Convegno "Carcere e territorio"

Percorsi di recupero e di reinserimento sociale delle persone detenute

Galliera Veneta (Pd) - 28 novembre 2003

 

Atti del Convegno "Carcere e Territorio" del 2000

 

Nel novembre del 2000, quando non si erano ancora spenti gli echi delle proteste che durante l'estate avevano agitato tutte le carceri italiane, il Comune di Galliera Veneta e la Direzione della Casa di Reclusione di Padova organizzarono un primo convegno dal titolo "Carcere e Territorio", al quale partecipò anche l'allora direttore del D.A.P. Giancarlo Caselli. Quelli che seguono sono alcuni degli interventi e dei documenti che vennero prodotti in quella occasione.

 

Indice

Messaggio di Giovanni Paolo II per il Giubileo nelle Carceri

Relazione del Direttore della C.R. di Padova, Carmelo Cantone

Fare, dire, difendere, a cura di Paola Springhetti e Paola Atzei

Come difendere i diritti nel carcere?

Una proposta: l'Ombudsman

Il problema è fare meno carcere

Intervista a Giancarlo Caselli

Messaggio di Giovanni Paolo II per il Giubileo nelle Carceri

 

In occasione della Giornata del Giubileo nelle Carceri che è stata celebrata domenica 9 luglio 2000, Giovanni Paolo II ha inviato il 24 giugno 2000 a quanti hanno la responsabilità di amministrare la giustizia nella società e a coloro che si trovano a dover trascorrere parte della vita all'interno degli Istituti di detenzione il Messaggio che di seguito pubblichiamo. Ne riportiamo il testo da "L'Osservatore Romano", 30 giugno - 1 luglio 2000, 7. I corsivi dell'originale sono stati da noi resi con i neretti.

1. Nel contesto di questo Anno Santo del 2000, non poteva mancare la Giornata del Giubileo nelle Carceri. Le porte degli Istituti di detenzione non possono infatti escludere dai benefici di questo evento coloro che si trovano a dover trascorrere parte della vita alloro interno. Pensando a questi fratelli e sorelle, la mia prima parola è l'augurio che il Risorto, il quale entrò a porte chiuse del Cenacolo, possa entrare in tutte le carceri del mondo e trovare accoglienza nei cuori, apportando a tutti pace e serenità. Com'è noto, nel presente Giubileo la Chiesa celebra in modo speciale il mistero dell'incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo. Sono, infatti, trascorsi due millenni da quando il Figlio di Dio si fece uomo e venne ad abitare in mezzo a noi. Oggi, come allora, la salvezza portata da Cristo ci viene nuovamente offerta, perché produca abbondanti frutti di bene secondo il disegno di Dio, che vuole salvare tutti i suoi figli, specialmente coloro che, essendosi allontanati da Lui, sono in cerca della strada del ritorno. il Buon Pastore esce continuamente sulle tracce delle pecorelle smarrite e, quando le incontra, se le prende sulle spalle e le riporta all'ovile. Cristo cerca l'incontro con ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi.

2. Obiettivo dell'incontro di Gesù con l'uomo è la sua salvezza. Una salvezza, peraltro, che viene proposta, non imposta. Cristo attende dall'uomo una fiduciosa accettazione, che ne apra la mente a decisioni generose, atte a rimediare il male fatto e a promuovere il bene. Si tratta di un cammino a volte lungo, ma certamente stimolante, perché non compiuto da soli, ma con la compagnia e il sostegno dello stesso Cristo. Gesù è un compagno di viaggio paziente, che sa rispettare i tempi e i ritmi del cuore umano, anche se non si stanca di incoraggiare ciascuno nel cammino verso la meta della salvezza. La stessa esperienza giubilare è strettamente collegata alla vicenda umana del trascorrere del tempo, a cui essa vuol dare un senso: da un lato, il Giubileo intende aiutarci a vivere il ricordo del passato facendo tesoro di tutte le esperienze vissute; dall'altro, ci apre al futuro nel quale l'impegno dell'uomo e la grazia di Dio debbono tessere insieme ciò che resta da vivere. Chi si trova in carcere, pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni in cui era libero, e subisce con pesantezza un tempo presente che non sembra passare mai. All'umana esigenza di raggiungere un equilibrio interiore anche in questa situazione difficile può recare un aiuto determinante una forte esperienza di fede. Qui sta uno dei motivi del valore del Giubileo nelle Carceri: l'esperienza giubilare vissuta tra le sbarre può condurre a insperati orizzonti umani e spirituali.

3. Il Giubileo ci ricorda che il tempo è di Dio. Non sfugge a questa signoria di Dio anche il tempo della detenzione. I pubblici poteri che, in adempimento di una disposizione di legge, privano della libertà personale un essere umano ponendo quasi tra parentesi un periodo più o meno lungo della sua esistenza, devono sapere di non essere signori del tempo del detenuto. Allo stesso modo, chi si trova nella detenzione non deve vivere come se il tempo del carcere gli fosse irrimediabilmente sottratto: anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione e anche di fede. Il Giubileo è un modo per ricordarci che non solo il tempo è di Dio, ma che i momenti in cui sappiamo ricapitolare tutto in Cristo diventano per noi "un anno di grazia del Signore". Durante il periodo del Giubileo, ciascuno è chiamato a registrare il tempo del proprio cuore, unico e irripetibile, sul tempo del cuore misericordioso di Dio, sempre pronto ad accompagnare ciascuno, al suo passo, verso la salvezza. Anche se la condizione carceraria, a volte, rischia di spersonalizzare l'individuo, privandolo di tante possibilità di esprimere pubblicamente se stesso, egli deve ricordare che non è così davanti a Dio: il Giubileo è il tempo della persona, in cui ciascuno è se stesso davanti a Dio, a immagine e somiglianza di Lui. E ciascuno è chiamato ad accelerare il suo passo verso la salvezza e a progredire nella graduale scoperta della verità su se stesso.

