Il carcere che non vuole riconoscere la rivoluzione gentile del femminismo di Ornella Favero* Il Riformista, 8 marzo 2025 Un’istituzione così gerarchica che anche dove è gestita da donne stenta a mettere in discussione questa rigidità: è un mondo antico per le detenute e le volontarie. Scrive Dacia Maraini che “il femminismo è una rivoluzione pacifica che ha cambiato il modo di stare insieme. Non ha fallito perché ha cambiato le leggi e quindi il mondo: diritto di famiglia, delitto d’onore, violenza sessuale. Manca però la parità vera tra uomo e donna. Perché si può cambiare una legge, ma una mentalità è radicata. In Italia è ancora difficile accettare che una donna sia autonoma e libera”. Sono stata anch’io una femminista che ha contribuito a fare una “rivoluzione gentile” e poi ho incontrato come volontaria il carcere, che è esattamente il contrario, l’ambiente più maschile, conservatore, a volte anche scortese che ho conosciuto nella mia vita. Nei giorni scorsi sono entrata nel carcere di Rebibbia come testimone delle nozze tra una persona detenuta e la sua compagna e mi è tornata in mente questa riflessione sul femminismo: perché ho trovato ancora una volta, in parte dell’amministrazione penitenziaria, la negazione di quello che ho imparato dal femminismo, che è dare valore alle emozioni, alla tenerezza (“La tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”, ha detto Papa Francesco), non avere paura di apparire disarmate. A Rebibbia sono entrata nello spazio dei famigliari che attendono per i colloqui e mi è stato detto, da poliziotti penitenziari che indossavano tristi guanti trasparenti lunghi fino ai gomiti, che dovevo togliermi orecchini, sciarpa, un orologio Swatch del valore di 50 euro, dei vecchi foglietti di carta che avevo in tasca, ma soprattutto mi sono sentita una “nemica”. Come volontaria e come donna, direi. Ed è una sensazione che provo spesso nel mio rapporto con l’Istituzione carcere, un’istituzione così gerarchica che anche dove è gestita da donne stenta a mettere in discussione questa gerarchia e questa rigidità. E nell’ultimo gradino “gerarchico” pone i volontari, quelli il cui ruolo ho sentito una dirigente di Polizia Penitenziaria definire “comunque ancillare”. Dunque, donna e volontaria nell’ambito della giustizia vuol dire esserci “al minimo”: minimo di considerazione, minimo di autonomia, minimo di riconoscimento. Il femminismo mi ha insegnato anche a non amare il vittimismo; quindi io continuo comunque a non vedere nei poliziotti penitenziari dei nemici, e a non sentirmi quello che vorrebbero a volte farmi sentire, cioè una persona che deve accettare di non decidere nulla perché la sicurezza non è cosa che la riguardi. Non è facile neppure fare attività, per una donna impegnata nel volontariato, con le persone detenute. Recentemente ho discusso con alcune di loro di criminalità nelle nostre città e alla mia obiezione, che forse una città come Milano non è quella roccaforte del crimine che viene descritta ultimamente, mi è stato chiesto in risposta cosa ne sapessi io, che certo non esco di notte e non incontro il degrado e il crimine. Mi sono vista ancora come una donna che non sa, non conosce, va protetta. È un mondo antico, il carcere, pure per le donne detenute, forse anche perché una Istituzione che pone al centro la rieducazione è sempre a rischio di far scivolare la rieducazione in “obbedienza”, e di obbedienza ne sanno qualcosa da sempre le donne. Per finire voglio ricordare Agnese Moro e il suo vivere l’esperienza di vittima in un modo che ha una grande forza innovativa e “rivoluzionaria”: “Tu diventi una vittima e ti devi comportare in un certo modo, devi odiare quell’altro, devi seguire una regola che ti costituisce come vittima, e noi invece dobbiamo tornare alle persone. Il bello della giustizia riparativa è che fa saltare tutti gli schemi di disumanizzazione e rimette persone, vive, una di fronte all’altra, con i loro pregi, i loro difetti, con i loro errori, con le loro risorse, persone tra persone, e questo è l’unico modo per ristabilire la giustizia: far ritornare tutti persone, quindi tutti come me, io come loro, e alla fine quindi tutti meritevoli di un uguale rispetto e pari dignità, questa è la cosa che viene turbata da qualunque atto di sopraffazione, di qualunque genere sia, che venga dai singoli, dalle organizzazioni, dalle istituzioni, la sopraffazione è fare di un essere umano una cosa”. Se la sopraffazione è fare di un essere umano una cosa, l’8 marzo delle donne, al contrario, ci può insegnare a far ridiventare esseri umani anche quelle persone che qualche volta si dimenticano di esserlo, a qualsiasi “categoria” appartengano, autori di reato, vittime, volontari, operatori penitenziari, magistrati, giudici, avvocati, ministri della Giustizia. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Anche le donne detenute sono vittime di stereotipi e spesso vengono abbandonate di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2025 Vivere in un carcere è difficile per chiunque. Spesso tuttavia, per una serie di motivi, è più difficile per una donna che per un uomo. In questa giornata internazionale della donna il mio pensiero vuole andare a tutte le donne del mondo che si trovano dentro una prigione. In molti paesi accade che ci si trovino a seguito di comportamenti non offensivi, dettati dalla necessità della sopravvivenza personale e dei figli. In Italia le donne attualmente detenute sono poco più di 2.700. Su una popolazione reclusa che ha superato le 62.000 unità, si tratta del 4,4%. Una piccola percentuale, una minoranza nella minoranza, una categoria ancor più trascurata di quella delle persone detenute nel loro complesso. È paradossale che la maggior parte dei problemi che vivono le donne in carcere dipenda dalla loro scarsa vocazione criminale, dal fatto che sono poche e che commettono reati generalmente meno gravi di quelli commessi dagli uomini. Problemi anche molto concreti, primo tra tutti quelli legati alla loro distribuzione nelle carceri. In Italia abbiamo oggi solamente tre istituti di pena interamente