Lettera aperta al Presidente della Repubblica, onorevole Sergio Mattarella di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2025 Illustrissimo Signor Presidente della Repubblica, mi permetto di indirizzare alla Sua attenzione questa lettera aperta, in qualità di architetto da molti decenni impegnato nel contribuire a riscattare le misere sorti del nostro carcere. Mi rivolgo rispettosamente a Lei quale garante supremo della nostra carta Costituzionale e dunque quale garante del complesso sistema istituzionale democratico a difesa dei diritti inalienabili delle persone, affinché si faccia promotore di un cambiamento necessario e urgente nel sistema carcerario italiano. L’articolo 27, comma 3 della nostra Carta fondamentale, sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Lo stesso principio è ribadito implicitamente dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che impone agli Stati membri di garantire condizioni di detenzione rispettose della dignità della persona ed esplicitamente all’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che afferma l’inviolabilità, il rispetto e la tutela della dignità umana. Tuttavia, la realtà del nostro carcere è lontana da questi principi anche per lo stato materiale degli istituti in funzione. Da tempo è di dominio pubblico il sovraffollamento, la fatiscenza delle strutture e l’inadeguatezza degli spazi, che ostacolano non solo il recupero dei detenuti, ma anche il lavoro degli operatori penitenziari, in un contesto che alimenta tensioni e disagi. Con questa lettera vorrei richiamare la Sua attenzione ad un aspetto meno noto, se non del tutto ignorato, che è il tratto che da troppi decenni caratterizza e stigmatizza la nostra progettistica carceraria, che, al di là delle parole, continua ad essere improntata sostanzialmente esclusivamente a logiche securitarie e contenitive. Sono logiche proprie della pena afflittiva e vendicativa che non ci appartiene e che in parte ci derivano dal nostro recente drammatico passato, caratterizzato dal fenomeno terroristico e dell’evoluzione della criminalità organizzata, oggi messi alle spalle. La droga e le migrazioni illegali rischiano di rafforzare tali logiche, inducendo a soluzioni architettoniche di natura esclusivamente contenitiva che aumentano a dismisura l’aporia tra principi e norme e “miseria” della risposta. Emerge pertanto il bisogno di ricondurre la progettistica carceraria del nostro paese in un alveo culturale che sappia determinare il passaggio dalle sole questioni legate alla sicurezza ai bisogni della persona detenuta, degli operatori penitenziari, dei visitatori occasionali, come persone a tutto tondo, per una maggiore umanizzazione del carcere. Signor Presidente, nei suoi continui richiami alla “cultura”, come unico vero strumento per governare i conflitti, ho riconosciuto non solo il “supremo referente istituzionale”, ma un uomo al quale è possibile rivolgersi per ricondurre la dimensione architettonica del nostro carcere in quell’alveo. Credo che una delle leve fondamentali per un cambiamento concreto, dentro e oltre il recinto carcerario, sia l’architettura, per i risvolti sociologici, psicologici ed ecologici che le appartengono. Dobbiamo creare le condizioni per ripensare gli spazi detentivi, ispirandoci a modelli che altrove dall’Italia hanno dimostrato come ambienti dignitosi e funzionali possano favorire il reinserimento sociale, ridurre la recidiva, migliorare la salute e la sicurezza all’interno degli istituti. Carceri progettate con criteri più umani perché rispettosi dei diritti fondamentali della persona, riavvicinano la pena al monito costituzionale e rappresentano un investimento nella giustizia e nella sicurezza della collettività. Le chiedo, Signor Presidente, di farsi portavoce di questa istanza presso le istituzioni competenti, affinché l’Italia si doti di un piano di riforma architettonica del sistema penitenziario nel senso prospettato, per il pieno rispetto dei principi costituzionali e dei diritti sanciti. Nel ringraziarLa per l’attenzione che vorrà riservare a questa richiesta, Le porgo i miei più cordiali saluti. I suicidi nelle carceri: una situazione inaccettabile di Francesco Maisto* appuntidiculturaepolitica.it, 9 marzo 2025 Quando il governo delle carceri italiane, responsabile della custodia e della vita di decine di migliaia di persone legittimamente private della libertà personale, resta indifferente, o si limita ad annunciare progetti realizzabili a lungo termine, o addirittura si perita di dare una diversa e rasserenante narrazione dello stillicidio insopportabile di vite umane, significa che è colpevole, insensibile, o quanto meno non vuole capire che questo sistema penitenziario è connotato da logiche di morte e di inimicizia. Secondo l’ultimo Report del 24 febbraio 2025 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nei primi 54 giorni di questo anno, ben 11 detenuti si sono suicidati, oltre i 10 deceduti per cause da accertare e 29 morti per malattie. Quanti non mai dall’inizio del secolo, in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Peraltro, diversamente, i Garanti territoriali segnalano 15 suicidi. Un trend che supererebbe quello dell’anno nero, il 2024, con 90 suicidi, il numero più alto registrato in oltre tre decenni di rilevazioni ministeriali, 1892 tentati suicidi, 11723 autolesionismi, 1740 casi di isolamento con evidenti effetti sulle condizioni di salute mentale dei detenuti. Qualche particolare informazione delinea meglio la disperazione: l’impiccamento, utilizzato in 10 casi su 11 (con corde rudimentali, lenzuola o persino lacci delle scarpe), è stato la modalità più frequente; 3 detenuti erano senza fissa dimora, 2 disoccupati, e solo 2 lavoravano in carcere. Quattro detenuti suicidi nel 2025 erano stati già coinvolti in “eventi critici” (autolesionismo, tentati suicidi), ed 1 era in “grande sorveglianza” per rischio accertato. Eppure, nessuno di loro è stato salvato. Nove suicidi su undici sono avvenuti nel circuito della media sicurezza, cioè in sezioni a custodia chiusa, tra cui celle di isolamento o ad alto rischio. In queste celle sovraffollate la maggioranza dei detenuti vive, per oltre 20 ore al giorno ed esce solo nelle cd. “ore d’aria”. Troppi detenuti vengono, di fatto, lasciati soli con la loro disperazione. Sovraffollamento che paradossalmente convive con l’isolamento psichico coatto e con la fragilità personologica. Sebbene non vi sia una correlazione diretta, è impossibile ignorare il legame tra suicidi e condizioni carcerarie. Lo ha confermato autorevolmente, in contrasto con la diversa narrazione e certo chiacchiericcio istituzionale, il Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno 2024: “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili.” Crisi umanitaria e condizioni insostenibili - Il sovraffollamento è la prima di queste condizioni: per una capienza regolamentare di 51.300 posti letto, invece, sono attualmente presenti 61.916 nella fondata previsione di aumenti nei prossimi mesi. Circa 11.000 in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il sovraffollamento, per altro verso, riduce il controllo sui detenuti e limita l’accesso a programmi riabilitativi. Sovraffollamento, condizioni disumane e mancanza di tutela della salute mentale alimentano tragedie annunciate. Chi visita veramente le carceri oggi non fa fatica a ricordare come erano i manicomi prima della necessaria abolizione. In carcere la presenza di un diffuso disagio psichico rimane una delle problematiche più rilevanti e meno studiate: il 12% delle persone detenute (quasi 6.000 persone) ha una diagnosi psichiatrica grave (Antigone, XX Rapporto sulle condizioni della detenzione). Il 20% persone detenute (oltre 15 mila) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Il sistema penitenziario italiano continua a fare i conti con una crisi umanitaria senza precedenti. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione. Il precedente Garante nazionale, prof. Mauro Palma ha riassunto l’attuale situazione del sistema penitenziario in quattro parole: “affollamento, chiusura, tensione, fragilità”. L’affollamento incide sulle altre tre. Ma incide anche la chiusura, quale prevalente situazione che si riscontra oggi in assenza di attività e progetti, peraltro di difficile realizzazione se si lotta ogni giorno con numeri che superano la soglia tollerabile. Insieme sono premessa per le altre due: per la tensione che ineludibilmente si accentua e che rende difficilissima la vita interna, per chi è ristretto e per chi opera negli Istituti, e per quella perdita di sensatezza e di valore della propria vita che incide particolarmente su persone che stanno vivendo un momento di accentuata fragilità… Quattro parole a confronto, in un complessivo quadro che non sembra in grado di produrre segnali di inversione di rotta. Anche perché il discorso attorno a esse è spesso fuorviato dall’attenzione all’umore e al consenso di quella larga parte della collettività esterna che è tenuta pressata da una gestione della paura che determina facile affidamento a chi gestisce il potere, con piglio duro proponendosi inesauribilmente come garante di una maggiore sicurezza. Eppure, dalle quattro parole che descrivono il presente interno occorre ripartire, per costruire credibili proposte riformatrici”. Tale situazione non è insuperabile, come hanno dimostrato Governi e Parlamento precedenti che sono stati in grado di affrontare le questioni poste dalle condanne della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (C.E.D.U), tanto che il 5 giugno 2014, ad un anno dalla cosiddetta sentenza pilota “Torreggiani”, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha accolto “positivamente l’impegno delle autorità italiane a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri in Italia e i risultati significativi ottenuti in questo campo attraverso le varie misure strumentali adottate per conformarsi alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Nel messaggio di fine anno il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ammonito e auspicato: “Rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti.” E papa Francesco, nella Spes non confundit (Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025), tra l’altro non avendo i vincoli della Costituzione italiana, ha potuto insegnare e precisare: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Un auspicabile intervento di clemenza ispirato all’emergenza - È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione. Contrariamente a una errata opinione molto diffusa, quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti e Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze. È poi necessaria l’attuazione della Circolare sul riordino del circuito della media sicurezza per quanto riguarda la chiusura delle sezioni ordinarie (DAP circ. n. 3693/6143 del 18 luglio 2022), visto che ora la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. È necessario garantire diverse attività trattamentali: progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative, relazionali. Bisogna infine garantire l’effettività in carcere della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo). *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Milano Rita Bernardini: “Le donne detenute, minoranza invisibile” ansa.it, 9 marzo 2025 Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino” denuncia la “carenza di servizi adeguati per le donne detenute”, con solo tre istituti femminili in Italia e un “sovraffollamento preoccupante” a Rebibbia. Le carceri italiane ospitano attualmente un totale di 2.729 donne detenute, tra cui 14 madri che hanno con sé i propri figli, e vengono considerate la “minoranza invisibile del sistema penitenziario, con il rischio di diritti negati e percorsi di reinserimento inadeguati”. Recluse in istituti dove la detenzione “è concepita al maschile, in strutture maschili con sezione poi a parte per le donne”. Un quadro delineato a Perugia dove in occasione della Giornata internazionale della donna si è svolto l’incontro “Il carcere al femminile” promosso dal Consiglio nazionale forense, con la sua Fondazione dell’avvocatura italiana e con il quotidiano Il Dubbio. Il dibattito ha spaziato anche su questioni relative al decreto sulla sicurezza, in particolare riguardo alla disposizione che abolisce la possibilità di posticipare l’esecuzione della pena per le donne in gravidanza e per le madri con figli di meno di un anno. “Tra le più ciniche e ingiuste del provvedimento perché chi si va davvero a punire è il figlio” l’ha definita Maria Elena Boschi, Iv. Mariastella Gelmini, Noi moderati - Centro popolare, si è anche augurata un “ripensamento operoso” su questo tema. Mentre per Debora Serracchiani, Pd, è una “norma di inciviltà”. “Le donne devono scontare la pena - ha detto - ma lo facciano in luoghi nei quali non ci rimetta il bambino che non ha alcuna colpa”. Susanna Donatella Campione, FdI, ha sostenuto di “ritenere necessario non identificare le detenute donne con quelle madri”. “Siamo aperti all’esigenza di evitare che alcune donne possano usare la gravidanza o la condizione di madre - ha aggiunto - con quella di salvaguardare i diritti del minore”. In relazione alla questione più ampia della detenzione delle donne, Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ha posto in rilievo “la difficoltà a usufruire di servizi che sono concepiti al maschile per quanto riguarda ad esempio lo studio, il lavoro qualificato, e anche la sanità”. “In Italia - ha aggiunto - in questo momento abbiamo solo tre istituti che sono completamente femminili. A Roma c’è Rebibbia che è il carcere femminile più grande d’Europa e che, con quasi 400 detenute, è sovraffollato. Certo, in questi istituti si cerca di fare il possibile, noi abbiamo visitato recentemente con ‘Nessuno tocchi Caino’ la Giudecca però, nonostante ci sia una lavanderia industriale e un piccolo appezzamento agricolo, i numeri sono molto bassi e, rispetto alle donne detenute, che sono più di 100, solo una ventina sono impegnate in lavori qualificati. Tutte le altre, che sono in genere estremamente povere, devono confrontarsi con la vita detentiva”. Ddl sicurezza, riflessioni sulla norma che riguarda i bimbi in carcere di Giacomo Puletti Il Dubbio, 9 marzo 2025 All’evento “Il carcere al femminile” organizzato dal Cnf con la Fai e Il Dubbio, le proposte di Maria Elena Boschi (IV), Susanna Donatella Campione (Fdi), Mariastella Gelmini (Noi moderati - Centro popolare) e Debora Serracchiani (Pd). Nel corso del dibattito “Il carcere al femminile”, organizzato ieri a Perugia dal Consiglio nazionale forense per la Giornata Internazionale della Donna, con la Fondazione dell’avvocatura italiana e Il Dubbio, le parlamentari Maria Elena Boschi (IV), Susanna Donatella Campione (Fdi), Mariastella Gelmini (Noi moderati - Centro popolare) e Debora Serracchiani (Pd) hanno avviato una riflessione comune sul ddl sicurezza, ora in discussione al Senato, che prevede la cancellazione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno. Una minoranza, quella delle detenute, che rischia di scomparire. Tra carenze strutturali e un sistema pensato e organizzato al maschile, in un Paese che ha tre istituti femminili, cosa diversa dalle sezioni dedicate nei penitenziari, e che non si è ancora dotato adeguatamente di strutture di detenzione alternative come gli Icam, ovvero gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, dove i bambini possano crescere, insieme alle madri, in condizioni di vita migliori. Ce ne sono 5. E quindi le modifiche al ddl Sicurezza, in particolare sulla cancellazione del differimento obbligatorio della detenzione per le donne incinte, che potrebbero anche essere riviste. Sono alcuni degli aspetti emersi all’evento. Ad aprire i lavori, a nome del presidente del Cnf Francesco Greco, il vicepresidente Francesco Napoli, che ha ricordato Guido Alpa, scomparso ieri sera: “Giurista, avvocato, accademico e presidente emerito del Consiglio nazionale Forense, in cui ha ricoperto un ruolo di primo piano per vent’anni, dieci dei quali da presidente. Il saluto commosso della sala testimonia il segno profondo che ha lasciato. Ringrazio inoltre per la sensibilità e l’attenzione costante che la Fai e il quotidiano Il Dubbio dedicano al tema delle marginalità e del carcere, che conferma il ruolo sociale fondamentale dell’avvocatura”. