Carmen Bertolazzi

 

Giornata di studi "Carcere: non lavorare stanca"

9 maggio 2003 - Casa di Reclusione di Padova

 

 

Carmen Bertolazzi, Vicepresidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

 

Io cercherò brevemente di rilanciarvi degli interrogativi che mi sono posta sentendo gli interventi di questa mattina. Innanzi tutto noi usiamo la parola "lavoro in carcere" e già questa è una parola molto ampia, perché abbiamo il lavoro interno, che pone tutta una serie di problemi, il lavoro in misura alternativa, il lavoro per la persona che ha finito la pena e, poi, abbiamo anche il lavoro come idea di una pena alternativa, cioè il lavoro socialmente utile, perché diciamo sempre che una condanna non deve essere solamente la cella, può e deve essere anche qualcosa d’altro.

In questa discussione sul lavoro in carcere mi preme ricordare, forse perché vengo dal Centro dell’Italia e mi sento direttamente coinvolta, che le situazioni sono molto diverse da zona a zona, e lo sanno molto bene i detenuti che hanno girato un po’. Qui abbiamo la situazione del Veneto, abbiamo sentito la Toscana e la Lombardia ma, via via che scendiamo, a partire dal Lazio, che è ancora una regione privilegiata, sotto molti aspetti, anche se ovviamente il mercato del lavoro è diverso, la situazione diventa diversa, difficile, è difficile dentro e fuori dal carcere.

La terza cosa che vorrei ricordare è che, lo sappiamo tutti, il lavoro dà dignità, dà autonomia, dà prospettiva, è una parola chiave. Però in carcere ha un valore aggiunto, perché il lavoro in carcere dà libertà. La Riforma Gozzini ha stabilito varie norme, dalla semilibertà, alla condizionale, al lavoro esterno, per le quali l’elemento di valutazione principale è avere una prospettiva di lavoro. Quindi diciamo che la parola "lavoro" equivale, nel nostro ordinamento, alla parola "libertà" e questo non è da dimenticare.

Abbiamo visto che negli anni dopo la riforma c’è stata tutta l’esperienza della cooperazione sociale, ma dobbiamo anche dirci che della cooperazione sociale nata nel periodo del dopo–riforma, poche sono le cooperative che sono riuscite a rimanere veramente in modo autonomo sul mercato del lavoro, trasformandosi in genere da cooperative di soli detenuti a cooperative integrate. Spesso le cooperative sociali hanno questo ruolo, di fare quasi da "cuscinetto", all’uscita, cioè diventano il luogo che permette ad una persona di uscire, ma anche di sistemarsi nel primo momento dopo l’uscita, di capire com’è la situazione che la circonda, di risolvere problematiche personali e famigliari, comunque di riqualificarsi e poi, magari, di posizionarsi in modo definitivo sul mercato del lavoro. Quindi anche la cooperazione sociale non va vista soltanto come luogo dove possiamo fare degli inserimenti di lavoro, ma forse dobbiamo riflettere sulla cooperazione sociale come laboratorio di avvio al lavoro. Questo certamente significa tante cose, anche dal punto di vista economico.

Poi, e il mondo del volontariato lo sa bene, non c’è persona che è entrata in carcere che non abbiadovuto affrontare una richiesta di lavoro, tutti noi l’abbiamo fatto e tutti noi abbiamo dovuto registrare anche dei fallimenti, e quindi credo che poi, da questa risposta individuale del volontariato, siano nati tutti i progetti e le sperimentazioni che hanno portato oggi a sentire tutte queste esperienze molto propositive. Perché sono esperienze che si legano sul territorio, si legano con gli enti locali, si pongono il problema del mercato del lavoro, si pongono il problema di costruire le reti.

Noi parliamo di lavoro e carcere, ma è forse riduttivo: il carcere, in fondo, è solo l’ultima tappa di un lungo percorso di disagio, di non adattabilità, di lacerazioni, di sofferenze. Vuol dire una cultura famigliare, vuol dire un viaggio dall’altra parte del mondo, vuol dire problemi di dipendenza, malattia psichica, povertà, difficoltà a relazionarsi con il mondo, modelli di vita non corretti. C’è tutta questa situazione che porta al carcere, che quindi è una tappa per una persona che, già da prima, vive l’esclusione sociale. Allora, forse, quando noi che lavoriamo sul campo ci sforziamo di analizzare e confrontare dei modelli di intervento, potrebbe esserci utile ragionare sul termine di disagio ed esclusione sociale, dove il detenuto fa parte delle politiche per l’inclusione sociale.

Quindi, non è forse che il nostro lavorare sulla persona detenuta è troppo limitativo, ma dobbiamo invece vederla come una persona del disagio e dell’esclusione sociale? Perché se fosse così il nostro problema non sarebbe solamente quello all’uscita dal carcere, o in vista di una misura alternativa, ma quello di affrontare l’inserimento lavorativo di questa persona nelle sue problematiche più ampie, che possono essere quelle inerenti le relazioni famigliari e sociali, o di dipendenza, o di quant’altro. Non è sempre centrale ed essenziale il problema di trovare un lavoro, ma anche di costruire il percorso di reingresso o di primo ingresso nel mondo del lavoro, che vuole dire una formazione particolare e mirata, che vuole dire un orientamento rispetto a molte cose, anche alla relazione con se stesso, per esempio. Vuol dire un accompagnamento, durante la fase di inserimento professionale, non solo verso la persona che esce dal carcere, ma molto spesso anche un accompagnamento per l’azienda che inserisce questa persona e per i suoi colleghi di lavoro. Significa che un inserimento lavorativo si deve per forza accompagnare ad un inserimento sociale, le due cose non possono essere disgiunte. Questo vale ovviamente anche per altre fasce del disagio sociale.

Da quando il volontario entrava in carcere e si sentiva chiedere: "Trovami un posto di lavoro" abbiamo fatto molta strada, io credo che sia anche una strada di qualità. Molti di noi fanno dei progetti europei, e quando ci confrontiamo con gli altri paesi non siamo certo ultimi. Ecco, facciamo uno sforzo per identificare dei centri e su questi cresciamo insieme, coordiniamoci, confrontiamoci, vediamo i nostri punti deboli e i nostri punti di forza e cerchiamo di socializzarli.

 

 

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