femminili, a Roma, a Venezia e a Trani. Fino a qualche tempo fa si contava anche il carcere femminile di Pozzuoli, chiuso prima della scorsa estate a seguito del terremoto. Questi tre istituti recludono tuttavia meno di un quinto delle donne detenute in Italia. La grande maggioranza di loro vive infatti in sezioni femminili ospitate all’interno di carceri a grande prevalenza maschile. È giusto che sia così. Chiudere queste sezioni e accorparle tra di loro non potrebbe costituire una via praticabile: significherebbe allontanare le donne dai loro affetti, dalle loro famiglie, dai loro figli, che avrebbero inevitabilmente difficoltà ad andare a far loro visita durante i colloqui consentiti. Colloqui che costituiscono il momento più atteso in assoluto da ogni persona detenuta. Accade dunque che le sezioni femminili si ritrovino a ospitare poche decine di donne, alle volte poche unità. E accade con frequenza che le attenzioni degli operatori e le risorse destinate dall’istituto vadano a concentrarsi verso la sua parte più numerosa, ovvero quella maschile, lasciando le donne in uno stato di abbandono e di ozio forzato. ?Accade che per le donne non si organizzino classi scolastiche, non si organizzino corsi di formazione, non ci sia lavoro, non ci siano attività culturali o sportive. Sarebbe molto facile risolvere questo problema, che è senz’altro tra i principali che le donne detenute si trovano a vivere. Basterebbe immaginare classi scolastiche o corsi di formazione misti tra uomini e donne, come quelli che tutti noi frequentiamo nel mondo libero. Ma il carcere è un’istituzione impermeabile a qualsiasi novità e spaventata dalla normalità. Uomini e donne non devono incontrarsi. Il carcere è anche un’istituzione piena di stereotipi. Le poche attività organizzate nelle carceri e nelle sezioni femminili sono spesso quelle considerate tipicamente femminili, dal taglio e cucito al corso di cucina. Il periodo di detenzione, ancor più di quanto accada per gli uomini, non riesce a fornire gli strumenti per una vera reintegrazione sociale alla fine della pena. Una pena tendenzialmente breve, proprio in ragione dello scarso spessore criminale che caratterizza le donne detenute, al termine della quale accade con frequenza che la donna non ritrovi i legami che aveva costruito all’esterno, primo tra tutti quello con un eventuale partner. La donna che entra in carcere accade spesso che venga stigmatizzata come colei che non ha risposto al proprio ruolo sociale e famigliare, e dunque abbandonata. La norma del disegno di legge governativo sulla sicurezza pendente in parlamento che non esclude il differimento della pena nei confronti di donne incinte o con figli fino a un anno di età andrà a inserirsi in questo quadro. In essa vi sono tutti gli ingredienti della degenerazione giuridica e culturale: la creazione di un nemico inesistente (le donne che si procurerebbero gravidanze continue per farla franca), il pugno di ferro e l’intolleranza zero verso piccoli reati di strada (il borseggio), il carcere sbandierato come unica prospettiva punitiva (perfino il codice Rocco è indicato come permissivista), la falsa retorica della certezza della pena che mancherebbe e va ripristinata (il differimento di qualche mese dell’esecuzione non significa assenza di pena ma pena rinviata), l’odiosa stigmatizzazione di una categoria etnica (le donne rom). Questo è solo un accenno ai maggiori problemi che spesso una donna si trova ad affrontare quando incrocia il sistema della giustizia penale e del carcere rispetto ad un uomo. Potrei continuare. Mi fermo qui, ma invito tutte noi a non dimenticarci delle nostre compagne detenute oggi che celebriamo la festa della donna. *Coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone Il carcere delle donne come modello di un carcere possibile di Susanna Marietti* questionegiustizia.it, 8 marzo 2025 La norma, contenuta nel cosiddetto “ddl Sicurezza”, che rende non più obbligatorio ma facoltativo il differimento della pena nei confronti di donne incinte o con figli fino a un anno di età, si potrebbe studiare nelle aule scolastiche quale esempio di quell’uso distorto dello strumento penale al quale sempre più siamo stati abituati negli ultimi anni e di cui l’attuale governo è maestro indiscusso. In essa vi sono tutti gli ingredienti della degenerazione giuridica e culturale: la creazione di un nemico inesistente (le donne che si procurerebbero gravidanze continue per farla franca), il pugno di ferro e l’intolleranza zero verso piccoli reati di strada (il borseggio), il carcere sbandierato come unica prospettiva punitiva (perfino il codice Rocco è indicato come permissivista), la falsa retorica della certezza della pena che mancherebbe e va ripristinata (il differimento di qualche mese dell’esecuzione non significa assenza di pena ma pena rinviata), l’odiosa stigmatizzazione di una categoria etnica (le donne rom). È una norma che non stravolgerà il volto del carcere, che non inciderà su grandi numeri. Ma il valore simbolico che intende avere la rende un tassello centrale del nefasto programma governativo incamminato fin dal principio - con l’introduzione del reato di rave party, avvenuta in occasione del primo consiglio dei ministri in assoluto - sulla strada della degenerazione della civiltà giuridica del nostro Paese. Una norma che mostra plasticamente la cultura della donna propria delle forze di governo, ben espressa nel marzo 2023 dalla proposta di Edmondo Cirielli, senatore di Fratelli d’Italia e autore anche di una proposta di legge costituzionale per stravolgere l’art. 27, che alle donne condannate venga tolta la potestà sui figli. Fu in quella occasione che Grazia Zuffa - instancabile studiosa e attivista per i diritti di tante minoranze, capace di guardare con incisività al ripensamento del carcere proprio dall’ottica della differenza femminile, che ci ha lasciati improvvisamente lo scorso febbraio - chiamò all’azione tante donne indignate da tale provocazione e diede vita alla campagna “Madri fuori”, per la dignità e per i diritti delle donne condannate e dei loro