e su strumenti sanitari non correttamente sterilizzati. Come vedete, questi primi quattro fattori di rischio sono, ancora una volta, legati alla percezione dei limiti dell’ambiente carcerario. La quinta, invece, riguarda il rischio di contagio rispetto a ferite aperte, una situazione che viene indicata come molto ricorrente. Quando siamo tornati con un blocco più specifico di domande sull’HIV, diciamo che la maggior parte del campione reputa probabile in rischio della trasmissione ma, ancora una volta, non c’è una drammatizzazione particolare, quindi anche questo conferma un po’ quello che stato indicato nell’altro blocco di domande. E i fattori di rischio, per quanto riguarda la trasmissione dell’HIV, sempre in ambito penitenziario, sono il contagio con sangue, quindi con ferite aperte di compagni di cella, l’uso di droghe per via iniettiva, lo scambio di oggetti taglienti, ancora una volta gli strumenti sanitari non correttamente sterilizzati e, per un 11%, che non è una percentuale enorme, ma che per me è una percentuale di allarme, anche la convivenza con persone sieropositive, che viene vista da questa percentuale del campione come un fattore di rischio. Dal blocco di domande sull’informazione esce un quadro piuttosto negativo. Abbiamo chiesto se da liberi si erano informati e, un buon 60% ha avuto informazioni sull’HIV prima di entrare in carcere, ma date da persone non tecnicamente preposte a dare queste informazioni. All’interno del carcere, l’82% non ha mai chiesto un colloquio con nessuno, su questo tema, mentre mi sembra interessante che un 23%, che è una percentuale non piccola, si sia data da fare per chiedere un qualcosa alla direzione per quanto riguarda la prevenzione. È una percentuale importante anche perché siamo soprattutto nei penali, non credo che nei giudiziari avremmo avuto una percentuale di questo tipo. Sottolineo soprattutto il dato sull’informazione ricevuta durante la carcerazione: il campione ha al proprio interno anche persone che sono in carcere da parecchi anni e soltanto il 24% ha ricevuto informazioni sull’HIV durante la carcerazione e soltanto il 17% ha avuto del colloqui sull’HIV con qualche operatore. I soggetti con cui questo 17% ha comunicato in tema di HIV sono i medici, i volontari, intendendo soprattutto i volontari di associazioni che entrano a fare prevenzione, e gli altri detenuti. Gli ultimi dati che vi propongo, perché mi stanno particolarmente a cuore, sono quelli che riguardano la conoscenza lo stato sierologico del compagno di cella e se è importante che gli agenti abbiano questo tipo di conoscenza. L’83% del campione dice che è importante saperlo e il 71% dice che è importante che lo sappiano anche gli agenti penitenziari. Diciamo che in quell’83% c’è una percentuale, di circa un quarto, che è molto drastica su questo, che è quella stessa percentuale che dice di non convivere, che dice di voler assolutamente sapere perché è un proprio diritto e di volerlo sapere per poter non convivere. Però la maggioranza dei detenuti che vogliono conoscere lo stato sierologico degli altri dichiarano di non volerlo sapere non per poter non convivere, ma per poter convivere meglio. Cioè esprimono la convinzione che, se si conosce lo stato sierologico del vicino ci si può regolare meglio e, in buona sostanza, si può fare prevenzione. La maggioranza del campione dice di avere una conoscenza discreta in materia di HIV. La definizione di AIDS è stata data correttamente dal 70% del campione, che è sicuramente una buona percentuale. Ma, ad esempio, abbiamo avuto dei problemi notevoli sul periodo – finestra, che è importante soprattutto per chi crede che sapere lo stato sierologico dell’altro sia abbastanza per fare prevenzione. Alla domanda su che cosa sia il periodo – finestra il 44% ha risposto correttamente, cioè quel periodo nel quale una persona è già portatrice del virus ma il test non lo rileva, quindi la persona è contagiosa ma non lo sa, non è in grado di comunicarlo a nessuno. Ma c’è anche un’alta percentuale di non risposte, il che vuol dire che la domanda imbarazzava, cioè non avevano la risposta e un buon 26% dà delle risposte che sono anche pericolose, perché dicono il contrario: il periodo nel quale non si trasmette il virus, oppure quello nel quale ci si può ancora negativizzare. Quindi