4. Il Giubileo non vuole lasciare le cose come stanno. L'anno giubilare del Vecchio Testamento doveva "restituire l'uguaglianza tra tutti i figli d'Israele, schiudendo nuove possibilità alle famiglie che avevano perso le loro proprietà e perfino la libertà personale" (Lett. ap. Tertio Millennio adveniente, n. 13). La prospettiva che il Giubileo apre davanti a ciascuno è, quindi, un'occasione da non perdere. Occorre profittare dell'Anno Santo per provvedere a sanare eventuali ingiustizie, per lenire qualche eccesso, per recuperare ciò che altrimenti andrebbe perduto. E se questo vale per ogni esperienza umana, che è sotto il segno della perfettibilità, a maggior ragione si applica all'esperienza detentiva dove le situazioni che si creano rivestono sempre particolare delicatezza. Ma il Giubileo non ci stimola solamente a predisporre misure di riparazione delle situazioni di ingiustizia. Il suo significato è anche positivo. Come la misericordia di Dio, sempre nuova nelle sue forme, apre nuove possibilità di crescita nel bene, così celebrare il Giubileo significa adoperarsi per creare occasioni nuove di riscatto per ogni situazione personale e sociale, anche se apparentemente pregiudicata. Tutto ciò è ancora più evidente per la realtà carceraria: astenersi da azioni promozionali nei confronti del detenuto significherebbe ridurre la misura detentiva a mera ritorsione sociale, rendendola soltanto odiosa.

5. Se l'occasione del Grande Giubileo è un'opportunità di riflessione offerta ai detenuti circa la loro condizione, altrettanto può dirsi per l'intera società civile, che si confronta quotidianamente con la delinquenza, per le autorità preposte a conservare l'ordine pubblico e a favorire il bene comune, per i giuristi chiamati a riflettere sul sen-so della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività. Il tema è stato affrontato più volte nel corso della storia e non pochi progressi sono stati realizzati nella linea dell'adeguamento del sistema penale sia alla dignità della persona umana sia all'effettiva garanzia del mantenimento dell'ordine pubblico. Ma i disagi e le fatiche vissute nel complesso mondo della giustizia e, ancor più, la sofferenza che proviene dalle carceri testimoniano che ancora molto resta da fare. Siamo ancora lontani dal momento in cui la nostra coscienza potrà essere certa di avere fatto tutto il possibile per prevenire la delinquenza e per reprimerla efficacemente così che non continui a nuocere e, nello stesso tempo, per offrire a chi delinque la via di un riscatto e di un nuovo inserimento positivo nella società. Se tutti coloro che, a diverso titolo, sono coinvolti nel problema volessero approfittare dell'occasione offerta dal Giubileo per sviluppare questa riflessione, forse l'umanità intera potrebbe fare un grande passo in avanti verso una vita sociale più serena e pacifica. La punizione detentiva è antica quanto la storia dell'uomo. In molti Paesi le carceri sono assai affollate. Ve ne sono alcune fornite di qualche comodità, ma in altre le condizioni di vita sono assai precarie, per non dire indegne dell'essere umano. I dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione: anche da questo punto di vista il Giubileo è un'occasione da non perdere. Secondo il disegno di Dio, ciascuno deve assumersi il proprio ruolo nel collaborare all'edificazione di una società migliore. Ciò evidentemente comporta uno sforzo grande anche per quanto concerne la prevenzione del reato. Quando nonostante tutto questo viene commesso, la collaborazione al bene comune si traduce per ciascuno, entro i limiti della sua competenza, nell'impegno di contribuire alla predisposizione di cammini di redenzione e di crescita personale e comunitaria improntati alla responsabilità. Tutto questo non deve essere considerato un'utopia. Coloro che possono, devono sforzarsi di dare forma giuridica a queste finalità.

6. In questa linea è, pertanto, auspicabile un mutamento di mentalità, grazie al quale sia possibile provvedere a un conveniente adeguamento delle istituzioni giuridiche. Ciò suppone, com'è ovvio, un forte consenso sociale e speciali capacità tecniche. Un forte appello in questo senso giunge dalle innumerevoli carceri disseminate nel mondo, dove sono segregati milioni di nostri fratelli e sorelle. Essi reclamano soprattutto un adeguamento delle strutture carcerarie e a volte anche una revisione della legislazione penale. Dovrebbero essere finalmente cancellate dalla legislazione degli Stati le norme contrarie alla dignità e ai fondamentali diritti dell'uomo, come pure le leggi che ostacolano l'esercizio della libertà religiosa per i detenuti. Saranno pure da rivedere i regolamenti carcerari che non prestano sufficiente attenzione ai malati gravi e a quelli terminali; ugualmente si devono potenziare le istituzioni preposte alla tutela legale dei più poveri. Ma anche nei casi in cui la legislazione è soddisfacente, molte sofferenze derivano ai detenuti da altri fattori concreti. Penso, in particolare, alle condizioni precarie dei luoghi di detenzione in cui i carcerati sono costretti a vivere, come pure alle vessazioni inflitte talvolta ai detenuti per discriminazioni dovute a motivi etnici, sociali, economici, sessuali, politici e religiosi. Talvolta il carcere diventa un luogo di violenza assimilabile a quegli ambienti dai quali i detenuti non di rado provengono. Ciò vanifica, com'è evidente, ogni intento educativo delle misure detentive. Altre difficoltà sono incontrate dai reclusi per poter mantenere regolari contatti con la famiglia e con i propri cari, e gravi carenze spesso si riscontrano nelle strutture che dovrebbero agevolare chi esce dal carcere, accompagnandolo nel suo nuovo inserimento sociale. Appello ai Governanti