figli e figlie. Una campagna alla quale tante esponenti e organizzazioni della società civile hanno aderito e che è stata rilanciata con forza in occasione del disegno di legge governativo sulla sicurezza. Sono circa 4.000 i figli di donne attualmente detenute. Quasi inesistenti gli strumenti normativi nazionali e internazionali a loro protezione (solo nell’aprile del 2018 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha adottato la Raccomandazione 2018(5) sui figli di genitori detenuti, offrendo per la prima volta una disposizione di soft law specifica). Di questi, 14 bambini vivono in cella con le loro madri. Nonostante il legislatore sia tornato più volte sull’argomento, non si è riusciti a far sì che i bambini non entrassero in carcere. Il punto è evidente: non è per legge che si può risolvere il problema, se non con una legge volta meramente ad allocare risorse. Servono strutture là dove troppo spesso le donne coinvolte non hanno un domicilio considerato adeguato a ripristinare la convivenza della madre col bambino. Va utilizzata maggiormente la misura della detenzione domiciliare speciale, introdotta nel 2001 proprio per le detenute madri. Tali strutture si chiamano case famiglia protette e la proposta di legge che le finanziava (la cosiddetta legge Siani, poi presa in carico da Serracchiani) fu affossata nel marzo 2023 da assurdi emendamenti leghisti. Ma le donne non sono solamente madri. Tanti sono i bisogni che presentano all’interno del contesto detentivo e che andrebbero affrontati con maggiore attenzione. Di carcere, in generale, si tende a parlare poco e male. Il carcere è un luogo dimenticato. Figuriamoci quanto possa essere dimenticata quella minoranza nella minoranza costituita dalle donne detenute. Al 28 febbraio 2025 erano 2.729 le donne presenti nelle carceri italiane, pari al 4,4% della popolazione reclusa complessiva, una percentuale sostanzialmente stabile nei decenni. Una nettissima minoranza. Se tuttavia andiamo a guardare la percentuale delle denunce che riguardano donne, vediamo che essa supera il 18% delle denunce totali. Ancora una netta minoranza, ma decisamente più alta di quella delle donne che troviamo in detenzione. Questi numeri pongono due domande, la prima dalla risposta relativamente facile mentre la seconda ben più ardua. La prima è quella che si interroga sul perché il carcere sia utilizzato così tanto meno per le donne che per gli uomini. Lo scarto tra la percentuale delle denunce e quella delle carcerazioni è infatti notevole. La risposta va rintracciata in vari fattori: la tendenza delle donne a commettere reati meno gravi rispetto agli uomini, come le statistiche sulla lunghezza delle pene comminate ci mostrano, per la quale accade che una parte delle denunce non abbiano seguito, che le donne permangano tendenzialmente in carcere meno degli uomini, che accedano più facilmente ad alternative alla detenzione; le specifiche norme esistenti a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori; il maggior tasso di fiducia da parte della magistratura nei confronti delle donne, la cui pericolosità sociale è valutata quale inferiore e per le quali, anche a parità di situazione giuridica, si è maggiormente disposti a concedere una misura esterna. Ma è la seconda domanda che pone le più grandi difficoltà e che non ha ancora trovato una risposta soddisfacente nella storia della riflessione. È la domanda sul perché le donne delinquano così tanto meno degli uomini. Anche guardando infatti alla percentuale delle denunce, ben superiore a quella delle presenze in carcere, troviamo comunque uno scarto notevolissimo con il contesto maschile. Nessuna delle risposte tradizionali a questa domanda - a partire da quella lombrosiana fondata sull’idea di un’inferiorità biologica e intellettuale della donna, fino alle letture emancipazioniste della criminalità femminile che ne ravvisano il minor impatto nel ruolo famigliare e sociale ancora attribuito alla donna - è in grado da sola di rendere conto davvero della questione. Una questione che probabilmente necessita di un’interpretazione sfaccettata e che è capace di raccontarci molte cose non solo sul carcere e sulla giustizia ma sulle nostre società nel loro complesso. Molti dei problemi che investono le donne detenute sono una paradossale e diretta conseguenza della loro scarsità numerica, la quale determina una minore attenzione complessiva del sistema. Il tema dell’alloggio è il primo che andrebbe affrontato, fosse solo per la semplicità della sua possibile soluzione. Una semplicità che ci mostra in maniera paradigmatica tutta l’immobilità del sistema penitenziario. In Italia esistono attualmente soltanto tre istituti di pena interamente femminili (erano quattro fino a quando il carcere di Pozzuoli non fu chiuso a seguito del terremoto nella primavera 2024). Gli istituti di Roma Rebibbia (il più grande carcere femminile in Europa), di Venezia Giudecca e di Trani recludono oggi complessivamente 533 donne, ovvero meno di un quinto delle donne complessivamente detenute nel paese. La grande maggioranza di loro vive in sezioni femminili ospitate all’interno di carceri a prevalenza maschile. Sezioni che, per il sacrosanto dritto alla territorialità della pena, sarebbe sconsiderato chiudere o accorpare tra loro. Accade dunque che tali sezioni, circa 45 nel complesso, si presentino spesso come piccole o piccolissime, arrivando a ospitare anche tre, quattro, sei donne. E accade che le energie, le risorse, le attenzioni della direzione tendano a concentrarsi verso la parte maschile dell’istituto, enormemente più numerosa, precludendo l’organizzazione di attività significative per queste donne che vengono lasciate in una condizione di sostanziale abbandono. La parte maschile della detenzione tende a fagocitare le risorse disponibili, in termini di risorse economiche, di operatori penitenziari, di volontariato. La soluzione sarebbe banale. E, nella sua banalità, rende vivida tutta l’insensatezza del sistema penitenziario. Basterebbe infatti permettere a uomini e donne detenute di frequentare attività congiunte