Il tempo libero in carcere

 

Convegno: "Il tempo libero in carcere"

Lodi, 8 novembre 2003

 

 

Intervento di Carlo Alberto Romano (Vicedirettore Ass. Carcere e Territorio di Brescia)

 

Mi capita assai spesso di trovarmi in totale coincidenza di visioni con il dottor Maisto e, ovviamente, anche questa volta non mi sottrarrò a questa posizione e, anzi, partirò proprio da alcune riflessioni che egli ci ha proposto, per cercare di approfondire la tematica della quale stiamo parlando. Io sono un criminologo, quindi è difficile per me non condire la mia relazione con alcune osservazioni di carattere più generale e, queste, non possono prescindere da una considerazione di carattere generale sul tempo. Ci occupiamo di tempo. Molto bene ha fatto il dottor Maisto a portare alle nostre attenzioni la definizione di tempo segregato: probabilmente partirò da questo, anzi da un’ulteriore dicotomia rispetto alla definizione del tempo, cioè quella tra tempo trascorso e tempo vissuto. In questa dicotomia si gioca il tempo in carcere.

Per farvi capire la differenza tra tempo trascorso e tempo vissuto vi farò un esempio banalissimo: immaginatevi la differenza tra una notte trascorsa piacevolmente - ognuno immagini in che modo - e una notte trascorsa con il mal di denti. La scansione temporale è identica, l’unità temporale è identica, la differenza è sostanziale. Una rimarrà nei nostri ricordi, dell’altra ce ne libereremo volentieri. E, quindi, se qualcuno – non credo – in questa sala, o se qualcuno del di fuori che in qualche modo vuol prestare attenzione a quello di cui ogni tanto amiamo parlare, aderisce alla prima posizione di quelle illustrate dal dottor Maisto, e in qualche modo si ponesse il problema che in carcere si deve stare male, si tranquillizzi: in carcere si sta male, non vi sono dubbi, in carcere si sta proprio male.

E la dimensione del tempo costituisce un elemento fondamentale dell’avvio del percorso di peggioramento della situazione dell’individuo. Perché? Vi chiedo pazienza - nel contesto complessivo della pazienza che avete ad ascoltare me – di sopportare una breve lettura. È la lettura con la quale di solito inizio il mio corso con gli studenti – ho la fortuna di insegnare all’Università -, il corso di criminologia, per far capire che cosa sia il carcere, in modo molto icastico, però credo sia una buona testimonianza. La scritta Kostler, in "Dialogo con la morte", edito da "Il Mulino" di Bologna.

Si intitola "La porta della cella si chiude". Ricordatevi che stiamo partendo da un’ottica di definizione del tempo in carcere. "È un rumore unico. La porta di una cella non ha maniglia, né di fuori, né di dentro, non può venir chiusa se non sbattendola. È fatta di acciaio massiccio e di cemento, dello spessore di circa dieci centimetri, e tutte le volte che si chiude si sente uno schianto come se fosse stato sparato un colpo di fucile. Ma questa detonazione si smorza, senza eco alcuno. I rumori di una prigione sono tetri e privi di eco. Quando la porta gli è stata sbattuta dietro le spalle per la prima volta il prigioniero rimane in piedi in mezzo alla cella e si guarda attorno. Immagino che tutti si debbano comportare più o meno allo stesso modo. Prima di tutto egli dà un’occhiata rapida intorno alle pareti e fa mentalmente l’inventario di tutti gli oggetti che si trovano in quello che è destinato, ormai, ad essere il suo regno: il letto di ferro, il lavandino, il WC, la finestra con le sbarre. Invariabilmente il suo gesto successivo è quello di cercare di tirarsi su a guardar fuori dalla finestra, attaccandosi alle sbarre di ferro. Non ci riesce e il suo vestito rimane coperto di bianco di intonaco del muro contro il quale si è premuto. Abbandona il tentativo, ma decide di esercitarsi nell’arte di tirarsi su con le braccia, fino a diventarne padrone. In realtà in questa fase egli formula ogni sorta di lodevoli proponimenti: farà ginnastica ogni mattina e imparerà una lingua straniera e assolutamente non si lascerà perdere d’animo. Si spolvera l’abito e continua il viaggio di esplorazione del suo minuscolo regno, lungo cinque passi e largo quattro. Prova il letto di ferro: le molle sono rotte, la rete metallica si incurva e incide la carne, è come sdraiarsi su un’amaca fatta di fili d’acciaio. Egli risponde con una smorfia, essendo ben deciso a dimostrarsi pieno di coraggio e di fiducia in sé. Poi il suo sguardo si arresta sulla porta della cella e vede che c’è un occhio appiccicato allo spioncino e vede che quell’occhio lo sorveglia. L’occhio lo segue, vitreo, con la pupilla incredibilmente larga. È un occhio privo di corpo e, per alcuni istanti, il cuore del prigioniero cessa di battere. L’occhio scompare e il prigioniero tira un profondo respiro e si comprime la mano sulla parte sinistra del petto. <Diamine!>, si dice con tono incoraggiante <che sciocchezza lasciarsi spaventare così, devi abituarti a questa faccenda, fa parte della vita del recluso>. Poi si accorge di non avere con sé nessun pezzo di carta e il suo impulso successivo sarà, a seconda del suo stato sociale, di suonare il campanello o di correre al cartolaio all’angolo. Questo impulso dura solo una frazione di secondo, subito dopo egli diventa consapevole, per la prima volta da quando è qui, del vero significato della sua situazione. Per la prima volta afferra la realtà, piena, del trovarsi dietro una porta che è chiusa da fuori. Afferra questa realtà in tutta la sua acutezza lacerante e distruttiva. Ed è in questa maniera che le cose dovranno continuare nei minuti seguenti, nelle ore, nei giorni, nelle settimane, negli anni. Per quanto tempo è già stato nella cella? Guarda l’orologio: esattamente tre minuti".