7. Il Grande Giubileo dell'Anno 2000 si inserisce nella tradizione degli Anni Giubilari che lo hanno preceduto. Ogni volta, la celebrazione dell'Anno Santo è stata, per la Chiesa e per il mondo, un'occasione per fare qualche cosa a favore della giustizia, alla luce del Vangelo. Questi appuntamenti sono così diventati uno stimolo per la comunità a rivedere la giustizia umana sul metro della giustizia di Dio. Soltanto una serena valutazione del funzionamento delle istituzioni penali, una sincera ricognizione dei fini che la società ha di mira per fronteggiare la criminalità, una ponderazione seria dei mezzi usati per questi scopi, hanno condotto, e potranno ancora condurre, a individuare le correzioni che si rendono necessarie. Non si tratta di applicare quasi automaticamente o in modo meramente decorativo provvedimenti di clemenza che restino soltanto formali, così che poi, a Giubileo concluso, tutto torni a essere come prima. Si tratta, invece, di varare iniziative che possano costituire una valida premessa per un autentico rinnovamento sia della mentalità che delle istituzioni. In questo senso quegli Stati e quei Governi che abbiano in corso o intendano intraprendere revisioni del loro sistema carcerario, per adeguarlo maggiormente alle esigenze della persona umana, meritano di essere incoraggiati a continuare in un'opera tanto importante; prevedendo anche un maggior ricorso alle pene non detentive. Per rendere più umana la vita nel carcere, è quanto mai importante prevedere concrete iniziative che consentano ai detenuti di svolgere, per quanto possibile, attività lavorative capaci di sottrarli all'immiserimento dell'ozio. Si potrà così introdurli in itinerari formativi che ne agevolino il reinserimento nel mondo del lavoro, al termine della pena. Da non trascurare è, inoltre, quell'accompagnamento psicologico che può servire a risolvere nodi problematici della personalità. Il carcere non deve essere un luogo di diseducazione, di ozio e forse di vizio, ma di redenzione. A tale scopo, gioverà sicuramente la possibilità offerta ai detenuti di approfondire il loro rapporto con Dio, come pure il loro coinvolgimento in progetti di solidarietà e di carità. Ciò contribuirà ad accelerarne il recupero sociale, riportando al tempo stesso l'ambiente carcerario a condizioni di maggiore vivibilità. Nel contesto di queste proposte aperte sul futuro, continuando una tradizione instaurata dai miei Predecessori in occasione degli Anni Giubilari, mi rivolgo con fiducia ai Responsabili degli Stati per invocare un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti: una riduzione, pur modesta, della pena costituirebbe per i detenuti un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione, che non mancherebbe di suscitare echi favorevoli nei loro animi, incoraggiandoli nell'impegno del pentimento per il male fatto e sollecitandone il personale ravvedimento. L'accoglimento di questa proposta da parte delle Autorità responsabili, mentre inviterebbe i detenuti a guardare al futuro con nuova speranza, costituirebbe anche un segno eloquente del progressivo affermarsi nel mondo, che si apre al terzo Millennio cristiano, di una giustizia più vera, perché aperta alla forza liberatrice dell'amore. Invoco le benedizioni del Signore su quanti hanno la responsabilità di amministrare la giustizia nella società, come anche su coloro che sono incorsi nei rigori della legge. Voglia Iddio essere largo con ciascuno dei suoi lumi e colmare tutti dei suoi celesti favori. Ai detenuti e alle detenute di ogni parte del mondo assicuro la mia spirituale vicinanza, tutti stringendo a me in un ideale abbraccio quali fratelli e sorelle in umanità. 

Carmelo Cantone, Direttore della Casa di Reclusione di Padova

 