durante il giorno per risolvere il problema dello stato di abbandono nel quale troppo spesso versano le sezioni penitenziarie femminili. Se tra i principi fondamentali delle Regole Penitenziarie Europee del Consiglio d’Europa troviamo quello secondo il quale “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”, appare davvero anacronistica una separazione tra uomini e donne che non si riscontra più in alcun altro ambito sociale. Più volte Antigone ha avanzato tale ovvia proposta e più volte si è sentita riconoscere la sua sensatezza. Ma niente è tuttavia cambiato nelle disposizioni amministrative. Da molti anni Antigone chiede l’istituzione, all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di un ufficio interamente dedicato alla gestione della detenzione femminile e diretto da persone esperte in politiche di genere. Un ufficio del genere potrebbe dare seguito a cambiamenti concreti nella vita delle donne in carcere. È la precondizione perché si mettano in atto gli altri interventi necessari a garantire pienamente i diritti delle donne detenute, tra cui quello appena menzionato. La detenzione femminile necessita di un’attenzione specifica, affinché non se ne disperda la considerazione nella detenzione maschile, statisticamente ben più rilevante. Ma essa necessita anche di una competenza specifica, che garantisca la capacità di gestire le specificità che caratterizzano la reclusione delle donne. Attenzione e competenza segnatamente dedicate alle donne in carcere: è da qui che bisogna partire se si vuole ipotizzare una strada riformatrice tesa a superare quegli ostacoli nella fruizione dei diritti che le donne detenute si trovano spesso ad affrontare. Le specificità che caratterizzano la detenzione femminile non riguardano, si badi bene, caratteristiche soggettive interiori che differenzierebbero le esigenze degli uomini e quelle delle donne. Non deve certo rientrare dalla finestra, se mai è stata davvero superata, quella concezione, così presente nei secoli passati, per la quale le donne non dovrebbero essere punite quanto piuttosto poste sotto tutela, protette da loro stesse e dalle proprie debolezze. Non è certamente lungo queste coordinate che bisogna guardare alla specificità della detenzione femminile. Piuttosto, al di là di oggettive differenze biologiche, per molti aspetti l’attenzione e la competenza specifiche che dovrebbero gestire la detenzione femminile dovrebbero servire non ad allontanare bensì ad avvicinare la detenzione delle donne a quella degli uomini, oggi maggiormente garantita nel rispetto di alcuni diritti. Vanno rimossi gli ostacoli che le donne incontrano durante la detenzione e che sono spesso maggiori di quelli fronteggiati dagli uomini, anche a causa della maggiore stigmatizzazione subita dalle donne detenute rispetto agli uomini. A questo deve servire una gestione specifica della detenzione femminile. Ma non solo. Una simile gestione dovrebbe avere la lungimiranza di interpretare la detenzione delle donne come un modello sul quale sperimentare politiche di minimizzazione carceraria che possano in seguito estendersi all’intero ambito penitenziario. La composizione sociale e giuridica delle donne che incrociano il sistema della giustizia penale, caratterizzata da un’estrema marginalità sociale e da una scarsa pericolosità sociale e penitenziaria, può aprire la strada tanto a ipotesi di decarcerizzazione quanto a modelli di custodia il più possibile aperti al territorio, che potrebbero auspicabilmente in seguito arrivare a imporsi come una prospettiva generale. Si può e si dovrebbe sperimentare un’ampia applicazione di pene e misure alternative, che riduca drasticamente lo spazio del penitenziario senza andarsi a sommare a esso come quasi sempre è accaduto nella storia italiana. All’interno del carcere si possono e si dovrebbero sperimentare circuiti poco contenitivi, una riduzione dell’approccio disciplinare che preveda quantomeno il superamento della sanzione dell’isolamento che, come ormai ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica, ha ripercussioni dannose e potenzialmente permanenti sul corpo e la mente delle persone. Tutto questo potrebbe e dovrebbe prendere le mosse dal piccolo laboratorio di indagine e sperimentazione che la detenzione delle donne rappresenta. E da qui - per quanto il momento storico e politico non la renda certo una prospettiva probabile - dovrebbe avere la capacità di andare oltre e investire il modello di esecuzione penale nel suo complesso. La detenzione femminile, oggi trascurata come parte residuale del carcere, potrebbe trasformarsi nel grimaldello capace di aprire a una concezione del carcere ben più in linea con il dettato costituzionale. *Coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone (NdR). L’8 marzo è una giornata di lotta e la nostra Rivista, quest’anno, intende dare risalto a quella delle donne in carcere. Susanna Marietti ci ricorda che la rivendicazione femminile (e femminista) non è una prospettiva solo di genere, ma una scelta necessaria per migliorare la società, la città. Anche quella particolare città che è il carcere. La pubblicazione del brano è accompagnata da una fotografia scattata da Sara Cocchi (nostra autrice e Segretaria di Redazione) a un collage comparso sui di muri di Firenze. La raccontiamo con le parole di Sara: “L’immagine mi ha subito incuriosito. Parte da materiali ordinari (i ritagli di giornale), ma mi pare veicoli un’immagine positiva di femminilità, forte e straordinaria (come recita la scritta in evidenza). Mostra come ogni donna - in fondo ogni essere umano -è il risultato di un mosaico di fattori, di caratteristiche, di esperienze, anche di contraddizioni se vogliamo, che ne fanno l’unicità, dunque la straordinarietà. È questa consapevolezza di unicità che permette di superare tutti gli stereotipi” Donne detenute e affettività. C’è un 8 marzo anche per loro di Valeria Valente Corriere del Mezzogiorno, 8 marzo 2025 In occasione dell’8 marzo vorrei dedicare una riflessione alle 2.722 donne che stanno scontando una pena nelle strutture penitenziarie. Una