Convegno "Carcere e territorio"

Percorsi di recupero e di reinserimento sociale delle persone detenute

Galliera Veneta (Pd) - 28 novembre 2003

 

Giovanni Maria Pavarin, Magistrato di Sorveglianza di Padova

 

Il valore dell'attività risarcitoria Il 7° comma dell'art. 47 o.p. prevede che nel verbale contenente le prescrizioni cui deve attenersi il condannato, cui il Tribunale di Sorveglianza conceda la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale, debba essere stabilito che l'affidato si adoperi per quanto possibile in favore della vittima del reato. Una constatazione: la prescrizione è stata tradizionalmente trascurata sia dalla magistratura di sorveglianza, sia (e di conseguenza) da parte dei C.S.S.A., sia (a maggior ragione) da parte dei condannati, sia (e per forza) da parte delle vittime dei reati (il Procuratore Generale, rappresentante della parte offesa necessaria, cioè lo Stato, se ne disinteressa; il privato, persona offesa dal reato, non viene addirittura nemmeno messo a conoscenza dell'esistenza del procedimento di sorveglianza richiesto dall'autore del reato che lo ha ferito, né del suo esito). La causa della trascuratezza dipende anzitutto da un errore di stampa contenuto nei testi di legge che hanno riprodotto la legge Gozzini (la prescrizione risarcitoria non "può", ma "deve" essere imposta dal Tribunale): si deve alla pignoleria di Lino Monteverde, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova, la scoperta del refuso, l'invito alla correzione rivolto alle case editrici e la raccomandazione a tutti i magistrati di sorveglianza di farsi carico dell'obbligatorietà della prescrizione sancita dalla legge. Ma la ragione della svista dipende a mio avviso anche da ragioni storico-culturali ben note: la nascita dello Stato, specie nella visione illuministica di stampo settecentesco, quasi viene fatta coincidere con l'autorinuncia da parte del privato al diritto di farsi giustizia da sé e con l'attribuzione di tale delega allo Stato, il quale - in cambio - fornisce la tutela del diritto alla sicurezza personale. In tale ottica, è giusto ed opportuno che la vittima rivesta una posizione debole e marginale nel processo penale, ove essa è un ospite mal tollerato, ivi dovendo primeggiare la posizione del P.M., rappresentante dell'interesse collettivo all'affermazione della responsabilità penale conseguente alla commissione di un fatto-reato che, per sua stessa definizione, è concepito come offensivo degli interessi dell'intera collettività. In fase esecutiva, la posizione della vittima addirittura sparisce a livello procedimentale, ove non ne è prevista alcuna forma di interpello. Quanto alla pena, che è la conseguenza dell'affermazione della responsabilità penale, essa può indifferentemente ispirarsi ad una qualsiasi delle seguenti logiche sanzionatorie: retributiva, general-preventiva, special-preventiva e rieducazionale. Tali diverse concezioni della natura e della funzione della pena sono perfettamente indifferenti in relazione al tema della riparazione del danno causato dal reato: nulla cambia, cioè, a seconda che ci si ispiri all'una o all'altra di queste concezioni. In ciascuna di esse, infatti, il ruolo della vittima è pur sempre marginale: non interessa allo Stato che il diritto al risarcimento resti spesso insoddisfatto, mentre quasi del tutto trascurata è la dimensione emozionale dell'offesa. L'ingenuità giusnaturalistica sottesa a tale visione comincia però a fare il suo tempo: la storia del diritto penale è infatti contrassegnata da un lento processo di umanizzazione delle pene, che passa attraverso l'abbandono delle forme più crudeli di repressione e l'aspirazione verso una vasta moratoria rispetto all'applicazione non solo della pena di morte, ma anche delle forme più crudeli di repressione. Esiste cioè un tortuoso (e spero inarrestabile: ma Vico mi darebbe torto) cammino storico verso risposte meno afflittive e più efficaci nel controllo del crimine, tutte riassumibili nella nascita del concetto della giustizia cosiddetta riparativa. Si tratta di un nuovo paradigma, del tutto sconosciuto prima d'oggi, che produce ovviamente molte resistenze, in quanto le logiche retributive e special-preventive sembrano guadagnare nuovo credito e consenso politico generalizzato all'accadere di ogni fatto criminoso di una certa entità. E' proprio il rinnovato interesse per la vittima che ha contribuito a promuovere l'emersione del modello riparativo, che sta riscuotendo crescente interesse sia in Europa sia nell'area giuridica della common law. Per stare alla definizione che ne danno i criminologi, la giustizia riparativa può definirsi come quel modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti ed il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo (cfr. CERETTI - DI CIO', Giustizia riparativa e mediazione penale a Milano. Un 'indagine quantitativa e qualitativa, Rassegna penitenziaria e criminologica 2002, p. 100, passim). Attenzione: riparare non significa riduttivamente controbilanciare in termini economici il danno causato dal reato. I ricchi se ne avvantaggerebbero, e avrebbero sempre modo di pagare senza alcun affanno i propri debiti con la giustizia: riparare, direbbero i romani, consiste invece in un facere, e non solo e non tanto in un dare. Il concetto di riparazione ha cioè una valenza assai più profonda ed assume uno spessore etico che la rende assai più complessa del mero risarcimento, e che affonda le proprie radici proprio nel percorso di mediazione che la prevede. Il 10° Congresso Internazionale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e sul Trattamento dei Rei, tenutosi a Vienna nell'aprile del 2000, si è concluso proprio con due risoluzioni che impegnano gli Stati membri ad adottare strategie di intervento a tutela delle vittima improntate ai concetti di mediazione e di giustizia riparativa. Sugli obiettivi della riparazione, rimando alla lettura dell'articolo di Ceretti e Di Ciò sopra citato. Il significato della prescrizione generalmente imposta dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia è più o meno il seguente: se hai i soldi risarcisci; tenta comunque di fare i qualcosa, e per di più gratis, a favore della collettività. Sarebbe bello se il C.S.S.A. ci aiutasse ad inventare delle prescrizioni costruite ad hoc, caso per caso: appare ad esempio evidente come, una volta sposata la logica della giustizia riparativa, si apra lo spazio alla fantasia ed alla creatività degli assistenti sociali, i quali - dopo aver avuto il contatto con il condannato che chiede la misura della libertà - possono già trovarsi in grado di capire quale sia la via praticabile in concreto per soddisfare le esigenze sottese alla realizzazione degli obiettivi sopra indicati. Quanto ai soggetti che chiedono la misura dal carcere, non vi nascondo che il leggere ed il rileggere, nelle Sintesi o negli Aggiornamenti, che il condannato si dichiara disponibile a svolgere azioni utili a favore della collettività, acquista il valore di uno stereotipo, di una formula stantìa, che non dà particolare entusiasmo a chi legge. Si ha quasi l'impressione che chi scrive pensi: "Ecco accontentata anche la magistratura di sorveglianza, che ha il pallino del risarcimento e che ci complica il lavoro". Spero di aver così chiarito cosa si vorrebbe e si potrebbe pretendere da chi chieda la misura alternativa più ampia prevista dalla legge Certo: è tutto da costruire e da inventare, ma il senso dei convegni è proprio quello di progettare insieme un futuro più credibile ed al passo con la mutata coscienza giuridica e sociale, che deve giocoforza investire anche noi operatori della pena.