Questa è la dimensione temporale del carcere. È un problema che quindi ha anche degli aspetti clinici, essenzialmente clinici. È un problema di perdita della dimensione. Non è un caso che chi ha esperienza diretta, o si è confrontato con persone che hanno vissuto tale esperienza, sappia come in carcere i giorni passino lentissimi e gli anni passino velocissimi. È una totale destrutturazione della dimensione del tempo. Non è un caso che vi sia uno spostamento continuo dell’ottica percettiva dimensionale del tempo. E allora, anche l’idea di occupazione del tempo deve avere una valenza ben precisa. Credo che una valenza ben precisa possa nascere da una rivalutazione dell’idea stessa del dettato costituzionale (non pensate che sia impazzito e voglia andare a discorsi di sistema, ma è una cosa di immediata e franca percezione). Cioè, diamo un valore positivo a quella nostra norma costituzionale che ci chiede di costruire la pena in un determinato modo. Oltre a non dovere essere contraria al senso di umanità e di dignità, diamole un senso positivo attraverso la costruzione di una valenza positiva e – ed è per questo che ho voluto aggiungere qualche riflessione personale – credo che la valenza sia individuabile in un percorso di questo tipo: l’individuazione di uno strumento comunitario. Anche il tempo libero deve essere uno strumento comunitario, deve essere una risorsa che proviene dal territorio.

Non è un caso, temo, che la nostra normativa, pur nella sua esemplarità, per certi aspetti, e nella sua illuminazione, come nel caso del recente regolamento, abbia comunque una impostazione di carattere individualizzato, frutto peraltro di una categorizzazione precedente che vedeva l’impostazione del trattamento secondo un’impostazione di tipo medicalizzato… ma questo è un altro discorso.

Dicevo, un’impostazione di tipo collettivo, di tipo comunitario. Non è un caso che il Consiglio d’Europa, quando parla di quelle che in tutti i modi noi definiamo misure alternative, o benefici penitenziari – chiamateli come può apparirvi più piacevole – le chiami "sanzioni comunitarie", perché vuole, perché chiede, perché ci sprona a dare una dimensione collettiva alla funzione della pena e, in questo senso, il tempo libero può costituire il grimaldello per aprire questa strada. Dimensione collettiva implica evidentemente una possibilità di operare in un determinato modo e, allora, quali potrebbero essere alcuni spunti in questo senso? Nella gestione del tempo libero vi sono gli spazi per ricostruire il senso di appartenenza alla comunità ed è uno strumento fondamentale, a mio avviso. Assai più di altri aspetti, che riempiono comunque di sostanza il trattamento rieducativo, come ad esempio il lavoro o la formazione. Aspetti essenziali, aspetti sui quali non possiamo assolutamente prescindere, aspetti sui quali peraltro siamo deficitari, come sappiamo bene.

Basta ricordare alcune cifre: sul lavoro, sito giustizia.it, al 31.12.2002, 13.474 detenuti lavoranti, siamo a meno di un quarto del totale della popolazione detenuta. Nel 1985, su 44.000 detenuti, i lavoranti erano 11.500. Un po’ meglio la formazione: al 31.12.2002, iscritti a corsi di formazione 8.263, per un totale di 665 corsi professionali attivati. Cito sempre Amato, nel 1985, su 44.000 unità della popolazione penitenziaria, erano iscritti a corsi professionali in 1.775. Sulla formazione ci siamo mossi decisamente meglio che sul lavoro, ma su entrambi c’è molta strada da percorrere.

Tornando a quello che vi stavo dicendo, individuo nella gestione del tempo libero in carcere – che poi è una definizione sulla quale potremmo discutere a lungo, usiamola per intenderci – spazi operativi e di crescita notevoli per il recupero del senso di appartenenza alla comunità, per il riconoscimento del confronto dialogico con le altre persone e, quindi, per il riconoscimento delle regole esistenti. Anche il lavoro lo fa, anche la formazione, ma pensate cosa può costituire in termini di crescita della persona se questo è un acquisto di autogestione della persona e non viene imposto, se le regole vengono praticate, comprese, percepite, metabolizzate, perché costituiscono un modo per relazionarsi con gli altri. È un livello di crescita notevolissimo. Stiamo dando senso all’articolo 27 della Costituzione.