condizione difficile, la loro, su cui si riflette poco e per cui, soprattutto, si fa quasi nulla. A partire dalla politica. Anche per questo, pochi giorni fa, ho partecipato alla manifestazione al fianco di Samuele Ciambriello e di tante associazioni, promossa dalla Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Il sovraffollamento carcerario oggi ha raggiunto il 132% (in Campania 134%) e dall’inizio del 2025 si sono registrati 54 decessi, di cui 12 suicidi certi. È evidente che il sistema penitenziario è l’emblema del fallimento dello Stato e del tradimento dell’articolo 27 della Costituzione, come confermato dalle numerose e ripetute pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. E in questo mondo di dimenticati e vulnerabili, le donne appaiono, come spesso accade, doppiamente colpite. Sono poche e spesso rinchiuse in spazi limitati, ricavati all’interno degli istituti maschili. E pur essendo il 4,38 % della popolazione reclusa e scontando pene più leggere, le detenute pagano in questo contesto un prezzo alto rispetto ai percorsi di reinserimento e recupero, al diritto all’igiene e alla cura. In Italia ci sono 46 “sezioni” femminili a fronte di 4 carceri femminili, di cui uno, quello di Pozzuoli, è al momento chiuso per i rischi del bradisismo. Proprio a Pozzuoli si svolgeva il prezioso lavoro delle Lazzarelle con la loro attività di torrefazione: attività interrotta a seguito del trasferimento delle donne in altri penitenziari e che, come ho avuto modo di ribadire a Irma Carpiniello, animatrice del progetto, non possiamo permettere vada persa. Il carcere resta una struttura a misura degli uomini. In questo universo in cui le ultime fra gli ultimi pagano doppiamente, una condizione di particolare drammaticità la vivono le detenute madri, il cui numero è ancora più esiguo. L’abbiamo visto recentemente con la decisione di chiudere l’unico Icam, presidio di riferimento per il Sud, trasferendo violentemente le mamme e i bambini al Nord, per la mancanza di volontà politica di trovare una soluzione alternativa rispettosa dei diritti dei minori da parte del ministero della Giustizia. E questo mentre con il Ddl sicurezza si cancella l’obbligatorietà del differimento della pena per detenute con figli sotto un anno, aumentando il numero di madri e bambini destinati a stare dietro le sbarre. Il cattivismo politico, il cinismo umano e la miopia caratterizzano una destra che vuole continuare ad agitare la bandiera di una finta sicurezza, dimostrandosi forte soltanto con i deboli. Che fare dunque? Fermare la deriva panpenalistica; investire nell’ammodernamento dei penitenziari, cosa ben diversa dalla costruzione di nuove carceri; prevedere risorse aggiuntive adeguate a garantire la qualità del lavoro di operatori e operatrici e della Polizia penitenziaria, e attività di recupero e reinserimento per le persone detenute; approvare misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere e l’accesso alle misure alternative per i 19 mila che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni; aumentare videochiamate e telefonate e garantire concretamente, come indicato dalla Corte Costituzionale, il diritto all’affettività. Dobbiamo prevedere più sezioni Icam, in prospettiva però di un loro superamento con le case famiglia protette, perché sia rispettato il principio della territorialità della pena, e dobbiamo pensare di dedicare una direzione specifica del Dap alla detenzione femminile. L’impegno per un’altra e alta idea di giustizia passa per una carcerazione che attui la Costituzione. “Non parlarmi degli archi, parlami delle tue galere”, diceva Voltaire. La condizione di vita che lo Stato garantisce alle persone private della libertà, infatti, è la cartina di tornasole del livello di civiltà e di democrazia di un Paese. Il carcere che funziona davvero deve produrre la libertà: è questa la sfida di Lucia Castellano Il Riformista, 8 marzo 2025 I rumori incessanti di cancelli, chiavi, voci umane: una quotidianità insostenibile. Così ho lavorato alla costruzione di una detenzione costituzionalmente orientata. Sono entrata in carcere per la prima volta, come vicedirettore della Casa Circondariale di Genova Marassi, il 24 giugno 1991, avevo 27 anni. Il primo impatto con un istituto di pena vecchio e fatiscente com’era allora Marassi, con quattro piani di ballatoi, i soffitti a volta che ospitavano anche piccioni svolazzanti e le reti anti suicidio tra un piano e l’altro, non fu dei migliori. Mi colpivano gli odori e, soprattutto, i rumori incessanti di cancelli, chiavi, voci umane che si sovrapponevano, tra poliziotti e detenuti: una quotidianità insostenibile per entrambe le categorie. Era appena stata emanata la legge di smilitarizzazione del Corpo degli Agenti di Custodia che, 10 anni dopo quella della Polizia di Stato, dava vita al Corpo di Polizia Penitenziaria. La riforma aveva creato nuovo entusiasmo e nuova carica per gli uomini e le donne in divisa, rafforzando anche in me, neofita di quel mondo, la motivazione a lavorare nella direzione indicata con nettezza dalla Costituzione e dalla legge. Ero entrata in un mondo di uomini. Quello che più mi colpiva era la contraddizione palese, apparentemente senza rimedio, tra la giornata detentiva che la legge, i regolamenti e le circolari descrivevano e quello che si consumava ogni giorno: un tempo sempre uguale, scandito dal ritmo dell’istituzione totale, spazi privi della benché minima possibilità di personalizzazione, totalmente anonimi. 