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Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti" L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute (La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova) Sergio Segio (Operatore del Gruppo Abele)
Nel discorso che stiamo affrontando oggi bisogna forse avere il coraggio di dire una cosa forte e semplice, che in parte abbiamo detto, ma che va ribadita. L’affettività, con tutte le sue implicazioni, quindi anche della sessualità - va affermato a chiare lettere, non solo tra noi, non solo tra chi vive in carcere, non solo tra chi lavora in carcere e quindi ne conosce i problemi, ma ad alta voce nella società intera - riguarda i diritti inalienabili della persona. Quindi le soluzioni, le proposte che saremo capaci di promuovere, anche in Parlamento, devono avere questo taglio: non possono essere concepite né come premi, né viceversa come finte soluzioni. Dobbiamo dire che la sessualità, l’affettività in carcere, sono un diritto e sono un diritto non solo per chi vive in carcere e non solo per chi è recluso, ma sono un diritto per le mogli, i mariti, i genitori, i figli delle persone detenute, che vivono all’esterno. Questa è una piccola banale verità che troppo spesso viene, come dire, occultata sotto il velo dell’ipocrisia, sotto il velo di un modo sbagliato che ha l’informazione media di discutere di tutto ciò. Quindi ribadire una cosa così semplice è forse la premessa per fare un passo in avanti. Non sto ad annoiarvi con troppi discorsi perché in cartellina troverete una lettera mia e di Sergio Cusani proprio sulla necessità della concretezza, di cercare di dare un colpo d’ali a questa riflessione a questo dibattito perché sono troppi anni, anzi troppi decenni che si parla di diritti, di affettività, e di tanti altri problemi che affliggono il carcere ma non si fanno passi in avanti. Dobbiamo quindi dare una svolta di concretezza a tutto questo annoso dibattito, perché diversamente ci sarà sempre un Consiglio di Stato che eccepirà qualcosa, diversamente ci sarà sempre l’opinione pubblica e, purtroppo, un legislatore troppo attento alle correnti emotive dell’opinione pubblica, per negare questo diritto. Affermandolo come diritto ne discende un’altra cosa, altrettanto semplice, che negare l’affettività, negare la sessualità, negare il tessuto di relazioni che fanno parte, inevitabilmente e intrinsecamente, della dignità di ogni essere umano, equivale a dire che vogliamo avere un carcere e una pena disumana, in questo paese. Credo che dobbiamo uscire da qui sfidando il nostro Parlamento, le nostre forze politiche tutte, dicendo se si vuole un carcere civile e moderno o se si vuole un carcere medioevale e incivile. Però bisogna fare un passo in avanti concreto e, quindi, stendere delle proposte concrete, un articolato o quant’altro che tenga conto di tutti i rilievi tecnici eventualmente eccepibili, poi andare dalle forze parlamentari. C’è il senatore onorevole Boato, che ha una lunga esperienza da questo punto di vista, ci sono altri parlamentari, egualmente sensibili e competenti: dobbiamo fare sottoscrivere questa proposta di legge, convincere i capi gruppo del Parlamento a metterla all’ordine del giorno dei lavori parlamentari e a fare approvare una legge. Una legge che però sia poi applicabile, perché purtroppo chi è in carcere, ci vive o lo conosce, sa benissimo che troppe leggi poi non trovano applicazione. Una legge che c’entra con questi discorsi è la legge sulle detenute madri, approvata nella scorsa legislatura dal Parlamento ma ancora disapplicato: ci sono ancora le madri detenute in carcere, ci sono ancora i bambini dentro le carceri. Le leggi vanno fatte, vanno sollecitate, vanno fatte approvare ma poi, soprattutto, vanno applicate perché troppo spesso "fatta la legge, trovato l’inganno". In questo caso vuol dire che i detenuti continuano ad essere i dannati della terra, privi di diritti, e che le nostre carceri, con tutta la buona volontà degli operatori e del volontariato e di quant’altri, continuano ad essere terra di nessuno.
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