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Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti" L’affettività
e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute Le
difficoltà di assumere ruoli e funzioni familiari di Alain Bouregba, direttore della Federazione dei Relais Enfants - Parents
Durante questo intervento esporrò, sulla base della mia esperienza, le difficoltà dei padri incarcerati nell’assunzione dei loro ruoli e funzioni. Successivamente dimostrerò come queste difficoltà costituiscano un danno per il loro re inserimento e quanto sia giusto sostenerli per consentire loro di assumere le responsabilità familiari, questo nell’interesse dei figli stessi. In caso di detenzione le condizioni per esercitare le funzioni e il ruolo di padre sono determinate da diversi fattori; esaminarle in modo esaustivo pretenderebbe una lunga trattazione. Per questo non potendo tracciarne tutto il panorama mi propongo di suggerirne le dinamiche. Prima di tutto ricordiamoci che la paternità non è come la maternità, fondata sull’esperienza, ma riposa su un enunciato. Inizialmente sull’enunciato della madre, che indica il padre del bambino che porta in grembo, e poi su quello del bambino che attende dal padre l’assunzione delle sue responsabilità. Questa supremazia dell’enunciazione sull’esperienza nella paternità le conferisce un posto importante nella individuazione. Inserirsi nella filiazione paterna significa sottomettersi ad un principio genealogico che riposa su un legame simbolico e non sulle scelte affettive. La funzione paterna proietta, nell’accezione matematica del termine, il bambino – che viene sottratto dalla madre e dal periodo della gestazione e della simbiosi dei primi mesi di vita - in una struttura dominata delle regole dell’alleanza e dell’appartenenza. È a partire dalla funzione paterna che il cucciolo dell’uomo integra l’asimmetria dei livelli generazionali. Questo trasferimento del bambino, dall’universo dominato da legami sensibili a quello dominato dai legami simbolici, caratterizza la funzione paterna. Quindi, il padre reale non può essere identificato in questa funzione: dal momento che ogni iscrizione o affiliazione del bambino ad una comunità religiosa o etnica contribuisce all’esercizio di questa funzione. D’altro canto, l’esperienza della paternità è anche un’esperienza sensibile nel corso della quale il padre percepisce il figlio come un prolungamento di sé. La paternità e la funzione paterna sono due nozioni diverse. Il padre contribuisce a inserire il bambino in una rete strutturata di appartenenze, ma del resto il suo legame col figlio è immerso in una serie di relazioni dominate da reciproche identificazioni, vale a dire identificazioni del bambino col padre e parallelamente del padre col figlio. Il padre vede in suo figlio quello che era e/o quello che avrebbe voluto essere. In questa prospettiva, notiamo che l’identificazione proiettiva del padre sulla figlia femmina è tanto forte quanto quella del padre sul figlio maschio. Nel caso dell’identificazione col figlio, il complesso immaginario col quale il padre identifica il bambino (proiezione) prima di identificarsi lui stesso (introiezione) è guidato dal suo ideale maschile. Allo stesso modo, il suo contenuto è preconscio e apparente. Nel secondo caso, il padre proietta sulla figlia un ideale di femminilità che avrebbe voluto incarnare se fosse nato femmina e non l’ideale di donna che vorrebbe possedere. Le identificazioni di cui stiamo parlando sono quelle ereditate dal narcisismo primario, cioè quelle dominate dal dilemma dell’essere o del non essere e non, come nella posizione edipica, dal dilemma dell’avere o del non avere. La paternità si costruisce su un attaccamento affettivo rappresentato dall’identificazione del bambino con un immaginario complesso, prodotto dallo stesso padre e si apre all’iscrizione in una appartenenza che trascende la sola figura del padre. E’ per questo che l’analisi di una posizione paterna suppone altresì l’analisi della natura dell’attaccamento del padre al figlio come pure della trasmissione patrimoniale. Propongo qui di discutere, in queste poche righe, le difficoltà dell’attaccamento da parte del padre carcerato al figlio, e in un secondo tempo, di discutere le sue difficoltà nel trasmettere la sua storia.