500 uomini eterodiretti dal tempo istituzionale. Com’era lontana quella “individualizzazione del trattamento” che l’ordinamento penitenziario pone alla base di ogni serio percorso di risocializzazione; sembrava un’utopia pensare che i detenuti potessero lavorare, andare a scuola, formarsi, conquistare gradualmente una definitiva libertà. E la cornice ambientale e relazionale era, ovviamente, di una durezza che mi sembrava quasi spietata, nei rapporti tra colleghi, tra “superiori” e “subordinati”, con i detenuti. In quei miei primi tre anni e mezzo assistetti impotente al suicidio di un detenuto e di ben due poliziotti, di cui uno giovanissimo, che conoscevo bene. Riappropriarsi degli strumenti che la legge offre per dare un senso al tempo e allo spazio della detenzione non era cosa facile, in quel contesto, ma sentivo nettamente che quell’istituzione così foriera di dolore per chi la abitava e per chi vi lavorava doveva essere trasformata e restituita alla sua funzione, quella di un posto dove si eserciti un servizio pubblico, non un potere assoluto, a beneficio di tutti. Un dato era però palpabile: la presenza quotidiana di un pur esiguo numero di donne dava un contributo diverso, un’attenzione all’aspetto relazionale che si affiancava al verticismo maschile preponderante, rendendo il clima più respirabile, tanto nei rapporti con l’utenza che tra gli operatori. Molti anni dopo, nel 2011, quando sono entrata, a Milano, nella Giunta Pisapia come assessora, in un contesto lavorativo totalmente diverso, ho percepito la stessa sensazione. Sono tornata in carcere nel 1995. L’antico castello medioevale di Eboli, trasformato in istituto penitenziario a custodia attenuata per giovani detenuti tossicodipendenti, ospitava allora una quarantina di ragazzi con problemi di droga. Fu il mio primo incarico come direttore e mi consentì, con una buona squadra di operatori e operatrici e una solida collaborazione con i Servizi per le tossicodipendenze della Asl, di impostare percorsi che restituivano al penitenziario la sua funzione di servizio pubblico all’utenza detenuta, alla magistratura e ai cittadini liberi. Provammo, con discreto successo, a retrocedere nell’esercizio del potere assoluto e nella organizzazione della giornata detentiva dai ritmi sempre uguali, a favore di una progressiva responsabilizzazione dell’utenza, in termini di gestione di luoghi, spazi, attività che connotano la giornata. L’obiettivo era uno solo: l’abbattimento della recidiva. “Il carcere che funziona deve produrre libertà” era un principio espresso da un grande maestro, il magistrato di sorveglianza Alessandro Margara. In sintesi, la produzione di libertà, per quanto possibile definitiva, era il nostro obiettivo. Qualche anno più tardi, nel 2002, ho avuto la fortuna di sperimentare lo stesso modo di lavorare, stavolta sui grandi numeri e in una grande città, Milano. La Seconda Casa di Reclusione di Bollate nasceva come istituto a custodia attenuata, in cui venivano offerte all’utenza detenuta le più svariate opportunità di studio, lavoro, formazione professionale. Si concretizzava quella individualizzazione del trattamento che l’ordinamento penitenziario pone alla base della qualità stessa della pena detentiva. E lì, con una maggioranza di uomini e un significativo apporto di donne, ho lavorato nove anni alla costruzione di una detenzione costituzionalmente orientata. Questo è ancora il mio impegno di oggi. *Provveditrice Amministrazione Penitenziaria della Campania Nelle prigioni si consuma una mattanza. Abbattiamo i muri di vendetta di Livio Ferrari* L’Unità, 8 marzo 2025 Le 189 carceri per adulti sono diventate camposanti, 246 morti e tra questi 90 suicidi nel 2024, 53 morti con 15 suicidi dall’inizio dell’anno, questo per quanto riguarda i reclusi, se poi aggiungiamo anche il personale della polizia penitenziaria il numero diventa ancora più alto, per una mattanza che non si placa e per un dramma che non interessa quasi a nessuno, governo e parlamento compresi. Tanto, quale interesse rivestono i poveri? I 17 istituti per i minori stanno assiepando da un paio d’anni sempre più giovani vite, soprattutto straniere, senza un senso reale per questo accanimento nei loro riguardi, se non quello del mostrare i muscoli. Come per ogni azione che calpesta i diritti delle persone però basterà attendere perché comporterà una azione contraria, sta nella logica dei fatti e delle reazioni a questi. L’attualità dei drammi e morti che si consumano nelle carceri italiane, pur se per un po’ di tempo questo ha fatto eco nell’opinione pubblica, non ha prodotto alcuna modificazione del sistema, neppure la denuncia di tortura presentata dal tesoriere dei Radicali Italiani, Filippo Blengino, che accusa Nordio di consentire condizioni di vita disumane e degradanti nel carcere di Sollicciano e in molti altri istituti penitenziari italiani, ha avuto effetto. In fondo, a parte alcune eccezioni e certi frangenti storici, ai governi non interessano i reclusi, in quanto portano solo perdita di consenso e, nella stragrande maggioranza dei casi poi, sono poveri, molti stranieri, spesso la stessa persona, vite a perdere per una società che non è in grado di integrare, soprattutto non coloro che hanno il torto di essere soprattutto ai margini. E nonostante le informazioni da bollettino di guerra dei morti, l’opinione pubblica è stata ancora una volta privata di un’autentica conoscenza di quali siano le reali condizioni di povertà, di privazione, di sofferenza e dolore in cui versano le persone recluse. La vulnerabilità sociale e la mancanza di risorse, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società, del disinteresse o peggio dell’odio nei loro confronti da parte dei liberi che non hanno nessuna predisposizione ad approfondire la questione. Pensiamo poi a come ora che, anche se la realtà la edulcoriamo, siamo in guerra, come possono sentirsi in un luogo che all’eventuale scoppiare di ordigni li troverebbe senza vie di scampo, condannati a morte! La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea la mancanza di responsabilità verso il proprio comportamento e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta. Il carcere ha una funzione falsa e ideologica perché finge di controllare, evitare e prevenire i reati, mentre li produce e riproduce, con l’aggravante di organizzare scientemente con pretesa fondatezza ed efficacia un’istituzione sostanzialmente improduttiva, se non controproducente, in cui i diritti fondamentali dei suoi ospiti sono pressoché violati. Niente di nuovo, comunque, anche le violenze di questi anni, documentate dalle immagini e suffragate da faldoni di carte processuali, non hanno smosso l’inerzia governativa, come non stanno producendo alcunché da parte dell’attuale compagine che non ha una cultura ancorata alla Costituzione, che nonostante tutto è comunque ancora vigente, e nella quale non troviamo da nessuna parte il termine carcere, cosa che dovrebbe far assai riflettere. Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della cattiveria di Stato, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. È possibile vivere in un mondo migliore, invece di reprimere è più utile, sicuro e degno investire in politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze sociali. È urgente scegliere percorsi di pace, in tutti gli angoli del mondo, per ridare dignità alle persone che commettono reati, ridurre la sofferenza e la vendetta di questi luoghi disumani che alimentano solo l’odio, ridare ai condannati la responsabilità per quanto hanno commesso affinché possano essere messi in grado di produrre gesti di restituzione del danno e di riconciliazione. Solo se saremo capaci di abbattere questi muri di vendetta la repubblica Italiana tornerà, almeno per questo verso, a essere uno Stato di diritto. *Portavoce “Movimento No Prison” Basta chiacchiere e lagne: del carcere sappiamo tutto, ora dobbiamo rivoltarlo di Franco Corleone* L’Unità, 8 marzo 2025 Fatichiamo a pensare iniziative di opposizione all’altezza della sfida. Ora che, con le nuove misure volute dal governo Meloni, anche la disobbedienza e la resistenza pacifica dei detenuti saranno sanzionate penalmente tocca a noi fuori lottare con più forza. Il momento richiede fantasia: dobbiamo inventarci delle cose scandalose, turbare le coscienze attraverso razione. Devono disobbedire anche i magistrati! Come potete immaginare non ho preparato una relazione, non ero in condizione di una sufficiente concentrazione; tuttavia, ho scritto degli appunti e predisposto delle note che rappresentano il filo di una riflessione che ho sviluppato in questi ultimi anni. Innanzitutto, mi viene da dire che noi, non da oggi, del carcere sappiamo tutto: il nostro problema non è scavare questioni, bensì affrontarle e risolverle. Come si diceva una volta riprendendo il monito di Marx, il problema non è interpretare il mondo ma cambiarlo. Ieri Mauro Palma ha ricordato la rivista Il Ponte del marzo 1949 e vorrei fare due chiose al riguardo. Quel numero speciale, interamente dedicato alle carceri, raccoglieva tante riflessioni di antifascisti; Mauro si è soffermato su quella di Altiero Spinelli, io fedele alla mia tradizione culturale richiamo l’intervento di Ernesto Rossi che era intitolato “Quello che si potrebbe fare subito” ed elencava esempi tragici della quotidianità del carcere, compreso l’uso del cosiddetto “Sant’Antonio” (un manganello per i pestaggi rivestito per non lasciare segni), in particolare quelli relativi all’alimentazione, all’igiene e alla salute. Ernesto Rossi faceva una sorta di autocritica sul fatto che, usciti dal carcere e distratti dalle urgenze economiche e sociali, la questione della detenzione, era stata trascurata da quegli stessi che l’avevano dovuta subire a causa della loro opposizione al fascismo. Si era dunque arrivati al 1949 per cominciare a occuparsene. Al riguardo vorrei aggiungere una cosa a quanto detto da Patrizio Gonnella. Piero Calamandrei nella discussione alla Camera aveva proposto un’inchiesta sulle carceri e sulla tortura. Un’attenzione e un’idea incredibilmente attuali. Dato che troppo spesso i problemi di quel tempo li riscontriamo tuttora presenti e irrisolti, “Sant’Antonio” compreso: quello che, secondo i padri costituenti, si poteva e doveva fare subito per dare diritti e dignità ai reclusi ce lo ritroviamo in molte parti anche oggi, fatiscenza dei luoghi di detenzione compresa, a dispetto delle riforme intervenute, della maggiore sensibilità sociale e anche del nostro impegno. Che pure ha dato risultati importanti, da ricordare e da rivendicare. Dalla legge Finocchiaro sulle detenute madri alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti; dall’incompatibilità con la detenzione per i malati di Aids e di altre gravi patologie alla legge Simeone-Saraceni per evitare la carcerazione per chi poteva usufruire di misure alternative. Fondamentale fu poi l’approvazione del Regolamento penitenziario del 2000 che rappresentò una grande conquista, sostituendo finalmente quello fascista del 1931. Dopo l’improvvisa scomparsa di Michele Coiro, rigoroso garantista, per sostituirlo il ministro Flick decise di nominare a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Alessandro Margara (chiedendomene il consenso - allora ero sottosegretario alla Giustizia - mentre eravamo su una nave che ci portava al carcere di Gorgona o a quello di Pianosa). Tempestivamente, intervenendo su Fuoriluogo, Mauro Palma invitò Margara a dedicarsi all’elaborazione di un nuovo Regolamento. La sollecitazione venne anche da me raccolta e così fu costituito un gruppo di lavoro ad hoc, il quale produsse rapidamente un testo ancor più avanzato della legge penitenziaria del 1975, in sintonia con le proposte di associazioni come Antigone. Il nuovo Regolamento, cui demmo vita un quarto di secolo fa, conteneva anche la previsione del diritto all’affettività; diritto però subito contestato dai sepolcri imbiancati del Consiglio di Stato, così il ministro Piero Fassino piegò la testa, contro il mio parere. Peraltro, ricordo che mi fu tolta la delega a seguire un “pacchetto sicurezza” su cui avevo molte riserve. Lo rammento perché, oltre a quel che siamo riusciti a fare per migliorare le carceri, va ricordato anche quanto non siamo riusciti, o ci è stato impedito, di realizzare. E anche dove abbiamo sbagliato. Poiché oggi non c’è solo il sottosegretario Delmastro che rappresenta l’apocalisse, anche nel nostro campo tocca talvolta rilevare l’enfatizzazione strumentale e fuorviante del tema della sicurezza, che conferisce nuova centralità al carcere e alla risposta penale, a discapito di quelle sociali. Tamar Pitch ha ricordato il ruolo di Grazia Zuffa nell’elaborazione di un pensiero originale sulla detenzione: sulla