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Perugia, Carlo Orlando, ha affrontato gli aspetti dei diritti fondamentali delle donne detenute: “È una questione di diritti e dignità. L’avvocatura deve essere in prima linea per garantire tutele efficaci e percorsi di reinserimento concreti”. Per la sindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi, “le sfide che abbiamo di fronte sono importanti e il lavoro interistituzionale è la direzione giusta. Le istituzioni devono essere luoghi dove costruire comunità. Una delle più grandi urgenze che abbiamo di fronte è quella della coesione sociale, perché oggi viviamo in società sempre più frammentate, e questo ci lede profondamente. Costruire comunità coese significa costruire comunità solide. L’Ordine degli avvocati ci porta qui oggi con un tema che ragiona sui margini dei margini: come istituzioni, dobbiamo imparare a offrire risposte efficaci ai margini e alle fragilità. Le donne in carcere sono il margine del margine”. Il vicepresidente della Fai-Fondazione avvocati italiani, Vittorio Minervini, ha infine sottolineato: “Da Perugia parte questo percorso sul carcere e le condizioni delle detenute, che si concluderà a Torino in occasione del Congresso Nazionale Forense, anche con la proiezione di un video attualmente in fase di preparazione”. “Si deve migliorare tutto nelle carceri italiane perché, pur essendo le donne una estrema minoranza della popolazione detenuta, su 62mila detenuti nelle carceri italiane le donne sono 2.700, le carceri per le donne e la loro detenzione sono concepite al maschile perché troviamo la maggior parte delle donne detenute nelle strutture maschili, con una sezione a parte. Questo significa difficoltà ad usufruire dei servizi che sono concepiti al maschile”, ha detto Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” che ha ricordato come attualmente ci siano 14 bambini che vivono nelle carceri con le madri detenute. Nella parte conclusiva della giornata, il confronto sulla necessità di ripensare l’edilizia penitenziaria in un’ottica di architettura orientata al recupero e al reinserimento sociale dei detenuti. Che è stata l’occasione per riflettere sulla parte del ddl Sicurezza che cancella il deferimento obbligatorio della detenzione per donne incinte o con figli di età inferiore a un anno. Per Debora Serracchiani (Pd), la modifica stessa è “una norma di inciviltà”. E sugli Icam, “che non ci piacciono, preferiremmo le case protette, ma che siano luoghi dove scontino le pene le donne e non i figli”, ha ribadito la necessità di investire nella loro realizzazione, invece di puntare a “costruire nuove carceri o riempire gli spazi degli attuali”. “Il Governo sta tornando indietro non di trent’anni, ma agli anni Trenta, con ddl sicurezza che elimina il differimento obbligatorio della detenzione delle donne in gravidanza o con figli piccoli” ha incalzato Maria Elena Boschi di Iv. “Personalmente avrei preferito che la norma sul differimento obbligatorio non fosse stata modificata, credo sia un fatto di civiltà. Però dobbiamo anche precisare quello che ha mosso il governo, ovvero l’evidenza di casi in cui questa misura, anziché provocare un rinsavimento e quindi un ritorno sulla retta via, l’astensione da comportamenti devianti anche per rispetto della maternità in alcuni casi ha portato alla reiterazione di alcune fattispecie di reati” ha spiegato Mariastella Gelmini (Noi moderati - Centro popolare). Con la senatrice di FdI, Donatella Campione, un’apertura verso una rivalutazione della modifica che si trova ora al vaglio del Senato: “Sulle detenute madri si sta svolgendo in commissione congiunta in Senato un dibattito approfondito. La conclusione è che è necessaria una riflessione per trovare una soluzione che concili la necessità di evitare che alcune donne possano approfittare della condizione di madre incinta o con bambini per commettere nuovi reati con la tutela dei diritti minori”. L’Anm in pressing sul Governo: “Porteremo ovunque la protesta” di Conchita Sannino La Repubblica, 9 marzo 2025 Dopo la Cassazione sulla Diciotti le toghe annunciano una campagna nelle piazze. Il Viminale: “Sentenza ininfluente” Non ci possono fermare, non vogliamo arretrare. Anzi: ci stanno costringendo a parlare di più, a moltiplicare le voci, a cercare l’ascolto di tutti gli ambienti, di tanti cittadini. Eccola qui, la campagna di primavera dell’Anm. Si prepara un assaggio di pressing referendario. Una mobilitazione che rischia di diventare anche più vasta e motivata, il giorno dopo lo scontro frontale portato avanti da Meloni e maggioranza contro la Corte di Cassazione, per l’ordinanza delle Sezioni unite civili che condannava l’esecutivo a risarcire i migranti della nave Diciotti, vittime di un “arbitrario trattenimento”. L’Associazione nazionale magistrati annuncia eventi e iniziative in trasferta: da nord a sud. Da Milano a Bari, da Bologna a Lamezia Terme. “Devastante - sottolinea il presidente Cesare Parodi - il messaggio che Meloni consegna ai cittadini: che una sentenza comporti sperpero di denaro pubblico”. Non a caso ieri, la prima riunione del comitato direttivo Anm, al quinto piano del Palazzaccio, comincia con un lungo applauso rivolto a Margherita Cassano. La prima presidente di Cassazione, venerdì, ha risposto con necessitata durezza (“Critiche sì, insulti no”) a una presidente del Consiglio che ha esposto al pubblico risentimento una decisione dell’autorevole collegio a nove. Eppure il governo tira dritto: sulla “deterrenza” dei trattenimenti, e sui toni. “Qui il problema non è Salvini che non ama i magistrati, ma qualche toga che non ama l’Italia e non fa bene a Paese”, sbotta il vicepremier e ministro da Bologna, tornando a parlare della “sentenza incredibile della Cassazione, che prevede che dei lavoratori italiani debbano risarcire dei clandestini che ho tenuto in attesa di sbarco”. E aggiunge: “Ma era mio diritto e dovere”. La risposta del sindacato delle toghe? Avanti tutta. “Ora dobbiamo portare le nostre ragioni nel Paese, tra la gente”, assicura Parodi, contenendo anche qualche lieve divisione interna a Mi, la sua corrente, la più conservatrice. Tante le voci, pochi i distinguo, è più forte la voglia di reagire. “Un altro segno è superato: dobbiamo far capire ai cittadini cosa significa e quali rischi corre tutto il sistema, se un presidente del Consiglio attacca frontalmente le Sezioni unite della Cassazione”, carica il segretario generale Rocco Maruotti (di Area). “Ma dopo il successo di uno sciopero così sentito, non dividiamoci, rinunciamo alle singole bandierine”, ammonisce Stefano Celli (di Md). “Con le unghie e con i denti”, sintetizza la giudice Marinella Graziano, di Unicost. Piovono critiche per il ministro Nordio, che alludendo alla Suprema corte aveva teorizzato: “I giudici dovrebbero considerare anche gli effetti delle decisioni”. Ma i magistrati “non sono chiamati a fare questo: non siamo tenuti per statuto costituzionale a collaborare con il governo o la maggioranza di turno”, sottolinea Mariotti. Intanto, il governo ostenta serenità. Soprattutto perché, in base all’analisi tecnica della sentenza della Cassazione, fonti del Viminale rilevano che la decisione dei giudici sia sostanzialmente “ininfluente” sulla gestione attuale dell’immigrazione irregolare dal nord Africa (vedi assegnazione dei porti alle navi private, o rapporti con le autorità di Tunisia e Libia). Al ministero osservano che dalla Cassazione si sono limitati a affermare un principio (peraltro “non condivisibile”). Ma ora viene rimessa alla Corte di appello la concreta determinazione di un risarcimento a favore del singolo migrante. Importante sarà capire la “quantificazione” in relazione al “presunto, eventuale danno” che avrebbero subito i migranti: su una nave militare italiana, dove sono stati accuditi e rifocillati in seguito ad un salvataggio avvenuto in acque internazionali, dov’erano in balia delle onde. Uniti ma a fatica. La sfida del Governo innervosisce i giudici di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 marzo 2025 Clima teso all’Anm dopo l’incontro con Meloni a palazzo Chigi. “Iniziative ovunque” contro la riforma. Entro marzo da Mattarella. La corrente di destra già mette in discussione il “suo” presidente Cesare Parodi. A dispetto del momento delicatissimo e dei ripetuti appelli all’unità, tra le toghe dell’Anm il clima è teso: l’intenzione di proseguire sulla via della protesta contro la riforma della separazione delle carriere, dopo l’80% di adesione allo sciopero della settimana scorsa, c’è. Però manca l’accordo su come muoversi. E soprattutto su come affrontare le onde del dibattito pubblico. Così, la riunione del comitato direttivo centrale dell’associazione dei magistrati di ieri in Cassazione è andata molto oltre il contenuto molto burocratico dell’ordine del giorno. Tutta la discussione, in mattinata e per buona parte del pomeriggio è ruotata intorno alle comunicazioni fatte dal presidente Cesare Parodi e dal segretario Rocco Maruotti sull’infruttuoso incontro andato in scena mercoledì pomeriggio a palazzo Chigi con la premier Meloni, i vice Tajani e Salvini, il ministro Nordio e il sottosegretario Mantovano. Tutti soddisfatti perché la giunta dell’Anm ha tenuto il punto sul no alla riforma. Con qualche distinguo soprattutto dalle parti di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, le cui anime interne non sono tutte d’accordo sulla linea critica verso il governo. Ècosì che quattro righe di “mozione di fiducia” verso la giunta presentate dal consigliere di Area democratica per la giustizia Domenico Pellegrini stava per combinare un pasticcio. In sé si trattava di un affare piuttosto neutro (questo il testo: “Il comitato direttivo centrale esprime pieno apprezzamento all’operato della giunta in ordine alle attività di preparazione ed organizzazione sia dello sciopero che dell’incontro con la presidente del Consiglio”), ma intorno all’ora di pranzo ci si è resi conto che le cose potevano mettersi male, con la giunta che si sarebbe ritrovata con meno consensi rispetto a quelli incassati appena un mese fa quando era stata eletta. I problemi sarebbero arrivati, oltre che dai due consiglieri “anti correnti” di Articolo 101, proprio da Magistratura indipendente. Per Parodi sarebbe stato un guaio perché, se Area, Magistratura democratica e Unicost avrebbero di certo votato compattamente a favore, il numeroso gruppo della destra avrebbe fatto registrare qualche defezione. Un’evidenza di cui si era accorto anche lo stesso presidente, che davanti ai cronisti, con invidiabile aplomb, ha tessuto le lodi della sua corrente (Mi, appunto) parlando del “profondo rispetto che c’è per la libertà e le posizioni personali”. In altre parole si elogiava il fatto che possano esistere posizioni diverse in seno allo stesso raggruppamento. Un discorso nobile, molto liberale, ma le conseguenze politiche di una spaccatura interna non sono affatto difficili da immaginare: da una parte i contrari sarebbero emersi come quinta colonna del governo all’interno dell’Anm, dall’altra sarebbe stata la parola fine sull’unità delle toghe. È per questo che, tra questioni tecniche, motivi di opportunità e giramenti di testa, alla fine la mozione di fiducia è stata ritirata. Rinviato anche un anche un altro punto che, quando tornerà (e lo farà), appare destinato a creare scompiglio. Lo ha proposto sempre Mi e riguarda la regolamentazione della presenza dei magistrati alle iniziative di partito. Vorrebbe dire che, quando ci sarà la campagna referendaria e le toghe verranno chiamate un po’ ovunque a dire la loro, bisognerebbe evitare di andare agli appuntamenti organizzati dalle forze politiche, che notoriamente dispongono dei palcoscenici migliori. Non sfugge che nei giorni scorsi era sorta una polemica contro Eugenio Albamonte, esponente di Area, che tre settimane fa era andato al circolo del Pd Italia-Lanciani di Roma per parlare proprio della riforma della giustizia. Un eventuale divieto però riguarderebbe anche altre situazioni, come quella dell’ex presidente Giuseppe Santalucia che prima di Natale era andato ad Atreju, la festa nazionale di Fratelli d’Italia. “Se, per esempio, l’Anm di Palermo mi chiamasse per parlare di Chiara Ferragni di certo non andrei - taglia corto Maruotti -, ma se il Pd o FdI mi invitassero a parlare di giustizia non vedo perché non dovrei farlo”. Ad ogni modo, la campagna contro la riforma proseguirà. “Ovunque”, specifica Parodi. Entro marzo, infine, la giunta dell’Anm sarà ricevuta da Mattarella. “È un personaggio straordinario per chiarezza, lucidità e coraggio - ha detto ancora Parodi -. Al Quirinale sarà un momento importante e non puramente formale”. Poche parole, infine, sull’ultima gogna imbastita dal governo contro i giudici delle sezioni unite della Cassazione “colpevoli” di aver dato ragione a un migrante della nave Diciotti e avergli accordato un risarcimento (che dovrà pagare il governo): “Ci sentiamo avviliti e umiliati, ma purtroppo non è una novità”. Il nodo giustizia e i silenzi del Movimento 5 Stelle sull’ex alleato Salvini di Cosimo Rossi La Nazione, 9 marzo 2025 “Le sentenze si rispettano”. Ma lo slogan con cui il Movimento 5 Stelle si schermisce d’ufficio, in merito alla deliberazione della corte di Cassazione sul caso della nave Diciotti e i rapporti con gli ex alleati di governo della Lega, non la dice nient’affatto tutta riguardo i rapporti politici passati e presenti tra il Carroccio condotto da Matteo Salvini e la formazione guidata da Giuseppe Conte. Le due forze di matrice popolar-populista che nel decennio scorso avevano scardinato non senza successo il bipolarismo, fino a intessere un’alleanza di governo (Conte I: 2018-’19) all’insegna delle istanze nazional-popolari, compresi appunto il contrasto all’immigrazione concorrenziale coi ceti deboli nazionali, la lotta alla povertà (e il reddito di cittadinanza), le simpatie nei riguardi dell’isolazionismo pseudo-pacifista dell’America di Donald Trump versione 1.0, che oggi il tycoon ripropone in formula amplificata. Tempi e priorità sono appunto cambiati. E oggi come oggi le questioni della giustizia sono men che mai in cima all’agenda del partito di Conte, che del resto ha sempre trattato con le molle il rapporto tra toghe ed esecutivo. È quanto riferiscono gli stessi maggiorenti del Movimento, secondo cui il polso di “parlamentari, dirigenti e base” in queste ore non è affatto suggestionato dal caso Diciotti, ma ben più focalizzato sui rischi di guerra e sul tema del riarmo europeo. La vicenda risale del resto alle ultime fasi del governo giallo-verde. L’allora plenipotenziario Luigi Di Maio chiese e ottenne il sostegno della base della piattaforma Rousseau contro l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Salvini, come ricordano dagli uffici parlamentari pentastellati. Ultima mossa a favore dell’asse di governo che si andava sgretolando dopo le elezioni europee del 2019 in cui si era affermata la cosiddetta maggioranza Ursula (von der Leyen) con l’allargamento dell’asse popolar-socialista anche a liberali e appunto grillini e simili. In seguito a cui Salvini che sancì la fine del governo dal Papete. Ricordano del resto in casa 5 stelle che il premier Conte prese le distanze dal leader del Carroccio sulla scorta delle discusse relazioni intrattenute con supporter e finanziatori russi nei fastosi ambienti dell’hotel Mariupol di Mosca. Rottura che determinò poi la nascita del Conte 2 col sostegno del Pd e poi silurato da Matteo Renzi in favore di Draghi. Ciò non confuta tuttavia le ragioni dell’affinità popolar-populista tra Lega e 5 Stelle. Anzi. I due partiti che per una stagione hanno messo in crisi il bipolarismo oggi si ritrovano di nuovo avvicinati all’insegna delle ragioni del trumpismo la Lega e dello scetticismo nei confronti del neo-militarismo europeo e anti-russo i 5 Stelle. Non è insomma la giustizia il tema di affinità, nonostante le eventuali implicazioni sul caso Diciotti per il ruolo di Conte premier e Salvini ministro (che tra l’altro potrebbe sempre implicare il ruolo di capo di gabinetto svolto allora dal prefetto e attuale titolare del Viminale Matteo Piantedosi). L’asse giallo-verde, se c’è, riguarda piuttosto la politica estera. Come del resto è sempre stato. “Il problema è che le sentenze non devono avvicinare niente a nessuno, i giudici devono applicare la legge, non sono degli opinionisti”, sostiene il deputato pentastellato Francesco Silvestri a proposito della decisione della sentenza della Cassazione sul caso Diciotti. “È nella cultura della Meloni contestare tutte le sentenze che non gli convengono, a partire da Dell’Utri fino ad arrivare a quest’ultima - continua Silvestri -. Questa è la loro cultura. Noi come M5s le sentenze le abbiamo sempre rispettate, anche quelle che ci piacciono meno; sono due culture proprio diverse”. Gratteri: “Con la riforma avremmo pm a caccia solo di condanne” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 9 marzo 2025 Il procuratore: “Condivido le parole della presidente della Cassazione. Dalle carriere separate rischi per i cittadini con un pm che lavora per condanne a tutti i costi”. Procuratore Nicola Gratteri, l’ordinanza sul risarcimento al migrante clandestino della Diciotti fa risalire la tensione fra governo e magistrati. In tempi di riforma sarà così a ogni pronuncia su temi sensibili? “Ha già risposto la presidente della Corte di Cassazione (“Le decisioni sono criticabili, gli insulti inaccettabili” ndr). Condivido pienamente le sue parole”. L’incontro governo-Anm non ha sortito nulla. Era inevitabile? “L’intendimento del governo era ed è abbastanza risoluto. Per cui era difficile ipotizzare un cambiamento di rotta o un’apertura al dialogo che, purtroppo, fino ad oggi non c’è stata. Non so se fosse inevitabile. Posso dire però che sono contento di avere aderito allo sciopero. Lo rifarei perché ne condivido le ragioni”. La politica accusa la magistratura di “ostracismo”. E di scatenare l’Apocalisse a ogni riforma. Sbaglia? “A quale Apocalisse si fa riferimento? La magistratura non fa alcun ostracismo. Di fronte a una riforma che rischia seriamente di minare l’autonomia e l’indipendenza, la magistratura ha prima di tutto il dovere, oltre che il diritto, di esprimere la propria opinione e di far comprendere alla collettività cosa si rischia”. Questo non intacca le prerogative del Parlamento? “No. Se la riforma dovesse essere approvata, la magistratura, come sempre del resto, farà il proprio dovere e la applicherà, nel rispetto delle istituzioni democratiche”. Per il governo è necessaria a combattere il malfunzionamento della giustizia. “Non ha attinenza alcuna con i veri problemi della giustizia, che sono legati principalmente alla lentezza dei processi e all’esistenza di cavilli procedurali che impediscono ai magistrati di impiegare tutto il loro tempo per decidere, approfonditamente, su ogni questione. La separazione delle carriere non è una misura in grado di accelerare di un solo minuto la durata dei procedimenti”. Non garantirà un processo giusto, perché accusa e giudici saranno separati? “Ma se fosse vera questa esigenza, non si spiegherebbero le assoluzioni, o le condanne a fronte di richieste di assoluzione, che vengono disposte. Segno che i giudici ragionano con la loro testa, senza appiattimento alcuno rispetto ai loro colleghi pm. E questo non lo diciamo solo noi, ma anche avvocati di grande levatura”. Se dovesse scrivere lei la riforma, quali misure adotterebbe? “In primo luogo una seria revisione della geografia giudiziaria, redistribuendo le risorse secondo le reali esigenze dei territori e chiudendo i piccoli tribunali, che sono inefficienti. Invece, si vuole fare il contrario. Poi farei una revisione dei codici, snellendo le procedure e riducendo al massimo i rimedi impugnatori, che ingolfano corti di appello e Cassazione. E sospenderei, lo dico con dolore, almeno in parte la famigerata app”. Non è da sempre favorevole all’informatizzazione? “Per questo lo dico con dolore. Ma costituirei una commissione paritetica tra ingegneri informatici e magistrati che studierebbero migliorie tecniche per adattare il programma alle reali esigenze degli uffici. Sbloccherei le assunzioni e mi terrei stretto il personale amministrativo valido, che, disincentivato da stipendi bassi, preferisce passare ad altre amministrazioni con retribuzione migliore. Siamo al paradosso: personale eccellente, dopo essere stato formato, se ne va. Infine andrebbe potenziato il contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione. Sono la vera piaga di questa nazione. E con le ultime riforme ne rischiamo una seria recrudescenza”. L’Anm non doveva trattare miglioramenti alla riforma? “Penso che la separazione delle carriere non sia un argomento oggetto di migliorie. Non va bene e basta”. Secondo il governo le ragioni delle correnti non sono quelle di tutti i magistrati. Lei che non è mai stato “portato” dalle correnti condivide? “È vero. Ma proprio perché non sono mai stato appoggiato da nessuna corrente, in modo libero e obiettivo, posso dire che le proposte che l’Anm ha portato all’incontro con la presidente del Consiglio sono tutte condivisibili. Dico di più. Sono sempre stato, e lo sono ancora, a favore di una riforma che preveda un sorteggio temperato di tutti i componenti, laici e togati, del Csm. Ma se ciò significa scardinare un intero sistema, con ripercussioni su tutta la collettività presente e futura, allora dico no a tutto”. Secondo la maggioranza però le correnti sono responsabili del calo di fiducia nella magistratura. Non è così? “Sicuramente la degenerazione correntizia ha inciso. Ma è un problema interno alla magistratura. Buona parte della crisi di consenso è dovuta a continui attacchi politici e di parte della stampa. Di fronte ai quali la magistratura non ha la stessa capacità mediatica”. Si prospetta una lunga campagna referendaria. Vede rischi? “La separazione delle carriere non è un rischio per il pm, che in fondo mantiene il suo lavoro. Lo è per i cittadini. Perché il pericolo dietro l’angolo è un pm al di fuori della giurisdizione che non lavora più per cercare la verità, ma una condanna a tutti i costi”. Il referendum non diventerà pro o contro i magistrati? “La magistratura dovrà far capire che lo sciopero e il dissenso alla riforma non sono a difesa di uno status, ma degli interessi dei cittadini. E che la vittoria dei sì alla riforma, a mio modesto avviso, andrebbe a loro discapito”. Il tetto di 45 giorni alle intercettazioni sarà di ostacolo alle indagini? “Con questa proposta siamo al paradosso. Certamente sarà di ostacolo. Di esempi ne potrei fare centinaia. Il sequestro di persona lo fa capire bene: non si può immaginare di interrompere le intercettazioni al 45esimo giorno mentre il sequestro è ancora in atto. Ma pensiamo anche a reati insidiosi come l’usura o tanti altri: 45 giorni non sono nulla. Se si vuole ricercare la verità e fare giustizia, perché non consentire di svolgere le indagini? Gli strumenti per interrompere le intercettazioni, quando non sono utili, già ci sono”. “L’Anm proponga il ripristino dell’immunità parlamentare”. Parla Ernesto Carbone (Csm) di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 marzo 2025 Il consigliere laico del Csm: “L’Associazione nazionale magistrati sta sbagliando tutto. Non può dire solamente ‘no’, deve avanzare proposte concrete che tendano anche a concludere la guerra iniziata fra politica e magistratura con Mani pulite”. “L’Associazione nazionale magistrati sta sbagliando tutto. Non può dire solamente ‘no’, deve avanzare proposte concrete che tendano non solo ad autoriformare la magistratura ma anche a concludere la guerra dei trent’anni che è iniziata fra politica e magistratura con Mani pulite. Un esempio? Fossi in loro proporrei il ripristino dell’immunità parlamentare”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Ernesto Carbone, componente laico del Csm in quota Italia viva. Da sempre Carbone è contrario alla riforma della separazione delle carriere proposta dal governo, e infatti negli ultimi mesi è stato al fianco delle iniziative dell’Anm: “Ritengo la riforma sbagliata perché non risolve i problemi della giustizia, che vanno dai mille arresti ingiusti ogni anno ai tempi lunghi dei processi. La vedo più come una forma di ripicca della politica nei confronti della magistratura”, ribadisce il consigliere laico, spiegando anche di vedere l’istituzione del doppio Csm (uno per i giudici, uno per i pm) come “il primo passo per portare poi il pm sotto l’esecutivo”. Carbone, però, esprime perplessità sulle ultime mosse dell’Anm: “Il nuovo presidente dell’Anm ha sbagliato ad aprire a un incontro col governo prima di celebrare lo sciopero che era già stato fissato dalla precedente giunta. Prima si sciopera e poi eventualmente si vede se il governo vuole un incontro. Non solo. Fossi stato nell’Anm mi sarei anche rifiutato di recarmi dalla premier mercoledì pomeriggio, dopo quanto avvenuto in mattinata”. Vale a dire? “Mercoledì mattina Meloni ha incontrato l’Unione camere penali, che legittimamente sostiene la riforma costituzionale, facendo poi uscire una nota in cui definisce la riforma come ‘ineludibilè. Uno sgarbo istituzionale nei confronti dell’Anm, che poi avrebbe incontrato nel pomeriggio. Che senso ha a quel punto incontrare i magistrati?”, si chiede Carbone. Quindi l’Anm non avrebbe dovuto accettare di andare a Palazzo Chigi? “Assolutamente no. Infatti i vertici dell’Anm sono usciti dal vertice senza alcun risultato e pure maltrattati. Altro che coccarde”. Per Carbone è arrivato il tempo per i magistrati di avanzare proposte concrete. “Fossi in loro proporrei il ripristino dell’immunità parlamentare, visto che la politica, vigliacca, ha fatto l’errore di eliminarla. L’immunità andrebbe estesa anche ai membri del governo e ai presidenti di regione. In questo modo le inchieste giudiziarie non sarebbero strumentalizzate e si ridurrebbero le tensioni tra politica e magistratura”. Un’altra proposta dovrebbe riguardare gli illeciti disciplinari: “L’Alta Corte tecnicamente non serve a nulla. L’Anm potrebbe proporre di suddividere in due l’attuale sezione disciplinare del Csm, in modo da velocizzare i tempi dei procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Poi andrebbe riformato il testo sugli illeciti disciplinari. Le sanzioni previste oggi sono troppo deboli, ma è la magistratura che dovrebbe dire ‘riformiamoci’. Se un magistrato nasconde le prove a un imputato o intercetta per 500 volte un parlamentare vuol dire che non è in grado di fare quel mestiere e quindi deve essere rimosso dalla magistratura”. In quest’ultimo caso, Carbone si riferisce all’operato del pm torinese Gianfranco Colace, che per tre anni (dal 2015 al 2018) ha intercettato 500 volte l’allora senatore Stefano Esposito. Una condotta poi censurata severamente dalla Corte costituzionale. Di certo non aiuteranno a far terminare la guerra fra politica e magistratura le dichiarazioni di ieri della premier Meloni contro la Corte di Cassazione: “Siamo di fronte all’ennesimo attacco strumentale alla magistratura e alla giurisdizione. Un attacco iniziato lo scorso anno, quando la premier ha adombrato un complotto della magistratura per farla cadere. Si sono poi susseguiti gli insulti ai magistrati del vicepremier Salvini, del sottosegretario Delmastro, persino la denuncia dei servizi segreti contro il procuratore di Roma, di cui sono stati anche diffusi carteggi privati sui propri voli di stato. Una cosa vergognosa”, conclude Carbone. La data è quella giusta, il Ddl no. I tecnicismi non salvano donne di Vitalba Azzollini* Il Domani, 9 marzo 2025 Sono anni che la normativa in materia di reati di genere si arricchisce di misure repressive e sanzioni. Ciò nonostante, la violenza contro le donne non si attenua. Eppure, ancora una volta, pare che la risposta legislativa sia per il governo la soluzione migliore. La vigilia della giornata internazionale della donna rappresenta senza dubbio la cornice più adeguata entro la quale inserire un nuovo disegno di legge che si occupa di donne, specificamente di quelle che arrivano a morire per il solo fatto di essere donne. Proprio ieri il consiglio dei ministri ha varato un ddl che introduce nell’ordinamento il reato di femminicidio. Il governo non è nuovo alla scelta di date significative per annunciare certi provvedimenti. Già in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, il 25 novembre scorso, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, Eugenia Roccella, aveva comunicato l’inizio dei lavori per la redazione di un testo unico di raccolta delle disposizioni sul contrasto a tale tipo di violenza, com’è stato ricordato nella conferenza stampa di presentazione del nuovo ddl. Dal punto di vista simbolico, il messaggio che si vuole dare con la proposta di legge varata alla vigilia dell’8 marzo è senz’altro molto forte. Dal punto di vista concreto, invece, sorgono dubbi circa il fatto che essa potrà costituire un reale deterrente all’uccisione di donne. Con la proposta di legge, il reato di omicidio di una donna, quando sia basato su un’esigenza di prevaricazione e annientamento della stessa in quanto tale, viene “tipizzato”, acquista cioè una propria dignità e autonomia nell’ambito del codice penale. “Chiunque cagiona la morte di una donna” - recita l’articolo 1 del ddl - “quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. Al di fuori di questi casi continua ad applicarsi l’articolo 575 del codice penale, che prevede una pena non inferiore a 21 anni. Gli stessi elementi che connotano il femminicidio - discriminazione, odio, volontà di repressione di diritti o libertà - sono previsti dalla proposta di legge come aggravanti in caso di altri reati contro