La Casa di Reclusione di Padova Nuovo Complesso, è stata inaugurata a Febbraio del 1991; la vecchia Casa di Reclusione sita nel centro di Padova è stata completamente chiusa a maggio 1992. Il complesso sorge nella zona Ovest di Padova; l'istituto presenta vantaggi ed inconvenienti tipici delle strutture di recente costruzione: ambienti ampi ma anche un'ubicazione periferica, che inizialmente ha comportato notevoli disagi per chi la doveva raggiungere in quanto privo di mezzi. Oggi la situazione è meno disagiata ai collegamenti dei mezzi pubblici. Nella struttura dovrebbero essere ospitati, stante la denominazione Casa di Reclusione, detenuti definitivi con pene superiori ai cinque anni, difatti visto il sovraffollamento di tutte le carceri italiane e quindi anche del Triveneto, sono presenti anche detenuti non definitivi e con pene inferiori ai cinque e tre anni. All'interno dell'istituto sono organizzate numerose attività trattamentali in collaborazione con enti locali, associazioni di volontariato; la realtà padovana risulta particolarmente sensibile alle problematiche penitenziarie. Le relazioni esistenti con il territorio si sono sviluppate nel tempo e risultano essere frutto di continui contatti tra il carcere e quanti all'esterno sono interessati-preposti a collaborare con il reinserimento sociale. Per quanto riguarda le attività lavorative in particolare, oltre ai cosiddetti lavori domestici che riguardano un numero limitato di persone che sono impegnate a rotazione per le pulizie ordinarie dell'istituto, un altro piccolo gruppo di detenuti è occupato in pianta stabile presso alcuni servizi come la cucina, il casellario o la manutenzione del fabbricato. Per sopperire alla carenza cronica di lavoro in ambito intramurale, si sono avviati contatti con alcune ditte esterne interessate a fornire commesse e attualmente presso i capannoni sono impiegati in attività di assemblaggio circa 18 detenuti. La circostanza che in passato i detenuti lavoranti fossero solo quei pochi adibiti ad attività domestiche, ha fatto sì che si ricercassero sul territorio nuove opportunità di inserimento lavorativo. Nasce così, nel 1998, la prima convenzione con il Comune di Padova per l'inserimento di circa 10 detenuti da impiegare nella manutenzione del verde indesiderato; convenzione che prosegue in modo soddisfacente. Sull'onda della prima convenzione, quest'anno ne è stata stipulata una nuova con il locale Comune di Galliera dove sono occupati 2 detenuti sempre in regime di lavoro all'esterno. Ritornando brevemente alle molteplici attività trattamentali promosse in istituto va sottolineato come spesso abbiano funzione anche di preparazione rispetto all'esterno cercando sempre di più di fornire manodopera qualificata e anche spendibile facilmente sul mercato del lavoro. Grazie a un progetto promosso a livello internazionale, denominato Polaris, a cui hanno partecipato varie figure istituzionali e del volontariato, l'istituto si sta organizzando per avviare uno sportello di Orientamento al lavoro in collaborazione con l'ufficio della Provincia come previsto da protocollo di intesa stipulati dal locale Provveditorato Regionale. Tutto questo viene oggi realizzato grazie all'impegno di tutte le componenti del personale dell'istituto (polizia penitenziaria, educatori, personale amministrativo e sanitario) pur a fronte di una cronica carenza di risorse umane, a cui si sopperisce con lo spirito di sacrificio ed il senso di responsabilità degli operatori di questo istituto, consapevoli anche di essere ciascuno ai propri livelli di responsabilità partecipi di un grande e travagliato processo di trasformazione dell'amministrazione e dell'esecuzione penale.

Fare, dire, difendere, a cura di Paola Springhetti e Paola Atzei

 

Alla fine del '99 c'erano, nelle carceri italiane, quasi 52mila persone, 4mila in più rispetto all'anno precedente. Ci sono circa 90 detenuti ogni 100 mila abitanti (era dal '52 che non si arrivava a una percentuale così alta). Una delle conseguenze è il sovraffollamento delle carceri: in pratica, ci sono 130 detenuti ogni 100 posti disponibili. È da notare che più del 46% dei detenuti erano persone in attesa di giudizio, cioè c'erano in carcere 24mila persone presunte innocenti. I dati sono presi dal rapporto primo Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, (pubblicato da Castelvecchi editore con il titolo "Il carcere trasparente") redatto da Antigone, associazione che si occupa specificamente dei diritti e delle garanzie nei sistema penale. il quadro ricostruito dal rapporto rivela una situazione più difficile di quanto comunemente la gente pensi. La maggior parte dei detenuti è giovane (tra i 18 e i 35 anni), non ha studiato, non aveva un lavoro prima di entrare in carcere. Crescono gli stranieri, anche perché a parità di reato uno straniero ha molte più probabilità di finire dentro; un terzo dei detenuti è tossicodipendente, il numero accertato dei sieropositivi è in crescita, e ad essi vanno aggiunti coloro che sono affetti da epatite e da altre malattie infettive, ma l'assistenza sanitaria è assolutamente insufficiente, tanto che recentemente la stessa Antigone ha reso noto il caso di una giovane detenuta morta per un ascesso non curato. Le strutture, oltre che insufficienti, sono spesso inadeguate o fatiscenti (nel carcere di Catania non c'è l'acqua). L'ora d'aria è spesso ridotta al minimo, per la necessità di fare i turni, per cui capita che i detenuti trascorrano 22 ore su 24 nella stessa cella. Mantenere rapporti con la famiglia è per molti difficile, non solo a causa della lontananza, ma perché i colloqui avvengono attraverso vetri o banchi che non permettono di stringersi la mano, di abbracciare i bambini; gli stranieri trovano mille difficoltà per telefonare a casa. Ma la vita quotidiana è afflitta da molte altre grandi e piccole mortificazioni: la perdita della privacy forzata nelle docce e nei gabinetti, le perquisizioni, il doversi mettere con le spalle al muro quando si incontra un agente penitenziario, i maltrattamenti, i trasferimenti improvvisi... Il sovraffollamento, poi, annulla le possibilità di trattamento, ovvero tutte quelle attività culturali e ricreative, formative e lavorative che almeno in teoria dovrebbero coinvolgere l'intera popolazione detenuta e consentire a ciascuno di costruirsi un proprio percorso "rieducativo". Diventano impossibili perché vengono a mancare non solo il personale, ma gli spazi necessari. D'altra parte, in genere il budget delle amministrazioni penitenziarie riservato alle spese per attività di trattamento non raggiunge l'1%, mentre per 52mila detenuti ci sono in organico 608 educatori in tutto.

Come difendere i diritti nel carcere?