Il tempo libero deve diventare il luogo del non isolamento, il luogo del superamento dell’isolamento, che è invece, purtroppo, l’aspetto deteriore del percorso detentivo. Deve diventare il momento di ripristino, con l’uomo, di quel confronto dialogico interrotto con la commissione del reato. Il tempo libero, visto in una prospettiva comunitaria, quindi collettiva, di confronto, di risorsa territoriale, può essere un ottimo strumento di analisi e, se vogliamo, anche di controllo, ammesso che abbiamo un interesse precipuo ad avere anche un controllo, sui processi di crescita individuale. Perché, come dicevo in precedenza, è il momento di riflessione che l’individuo, in quel momento detenuto, può compiere nel rapporto che ha con se stesso e con gli altri.

Può costituire un momento di superamento dell’atmosfera competitiva del carcere, dell’atmosfera necessariamente competitiva, di ripristino di archetipi, visto che prima il dottor Maisto ha citato gli archetipi… degli archetipi della sopraffazione, degli archetipi della sopravvivenza. Può costituire il momento di superamento, se diventa uno strumento di gestione collettiva e comunitaria.

Le aggregazioni spontanee in carcere sono inevitabili, per una serie di ragioni che conosciamo molto bene: siamo tutti operatori e sappiamo che ci sono delle tendenze, tra i detenuti, ad aggregarsi in base a diversi modelli culturali di provenienza, etnici, o addirittura piuttosto anche di subcultura delinquenziale. Le aggregazioni spontanee non per forza di cose devono essere demonizzate, ma se inserite in un processo di crescita come quello al quale cerco di pensare in questo momento e sul quale cerco di stimolare le vostre riflessioni a seguirmi, possono costituire l’avvio di percorsi verso obiettivi positivi e possono essere sfruttate. Strumentalizziamo la strumentalizzazione.

Insomma, il processo di rivalutazione di questo contesto settoriale della vita detentiva credo abbia ancora spazi operativi di grande crescita. Certo, occorre veramente che l’ottica nella quale ci si pone sia completamente differente, sia un’ottica di abbandono di quelle modalità di pensare alla pena, come diceva il dottor Maisto, alle quali spesso sentiamo riferirsi e sia un’ottica invece di adozione verso un modello della pena assolutamente proiettato nel contesto sociale cui la struttura penitenziaria dove la pena sia scontata appartiene. Dobbiamo andare verso la pena nel territorio, dobbiamo andare verso la sanzione comunitaria e, in questo senso, anche il tempo libero può avere un proprio significato, altrimenti resta un pannicello caldo.

L’Associazione Carcere e territorio di Brescia costituisce, credo, un valido esempio di operatività sinergica. Voluta dal Presidente Zappa, nel momento in cui si metteva a riposo, rispetto alla sua non mai sufficientemente illustrata e celebrata opera e capacità di Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia. Voluta, con alcuni soci fondatori, di cui mi onoro di far parte – altri sono in questa sala, peraltro. È stata l’esempio di come si sia voluta proporre un’operatività differente, un’operatività centrata sulla sinergia fra diverse realtà afferenti al mondo penitenziario, capace comunque di produrre obiettivi programmatori, di progettualità, comuni, nel rispetto delle singole e specifiche esperienze.

Carcere e territorio non si mette a fare una programmazione sullo sport, al posto di U.I.S.P.: sarebbe ridicolo, oltre che controproducente. È molto utile che, all’interno di Carcere e territorio, U.I.S.P. si metta in confronto dialogico con le altre realtà afferenti al carcere affinché non vi sia, ad esempio, sovrapposizione temporale, per tornare al nostro discorso, o concettuale. Carcere e territorio è l’elemento nel quale può intervenire la Polizia Penitenziaria affinché poi la progettualità non sia calata dall’alto e la stessa Polizia Penitenziaria non vi si trovi ad aderire obtorto collo. Non ci vuole a mettersi attorno a un tavolo e a ragionare assieme su quali siano le progettualità che quell’anno si vogliono porre in essere e quali siano le modalità con le quali sia più opportuno realizzarle.

Ovviamente, nel fare questo, abbiamo tenuto conto delle varie aree di lavoro che possono essere poste in essere sull’universo carcerario. Quindi ci occupiamo di lavoro, in qualche modo di formazione e, attraverso i nostri partner che sono, da questo punto di vista, davvero assolutamente encomiabili, anche di gestione del tempo libero e quindi di attività ricreative e culturali.

Io vi ringrazio, non ho altro da dire e spero che queste iniziative possano essere riproposte. La specificità del tema non fa paura, anzi nella specificità noi troviamo la dimensione della crescita collettiva.

 

 

Precedente Home Su Successiva