le donne: dai maltrattamenti alle lesioni, dalle minacce al revenge porn. Il ddl dispone, inoltre, misure ulteriori: un potenziamento delle comunicazioni informative alle parti offese circa i loro diritti; una specifica attenzione alla formazione degli operatori, sotto il profilo della “promozione di modalità di interazione con le persone offese idonee a prevenire la vittimizzazione secondaria”; l’obbligo di audizione da parte del pubblico ministero delle vittime di violenza di genere, qualora esse lo richiedano, e comunque in una serie di altre circostanze; l’ampliamento delle ipotesi in cui può ricorrersi agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza. La cultura non si cambia per legge - Sono anni che la normativa in materia di reati di genere si va arricchendo di misure repressive e sanzioni. Ciò nonostante, la violenza contro le donne, in ogni sua forma, continua a restare un fenomeno estremamente grave e diffuso, con l’aumento di una serie di atti criminosi. Eppure, ancora una volta, pare che la risposta legislativa sia per il governo la soluzione migliore. Come si diceva, se è un messaggio suggestivo far sì che un reato odioso come il femminicidio acquisti una propria dimensione codicistica alla vigilia della giornata dedicata alle donne, si dubita tuttavia che la relativa proposta di legge, se approvata, possa avere una reale efficacia deterrente. Le dinamiche sottese alla commissione di particolari illeciti nei confronti delle donne dimostrano che non sono di certo valutazioni razionali, quali tecnicismi giuridici sulla configurazione autonoma del reato o sul calcolo delle relative pene, a dissuadere dal commetterli. A questo fine, serve lavorare sulla cultura della parità di genere e del rispetto. E la cultura non si cambia per legge, come abbiamo scritto molte volte. Una legge che preveda una nuova fattispecie di reato non può di certo supplire, ad esempio, alla mancanza in via continuativa di campagne di sensibilizzazione o di programmi educativi in grado di formare le coscienze circa l’equilibrio nelle relazioni. Parimenti, se c’è carenza di risorse destinate alla prevenzione della violenza sulle donne o di personale che dia seguito alle loro denunce, cogliendo i relativi segnali di pericolo, la previsione sulla carta di certe misure non ne consente la concreta attuazione. Nella scenografia allestita dal governo in occasione dell’8 marzo tutta questa parte è mancata. E forse non è un caso. *Giurista “Femminicidi, il carcere a vita non è la soluzione” di Maurizio Papa dire.it, 9 marzo 2025 Va in scena anche il flash mob contro il ReArm Europe nella manifestazione programmata in questa giornata simbolica da “Non una di meno”. Un 8 marzo “di lotta e di sciopero”, a Bologna, nelle piazze promosse da Non Una Di Meno: stamattina microfono aperto e laboratori sul Crescentone di piazza Maggiore, poi nel pomeriggio il corteo che partirà alle 16.30 da porta Saragozza. Una giornata di “sciopero politico, dal lavoro produttivo e riproduttivo. Quindi da quello che svolgiamo sul posto di lavoro e salariato, ma anche dal lavoro di cura che svolgiamo nelle nostre case e non solo, sia nello spazio privato che pubblico”: un lavoro “non pagato e anche questo sfruttato”, spiega Carmen di Non Una Di Meno da piazza Maggiore. Bocciato il riconoscimento del femminicidio come reato, secondo il Ddl approvato ieri dal Governo: “Un provvedimento che inasprisce le pene semplicemente è molto giustizialista- afferma Carmen- e noi non crediamo che la punizione carceraria sia la soluzione. Crediamo che la soluzione sia piuttosto di educazione e sensibilizzazione rispetto a quello che viviamo tutti i giorni e al contrasto alla violenza patriarcale di genere. Sbattere una persona in carcere per tutta la vita è una soluzione tappabuchi, ma non è questo che ci ridarà le compagne e sorelle ammazzate di femminicidio”. Una misura “giustizialista e carceraria che però non risolve affatto il problema alla radice”, aggiunge Carmen. Le forze politiche al Governo “continuano a inasprire gli interventi punitivi agendo quando ormai è troppo tardi”, afferma un’altra attivista al microfono: “Rispondiamo che la sicurezza è educazione alla sessualità, alle emozioni e al consenso come materia curriculare fin dalle primarie. La sicurezza sono servizi sociali, centri antiviolenza femministi con finanziamenti adeguati e strutturali, diritto alla salute e all’autodeterminazione, all’aborto libero, sicuro e gratuito, supporto ai percorsi di affermazione di genere”. La sicurezza “è finanziare veri percorsi di autonomia per uscire dalle relazioni violente”, continua l’attivista di Non Una Di Meno, “la sicurezza è salario minimo, stipendi dignitosi e contratti adeguati, reddito di autodeterminazione”. E poi: “Sicurezza è un piano casa, affitti calmierati, quartieri vivibili con spazi verdi e di socialità contro solitudine ed emarginazione. La nostra sicurezza è riconoscere la cittadinanza alle seconde generazioni, abrogare le leggi sull’immigrazione volte a creare clandestine e clandestini, rompere gli accordi italo-libici, aprire le frontiere e chiudere i Cpr in Italia e in Albania”. E mentre dal microfono si delinea la piattaforma dell’8 marzo di Non Una Di Meno, parte un flash-mob che idealmente calpesta il ReArm Europe. “Contro la politica del riarmo rispondiamo che sicurezza è demilitarizzazione”, affermano le attiviste: “Scioperiamo contro la guerra perché l’escalation bellica è esponenziale, è un’orribile realtà nelle vite di milioni di persone. Dal genocidio a Gaza e in Cisgiordania la guerra dilaga in tutto il Medioriente, spacca l’Europa sul confine russo-ucraino, divampa in Congo e in Sudan. Non vogliamo esserne né vittime né complici”. Ma oggi si sciopera anche “contro il governo Meloni e l’asse dei Governi ultrareazionari”, dice Non Una Di Meno, aggiungendo che “non riconosciamo il femminismo transfobico salito sul carro governativo: sostenere le lobby antiabortiste nei consultori e negli negli ospedali, togliere fondi ai percorsi di affermazione di genere, negare i diritti ai minori delle famiglie omogenitoriali è incompatibile con un orizzonte di libertà”. Infine la piazza lancia un messaggio contro Ddl Sicurezza e zone rosse, sottolineando che “nemmeno la nostra città è immune a queste politiche repressive”. I Centri antiviolenza: non sarà grazie a un nuovo reato che le donne smetteranno di morire di Federica Pennelli Il Domani, 9 marzo 2025 La rete D.i.Re: il disegno di legge è nato “senza un vero confronto con chi lavora quotidianamente su questi temi”. L’avvocata Aurora D’Agostino, consulente legale del Centro veneto progetti donna: “Non porta alcunché di utile e positivo alle donne che subiscono violenze, a cui ben poco interessa a quale pena verrà sottoposto chi la opera”. Il Consiglio dei ministri ha varato un Ddl che introduce il reato di femminicidio, ma, ancora una volta, non ha tenuto conto di chi la violenza maschile la contrasta ogni giorno, con fondi statali sempre più esigui: i centri antiviolenza. Il governo, contrario all’educazione sessuo-affettiva nelle scuole sulla scia della propaganda contro i diritti di Pro vita e famiglia, sorvola su molte cose. Innanzitutto che l’educazione e la prevenzione sono il primo passo al reale contrasto della violenza maschile contro le donne e ai femminicidi. In seconda istanza, come aveva anticipato e denunciato Domani, il governo non ha elargito per tutto il 2024 il reddito di libertà per le donne vittime di violenza maschile. I fondi stanziati per il triennio 2024, 2025 e 2026, inoltre, ammontano a soli 10 milioni all’anno. Secondo il calcolo di D.i.Re - Donne in rete contro la violenza - quella cifra coprirebbe le esigenze di sole 1600 donne all’anno. Per capire la gravità della situazione, la rete ha ricordato che le sole associazioni della rete, nei primi mesi del 2024, hanno accolto 21.842 donne. La misura, in ritardo e con fondi esigui, lascia le donne in situazione di eterna incertezza e vulnerabilità socio-economica, cui solo i centri antiviolenza devono farsi carico. La rete D.i.Re e Differenza Donna - I centri antiviolenza, abbandonati dalle politiche di governo, non sono nemmeno stati ascoltati per la discussione del testo sul ddl femminicidi. La rete nazionale antiviolenza D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, si trova nuovamente a constatare che l’articolazione delle proposte è nata “senza un vero confronto con chi lavora quotidianamente su questi temi”. Un fatto grave, che non può passare sotto silenzio. D.i.Re interviene anche sul testo presentato che, oltre al reato di femminicidio, introduce un’aggravante specifica di “discriminazione per tutti i reati espressione di violenza alle donne”. Su questo, la presidente D.i.Re Antonella Veltri, afferma: “L’introduzione della fattispecie di reato e il riconoscimento giuridico del reato di femminicidio non ci tranquillizza e credo che, solo attraverso il presupposto del riconoscimento delle fondamenta del reato, ovvero dell’esistenza delle discriminazioni di genere, si possa pensare all’efficacia dell’intervento”. Veltri, inoltre, afferma che non si aspetta un calo del numero dei femminicidi: “Lo abbiamo detto e lo ribadiamo: non è con pene severe o più severe che si afferma il diritto delle donne di vivere una vita libera dalla violenza”. Sulla questione legata all’introduzione di una specifica formazione della Scuola superiore della magistratura, Veltri afferma: “È importante il riconoscimento della necessità di una formazione specifica, ma cambiare rotta significa anche riconoscere concretamente la necessità di investimenti economici adeguati a cambiare la cultura di un paese che a colpi di pene e di suoi innalzamenti non risponde al diritto di libertà dalla violenza delle donne”. Elisa Ercoli, Presidente di Differenza Donna, dichiara a Domani: “Nominare il femminicidio è importante perché i reati di genere hanno una loro specificità e la lotta al femminicidio parte dal riconoscimento di quest’ultima. Tuttavia, sarebbe stata importante una condivisione con chi lotta la violenza tutti i giorni, come le esperte dei centri anti violenza”. La legale: “Per le donne che subiscono violenze non cambia niente” - Aurora D’Agostino è consulente legale del Centro veneto progetti donna, che nella sua rete gestisce sportelli, centri antiviolenza e case rifugio del territorio. In merito al ddl, dichiara a Domani: “Credo anzitutto che al suo interno ci sia l’impronta securitaria che ormai imperversa in tutti gli interventi governativi”. D’Agostino afferma che questa strategia prettamente punitiva: “Non porta alcunché di utile e positivo alle donne che subiscono violenze, a cui ben poco interessa a quale pena verrà sottoposto chi la opera. Ancor meno se la violenza arriva all’esito finale, alla morte. Che, tra parentesi, è già punita con l’ergastolo”. Secondo l’avvocata: “Alle donne servono strumenti, risorse per lasciarsi la violenza alle spalle. Serve tutela effettiva per impedire che la violenza venga esercitata. Aggiungo che sotto il profilo tecnico il testo è scritto malissimo ed esporrà la difesa delle donne ad ogni possibile eccezione”. La consulente legale conclude: “Invece di sparare pene a zero, si dovrebbe anzitutto confrontarsi con le difficoltà reali, dalla voce di chi assiste le donne. Fa veramente arrabbiare che si usino le date come propaganda. Spero che tutte e tutti dimentichino presto di legare l’otto marzo a questo intervento legislativo”. Insomma, per D’Agostino, è strumentale anche il giorno che il governo ha scelto per far uscire il ddl, probabilmente per poter dimostrare che si stia davvero muovendo sulla questione dell’altissimo numero dei femminicidi. Ma il risultato è l’ennesima sfilza di dettami carcerari in salsa prettamente punitiva, di cui il ddl sicurezza ha fatto da apripista. Sulla vera prevenzione ai femminicidi e alla violenza maschile, invece, tutto tace. Violenza sulle donne: serve un accesso alla giustizia più rapido ed efficace di Stela Mehmeti La Nazione, 9 marzo 2025 Dall’1 gennaio al 22 dicembre 2024 registrati 300 omicidi, le vittime donne sono state 109, di cui 95 uccise in ambito familiare o affettivo. Bartoccetti (Telefono Donna): “La consapevolezza è il vero traguardo”. Molte donne non sono consapevoli di essere vittime di violenza. Tante di loro non pensano di essere donne maltrattate e ritengono di vivere una fase di relazione complicata e difficile, anche se subiscono violenza. La consapevolezza “è il vero traguardo” e per tutelare le vittime occorre semplificare l’accesso alla giustizia. L’iter delle denunce e dei processi “è spesso troppo lungo” sostiene Stefania Bartoccetti, a capo di Telefono Donna, che ha messo a terra in Italia centri antiviolenza con volontarie e operatrici specializzate pronte a rispondere 24 ore su 24, case rifugio per le donne vittime di maltrattamenti e un servizio attivo di assistenti sociali, psicologhe, avvocate. Le donne vittime di violenza si trovano costrette a raccontare più volte quello che hanno subito e, in alcune occasioni, “sotto giudizio” sottolinea Bartoccetti. Dunque, è importante che la politica e la giustizia offrano misure di protezione immediate serie. La consapevolezza “è il vero traguardo” - Alla vigilia dell’8 marzo è arrivato il via libera dal Consiglio dei ministri al disegno di legge per l’introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza sulle donne. Il femminicidio diventa così reato autonomo, punibile con l’ergastolo. L’esecutivo segna “un passo avanti” a tutela delle donne e chiama in gioco la giustizia. Il percorso per debellare la violenza necessita, però, di interventi strutturati e capillari in grado di agire su molteplici aspetti, dall’educazione affettiva nelle scuole alla dimensione domestica, attraverso azioni mirate a seconda del caso. Il primo passo per una donna vittima di violenza è diventare consapevole della circostanza che sta vivendo. Alla lunga, le donne che continuano a vivere “in quella dimensione” se ne convincono. Di conseguenza, rallentano le altre relazioni e rischiano di restare chiuse in un circolo vizioso. Una condizione che “porta sofferenza e non dà alla donna possibilità di avere una via di uscita” osserva Bartoccetti. Gli interventi contro i maltrattamenti hanno tempi lunghi - Secondo il Ministero dell’Interno, dal 1° gennaio al 22 dicembre 2024, si sono registrati 300 omicidi, di cui 109 vittime donne; tra queste, 95 sono state uccise in ambito familiare o affettivo, e 59 per mano del partner o ex partner. Le aree metropolitane sono caratterizzate da un numero alto di risorse e servizi, oltre che di richieste. Bartoccetti spiega che nelle metropoli come Milano si riescono a dare risposte rapide, al contrario delle zone più periferiche, dove i servizi dedicati e gli interventi contro i maltrattamenti “hanno tempi lunghi”. Le donne che vivono nelle grandi città si rivolgono più facilmente a un centro antiviolenza rispetto a chi vive nei piccoli centri, dove invece “tentano di nascondere il problema”. Inoltre, Telefono Donna ha avviato un progetto dedicato agli “orfani speciali”, ovvero i minori vittime di violenza, soprattutto assistita. Il numero complessivo di minori vittime di violenza assistita dal 2018 al 2022 è 3.592. Occorre semplificare l’accesso alla giustizia - Aiutare le donne vittime di violenza significa promuovere una formazione continua per gli operatori, dare