 

Se questo è il quadro, due domande almeno si pongono: perché la gente, la famosa opinione pubblica, è convinta che chi commette reati in carcere non ci vada, e che se ci va è per passare amenamente il suo tempo guardando la televisione e tornando a casa per le vacanze? E non dovrebbe qualcuno preoccuparsi di denunciare la reale situazione, impegnandosi per difendere i diritti dei detenuti, e non dovrebbe farlo il volontariato, che nel carcere entra ma non dipende da esso, e quindi può essere libero nella critica? In realtà, l'impressione è che il volontariato nel carcere, in questi anni, si sia impegnato piuttosto su altri obiettivi: la formazione, il lavoro, i rapporti con il territorio... Romeo Gatti è il responsabile per la Toscana del Pild (Pronto intervento lavoro detenuti), che lavora con i detenuti occupandosi soprattutto di orientamento al lavoro e ha contribuito a costituire la Conferenza regionale toscana del volontariato nell'ambito della giusti zia che, spiega Gatti, "oltre che strumento politico potrebbe essere strumento di denuncia delle condizioni di vita nelle carceri". Quella denuncia che le singole associazioni non fanno. Tra i motivi c'è una tendenza generale del volontariato, sempre più propenso a specializzarsi. Così ognuno si ritaglia un ambito specifico, e tende a demandare tutto il resto ad altre associazioni. D'altra parte, "è difficile chiedere alle associazioni di fare anche questo. Non è per cattiva volontà, ma le energie sono quelle che sono. Credo piuttosto che servano strumenti ad hoc. A Pisa il caso di una persona deceduta per meningite è stato denunciato dalla Conferenza: è chiaro che un coordinamento ha più forza, non è soggetto a ritorsioni come invece lo è un singolo gruppo, magari piccolo". Già, perché il problema delle ritorsioni è molto concreto: permessi negati, complicazioni burocratiche, fino ad arrivare a vedersi negare l'accesso. "E il nuovo regolamento carcerario, ormai approvato, non cambia le cose, in questo senso", spiega Paola Cigarini, portavoce di "Carcere e Città", associazione che lavora nella Casa circondariale di Modena e nella casa di lavoro di Saliceto proponendo attività ricreative, sportive e culturali. L'associazione, inoltre, lavora molto sul rapporto con il territorio, cercando di fare informazione e di essere di stimolo per il dibattito culturale e politico. "Perché fuori dal carcere la voce dei detenuti non arriva, e cosi finisce che l'unico modo che hanno per esprimersi è quello di bruciare le lenzuola. D'altra parte il diritto ad esprimersi non ce l'hanno neanche dentro. Anche esperienze come la Commissione vitto che dovrebbe prevedere la presenza dei detenuti e riguarda problemi molto concreti - durano poco, perché non si sentono liberi di parlare. In parte è vero che il volontariato è stato poco impegnato, o poco esplicitamente, nella denuncia della situazione. Il fatto è che noi non siamo nella condizione migliore per farlo, quindi cerchiamo di coinvolgere autorità esterne, come il sindaco o il vescovo". "Roma insieme" è un gruppo di volontariato che si occupa di disagio sociale fuori e dentro il carcere, lavorando in particolare con le donne e i loro bambini che vivono a Rebibbia. Secondo la presidente, Leda Colombini, "aumentando il numero dei detenuti aumenta quello dei problemi. Siamo sottoposti a una tale richiesta di interventi immediati che restano ben poche possibilità di fare altro". Ma poi sposta la riflessione su un altro piano: "Forse il volontariato ha bisogno di un rilancio di tensione morale ed etica. Forse si è attenuata in noi stessi quella forte capacità di indignazione che fa portare avanti altre grandi campagne, come per esempio quella sulla pena di morte. Si è come attenuata la fiducia nelle possibilità concrete di cambiare la situazione". Ma quali sono i problemi più gravi, cui è più urgente trovare una risposta? "Noi abbiamo scelto di impegnarci sul fronte del lavoro, perché lo riteniamo prioritario", risponde Romeo Gatti, "ma è urgente quello della salute, perché la situazione peggiora. Per esempio, aumentano i casi di Tbc: l'ha presa anche un volontario". Per Paola Cigarini "ci sono molti altri problemi, apparentemente minori, che pure sono importanti: la difficoltà di far convivere etnie diverse, per esempio, e poi i problemi dell'affettività, e quindi dei rapporti con i familiari. Ma soprattutto c'è il problema di essere riconosciuti e quindi rispettati come persone: valga l'esempio della "perquisa", cioè di quel tipo di perquisizione che si fa all'improvviso, in cui ti buttano all'aria tutto, ti staccano perfino le foto appese al muro, ti aprono e svuotano gli armadietti, toccando la roba da mangiare - cosi devi -buttarla - e poi le lenzuola, i vestiti... E c'è il problema dei detenuti in attesa di giudizio, che fanno la stessa vita dei definitivi, anzi, peggiore, perché non possono usufruire dei trattamenti. E poi i detenuti trasferiti quando stanno per finire il trattamento, e gli stranieri che entrano in carcere e nessuno gli spiega il regolamento nella loro lingua..." Tanto lavoro da fare dentro, ma tanto da