L’attaccamento al figlio da parte del padre detenuto
Questo attaccamento è ipertrofico (esagerato) sul piano dell’immaginario, non potendo essere vissuto nella realtà. Più il padre perde il contatto col figlio e più gli dà una straordinaria importanza, fissandolo in un quadro ideale. Alcuni padri che rifiutano di ammettere la crescita dei loro figli, ne parlano quando sono adolescenti come fossero i bambini che hanno lasciato al momento dell’arresto. Questa ipertrofia dei legami immaginari suscita, in alcuni padri, proiezioni terrificanti relative al divenire del loro figlio o, al contrario, proiezioni idilliache e fuori della realtà. In entrambi i casi il figlio reale, di fronte al padre detenuto, viene messo in competizione col figlio sognato. Le fantasticherie del padre, stimolate dall’assenza, sono spesso lontane dal figlio reale che, in visita qualche ora al mese, non può dal canto suo imporre al padre di rivedere i suoi sogni sulla base della realtà. Col tempo il bambino si sente sempre più estraneo all’immagine alla quale lo ha ridotto il padre, al punto che a volte non può più comunicare con lui. L’eccesso d’immaginazione nell’attaccamento del padre al figlio finisce per ostacolare la loro relazione fino a renderla addirittura impossibile.
La trasmissione paterna
Le difficoltà di attaccamento inerenti a qualsiasi situazione di distacco di un genitore nei confronti del figlio non bastano a spiegare tutte le caratteristiche dei legami del padre carcerato nei confronti di suo figlio. Da una parte questi legami sono dominati dalla paura del detenuto di contagiare suo figlio con i germi psicosociali che l’hanno reso un delinquente. La prigione trasforma i colpevoli in vittime, sentimento che cresce col prolungarsi della pena. Invece di favorire la nascita del sentimento di responsabilità la pena convalida le esperienze d’irresponsabilità. Le condizioni stesse della detenzione, in cui tutto è programmato, in cui il detenuto viene ridotto a fanciullo, stroncano lo sviluppo della funzione di padre. Si può trasmettere solo ciò di cui ci si sente responsabili. Viceversa un genitore che trasmette a suo figlio la sua storia senza assumerne la responsabilità (e non la giustificazione) lo spinge ad una coscienza infelice. Il padre deve poter dire: "Ecco quello che ho fatto a partire da quello che sono, a te ora tocca fare cose che ti apparterranno a partire dal nome che ti trasmetto". Il sentimento di irresponsabilità ha come effetto di far dire al padre: "Il mio nome, che è anche il tuo, mi ha reso infelice, mi ha portato ad essere quel che sono, trasmettendotelo ti trasmetto questa determinazione". La portata simbolica della parola del padre deve far capire al bambino che la trasmissione non è una alienazione, un condizionamento ma piuttosto la condizione stessa della libertà. L’infantilismo, l’irresponsabilità, il vittimismo, che sono i punti forti dell’esperienza carceraria, compromettono pericolosamente il padre nella sua funzione di trasmissione. Inoltre si osserva frequentemente l’abbandono del ruolo con le molteplici conseguenze che ne derivano sullo sviluppo del bambino.
Ostacoli psicosociali nell’esercizio della funzione di padre
Ho già tentato di descrivere i diversi elementi che possono turbare il legame del padre col figlio e quindi stroncare le sue capacità di assumere la funzione paterna. Limitando la mia proposta a quest’unico punto di vista psicologico, assumerò il rischio di omettere una parte importante delle difficoltà dei padri incarcerati. I legami fra il figlio e il padre in prigione sono sicuramente ostacolati da meccanismi psicologici, ma lo sono anche da norme e aspetti sociali e psicosociali che devo citare. I rapporti fra il figlio e il genitore detenuto sono spesso colpiti da difficoltà economiche (costo dei viaggi), da reticenze o divieti amministrativi e giuridici. Possono anche essere ostacolati dall’esistenza di conflitti famigliari o più semplicemente da ricomposizioni familiari. Considerando questi ostacoli le équipes di Relais Enfants - Parents sono spinte a diventare mediatrici. Mediatrici fra il padre carcerato e la madre del bambino, mediatrici fra il padre in prigione e l’istituzione a cui il bambino è stato affidato, mediatrici fra un padre imputato e il giudice istruttore, mediatrici a volte fra il padre detenuto e il figlio. Questa funzione giustifica il termine di "relais" (staffetta) ed è di grande attualità nell’ipotesi di padri stranieri o di origine estera (più di un terzo della popolazione carceraria). Troppo spesso a causa della separazione dei nuclei familiari dovuta all’emigrazione, i carcerati accumulano difficoltà sociali e psicologiche. Azioni come le nostre, portate avanti da 17 anni fra le 15 associazioni regionali dei Relais Enfants - Parents, contribuiscono