sostegno alle case rifugio e garantire così la possibilità di una protezione “seria”. Per le donne straniere occorre l’accesso a un permesso di soggiorno “precario”, oltre che il riconoscimento di servizi come la mediazione linguistica e la protezione legale. Molte di queste donne non conoscono la lingua, imparano in parte a scrivere attraverso i figli che vanno a scuola. Arrivano in Italia attraverso il ricongiungimento con il marito e “sono convinte che i loro diritti siano legati a vivere con il partner” spiega Bartoccetti. Le donne vittime di violenza potrebbero partecipare alla costruzione di nuove politiche per la prevenzione. L’Italia ha “un buon” sistema legislativo, ma le leggi “non vengono applicate - avvisa -. Il taglio di alcune sentenze riducono le donne a una condizione di sofferenza infinita”. Occorre, quindi, attivare sostegni reali e restituire alla comunità, anche attraverso le scuole, l’educazione all’affettività. Questa è l’epoca delle “relazioni di consumo”, per i giovani “è tutto un discorso di business; è la partita del denaro che sovverte tutto” come si evince da alcuni testi musicali. Il senso dei percorsi nei centri antiviolenza può suggerire alla politica “come correggere il tiro sulle azioni per le misure di supporto” sottolinea Bartoccetti. Modena. La strage al carcere Sant’Anna 5 anni fa. Le iniziative su diritti e giustizia di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 9 marzo 2025 L’8 marzo del 2020 persero la vita otto detenuti durante una rivolta all’interno del carcere. La protesta scoppiò per la paura dei contagi da Covid e per il divieto dei colloqui con i familiari. Passerà alla storia come la strage più grave mai avvenuta nelle carceri italiane. Ancora oggi se ne parla nelle aule dei tribunali, nonostante il fascicolo sia stato archiviato. Resta aperto, infatti, quello sulle presunte torture ai danni di detenuti ma nessuno potrà dimenticare come, cinque anni fa, l’8 marzo del 2020 nel corso di una maxi rivolta nel carcere modenese del Sant’Anna persero la vita otto detenuti. Le autopsie confermarono come i decessi furono legati all’assunzione smodata di farmaci dopo l’assalto alla farmacia del carcere. La rivolta prese le mosse a Modena come in altri penitenziari a seguito dell’avvento del Covid e della comprensibile paura provata dai detenuti. Pende però ancora un ricorso alla Corte Europea contro quell’archiviazione. Intanto Modena ricorda l’anniversario della strage con due giorni di appuntamenti: oggi alle 10.30 è previsto un presidio con deposizione di rose nel piazzale del carcere. Alle 16 nello spazio sociale anarchico Libera, invece, è prevista la proiezione del documentario ‘Noi non archiviamo’, seguito da un dialogo tra Fausto Gianelli e Sara Manzoli. Alle 18, ‘Giustizia & Cultura’ a cura dell’attore Alessandro Bergonzoni e dell’avvocato Luca Sebastiani, che ha seguito il caso per la famiglia di un detenuto. “Sono passati cinque anni da quel giorno. Il giorno che dedichiamo a festeggiare le donne, cinque anni fa coincideva di fatto con il giorno di applicazione del primo “d.p.c.m.”, quello che ricorderemo sempre con la parola “lockdown” - afferma Sebastiani. Ma quel giorno, a distanza di anni, perlomeno da chi ha una sensibilità più spiccata, non viene ricordato per quello. Tendiamo sempre a dimenticare le ricorrenze negative, salvo se c’è qualcuno che tenda a farcele ricordare. È per questo che, per la prima volta, parteciperò ad un evento commemorativo organizzato dal Comitato Verità e Giustizia per le morti del Sant’Anna. È per questo che oggi, voglio ricordare quel giorno, distante oramai cinque anni, per quanto accaduto nelle carceri italiane: morirono in tutto 13 ragazzi, 8 solo a Modena, in quella che ad oggi ricorderemo come la più grande tragedia all’interno di un carcere che la storia dell’Italia repubblicana abbia mai visto. Se le diverse vicende processuali che ne sono scaturite hanno, ad oggi, esiti processuali incerti e per certi versi contraddittori, oggi, credo che sia l’occasione giusta per ricordare quei ragazzi che sono morti, troppo giovani, mentre erano affidati nelle mani dello Stato. Uno di questi, l’unico che conoscevo prima, era Hafedh - afferma ancora il legale. Un ragazzo brillante, poco più che trentenne che aveva tanta voglia di vivere”. Alba (Cn). Il neo garante dei detenuti, Emilio De Vitto: “Un tavolo per garantire il reinserimento” targatocn.it, 9 marzo 2025 Tra le sue priorità la continuità con le gestioni precedenti e l’impegno per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nella Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto”. Non si tratta solo di occuparsi delle persone internate in esecuzione di misure di sicurezza post detenzione e in regime di semilibertà, ma anche di chi lavora all’interno della struttura. È fondamentale avviare progetti di formazione lavoro e di reinserimento: senza prospettive, il rischio è che, una volta scontata la pena, le persone non abbiano opportunità di ricostruire una vita all’esterno”. Con queste parole Emilio De Vitto, nuovo garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, ha delineato il senso della sua nomina. Selezionato tra i candidati che avevano risposto al bando pubblicato a fine gennaio, De Vitto subentra a Paola Ferlauto, raccogliendo un’eredità importante e un percorso già avviato negli anni scorsi. “Spero di riuscire a portare parte del mio percorso lavorativo in questo incarico”, ha dichiarato, ricordando il suo impegno con la Cooperativa Orso, in cui si è occupato di migranti e inclusione sociale. L’obiettivo è dare continuità a un cammino iniziato con i predecessori Sandro Prandi e Paola Ferlauto. “Il loro lavoro è stato prezioso e il mio obiettivo è proseguire su quella strada. Ne approfitto per ringraziare il sindaco Alberto Gatto e il consiglio comunale per la fiducia accordatami”. La Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” presenta alcune criticità. “Ci sono persone che, pur avendo terminato la pena, restano ancora in attesa di una destinazione. Bisogna capire il loro percorso e quali soluzioni si possano mettere in campo”, ha sottolineato De Vitto. Un problema che si interseca con il futuro della struttura, per la quale è prevista una riorganizzazione nella prima parte del 2025, dopo i lavori e le difficoltà causate da emergenze sanitarie degli ultimi anni. L’idea è di lavorare in sinergia con gli strumenti già attivi, come il tavolo del carcere di Cuneo, che coinvolge enti pubblici, realtà private e del Terzo settore (cooperative sociali, associazioni di volontariato) esperienza già svolta ad Alba negli anni precedenti attraverso l’esperienza del GOL Gruppo Operativo Locale. “Bisogna creare spazi di dialogo e progettazione condivisa, dove tutti gli attori coinvolti possano contribuire con soluzioni concrete e attività di sensibilizzazione e conoscenza della realtà penitenziaria. Solo con un confronto costante tra istituzioni e territorio possiamo garantire ai detenuti un percorso di reinserimento concreto e sostenibile. Sarà fondamentale in ogni fase del mio mandato la stretta collaborazione con l’Amministrazione, con il direttore della Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto”, Nicola Pangallo, la polizia penitenziaria e le varie realtà e associazioni che operano all’interno della casa di reclusione”. Firenze. Carcere di Sollicciano, ambulatori allagati e trasferiti negli uffici degli agenti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 marzo 2025 I sindacati: “Stessi problemi in altri locali, perché allora non chiudere anche quelli”. Muffa, tubi rotti, degrado. Le stanze di Sollicciano destinate alle attività mediche fanno acqua - letteralmente - da tutte le parti e il direttore provvisorio del penitenziario fiorentino, Alessandro Monacelli, ne ha disposto il trasferimento in quattro stanze nei locali adiacenti alla direzione. Un trasloco piuttosto complicato che costringe alcuni agenti penitenziari a stiparsi in spazi più stretti oppure a spostarsi in altre stanze per permettere di adibire i locali in questione a infermerie. Non trova dunque pace il carcere di Sollicciano, visto che anche i locali medici sono degradati e insalubri. La decisione del trasloco, già partito, è arrivata in seguito a una riunione e a un sopralluogo tenuto dal provveditore all’inizio di marzo, che ha constatato lo stato di salute dei locali. Una decisione che però ha fatto irritare i sindacati degli agenti penitenziari, che adesso sostanzialmente si chiedono: “Visto che si è proceduto in tempi così celeri al trasloco dei servizi sanitari, perché allora non decidere di intervenire drasticamente sull’intero carcere visto che gran parte di esso versa in condizioni ugualmente drammatiche?”. In sostanza, perché non intervenire chiudendo le parti di Sollicciano che versano nel degrado? Il primo a porre il tema è stato Eleuterio Grieco, segretario regionale della Uil Pa Penitenziari. Numerose le domande che, in una lettera, rivolge al ministero della giustizia e al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Innanzitutto, si chiede il sindacalista, “perché vengono concessi spazi all’Asl nell’area della direzione di Sollicciano” se questo significa incidere in locali “che sono adibiti a uffici?”. E poi la domanda più significativa: “Perché il provveditorato si è preoccupato degli uffici dell’Asl e non si inquieta per gli ambienti del carcere dove lavorano poliziotti nei reparti e altri luoghi anch’essi in condizioni insalubri di un profondo degrado con muffe ed infiltrazioni di acqua, cimici, topi e tubi rotti?”. E ancora: “Perché dello specifico tema non sono state portate a conoscenza le rappresentanze sindacali di entrambi i comparti visto il disagio e il malessere che si sta procurando per la scelta operata verso i suoi dipendenti?”. Domande particolarmente importanti e urgenti anche alla luce del fatto che a Sollicciano manca, ormai da mesi, una direzione stabile dopo il mancato rinnovo dell’incarico all’ex direttrice Antonella Tuoni. Adesso, dopo l’avvicendarsi di vari direttori provvisori, nel penitenziario fiorentino arriva, nel ruolo di vertice, l’attuale direttrice del penitenziario di San Gimignano, Mariagrazia Giampiccolo, che resterà in carica per almeno tre mesi. Amaro il commento di Leo Beneduci, segretario generale del sindacato della polizia penitenziaria Osapp: “Il nuovo provvedimento del provveditorato toscano che destina un unico direttore a gestire contemporaneamente i penitenziari di San Gimignano e di Sollicciano a Firenze, con appena due o tre accessi settimanali e reperibilità telefonica per il restante periodo, rappresenta l’apice dell’irresponsabilità istituzionale in un momento di gravissima crisi per entrambe le strutture”. Pavia. Non solo sport e musica dentro al carcere. Più corsi a favore dell’inclusione sociale di Manuela Marziani Il Giorno, 9 marzo 2025 Il teatro, lo sport e la musica per riallacciare i fili della relazione tra la città e il carcere. La Giunta ha approvato i “Progetti in carcere”, interventi di inclusione sociale a favore dei detenuti a cura del Conservatorio Vittadini, del Teatro delle chimere e della Polisportiva popolare pavese. I progetti hanno come obiettivo l’integrazione sociale, il recupero e il reinserimento nella società e la promozione della salute attraverso il ruolo educativo dello sport. Il Vittadini organizza, da marzo a giugno, due incontri musicali settimanali di teoria musicale, pratica strumentale e vocale con un concerto finale che si terrà nel teatro della casa circondariale. Il Teatro delle chimere invece porta avanti il progetto “La via del teatro: il teatro in carcere”, un percorso rivolto ai detenuti protetti che ha dato vita, nel corso degli anni, alla compagnia teatrale della casa circondariale “USB. Uomini senza barriere”. Il laboratorio si svolge da settembre a giugno con un incontro a settimana. Infine la Polisportiva popolare pavese organizza i corsi di karate sekoidan e pre-pugilistica-functional trainig in carcere, attività seguite da istruttori e volontari per tutto il 2025, con cadenza settimanale. “I corsi all’interno del carcere erano una pratica consolidata - ha detto l’assessore alle Politiche educative Giampaolo Anfosso - Ma l’intervento del Comune vuole rendere stabili e allargare il più possibile le offerte per gli abitanti della casa circondariale, che vorremmo considerare un quartiere di Pavia. Siamo sicuri di aver stretto un rapporto sempre più forte con la direzione del carcere e quindi di poter rendere meno oppressivo il soggiorno dietro le sbarre, tendendo alla rieducazione dei condannati”. Ferrara. Uisp: lo sport in carcere contro l’indifferenza uisp.it, 9 marzo 2025 Il progetto proporrà attività sportive nella casa circondariale di Ferrara. Eleonora Banzi: “Sport ponte tra il dentro e il fuori”. Al via il progetto socioeducativo ‘sportivi dentro’ promosso da Uisp Ferrara, grazie a cui verranno promosse attività sportive all’interno della casa circondariale della città emiliana. I dettagli sono stati illustrati nella conferenza stampa che si è tenuta martedì 4 marzo alla presenza dell’assessore allo sport, Francesco Carità, della presidente Uisp Ferrara, Eleonora Banzi, della direttrice della casa circondariale ‘Costantino Satta’ Maria Martone, la docente del liceo ‘Roiti’ di Ferrara, Serena Parma, il vicepresidente Arci Ferrara, Mattia Antico e il coordinatore per Uisp Ferrara del progetto ‘sportivi dentro’, Andrea De Vivo. Il tutto è stato reso possibile grazie all’aggiudicazione da parte del comitato Uisp Ferrara, del bando carceri promosso da Sport e salute Spa, che mette a disposizione risorse finalizzate a specifiche attività sportive, per un periodo di 18 mesi. Inoltre, grazie alla collaborazione tra Uisp Ferrara ed il liceo ‘Roiti’, gli studenti della classe 4^ ad indirizzo sportivo avranno la possibilità di visitare la casa circondariale ‘Costantino Satta’ e di affiancare gli educatori Uisp durante le attività sportive proposte. Potranno così conoscere il funzionamento di una casa circondariale e l’importanza che l’attività fisica ricopre nel percorso dei detenuti. Nel suo intervento la presidente Uisp Ferrara, Eleonora Banzi si è soffermata sull’importanza sociale di ‘Sportivi dentro’, ringraziando per il sostegno l’amministrazione comunale di Ferrara e tutti coloro che hanno reso possibile questo progetto. “Vorrei sottolineare l’importanza di questo progetto - ha detto Eleonora Banzi - che rappresenta un ulteriore passo avanti nel nostro impegno per lo sport come strumento di inclusione e benessere sociale. Come Uisp, da oltre trent’anni operiamo all’interno della casa circondariale di Ferrara, convinti che lo sport non sia solo attività fisica, ma un vero e proprio veicolo di cambiamento. Con “Sportivi dentro”, vogliamo portare avanti questa missione, utilizzando lo sport come mezzo per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, contrastando l’immobilità forzata e promuovendo il benessere psico-fisico”. “Crediamo fermamente che lo sport - ha proseguito Banzi - possa essere un ponte tra il dentro e il fuori, un modo per abbattere stereotipi e pregiudizi, e per regalare momenti di sollievo e riflessione. Attraverso attività come pallavolo, calcio, tennis, bocce e altre, vogliamo educare al rispetto delle regole, alla condivisione e alla socialità, valori fondamentali per una vera inclusione”. La