fare anche fuori. "L'anno scorso", ricorda Leda Colombini, "abbiamo vissuto un momento durissimo, quando i media si prestarono a quella che fu una vera e propria campagna contro la legge Gozzini. Le ripercussioni sul carcere furono immediate: la nostra libertà di muoverci, di lavorare fu ristretta. Gli umori, le tendenze della società fuori si ripercuoto anche dentro. Ma l'ostilità, l'indifferenza della popolazione sono conseguenza del non aver continuato una battaglia di valore". Il gatto si morde la coda, insomma: il non far sapere fuori, alla fine si ritorce contro la . vita dentro. È anche in questa prospettiva che ha senso la proposta di Antigone di istituire un ombdusman, un difensore dei diritti in carcere: "Non sarà risolutivo, ma tutto quello che porta dentro il fuori aiuta. Credo comunque che, parallelamente, occorra una forte assunzione di responsabilità da parte degli Enti. locali. Serve una vera politica dell'accoglienza per i detenuti che escono, sporadiche azioni non bastano". Un lavoro da fare in loco Don Ettore Cannavera è cappellano dell'Istituto penale minorile di Cagliari e ha costituito una comunità per accogliere minorenni cui sono state concesse le misure alternative. È conosciuto per il coraggio con cui, in più occasioni, ha denunciato quello che non andava. "La condanna peggiore per un detenuto è la condanna all'ozio, che significa percepirsi inutili, e anzi di peso per la società", spiega. "Naturalmente parlo dei detenuti giovani adulti, che per la maggior parte sono povera gente finita in carcere per essere caduta in una rete di malavita, a volte per necessità, a volte per non aver avuto una formazione che l'aiutasse a capire il senso della vita. L'ozio crea a volte depressione, a volte una frustrazione che si scarica in violenza o autolesionismo, per cui spesso vengono sedati con psicofarmaci". Sono loro a chiedere gli psicofarmaci o glieli danno? "Ci sono detenuti che li chiedono, quelli che per esempio ne hanno già esperienza o hanno esperienza di droga. Ci sono addirittura ragazzi che si fanno passare per tossicodipendenti per avere il metadone, così si tranquillizzano". Un problema è il tempo, e poi? "Lo spazio. Il dover convivere in pochi metri con persone diversissime. Quando un ragazzo mi dice: io ho nella mia stanza un malato di Aids, due tossici che di notte si svegliano e cercano roba, per cui non riesco a dormire né di notte, né di giorno… che cosa rispondo? È duro dover condividere il tavolo, il bagno, il letto, tutto lo spazio quotidiano con persone con problemi diversissimi. E perché sopportare tutto questo?". Perché sperano di uscirne… "Non hanno speranza. Al massimo sperano di uscire dal carcere, ma non dal tunnel. La recidività è altissima, e loro ne sono consapevoli, come sono consapevoli di non avere acquisito, quando escono, alcuno strumento formativo o professionale per poter fare una vita diversa". Cosa bisognerebbe fare? "Istruzione, apprendimento di una professione, psicoterapia… Bisogna dargli una progettualità. A vent'anni non essere riconosciuti nella propria dignità di uomo, vuol dire perdere tutte le speranze su se stessi. Per questo sono importanti le relazioni con gli operatori: per la maggior parte del tempo sono a contatto con altri ragazzi come loro e soprattutto con la polizia penitenziaria: Nelle carceri italiane, su più di 40mila agenti della polizia penitenziaria ci sono circa 700 educatori e altri 200 tra psicologi e sociologi. Serve un lavoro serio di formazione con gli agenti di polizia, perché diventino capaci di una relazione positiva". Il volontariato in che modo tutela i diritti? "Quello penitenziario è il più debole tra tutti i volontariati. Non è tutelato, non ha pari dignità, è subordinato a tutti: all'educatore, agli agenti, al direttore… È un volontariato in genere ancora assistenziale, in linea di massima non impegnato sul fronte dei diritti, proprio perché si preoccupa del singolo detenuto, ma non rimette in discussione l'insieme, perché non è preparato culturalmente". La denuncia può coesistere con dialogo con le istituzioni? "Il problema è riuscire a far capire che il volontariato è la società che entra in carcere, e che deve essere disponibile innanzitutto a fare, ma poi a dire le cose che non funzionano. Bisogna tenere insieme il fare con il denunciare. La denuncia fatta dalle organizzazioni nazionali, nei convegni, è generica, serve a poco. La denuncia deve essere fatta in loco, con delle persone precise, su dei fatti precisi". Ma c'è la paura di vedersi chiudere le porte. "Bisogna riuscire ad avere un dialogo diverso con questa gente, oppure bisogna creare altri strumenti. A Sassari, dopo tutto il can can nato dalla denuncia di maltrattamenti nella primavera scorsa non è cambiato nulla. Anche per questo stiamo organizzando un osservatorio esterno, un organo di controllo e di tutela dei diritti fondamentali dentro il carcere, un gruppo di persone sensibili a questi problemi - un giornalista, un avvocato, un magistrato, un volontario, familiari dei detenuti… - che denuncino certe cose. Però non possono farlo i volontari da soli".