efficacemente a ridurre gli effetti innegabili dell’emarginazione carceraria. Per definizione l’essere umano è legato al suo simile, ridurlo a se stesso ed isolarlo porta inevitabilmente a degradarlo allo stato animale. Perciò le pene che tolgono la libertà devono cercare di ridurre le conseguenze derivanti dalla curiosa contraddizione: distruggere per riparare. Nel cuore di questo paradosso, i legami familiari, autentiche linee di confine fra i punti di riferimento umanizzanti e gli intrighi più violenti e dolorosi, complicano le domande su dove s’intersecano le competenze educative, psicologiche, giuridiche e sociali. Ma inoltre è fondamentale agevolare la continuità dei legami familiari senza pertanto ridurli a statuto di strumento a servizio del reinserimento del genitore carcerato. I legami familiari e, a fortiori, quelli con i figli, non possono essere strumentalizzati dalle politiche penali. Questi legami concorrono in modo naturale a ridurre gli effetti dell’emarginazione della detenzione, ma non possono venire sfruttati a questo scopo. La sfumatura è fondamentale. In situazioni precise l’esperto dell’infanzia è obbligato a farvi frequentemente riferimento. Perciò, nel caso di un forte stato depressivo di un detenuto, può succedere che la direzione di un penitenziario, o addirittura un servizio psichiatrico, si mettano in contatto con i professionisti dei Relais per via dell’aggravarsi del disagio di un genitore dovuto all’assenza del rapporto col figlio. Ora, se ci premuriamo di manifestare la nostra compassione e il nostro rispetto per la sofferenza psichica del detenuto, siamo anche consapevoli che non si possa assegnare al bambino un ruolo terapeutico nei confronti del genitore. La rottura delle relazioni familiari rappresenta per il detenuto un fattore che aggrava le difficoltà di reinserimento. Alcuni studi, come quello di Brodsky del 1975, dimostrano che i genitori detenuti che hanno mantenuto i legami familiari sono meno recidivi e fra loro si riscontrano anche meno problemi di disciplina carceraria. Spetta quindi agli esperti dell’infanzia, psicologi, pediatri, pedagogisti valutare in certe situazioni come o fino a che punto accompagnare le relazioni fra il bambino e il genitore incarcerato. Per questo l’originalità della rete delle associazioni Relais Enfants - Parents, che in Francia aiutano a mantenere i legami compromessi dalla detenzione in più di un quarto degli istituti di pena, nasce su iniziativa degli esperti dell’infanzia. Questi esperti fungono, come ho detto prima, da mediatori in situazioni in cui le relazioni sono compromesse da conflitti che mettono il detenuto contro l’altro genitore o le autorità giudiziarie. Ma più specificatamente noi interveniamo nei confronti del bambino, accompagnandolo nei luoghi di detenzione ove possa incontrare il genitore in spazi preposti allo scopo. In queste occasioni possiamo aiutarlo ad esprimere senza vergogna o senso di colpa i suoi possibili disagi. Ci capita allora di sentire che il figlio tema di essere sleale o di ferire il genitore confessandogli che preferirebbe venire meno spesso in prigione. In altre occasioni il figlio può comunicarci la sua incapacità di capire espressioni violente o indignate del genitore di cui non comprende la portata e che gli fanno paura. Infine è nostro compito anche aiutare il figlio a non sentirsi responsabile della sofferenza del genitore. Per darvi un’idea di come il genitore, a volte ingenuamente, porta il bambino a sentirsi responsabile del suo sconforto, ricorderei il caso di una madre condannata a 20 anni di reclusione. Questa madre si era rivolta così ai suoi 3 figli durante un colloquio: "Mi pento di quello che ho fatto perché questo mi ha allontanato da voi". Subito dopo questa frase, che sembra contenere solo una testimonianza d’affetto, il più piccolo dei tre si agita, tamburella e rifiuta di parlare. Sulla soglia del carcere, quando torna la calma, l’accompagnatrice tenta di aiutarlo a far sì che esprima le ragioni del suo improvviso cambiamento d’umore. La conversazione è appena abbozzata, che il bambino di 8 anni afferma con un tono in cui si mescolano smarrimento e sorda irritazione: "Sai, io non c’entro affatto se mamma è in prigione". Evitare che il bambino si senta colpevole o responsabile della situazione del genitore, che si senta sleale o provi vergogna guida i metodi d’intervento del Relais Enfants - Parents. Certo è comunque importante lavorare con il genitore detenuto in modo che venga riabilitato nel suo ruolo o che siano rimossi gli ostacoli che bloccano il rapporto col figlio. Tuttavia è ormai evidente che anche in questa prospettiva la nostra esperienza sarà sempre orientata all’interesse del bambino. Alain
Bouregba, psicoanalista,
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