direttrice della casa circondariale ‘Costantino Satta’ Maria Martone ha ringraziato tutti i soggetti coinvolti nel progetto, aggiungendo: “Lo sport in carcere è indubbiamente un elemento fondamentale per la vita dei detenuti. Si tratta anche di momenti necessari per stemperare anche a livello emotivo e mentale la convivenza forzata. Lo sport sicuramente trasmette valori positivi, che permettono di comprendere il confronto e rispetto delle regole, oltre la condivisione con gli educatori che opereranno direttamente all’interno della casa circondariale. Il modello di carcere che vogliamo è quello aperto verso la comunità in cui si trova, attraverso un interscambio di opportunità attraverso la formazione che permetta un percorso rieducativo dei detenuti. La scelta di farlo attraverso lo sport è sicuramente un fatto positivo”. In apertura l’assessore allo sport del Comune di Ferrara, Francesco Carità ha sottolineato come: “Progetti come quello proposto da Uisp, danno l’idea di quanto sia importante lo sport anche all’interno di un istituto penitenziato, non sono come attività fisica, ma anche per la valenza in termini d’inclusione e di aiuto al superamento delle difficoltà che può vivere quotidianamente chi si trova recluso. L’attività sportiva, insieme a quella lavorativa, ha infatti un valore educativo fondamentale per il reinserimento sociale dei detenuti. Di grande rilievo all’interno di questo progetto è anche il coinvolgimento del mondo della scuola, con la partecipazione attiva di un gruppo di studenti, che avrà modo di vivere in prima persona quest’esperienza di partecipazione all’organizzazione delle attività sportive all’interno del carcere”. In conclusione Andrea De Vivo di Uisp Ferrara ha illustrato alcuni dettagli del progetto: “Si praticheranno pallavolo, calcio, tennis, bocce, tennis tavolo e calcio balilla, proseguendo ed implementando quelle che sono già in atto da molti anni, attraverso il contributo del Comune di Ferrara. Ci saranno anche momenti di formazione per arbitri per la pallavolo e calcio. Il progetto complessivamente coinvolgerà 150 detenuti, che saranno impegnati a rotazione tra le varie sezioni della casa circondariale”. Verona. Yoga e meditazione in carcere, il metodo “esportato” in tutta Italia Giorgia Cozzolino L’Arena di Verona, 9 marzo 2025 Il progetto portato avanti da a otto anni da Roberto Cagliero, attualmente insieme a Nicoletta Ortu e Francesco Previti all’interno del programma curato dall’associazione Horse Valley di Corte Molon fa il “tour” delle case circondariali del Belpaese. “Liberi” seppur dietro le sbarre. E se non proprio liberi, almeno alla ricerca di uno stato di quiete interiore nel mezzo di una situazione di privazioni. È quanto cercano di ottenere le persone che si trovano al carcere di Montorio frequentando il corso di Kundalini Yoga portato avanti da a otto anni da Roberto Cagliero, attualmente insieme a Nicoletta Ortu e Francesco Previti. I tre esperti di questa antica disciplina, all’interno del programma curato da anni dall’associazione Horse Valley di Corte Molon nella casa circondariale scaligera, cercano di portare qualche beneficio psicofisico a chi si trova ad affrontare un periodo che definire difficile per la vita di una persona è sicuramente riduttivo. E lo fanno, prima di tutto, spogliandosi del giudizio. Si tratta, di fatto, dell’unico modo per entrare in connessione con chi si trova privato della propria libertà. Un metodo “esportato” in tutta Italia - Insegnare yoga in carcere non è semplicemente trasmettere una serie di posizioni o di modalità di respirazione, come potrebbe essere in un corso qualsiasi. Si tratta di dribblare tra mille regole non scritte che si nascondono in un ambiente socialmente “estremo”. E il metodo di insegnamento collaudato in anni di esperienza dietro le sbarre da Cagliero è stato, nel corso degli anni, “esportato” anche in altri istituti penitenziari. “Ho cominciato ad organizzare corsi di yoga in case circondariali in giro per l’Italia, scrivo un progetto e poi ci sono dei colleghi che lo seguono”, spiega Cagliero. “Sto collaborando con una associazione no profit che si chiama Seconda Chance, nata dall’attività della giornalista del TgLa7 Flavia Filippi nelle carceri italiane. Lei ha una rete ormai estesa di contatti e quindi spesso lavoriamo insieme”, chiarisce. Detenuti con problemi psichiatrici - “Il numero di detenuti persone in carcere con problemi psichiatrici di entità diverse è in continuo aumento, metterei punto e non virgola questo significa che ti trovi dei gruppi con persone che hanno strutture emotive diverse”, racconta Cagliero che aggiunge: “A questo si aggiungono sommano altre problematiche tipo l’appartenenza religiosa, perché una delle idee che ha chi fa yoga per la prima volta è che tu gli voglia vendere un pensiero religioso”. Il trucco è essere “prevedibile”. “Più sanno cosa aspettarsi e più riesci a coinvolgerli”, precisa Cagliero che aggiunge: “E una delle cose fondamentali per chi va in carcere a insegnare è quello di togliersi subito l’idea che sei il “salvatore” perché altrimenti il detenuto si ritrova immediatamente nel ruolo della vittima e questo va a toccare equilibri già labili”. Difficoltà e labili equilibri - “Accettare le reazioni senza perdere il polso della situazione è una delle cose che ho imparato nel corso degli anni perché la verità, e non è retorica, è che imparo più io che i miei allievi detenuti, durante le lezioni”, confessa Cagliero. È importante avere una finestra di tolleranza ampia per le loro emozioni negative, i loro rifiuti, le loro resistenze: mai insistere per non mettere in crisi, non tanto la loro autostima, quanto l’immagine di loro nei confronti degli altri. Il carcere è un posto dove tutti stanno continuamente attenti a quello che fanno gli altri”. Ma quali sono le difficoltà maggiori? “Il gruppo può cambiare completamente di umore da una volta all’altra, perché tutti in linea di massima sono contenti di venire lì, ma tu non sai che cosa c’è dietro. Magari c’è uno che arriva e ti fa un sorriso, ma il mattino prima gli hanno consegnato notificato un’altra condanna, oppure gli è morto un familiare, o sta vivendo una situazione di stress come altri detenuti”. Suicidi - L’anno scorso è stato un anno tragico per il carcere di Verona, dove si è registrato un numero elevatissimo di suicidi. Situazioni delicatissime dove anche un corso di yoga può portare benefici: “Ci sono delle persone che mi hanno detto che riescono a gestire meglio la tristezza per la lontananza dalla famiglia o riescono a deprimersi di meno, oppure grazie ad alcuni esercizi affermano di riuscire a dormire meglio”, precisa Cagliero. E aggiunge: “È vero che nell’ultimo anno il carcere di Verona è stato al centro dell’attenzione (con i numerosi suicidi e con detenuti eccellenti, ndr) però andando dentro non te ne accorgi, non perché lo nascondano, ma perché i detenuti sono persone che vivono un trauma continuativo e che ci sia uno che si uccide, crea dispiacere a chi lo conosceva, ma fa parte del “pacchetto” di tutti gli elementi traumatici a cui sono stati sottoporti in passato”. Cosa migliorare - Cosa si può migliorare? “Il carcere per funzionare, ma questo lo dicono tutti, sia le amministrazioni penitenziarie sia detenuti e volontari, avrebbe bisogno di avere più soldi, perché sicuramente un servizio psichiatrico o psicologico potenziato potrebbe portare grandi benefici”. Corinaldo (An). Il primo incontro di “Fulminanti” apre il dibattito su giustizia e carcere valmisa.com, 9 marzo 2025 Giulia Torbidoni, presidente di Antigone Marche, sarà ospite dell’incontro in programma giovedì 13 marzo. Il ciclo di incontri “Fulminanti” prende il via con una serata dedicata al tema della giustizia e del sistema carcerario. Il primo appuntamento, dal titolo “Chi sbaglia, paga?”, si terrà giovedì 13 marzo alle ore 21.00 presso il Circolo Arci “Pablo Neruda” di Corinaldo. Ospite della serata sarà Giulia Torbidoni, presidente di Antigone Marche, che guiderà il confronto su questioni cruciali: repressione o educazione? Punizione o reintegrazione? Quale modello di giustizia vogliamo? L’evento offrirà un’opportunità per riflettere sulla condizione delle carceri italiane e sulle conseguenze di politiche come il DDL “Sicurezza”. Un’occasione per affrontare, con consapevolezza e spirito critico, il rapporto tra punizione, riabilitazione e sicurezza collettiva. “Fulminanti” è un laboratorio civico di ascolto e dialogo, nato per creare uno spazio di confronto su temi di interesse sociale e politico. L’obiettivo è promuovere consapevolezza e responsabilità, stimolando una riflessione collettiva lontana dalle polarizzazioni e dalle dinamiche divisive. Attraverso incontri tematici e il contributo di esperti, il progetto mira a costruire una comunità più informata e partecipativa. L’appuntamento inaugura il laboratorio civico “Fulminanti”, uno spazio aperto di ascolto e dialogo per promuovere una cittadinanza più informata e attiva. Per maggiori informazioni, seguite gli aggiornamenti del Circolo Arci “Pablo Neruda”. Massa Marittima (Gr). “Arte senza confini tra rinascita e speranza”: un murales in carcere grossetonotizie.com, 9 marzo 2025 Il progetto è ideato e promosso dall’associazione Operazione Cuore Ets. Dal 7 al 10 aprile il cortile della casa circondariale di Massa Marittima si trasformerà in un laboratorio creativo grazie al progetto “Arte senza confini tra rinascita e speranza”, ideato e promosso dall’associazione Operazione Cuore E.t.s. L’iniziativa, giunta alla sua quinta edizione nelle strutture detentive, coinvolgerà detenuti e un gruppo di studenti dell’Isis “Carducci-Volta-Pacinotti” di Piombino nella realizzazione di un murale collettivo, simbolo di inclusione, rinascita e speranza. Con il pieno supporto del preside, dottor Cristiano Lena, gli studenti saranno seguiti dalle professoresse Lorella Niccolini e Odetta Barani. “L’arte è un mezzo per abbattere i pregiudizi e unire le generazioni, e ne abbiamo avuto prova in tutti i nostri percorsi”, afferma Laura Romeo, presidente di Operazione Cuore, associazione che dal 2016 si impegna in attività di supporto per chi vive situazioni di fragilità. Il progetto è stato fortemente voluto dalla direttrice della casa circondariale, la dottoressa Maria Cristina Morrone, e dalla responsabile dell’area trattamentale, la dottoressa Marilena Rinaldi, che da tempo collaborano con l’associazione per promuovere percorsi rieducativi attraverso l’arte. A dirigere il laboratorio saranno gli artisti Alice Mazzilli e Marco Milaneschi (Edf Crew), professionisti con un’esperienza decennale nel campo della street art. L’evento si concluderà con un rinfresco inaugurale offerto da Unicoop Tirreno e preparato dagli stessi detenuti. Il materiale per la base del murale è stato donato dalla ditta Bcc Edilizia di Gavorrano. Un progetto che, ancora una volta, dimostra come l’arte possa essere strumento di cambiamento, dialogo e integrazione. Quel “fuori” che fa paura di Roberta Barbi L’Osservatore Romano, 9 marzo 2025 Speranze e timori dei detenuti in un libro curato da suor Emma Zordan. “Noi fuori siamo considerati scarto. Noi fuori siamo e saremo sempre nessuno”. È un doloroso grido d’aiuto quello che emerge dalle pagine della nuova fatica di suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo, da anni tra i detenuti del carcere romano di Rebibbia dove organizza anche laboratori di scrittura. Un grido sottolineato dalla voce sottile e pacata di questo fiore d’acciaio che è suor Emma, che in occasione del Giubileo del mondo del volontariato torna a far parlare i ristretti con il libro Noi fuori - la voce dei detenuti di Rebibbia (Il Levante, 2024, 104 pagine, 13 euro). Nel volume - con la prefazione del vescovo di Latina, monsignor Mariano Crociata - affrontano la paura che accompagna spesso il momento del fine pena. Il tema, suor Emma e i suoi ragazzi, l’avevano già affrontato nel 2019 in un altro libro dall’eloquente titolo Paura della libertà, ma i dati di cronaca sul drammatico aumento, negli ultimi anni, dei suicidi in carcere che si concentrano proprio nei due momenti dell’ingresso in istituto ma anche del fine pena, li ha portati a riflettere nuovamente sull’argomento: “Rispetto al passato oggi rileviamo che per i detenuti in procinto di uscire spesso il fuori è peggio del dentro - racconta la religiosa ai media vaticani - il mondo spesso è disumano, la società è intrisa di pregiudizi nei confronti di chi sbaglia perciò non perdona, non si fida, non riconosce il cambiamento neppure quando c’è, respinge. Perciò il momento della scarcerazione diventa un incubo”. “Prima, invece, alla paura di uscire si mescolavano sentimenti quali il desiderio di essere liberi, di godere degli affetti, della famiglia, degli amici - rileva suor Emma - oggi prevale la paura di sbagliare al punto che si preferisce restare in galera. E infatti molto spesso ci si torna”. Soprattutto per i detenuti che escono dopo aver scontato condanne molto lunghe, quel “fuori” è particolarmente difficile anche perché troveranno la società molto cambiata: “Alcuni sanno già che saranno soli e questa è una nuova condanna, anche peggiore della precedente - afferma la volontaria - può fare la differenza un serio accompagnamento nei momenti difficili vissuti dentro, come la perdita di una persona cara, una notizia indesiderata o una malattia incurabile”. È allora che la famiglia diventa fondamentale, come pure il lavoro: “I familiari devono essere bravi ad accogliere il tormento che queste persone provano a causa del reato che hanno commesso - osserva suor Emma - il lavoro come lo studio, poi, è l’unico ponte reale tra l’interno e l’esterno: basterebbe applicare davvero l’Articolo 27 della nostra Costituzione, invece le esperienze di lavoro in carcere sono poche e a rotazione, i corsi professionalizzanti ancora meno”. Ed eccole, le due parole che sintetizzano questo caleidoscopio delle sensazioni che provano i ristretti davanti alla prospettiva di uscire: “La speranza, proprio quella che Papa Francesco vuole esaltare nel corso di questo Anno Santo, è la molla che tiene in vita i detenuti - conclude la religiosa - speranza di accoglienza contro paura della recidiva. Le parole del Santo Padre, che esiste una speranza che non delude mai, conforta molto i detenuti, e il mio sforzo da volontaria resta quello di far sentire loro la gioia del perdono del Signore”. Il libro sulla polizia e i Governi: “Oggi la vicinanza è più sfacciata” di Claudio Menafra IL Domani, 9 marzo 2025 La storia dei governi in Italia è intrecciata con quella delle forze di polizia, spesso considerate dalla politica strumenti di gestione del potere. Ancora oggi questo legame rimane ambiguo, mentre a livello interno i corpi non hanno ancora del tutto cancellato residui antidemocratici. Sono dinamiche indagate in “Il braccio armato del potere. Storia e idee per conoscere la polizia italiana” (Nottetempo, 276 pagine) di Michele Di Giorgio, che analizza dal punto di vista sociologico il rapporto tra forze di polizia e governi. Dal libro emerge come a partire dalla riunificazione d’Italia i corpi di polizia siano stati più impegnati a difendere i governi che a mantenere la sicurezza dei cittadini... La causa si trova nella fragilità dell’Italia postunitaria, caratterizzata dalla scarsa legittimità popolare di quella classe politica. Poi il fascismo ha operato un