Una proposta: l'Ombudsman

 

Uno dei curatori del rapporto sul carcere, è Stefano Anastasia responsabile nazionale di Antigone. Secondo lui, bisogna cercare molto attentamente le vere cause dei problemi negli istituti carcerari, per trovare le risposte giuste. Al sovraffollamento, per esempio, "non si risponde con l'ampliamento delle strutture. Il problema vero è che c'è una tendenza alla crescita del sistema di esecuzione penale, interna ed esterna". Perché è aumentato il numero dei detenuti e l'utilizzo della misura cautelare? "È l'effetto dell'apprensione per la u sicurezza che c'è nella società, per cui gli operatori della giustizia penale - a partire dalla polizia che ferma la persona per strada, fino al giudice in attesa del processo - tendono in qualche modo a cautelarsi rispetto a questa domanda. Ma non c'è stato un mutamento normativo che giustifichi questo aumento". Non è solo per il sovraffollamento che oggi molti restano esclusi dal trattamento. "Serve più personale e servono più risorse. Poi c'è il problema del rapporto con l'esterno: ci sono alcune realtà in cui c'è, da parte dell'esterno, un'offerta di accoglienza, e quindi c'è un rapporto con il volontariato tale che si possono costruire percorsi di inserimento. Ci sono altre realtà, soprattutto nel Mezzogiorno, in cui questo raccordo non c'è. Ci sono realtà in cui c'è un operatore volontario ogni dieci detenuti, e altre in cui ce n'è uno per tutto l'istituto. Serve quindi anche un investimento della società civile". Il nuovo regolamento penitenziario migliorerà i problemi di vita quotidiana? "Probabilmente su alcune cose si poteva fare di più, ma l'importante è che ci siano standard che riguardano la generalità dei detenuti e che hanno a che fare con le strutture penitenziarie. Intendo: la luce e l'abitabilità delle celle, le docce in tutte le celle, il bidè nelle celle delle sezioni femminili, una cucina ogni 250 detenuti... Comunque, nel gennaio '99 c'è stata una sentenza delle Corte costituzionale secondo la quale l'ordinamento penitenziario è incostituzionale nella misura in cui non consente una tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. I detenuti hanno solo un diritto di reclamo, ma non hanno la certezza che il loro reclamo sia analizzato nelle forme dovute e produca una decisione giurisdizionale. È passato un anno e mezzo abbondante ma il problema è stato dimenticato". I diritti maggiormente negati in carcere quali sono? "Enorme è quello del diritto alla salute: due terzi dei detenuti sono in qualche modo malati. Siamo in una fase transitoria, di passaggio di competenze, che vede resistenze e scontri tra l'interno e l'esterno al carcere. Poi c'è il diritto al lavoro, che dovrebbe essere un'offerta generalizzata, ma che per molti problemi non si riesce a realizzare. Il terzo grande diritto è quello della formazione, un problema su cui fino ad ora non c'è stata una vera programmazione che consenta un minimo di offerta formativa". Resta il problema dei maltrattamenti e degli abusi "Il carcere è costrizione fisica, e questa è una radice violenta del carcere ineliminabile. Però non può essere presa come giustificazione per violenze e maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Purtroppo invece ci sono e dipendono da una serie di problemi, soprattutto culturali e di rapporto tra operatori e detenuti. Serve un lavoro di formazione del personale: la polizia penitenziaria deve trovare la propria qualificazione professionale non nell'essere quelli che chiudono e vigilano, ma nell'essere la polizia cui è demandata la tutela dei diritti fondamentali delle persone che stanno dentro. Per il resto, bisogna cercare la massima apertura dell'istituzione penitenziaria, che significa incentivare quanto più possibile non solo l'ingresso del volontariato, ma anche la collaborazione istituzionale dei penitenziari con altre istituzioni dello Stato. La presenza dentro l'istituzione di persone o gruppi che non dipendono da essa è garanzia per la prevenzione dei maltrattamenti". Voi avete fatto anche la proposta di un Ombudsman, cioè di un difensore civico dentro il carcere. "È una proposta che nasce dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e risponde essenzialmente a due livelli di tutela: da una parte quello dei diritti quotidiani e, anche grazie al pronunciamento della Corte costituzionale e al nuovo regolamento, è prevedibile che sulla magistratura di sorveglianza si scaricheranno centinaia di migliaia di reclami. Un difensore civico che svolga una funzione di mediazione tra il detenuto e l'amministrazione penitenziaria, può diminuire drasticamente questo carico. L'altro versante del lavoro del difensore civico è quello della prevenzione dei maltrattamenti".

Il problema è fare meno carcere

 

Mons. Elvio Damoli, prima di diventare direttore della Caritas italiana, è stato per vent'anni cappellano del carcere di Poggioreale In che misura al volontariato che lavora nelle carceri spetta un compito di denuncia? "Dobbiamo chiarire che cosa significa denuncia e che cosa significa diritti. L'obiettivo del volontariato in carcere è da sempre di difendere e riconoscere al detenuto i suoi diritti: il diritto ad una vita dignitosa, al rapporto con il mondo esterno, con la famiglia, ad avere giustizia (e quindi a una difesa non di ufficio), a reinserirsi poi nel mondo esterno... Nella misura in cui il volontariato opera in questi settori difende i diritti del detenuto. Negli anni c'è stato un certo cambiamento all'interno dell'istituzione penitenziaria. L'amministrazione, stimolata anche dalla presenza del volontariato, ha assunto atteggiamenti diversi nei confronti dei detenuti. Ma il carcere è una istituzione totalizzante, chiusa per definizione, e nella struttura penitenziaria, checché se ne dica, prevale l'aspetto custodialistico, disciplinare, direi oppressivo. Quindi il volontariato, che viene a disturbare questa logica, non è gradito. Ci sono amministrazioni e direzioni del personale intelligenti e aperte, che considerano il volontariato come una presenza di valore nella logica della risocializzazione e dello spirito della riforma penitenziaria". Ma chi si trova invece amministrazioni che non hanno questa sensibilità, cosa può fare? "Lo strumento della protesta e della denuncia potrebbe essere quello più appariscente, ma certamente è anche il più dannoso al detenuto. Il volontariato che si presenta nel carcere come alternativa all'istituzione penitenziaria viene inevitabilmente messo fuori. Il volontariato in carcere fa ancora riferimento a una legge del '75, non è visto come un ruolo attivo, autonomo alla pari, ma come un contributo al progetto del carcere. È questo che bisogna cambiare: il progetto carcere. Dopo la legge quadro, la 266/91, andrebbe rivista anche la posizione del volontariato nelle carceri, che peraltro in questi anni è cresciuto e non solo di numero. Ma, ripeto, il vero problema è cambiare il carcere. L'abbiamo ribadito anche nel giugno scorso, quando si discuteva di indulto o amnistia: non servono né l'una né l'altra se non si modifica la struttura di fondo, la logica del carcere". La protesta dura non serve, fare un'informazione diversa sì? "È un compito fondamentale fare informazione sulla situazione del carcere, sulla sua realtà. Ma bisogna anche porre all'opinione pubblica il problema del concetto della pena, perché per troppi la pena risponde a un desiderio di vendetta. In fondo, la legge Gozzini non è riuscita a cambiare il carcere perché nella gente non c'era una coscienza critica pronta ad accoglierla. Un altro problema è quello connesso all'aspetto giuridico, penale, con i tempi di eterni, che non finiscono mai. Ma soprattutto bisognerebbe chiedersi e chiedere all'opinione pubblica se ha ancora senso il carcere oggi. Anni fa, quando si discuteva della riforma penitenziaria, si parlava di carcere, meno carcere, non carcere... Credo che quei concetti siano validi ancora, invece si è fatto il contrario: più carcere. Più che far denuncia su questa persona o su quell'altra, su quel direttore o sull'altro, bisogna impegnarsi su questi temi. La denuncia è nei confronti dell'istituzione come tale".

