Giorgio Pieri
Sono Giorgio Pieri della Comunità Papa Giovanni XXIII, e mi viene da ringraziare per il fatto che in tutti gli interventi ho sentito molta passione, e penso che la Comunità Papa Giovanni XXIII sia uno dei tanti secchi che tenta di svuotare questo mare, ma mi sento proprio di dire grazie perché ce ne sono comunque tanti di questi secchi. È una testimonianza quella che vi faccio. Nelle nostre case abbiamo circa una cinquantina di detenuti comuni, e la comunità ha circa duecento case famiglia: essere casa famiglia significa essere un babbo e una mamma che abitano in quella casa, dormono mangiano e vanno in bagno, vanno in vacanza e fanno tutto insieme, e in queste case accolgono detenuti. L’intervento che quindi noi facciamo con i detenuti vuol essere un intervento di tipo personale ed educativo; riteniamo che questa specificazione sia importante per cui attiviamo dall’uscita dal carcere percorsi personali, personalizzati. Il principio base è questo, ovviamente tutti possono sbagliare, ma non solo, quando una persona è pentita, il carcere bisogna renderlo inutile, è inutile, il carcere non va dato, quando una persona è pentita va fatta uscire, quindi sulla base di questo principio noi ci attiviamo di conseguenza.
Poi la persona detenuta che ha fatto certi sbagli si cerca di inserirla là dove può risarcire le vittime, è il caso di tanti che hanno fatto il reato di spaccio, che vengono inseriti là dove ci sono tossicodipendenti. Altro punto: siamo convinti che davvero non possiamo dare semplicemente le risposte che possiamo, ma vanno cercate risposte personalizzate, tenendo conto dell’età, del sesso, della religione, delle problematiche. Per educare non bastano solo la casa e il lavoro, e infatti abbiamo visto fallire dei progetti proprio quando abbiamo dato al detenuto la casa o il lavoro. Ci vogliono soprattutto relazioni precise e significative, cioè persone che scelgono di condividere il destino, la vita affettiva con il detenuto, altrimenti si rischia molto. L’altro punto, proprio specifico della nostra comunità, è proporre anche alle persone detenute di scoprirsi risorsa. Tra le tante cose c’è appunto lo stare anche con persone in difficoltà, con handicap, quindi questi percorsi personalizzati li facciamo anche grazie al fatto che in Italia abbiamo circa sessanta cooperative e circa duecento case, per cui riusciamo anche a muoverle. La difficoltà che viviamo è soprattutto dal punto di vista proprio del riconoscimento: un detenuto costa circa duecentocinquanta, trecento euro al giorno in carcere, fuori non abbiamo alcuna forma di riconoscimento se non qualche euro in questo ultimo anno.
Vorrei fare un’altra considerazione: i volontari non hanno tempo, devono prendere i permessi per uscire dal lavoro e andare in carcere, devono prendere i permessi per andare a fare l’incontro con l’assessore, devono prendere i permessi per andare a fare l’incontro in comune, devono prendere i permessi per essere umiliati in comune o dall’assessore, e io quindi faccio questa domanda: ma è possibile? Io penso che l’alternativa ci sia, allora la domanda è: ma la vogliamo? Perché in questo momento la comunità è un’alternativa, perché allora non c’è un riconoscimento? E poi dagli interventi di oggi, ho sentito anche che molti hanno questa passione, quindi penso che vadano fatti dei passi significativi per avere un permesso. È possibile che una ragazza che è venuta in permesso a casa mia ha dovuto aspettato un anno e mezzo? Gli hanno chiusa la sintesi e l’hanno trasferita in un altro carcere. Là le hanno riaperto la sintesi, l’hanno chiusa e l’hanno ritrasferita. Cioè ci sono poi delle procedure che fanno pensare che il mondo del carcere è davvero rimasto molto, molto indietro. Però sono convinto che l’alternativa c’è, questo volevo dire.