perfezionamento in senso repressivo. Anche dopo la Seconda guerra mondiale il peso della guerra fredda spinse la Democrazia cristiana a esercitare uno stretto controllo sugli apparati di sicurezza, in funzione anticomunista. Nonostante il nuovo clima costituzionale, il nuovo stato democratico non operò una riforma profonda delle polizie ereditate dal regime e così, fino agli anni Ottanta, le istituzioni poliziesche sono state utilizzate in modo distorto dal controllo politico. L’Italia è descritta anche come “il Paese delle cinque polizie”, con mansioni che ancora oggi si sovrappongono. Come spiega questa proliferazione dei corpi? Nell’Italia liberale i due corpi di polizia principali erano espressioni di due anime diverse: i carabinieri erano un corpo dell’esercito, una “gendarmeria” legata alla monarchia, gelosa custode delle sue tradizioni militari; la pubblica sicurezza nasceva invece come polizia civile, fortemente legata alle élite borghesi e alle classi dirigenti della neonata Italia liberale. A questi si sono poi aggiunti la guardia di finanza, con compiti di controllo delle frontiere e di polizia tributaria; gli agenti di custodia per la sorveglianza delle carceri e l’antenato di quello che poi è diventato il corpo forestale dello Stato. Nel corso della storia carabinieri, polizia e finanza hanno esteso le loro competenze invadendo i rispettivi campi, senza che la politica sia riuscita a perimetrarli. Dall’età liberale al fascismo, fino ai fatti del G8 di Genova, le violenze repressive e gli abusi durante le manifestazioni di piazza hanno caratterizzato la storia delle forze dell’ordine. Che cosa, nella formazione dei corpi di polizia, rischia di far germinare questa violenza? Più che sulla cultura dei corpi di polizia, bisognerebbe riflettere su come le polizie vengono utilizzate da chi detiene il potere. Sono gli indirizzi politici e l’utilizzo che i governi fanno delle polizie a creare e a favorire le condizioni in cui avvengono abusi, violenze e torture. Un residuo di mentalità autoritaria non è mai scomparso nelle istituzioni di polizia perché non c’è mai stata una chiara volontà politica di chiudere con determinate pratiche. Né ci saranno miglioramenti, fin tanto che la classe politica continuerà a trattare le questioni sociali, anche quelle più complesse, solo come un problema di ordine pubblico. Fino a quando il potere utilizzerà le polizie come strumento “di pulizia” o come ammortizzatore sociale contro una parte della società, esisterà sempre terreno fertile per lo sviluppo di culture autoritarie, e di conseguenza lo spazio per le violenze. Perché ancora oggi si fa fatica a superare questo condizionamento da parte della politica delle forze di polizia, sia da destra che da sinistra? A chi fa comodo? Il rapporto tra politica e polizia è progressivamente cambiato, perché sono cambiate le istituzioni poliziesche, gli attori politici e il Paese. La Pubblica Sicurezza è stata riformata a partire dal 1981, il partito che ha presidiato il Ministero dell’Interno dal 1947 al 1993, la Democrazia Cristiana, non esiste più da trent’anni e in questo lasso di tempo la società ha conosciuto trasformazioni profonde. Questo non significa che la vicinanza tra i partiti al governo e le forze di polizia si sia attenuata, tutt’altro. Ciò che è progressivamente venuto meno, invece, è la capacità nelle forze politiche di sinistra di esprimere una visione diversa della sicurezza e della gestione delle polizie. Le destre invece continuano come e più che in passato a cavalcare politiche di legge e ordine, se immaginassero qualcosa di diverso verrebbe meno buona metà del loro programma politico. Pensa che questa logica sia peggiorata con l’attuale governo, che ha fatto dell’ordine un punto forte della sua campagna elettorale? Polizia e percezione della sicurezza sono questioni su cui si costruiscono pezzi importanti delle campagne elettorali, sia a destra che a sinistra. Di inedito nell’operato di questo governo c’è il tentativo, molto più sfacciato rispetto al passato, di garantirsi la vicinanza, la simpatia e il futuro consenso elettorale di gran parte del comparto sicurezza e anche delle forze armate. Esattamente come è stato fatto senza troppe remore con altre particolari clientele elettorali, come i tassisti o balneari. Basta leggere il disegno di legge 1660, l’ennesimo “decreto sicurezza”, per notare come il governo abbia fatto un salto di qualità nella strategia di raccolta del consenso in questo settore delicatissimo. Si tratta di un provvedimento di forte carattere corporativo, che assicura un livello di protezione inedito alle forze di polizia e, possiamo dirlo senza problemi, punta a fornire una ben più vasta garanzia di impunità. Perché Meloni non può rifiutare lo stato di diritto di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 9 marzo 2025 Contestando il risarcimento dei migranti della Diciotti, il Governo mette i giudici contro la sovranità popolare. Accompagnata dalle solite parole violente ed insultanti di Salvini e dall’adesione di Tajani, la dichiarazione della presidente del Consiglio Meloni è grave perché rifiuta le basi stesse dello Stato di diritto. La presidente ha detto che decisioni come quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione non avvicinano i cittadini alle istituzioni ed è frustrante dover spendere soldi per questo, quando non abbiamo abbastanza risorse per fare tutto quello che sarebbe giusto fare. Cioè i giudici dovrebbero cercare l’approvazione dell’opinione pubblica e non far spendere malamente, per migranti illegali, “i soldi dei cittadini che pagano le tasse”. Con poche parole il governo ha respinto ciò che da secoli in Europa è proprio dello Stato di diritto e della democrazia. È negata la legittimazione dei giudici quando decidono in contrasto con le attese dell’opinione pubblica (nella ricostruzione che ne fanno il governo e i partiti che lo sorreggono) e impediscono al governo di governare. Così, si fa intendere che il diritto e i giudici sono contro la sovranità popolare e contro l’opinione pubblica; le convenzioni internazionali, i trattati e il diritto europei sono contro la libertà di ogni Stato di legiferare. Ma i vincoli costituzionali e internazionali non li hanno creati i giudici. Rifiutarli mette lo Stato di diritto, in cui l’essere eletti dal popolo non è sufficiente, in opposizione allo Stato brutale in cui chi governa pretende che l’elezione gli dia tutti i diritti, senza limiti. Una concezione inammissibile in democrazia fin da quando, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 si è affermato che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. È per questo che la nostra Costituzione, nel suo primo articolo dichiara che la sovranità appartiene al popolo, aggiungendo che il popolo la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. La quale Costituzione stabilisce il principio fondamentale della autonomia della magistratura e la dipendenza dei giudici soltanto dalla legge. Solo così possono essere garantiti i diritti fondamentali di tutti, anche delle minoranze e degli stranieri. Nell’Europa di cui l’Italia fa parte, giudici garanti dei diritti, come la Corte europea dei diritti umani, negano che quella garanzia possa venire meno per compiacere la contrarietà dell’opinione pubblica, foss’anche in ipotesi maggioritaria e sostenuta dal governo. Questa volta l’attacco che viene dal governo e dai partiti che lo esprimono, non colpisce questo o quel giudice insultato come “rosso” o “comunista”, ma la Corte di Cassazione nella sua più autorevole formazione, dei nove componenti il collegio delle Sezioni Unite civili. Ha reagito la presidente della Cassazione, Margherita Cassano e ha fatto benissimo. Ma essendo ora messo in discussione il vertice del sistema giudiziario, da parte del vertice del potere esecutivo ci si può attendere che fermamente intervenga il Consiglio superiore della Magistratura, che è presieduto dal presidente della Repubblica. Sarebbe necessario, per lasciar scritti, ad ogni buon conto, quelli che sono i fondamenti costituzionali della Repubblica. Una necessità che è ora tanto più urgente perché il rifiuto dello Stato di diritto - specialmente in tema di migranti - non si manifesta solo in Italia. Il quotidiano francese Le Monde ha proprio l’altro giorno dedicato due pagine alla crisi dello Stato di diritto, messo sotto attacco, con parole simili a quelle usate dalla presidente del Consiglio italiana. E si ricordano ancora i contrasti tra governo e Corte suprema in Gran Bretagna. Senza necessità di valicare l’Atlantico per finire negli USA. Ma cosa ha detto la Cassazione? L’attenzione si è appuntata sul fatto che la Cassazione ha rimesso alla Corte di appello di Roma la decisione sui danni patrimoniali e non patrimoniali patiti dai migranti recuperati dalla nave Diciotti della Guardia Costiera e trattenuti per nove giorni su di essa senza poter sbarcare. Un trattenimento le cui modalità la Cassazione ha giudicato illegali e dunque capaci di dare fondamento al diritto al risarcimento dei danni da fatto illecito. L’illegalità deriva dal contrasto con quanto dettano le Convenzioni internazionali sulla protezione delle vite in mare, la Convenzione europea dei diritti umani e comunque anche dall’art. 13 della Costituzione (tutela della libertà personale). Su questo non sembra proprio possibile dissentire, perché il diritto che applicano i giudici è chiaro. Tra l’altro non è vero che si trattasse di “clandestini”, come usano dire: erano a bordo di una nave italiana, non erano stati ancora identificati, non si sapeva se tutti o alcuni avessero diritto all’asilo o alla protezione internazionale e tutti avevano il diritto di farne richiesta. Ma prima di tutto - e persino più importante - la Cassazione ha respinto la richiesta della Avvocatura dello Stato che, per conto del governo, sosteneva che i giudici non potessero pronunciarsi su un atto politico, per legge insindacabile da qualunque giudice: né il giudice ordinario, né il giudice amministrativo, né la Corte di cassazione, né il Consiglio di Stato. La Cassazione ha respinto la pretesa di insindacabilità con parole chiare e di portata generale. La soggezione del potere alla legge ogni volta che esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana. La nozione di atto politico ha carattere eccezionale poiché sottrae l’autorità pubblica al controllo di legalità, che e? la regola: una regola orientata ad offrire al cittadino protezione individuale contro le tante espressioni di potere in cui si concreta l’azione della pubblica amministrazione. Quando non vi siano limiti giuridici alla politica, il giudice deve arrestarsi. Ma se esiste una norma che disciplina il potere e ne stabilisce limiti o regole, l’atto può fare oggetto di ricorso al giudice. Non si tratta di affermazioni nuove, elaborate per decidere questo ricorso: nello stesso senso da tempo sono le posizioni della Cassazione e del Consiglio di Stato. E la Corte costituzionale ha affermato che quando il legislatore predetermina regole di legalità, ad esse la politica deve attenersi, per i fondamentali principi dello Stato di diritto. Ciò soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati. La condotta del governo (quello allora in carica) si traduce dunque in una funzione amministrativa, svolta sì in attuazione di un indirizzo politico, ma nel quadro di una regolamentazione di livello internazionale e nazionale, che ne segna i confini. Donde la possibilità di ricorso al giudice e il suo dovere di giudicarne il fondamento. Gli insulti che ormai regolarmente da parte politica vengono lanciati nei confronti dei giudici sono gravissimi. Ma la dichiarazione della presidente del Consiglio non lo è meno, poiché disconosce le basi stesse dello Stato di diritto. C’è clandestino e clandestino: i fuggitivi vanno accolti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 9 marzo 2025 Gli immigrati sbarcati dalla Nave Diciotti bollati come “clandestini” erano quasi tutti eritrei. Ed erano in fuga, dopo viaggi interminabili e spaventosi, da un regime che per le repressioni e le torture è da almeno due decenni tra i più terribili del mondo. “Se scappano davvero dalla guerra van trattati coi guanti bianchi”. Così disse Matteo Salvini parlando degli immigrati alla deriva nel Mediterraneo (Ansa 21 giugno 2018) poche settimane prima di impedire lo sbarco a quelli soccorsi dalla Nave Diciotti. Ed è lì la contraddizione col suo sfogo contro l’ultima sentenza della Cassazione. Perché quegli uomini bollati come “clandestini” erano quasi tutti eritrei. Ed erano in fuga, dopo viaggi interminabili e spaventosi, da un regime che per le repressioni e le torture è da almeno due decenni indicato da Amnesty International e Reporters without borders tra i più fetidi del mondo. Quell’anno, per capirci, l’Eritrea era al 179º posto su 180 Paesi censiti: di peggio c’era solo la Corea del Nord. Erano “irregolari” quei fuggitivi? Certo. Due volte: perché erano usciti illegalmente anche dal Paese dominato da Isaias Afewerki, il dittatore marxista al potere dal ‘91 e dal ‘93 capo dello Stato e del governo, presidente del parlamento e leader dell’unico partito, che vieta gli espatri da 24 anni dopo aver istituito (per la guerra) la leva militare obbligatoria no-limit, donne incluse. Proprio per questo, però, avevano diritto a esser accolti. E non per gentile concessione dell’allora governo giallo-verde ma perché lo impongono la nostra Carta (“Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo”) e la convenzione di Ginevra: chi scappa per il “giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni” va accolto. Punto. E liquidare oggi con lo sbrigativo marchio di “clandestini” quegli eritrei fuggiti da un regime dittatoriale come dovettero fuggire un secolo fa dall’Italia tanti perseguitati dal fascismo, è davvero troppo. Nel riarmo dell’Ue l’insidia dell’atlantismo senza gli Usa di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 9 marzo 2025 Guerre 800 miliardi per il riarmo da spendere da Trump. E chi invia armi a Kiev, non può come “coalizione dei volenterosi” essere “garante” di una pace assai incerta. Torni il ruolo dell’Onu. La scelta di pace per l’Europa: recuperare lo spirito di Helsinki ‘75 e, dopo l’89, l’idea di “Casa comune”. La conclusione Consiglio europeo dei 27 governi Ue, sarebbe comica se non fosse tragica, da svolta epocale - con il vincolo del patto di stabilità sciolto e i fondi di coesione a disposizione, non per le spese sociali ma in funzione di un mega-programma di riarmo di 800 miliardi di euro degli Stati membri, in primis della Germania “riunificata”, più a destra e più pericolosa, e l’avallo della “battagliera” Meloni. A deciderlo solo le leadership Ue, bypassando il Parlamento europeo. Perché mentre gli Usa, la Russia e ora anche l’Ucraina trattano le condizioni di una difficile fine della guerra a cominciare da un necessario cessate il fuoco e, certo, con giuste garanzie, ecco che l’Unione europea appare agli occhi del mondo come chi la guerra ucraina la vuole continuare. Verso una nuova cortina di ferro contro il, finalmente, ritrovato nemico russo. E per questo - ecco il comico - mette in mimetica la propria esistenza presente e futura in un bunker che necessità di una spesa militare monstre per acquisti di nuove sofisticate armi che dovranno essere comprate dal complesso militare-digitale-industriale