Intervista a Giancarlo Caselli, direttore del Dap

 

L'estate 2000 è stata certamente "calda" per ciò che riguarda il mondo delle carceri. Da una parte sovraffollamento delle nostre prigioni e condizioni detentive impossibili; dall'altra parte ampi strati della società civile con un bisogno estremo (e non poche volte "gridato") di sicurezza, di pene sempre più severe. Dove si colloca il volontariato penitenziario, tra questi due estremi?

 

"La popolazione carceraria è di circa 15.000 persone in più rispetto alla capienza consentita dai nostri istituti di pena. Ma la condizione abitativa "difficile" non riguarda solo i detenuti; anche gli operatori penitenziari sono coinvolti da quest'impossibile vivibilità carceraria (con tutte le conseguenze che questo comporta sul terreno della rieducazione). Se a tutto questo si aggiunge che il carcere sta diventando un gran contenitore dei problemi sociali che non si riesce (o non si vuole?) risolvere, la situazione non è certamente rosea. Il 30% della popolazione carceraria in Italia è costituito da tossicodipendenti, il 25% da stranieri, per non parlare dei "poveracci" che abitano nelle nostre prigioni: emarginati, disadattati, malati di mente... È ovvio che all'interno delle carceri si trovano anche colpevoli di reati seri e pericolosi, ma non dimentichiamolo: sono un'esigua minoranza. Illudersi che un carcere cosi strutturato contribuisca a dilatare sicurezza vuol dire non tutelare i cittadini dal rischio crimine e, allo stesso tempo, smarrire la direzione della giustizia: la sola strada per rompere la spirale viziosa della vendetta in presenza del male e per costruire la legalità che prepara abitabilità più garantita, per tutti".

 

È in questo spazio che s'inserisce il volontariato penitenziario? 

 

"Proprio in questo spazio. Se tra società civile e chi è chiamato a scontare una pena esiste un muro invalicabile, la pena non è opportunità per correggere la propria condotta e momento rieducativo, ma condanna senza appello e negazione di speranza. Il senso del volontariato tra i detenuti è proprio questo: opporre alla logica del "muro" la cultura del "ponte", per fare incontrare chi ha sbagliato e chi ha permesso l'errore sul terreno della solidarietà e della legalità. Vorrei esser chiaro: non significa costruire "complicità" inutili e dannose con il detenuto, ma più radicalmente tutelare chi è più debole per impedire che la pena diventi ritorsione, come chiede Giovanni Paolo II". 

 

Ci sono altri ruoli che si possono attribuire al volontariato?

 

"Non vorrei chiedere al volontariato tutto e di conseguenza troppo. Il volontariato deve affiancare altre istituzioni dove, tra l'altro, ciascuno deve fare la sua parte. Ciò premesso credo che il ruolo principale che il volontariato penitenziario è chiamato a svolgere riguarda l'esterno, non l'interno del carcere. Mi spiego. Occorre rompere l'atteggiamento superficiale che spesso - come società - sentiamo pronunciare sul carcere: "Se sono dentro è perché se lo sono voluto", "devono pagare senza sconti", "buttare via la chiave"... Si tratta di un'operazione culturale di altissimo livello che passa attraverso il linguaggio privilegiato del volontariato: la pratica della giustizia e la testimonianza della solidarietà. Se carcere e detenzione diventano l'unica sanzione possibile ed il solo strumento in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e di appagare il loro bisogno di riparazione simbolica (non delle vittime), è segno che abbiamo davvero bisogno di un nuova cultura della "giustizia" proposta anche dal volontariato. Siamo chiamati a ripensare la pena ed a ritornare a governarla prima che questa diventi ingiusta e come dice il card. Martini: non possiamo solo cercare pene alternative, ma più radicalmente la giustizia ci chiede di inventare alternative sociali alle pene detentive. Con il pungolo, la profezia e il coraggio del volontariato, questo cammino è certamente più praticabile".