la confusione, da questo punto di vista, è abbastanza elevata. Sulle vie di trasmissione, ci sono idee chiare sulle vie reali di trasmissione, però c’è un buon livello di disinformazione su altre modalità, che guardacaso sono quelle che stanno alla base della convivenza quotidiana: si può trasmettere attraverso i servizi igienici, attraverso l’uso di stoviglie, etc. Quindi è un tipo di disinformazione che incide direttamente sulla possibilità di convivenza. Abbiamo avuto molti guai sugli aspetti legali, dove le informazioni sono davvero molto scorrette, tanto che per il 78% si è obbligati per legge a comunicare il proprio stato al partner, per il 33% si è obbligati a dirlo al datore di lavoro e il 40% pensa che nelle istituzioni (nella domanda era specificato caserme, ospedali e carceri) il test sia obbligatorio. Metà del campione non conosce il diritto all’anonimato e, buona parte. pensa chi è portatore di HIV non possa svolgere attività in cui si è a contatto con il cibo. Quindi, da questo punto di vista la disinformazione è veramente notevole. Abbiamo fatto una domanda relativa all’uso per via iniettiva di droghe. Noi non sappiamo quante persone tossicodipendenti ci siano nel campione, lo possiamo dedurre perché, quando abbiamo chiesto con chi avete chiesto di parlare di HIV, il 34% ha risposto con il Ser.T., quindi possiamo, più o meno, stare su questa percentuale. Se il 76% dice che bisogna bollire la siringa e va bene, però abbiamo un 16% che dice che basta lavarla con l’acqua e, addirittura, un 33% che dice che basta scaldare l’ago con l’accendino e passa tutto. Su questo, a fronte di eventuali comportamenti di uso di droghe all’interno del carcere, voi capite che la disinformazione è piuttosto grave. Su di che cosa vorreste parlare in tema di HIV le risposte sono sostanzialmente queste: parlare di trasmissione per via sessuale, parlare di trasmissione per l’uso di droghe, sul diritto alle cure e informarsi sugli aspetti legali. Tra i suggerimenti sul che fare, vorrei sottolineare questo 38% che chiede di fare gruppi di discussione, perché mi sembra una percentuale importante. C’è questa costante del 22%, che chiede di separare i sieropositivi dai sieronegativi, e poi c’è una richiesta massiccia di avere materiale informativo e di avere un rapporto più diretto e frequente con i medici. Avevamo chiesto una valutazione, da parte dei detenuti, si come secondo loro le persone con AIDS venivano curate all’interno del carcere e la soddisfazione per le cure non raggiunge il 20%, quindi la percezione che i detenuti su questo è fortemente negativa. Quindi, cosa bisognerebbe fare per i malati: soprattutto garantire le terapie, facilitare le scarcerazioni e i ricoveri ospedalieri. L’immagine che noi ci siamo fatti, rispetto alle percezioni dei detenuti, sono queste: il carcere è vissuto come un contesto che ammala, dove i detenuti si sentono mediamente a rischio, anche se non ci sono picchi di drammatizzazione, dove non ci sono molti strumenti per fare fronte ai rischi di malattia, dove non circola abbastanza informazione su questo, dove ci sono operatori credibili ma un sistema che li rende invisibili, dove le pratiche vigenti non si traducono in interventi di prevenzione, dove vi sono detenuti che comunicano esclusivamente tra loro anche su questo argomento e dove si delega eccessivamente alla conoscenza dello stato sierologico dell’altro e poco alla propria auto efficacia. Sottolineo che sia nella fase di progettazione del questionario che nella fase di progettazione dei materiali informativi, noi abbiamo avuto degli incontri a Torino con i delegati delle redazioni, incluse alcune persone detenute in permesso, quindi tutto questo processo ha cercato di coinvolgere, come dichiaravo all’inizio, anche questi gruppi leader tra le popolazioni detenute. Abbiamo prodotto delle pagine, che sono ancora in fase di elaborazione finale, e che danno delle informazioni in un linguaggio pensato appunto con l’aiuto anche delle persone detenute, quindi speriamo un linguaggio adeguato. Saranno veicolate dai giornali del carcere, quindi anche la parte di restituzione dell’informazione punta su questo meccanismo orizzontale che ha voluto essere un po’ alla base del lavoro che abbiamo fatto.
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