degli Stati uniti. In buona sostanza pretendendo di prendere le distanze da Trump la Ue fa esattamente quello che lui vuole che faccia - ricordava Vignarca sul manifesto - mentre il tycoon minaccia ancora di non proteggere più i Paesi con non raddoppiano il loro bilancio Nato: dobbiamo continuare a dipendere, come per l’energia, dal mercato Usa. Make America Great Again. Altra vicenda tragicomica è l’indignazione perché si apre una trattativa per negoziare una pace. Anche nei tre anni dell’aggressione russa ad uno stato sovrano l’Ue ha vissuto nel caos di non avere una politica estera ma di farsela surrogare dall’Alleanza atlantica che ha una dura e chiara responsabilità nella crisi ucraina per la provocatoria strategia dell’allargamento a Est. Così l’Europa in quanto tale non ha nemmeno pensato ad una sua proposta di pace e di mediazione, e alla fine ha di fatto regalato all’isolazionista e ipernazionalista, ma sempre imperiale, Trump questa vitale funzione. Una indignazione che volentieri lasciamo al fronte impavido di chi, spin doctor o governi, ha alimentato a Kiev e in Europa l’idea perversa di una possibile vittoria dell’Ucraina sulla Russia, sulla pelle dei giovani ucraini così come Putin fa con quella dei giovani russi; così come hanno convinto Kiev contro ogni evidenza che la mini-invasione del Kursk russo da parte di una armata ucraina potesse rappresentare lo scambio con il Donbass occupato e non un’ avventura militare suicida, come in queste ore drammatiche si sta rivelando e com’era evidente ben prima del “tradimento” di Trump. Un incitamento al combattimento e alla “vittoria” che è continuato senza ritegno anche quando è apparso chiaro, perfino ai militari del Pentagono, lo stallo sul campo, - per la diserzione di massa non solo per la mancanza di mezzi - e addirittura dopo la stessa ammissione di Zelensky: “Noi non siamo in grado di riconquistare i territori occupati”. Un fronte che, nel doppiopesismo imperante, piange per le sorti dell’Ucraina tutte le lacrime che non riesce a versare per la Palestina, lì dove Trump non sospende certo gli aiuti militari a Israele, a proposito di aggrediti e aggressori; lì dove i territori palestinesi sono occupati da 58 anni. E dove la cosiddetta “tregua” è appiccicata con lo sputo e col sangue. “Va cercata con convinzione, velocemente, - dichiara il presidente Mattarella - una soluzione di pace che non mortifichi nessuna delle due parti ma che sia giusta perché sia duratura, perché una pace basata sulla prepotenza non durerebbe a lungo”. Come non essere d’accordo. Ma ci si chiede, abbiamo esperienze recenti di una pace giusta e duratura? È stata “giusta, duratura e non basate sulla prepotenza” la pace in Somalia, Iraq, Palestina, ex-Jugoslavia, Afghanistan, Libia e Siria (nell’ordine temporale delle nostre guerre occidentali). Perché è vero che Tacito parlando della vittoria sui britanni del generale Agricola, scriveva, riportando le parole del re dei britanni Calgaco: “Dove fanno il deserto lo chiamano pace”, ma premetteva però a questa frase l’altra spesso dimenticata: “Rubano, massacrano rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero…”. Per dire che la vera menzogna non è una pace “ingiusta” ma la guerra “giusta” spesso mascherata da spirito democratico o umanitario. L’unica vera pace giusta e di lunga durata, capace di dissuadere ogni spartizione imperiale e mire espansive di Zar Putin, sarebbe quella di costruire un vasto processo di pace in Europa che recuperi Helsinki 1975 dopo le trasformazioni del 1989 e l’idea di “Casa comune” verso l’Est, il Sud-est e il Mediterraneo - come scriveva sul manifesto Luigi Ferrajoli. Ma non pare questa l’intenzione di chi mette i bilanci a debito degli Stati europei a disposizione di un riarmo generalizzato, nazione per nazione - altro che difesa comune. E che ora, per rilanciare un suo presunto ruolo alternativo-suppletivo al “disimpegno” Usa, mobilita le risorse del continente europeo per trasformarlo in un fortilizio armato pronto per generazioni a nuove imprese belliche, insidiando il welfare e il patto sociale che ha sorretto la democrazia, strutturando la sua esistenza anche futura sulla capacità di corrispondere al warfare. Mentre la Francia della grandeur assai debole di Macron offre la sua presuntuosa deterrenza atomica all’Europa e i revanscisti Baltici sono già partiti in missione con la richiesta di partecipazione al peacekeaping quando ancora non c’è nemmeno un cessate il fuoco sul campo ucraino e anzi ogni giorno la guerra miete nuove vittime. Ma può chi sta continuando a partecipare per interposto ruolo inviando armi all’Ucraina, proporsi “dal cielo, da terra e dal mare”, come “giusto garante” e controllore neutrale di una pace sul campo che sarà assai vulnerabile? Stiamo tornando alla micidiale no-fly zone; con Giorgia Meloni che propone al fraterno Trump di estendere l’articolo 5 della Nato per l’Ucraina anche fuori della Nato. Altro che negoziato di pace. Così per riaffermare bellicismo e protagonismo atlantico ma senza gli Stati uniti, Macron convoca per martedì a Parigi la prima riunione della “coalizione dei volenterosi” - l’Italia per ora pero ora “osserva” ma a breve dirà signorsì. Ecco, hanno dovuto addirittura ripescare questa terminologia fallimentare della sporca guerra all’Iraq del 2003 quando, ahimé, tra i “volenterosi” c’era proprio l’Ucraina come terzo contingente militare per l’invasione dell’Iraq. Non sarebbe invece il caso, per salvare non solo a parole il diritto internazionale violato in Ucraina e per essere davvero alternativi a Trump, a Putin e ai nazionalismi di destra interni che, come Meloni, hanno fin qui profittato del clima di guerra, di richiamare a ruolo le Nazioni unite, sia nelle trattative che nell’eventuale gestione delle condizioni del cessate il fuoco, del peacekeeping e dell’auspicabile pace? Dall’America alla Russia il “governo dei peggiori”: non dittatori ma politici eletti dal popolo di Vito Mancuso La Stampa, 9 marzo 2025 Ci sono momenti nella storia in cui sembra proprio che si avverino le antiche parole del salmo: “Emergono i peggiori tra gli uomini”. I giorni che stiamo vivendo sono esattamente così: fanno emergere i peggiori tra gli uomini. Qual è allora il compito della coscienza? È triplice: individuazione, difesa esterna, difesa interna. Quanto al primo punto, è significativo che di recente sia stato riesumato un termine così desueto da apparire un neologismo: “cachistocrazia”, alla lettera “il governo dei peggiori”, l’esatto contrario di aristocrazia, il governo dei più competenti. Il paradosso è che tali peggiori non sono tiranni giunti al potere con la forza, ma politici eletti dal popolo: è cioè la demo-crazia a produrre la cachisto-crazia. È come se, per fare un paragone con l’alimentazione, tutto a un tratto i più dichiarassero che i cibi migliori non sono i più raffinati e i più salutari, ma i più malsani etichettati come junk-food. In quel grande supermarket della politica mondiale sembra proprio che oggi le cose stiano andando in questo modo. Emergono i peggiori tra gli uomini. Ma come definire tali peggiori? A volte tra gli esseri umani scatta un sottile accordo di energie che prescinde dalle parole pronunciate e che raggiunge le zone più istintuali e più profonde dell’essere: è una questione di sentimento della vita. Io credo sia questo ciò che unisce Trump, Putin, Netanyahu, Orban, Erdogan e gli altri leader dal cipiglio dittatoriale: il piacere della forza, e, corrispettivamente, il fastidio del diritto e del rispetto che esso richiede. Il democratico è uno che sente interiormente dentro di sé che esiste qualcosa più importante di sé: il diritto, lo stato, il bene comune. L’antidemocratico è uno che si fa beffe di tutto ciò perché non conosce nulla più importante di sé. È quindi ultimamente una questione di maturità umana, di quella acquisizione che si ottiene superando l’adolescenza quando l’ego capisce che, per quanto importante, è sempre meno importante dello Stato, del diritto, del bene comune. La democrazia, cioè, è anzitutto uno stile che abita la mente e il cuore degli esseri umani maturi; il suo contrario, la mente e il cuore degli immaturi. Ecco chi sono i peggiori tra gli uomini. Essi non sono altro che lo specchio della diffusa immaturità che sta imperversando sul nostro pianeta, fenomeno ben descritto da Amos Oz parlando di “infantilizzazione delle masse”. È così che la demo-crazia, sempre più oclo-crazia (oclos in greco vuol dire “folla”, molto diverso da demos, “popolo”), produce la cachisto-crazia. Così mi spiego i milioni di americani che hanno votato l’attuale presidente e che ne sono entusiasti sapendo benissimo dei suoi guai giudiziari per motivi finanziari e sessuali, e del suo essere all’origine dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Sanno benissimo che mente, insulta, fa carta straccia del diritto internazionale, avanza pretese sulle terre di altri, e ciononostante lo amano; anzi, lo amano proprio per questo! E non pochi italiani fanno lo stesso stabilendo con Trump quell’accordo di sentimento profondo avuto ben prima con i numerosi populisti dall’ego pronunciato e adolescenziale che abbiamo avuto qui da noi. Le peggiori qualità umane oggi risultano gradite e vincenti. È un dato di fatto, oggi nel mondo le cose funzionano così, e non solo in politica. Di fronte ai peggiori tra gli uomini il secondo passo consiste nel difendersi. Esiste al riguardo una difesa personale e una difesa territoriale. La difesa personale si chiama studio, meditazione, silenzio, preghiera, quelle pratiche che nutrono la coscienza morale e la proteggono dall’odio e dalla stupidità. L’altra difesa si chiama protezione militare ed è compito dei governi assicurarla, è il primo dovere di uno Stato verso i cittadini. Prima dell’istruzione, della libertà di parola e di ogni altra esigenza vi è il bisogno di sicurezza, e uno Stato degno di questo nome deve sempre esserne all’altezza. È necessario armarsi ulteriormente per provvedere alla difesa di noi europei? È necessario inviare truppe in Ucraina? Non essendo né un politico né un militare, non so rispondere e non intendo cedere alle passioni nel farlo, ma è evidente che preferirei di no. Sono convinto però di due cose: che nonostante le sue criticità l’Ue è una barriera contro la cachistocrazia dilagante nel mondo; che esiste una minaccia per la sicurezza europea, visto che lo statuto democratico del mondo basato sul diritto è sempre più disprezzato. Ora anche gli Usa di Trump sono arrivati a sedersi accanto alla Russia di Putin, il 3 febbraio all’Onu hanno votato con lei insieme a Bielorussia, Corea del Nord e altri stati satelliti contro Ucraina, Ue e tutto il resto del mondo. Vi è poi la dittatura di Xi Jinping, il nazionalismo di Modi, la galassia del mondo musulmano mai stata molto in consonanza con la democrazia, l’Israele di Netanyahu e della destra religiosa caratterizzata da palese razzismo, crimini contro l’umanità ed esplicita volontà di pulizia etnica (ovvero di sporcizia etica). Tutti costoro sono unificati dal fatto di farsi beffe dell’Onu, del diritto internazionale e della Corte internazionale di giustizia che lo rappresenta, e disprezzano l’ideale che fa del diritto il cardine del governo mondiale, unica vera speranza per la pace del mondo. Emergono i peggiori tra gli uomini e da essi occorre difendersi. Come già detto, non ho idea se occorra spendere di più in armamenti come sostiene Ursula von der Leyen e come, ormai è deciso, avverrà; a me qui sta a cuore sottolineare il diritto di ogni cittadino a essere difeso e il corrispettivo dovere dei politici a provvedere. Parlo di “difesa”, e per fare un esempio chiedo a chi è a priori contrario a ogni spesa militare: cosa c’è di eticamente riprovevole nel fatto che l’Europa si doti di un sistema antimissile come quello che permette a Israele di proteggere i propri cittadini dai razzi iraniani o di altra provenienza? A mio avviso nulla. Anzi, alla luce della situazione attuale è piuttosto la negazione della necessità di adeguare le nostre capacità di difesa a essere eticamente riprovevole, oltre che politicamente disastroso. Il mondo è una città. Nessuno sostiene che una città deve fare a meno delle forze dell’ordine per proteggere i cittadini dai delinquenti. Perché allora il mondo non dovrebbe aver bisogno di quelle specifiche forze dell’ordine adeguate alle sue proporzioni che sono gli eserciti? L’equazione pacifista “esercito = istituzione immorale”, oppure “armi = strumenti immorali”, è sbagliata. Lo è per un motivo molto semplice: perché non tiene conto del fatto che talora nella storia emergono i peggiori tra gli uomini. Fino a quando esisterà chi calpesta il diritto, la pace è garantita “anche” dalle armi, oltre che dalla diplomazia, dalla cultura, dalla cooperazione, dall’educazione. Abbiamo bisogno di tutti gli strumenti, nessuno escluso, per edificare la bellissima ma fragile cattedrale della pace. Rimane infine il terzo compito che introduco con questa frase di Hannah Arendt: “Oggi è raro incontrare persone che credano di possedere la verità; ci confrontiamo invece costantemente con quelli che sono sicuri di avere ragione”. I peggiori tra gli uomini sono caratterizzati da quel fanatismo egocentrico che consiste nel disprezzare la verità e nel volere aver sempre ragione, o come singoli o come esponenti di un’ideologia. La differenza tra “verità” e “avere ragione” è netta: la verità rimanda a un ordine oggettivo che la mente deve riconoscere e rispettare (anche se non le piace), mentre l’avere ragione si basa sulla forza (o fisica o culturale o della vis polemica) che mette a tacere e costringe a dire: “Hai ragione tu”. Fondamento della democrazia è il servizio della verità senza voler avere a tutti i costi ragione, è il dubbio e il dialogo che ne segue. È chiaro che quando si espone una tesi si ritiene di aver ragione, altrimenti si tacerebbe; ma chi ama la verità si sa distanziare dalla propria tesi aprendosi al dialogo e guardando in faccia la realtà anche laddove è scomoda. Chi non vorrebbe investire di più in scuole e ospedali? Ma oggi ci si deve difendere da chi disprezza la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani, le minoranze, ovvero dai leader mondiali nominati sopra e da altri ancora. Ricordo quanto scrisse Anna Politkovskaja nel 2004, due anni prima di essere uccisa dagli amici di Putin: “Il KGB rispetta solo i forti, i deboli li sbrana. E lo dovremmo sapere, ormai. Invece ci siamo scelti la parte dei deboli e siamo stati sbranati”. Compito di uno stato è impedire che i suoi cittadini vengano sbranati. A proposito dell’uso delle armi si cita spesso la frase di Gesù sul porgere l’altra guancia, ma si ignora che in un altro momento egli ordinò ai discepoli di armarsi: “Chi non ha spada venda il mantello e ne compri una”. L’arte della politica consiste nel capire quando uno Stato è chiamato a comprare una spada anche sacrificando il mantello. In questo complicato presente in cui emergono i peggiori esistono quindi tre compiti. Il primo è di tipo cognitivo e consiste nel riconoscerli; il secondo è di tipo operativo e consiste nel difendersi personalmente e comunitariamente; il terzo è di tipo introspettivo e consiste nello scoprire il potenziale Donald Trump o Vladimir Putin dentro di noi e nel rieducarlo. (PS: la citazione iniziale è tratta dal Salmo 12,9, versione Cei 1974).