salute in carcere, sulla salute mentale, sull’ergastolo, sul caso Cospito e su tanti altri aspetti e questioni. A me piace ricordare che Grazia era esigente e non corriva alla banalità. Invito a leggere il suo saggio “L’ergastolo come pena di morte nascosta”; è l’introduzione assai originale ai testi sull’argomento di Papa Francesco, Aldo Moro, Salvatore Senese e Aldo Masullo, contenuta nel libro Contro gli ergastoli, curato da Stefano Anastasia, Andrea Pugiotto e da me, pubblicato da Futura nel 2021. Abbiamo sentito molte osservazioni sui limiti della riforma del 1975, ma ricordo che Margara era ben consapevole delle sue criticità tanto che vi lavorò con l’aiuto di alcuni amici, tra cui il sottoscritto e Franco Maisto, presso la Fondazione Michelucci e il risultato fu la presentazione di una proposta di legge di un “Nuovo ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà”. La data è del 3 novembre 2005 (venti anni fa!) e porta il n. 6164 con le firme dei deputati Boato, Finocchiaro, Fanfani, Pisapia e molti altri. Quello sforzo rimase nell’archivio del Parlamento, però dobbiamo confessare che neppure il movimento la sostenne e la fece propria. Allora, la mia proposta oggi - perché l’occasione del cinquantenario dell’approvazione dell’ordinamento penitenziario non si risolva in un mero cahier de doléance - è di riprendere quel monumentale lavoro, ovviamente aggiornandolo alle modifiche non irrilevanti intervenute successivamente, dal passaggio della medicina penitenziaria al servizio sanitario pubblico alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), in modo da avere un testo coerente e audace. Così potremo essere pronti, quando sarà il momento, a non ripetere errori, evitando l’onda banale del senso comune rispetto al fertile terreno del buon senso. Come Garante dei diritti della Toscana nel 2015 organizzai a Firenze il seminario intitolato “Un bilancio disincantato dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani” ragionando del senso degli Stati generali sull’esecuzione penale e della sorte degli Opg, a partire dall’antologia degli scritti di Margara La giustizia e il senso di umanità. Partiamo dunque dalle cose buone fatte. Il diritto alla salute è definito dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale e avere esteso ai detenuti la copertura della sanità pubblica ha rappresentato una svolta di principio davvero straordinaria, eliminando una competenza domestica opaca della amministrazione penitenziaria. La responsabilità è stata così affidata alle Regioni e alle Asl, ma dobbiamo vigilare ed essere intransigenti, non tollerando malfunzionamenti che danno spazio a chi vorrebbe tornare indietro. È inaccettabile la subalternità della sanità alla amministrazione penitenziaria, che si verifica troppo spesso: la salute non vale meno della sicurezza. La chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari, ha rappresentato una rivoluzione gentile di cui sono stato protagonista ed è folle che in questi giorni il Ministero della Salute proponga di trasformare le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), in nuovi piccoli manicomi e che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia approvato un documento preoccupante e ignobile che dà fiato alla reazione securitaria. Sono angosciato di fronte a questa prospettiva. Di fronte a questo pericolo, dobbiamo capire se le associazioni, a cominciare da Antigone, dalla Società della Ragione e dal Volontariato, sono pronte a scendere in campo. Vi confesso che leggendo Ristretti Orizzonti, trovo singolare vedere, alla fine della rassegna stampa, ogni giorno l’elenco di decine di incontri, seminari e convegni sul carcere. Mi pare, cioè, stravagante dare un’impressione di normalità di fronte alla strage quotidiana di vite e di diritti, alle urgenze e priorità che dovrebbe porci. Abbiamo una situazione terribile, ma fatichiamo a pensare azioni di opposizione e di resistenza all’altezza della sfida. Tamar Pitch in un intenso ricordo di Grazia Zuffa ha sottolineato che “Grazia non è stata solo una studiosa rigorosa e brillante, ma, insieme, come si conviene ad una femminista seria, ha “praticato”, ossia ha fatto su queste cose un’intensa attività politica e sociale”. Il 14 maggio 2023 Grazia aveva lanciato la campagna “Madri fuori”, vale a dire fuori dallo stigma e dal carcere, ed era fiera ed orgogliosa delle tante adesioni individuali e collettive. Aveva inventato lo slogan “ogni bambino e ogni bambina ha il diritto di nascere in libertà” e il fatto che sia stato ripreso in uno striscione nel corteo contro il disegno di legge sicurezza l’aveva resa felice. Occorre che noi, fuori, siamo maggiormente capaci di pensare e mettere in campo campagne forti; a maggior ragione poiché, dentro, con le nuove misure volute dall’attuale governo, anche la disobbedienza e la resistenza pacifica dei detenuti saranno penalmente sanzionate. Tocca allora a noi lottare con maggior decisione ed energia, dando voce a chi è costretto al silenzio. Devono disobbedire anche i magistrati! Margara aveva scritto come bisognava rispondere a proposito delle leggi razziste e ingiuste: il suo è un saggio fondamentale sulla disobbedienza. Proprio da qui partirà il prossimo seminario annuale della Società della Ragione; approfondiremo il ruolo delle corti internazionali e nazionali, la responsabilità del Presidente della Repubblica nel firmare le leggi sbagliate perché non sono in maniera clamorosa anticostituzionali; ma nella Costituzione che non c’è scritto questo, semmai che può rimandare al Parlamento le leggi con un messaggio motivato. Però, il coraggio spesso manca pure nel nostro mondo associativo. Di fronte al diritto all’affettività stabilito da una sentenza della Corte costituzionale come reagiamo al boicottaggio del ministro Nordio? Possiamo provare a mobilitare le famiglie dei detenuti anche con manifestazioni davanti alle carceri? Nel governo c’è chi immagina i corpi speciali per fare prove di guerra civile in carcere, noi dobbiamo rispondere con i corpi di pace, nel nome dello stato di diritto. Ho ricordato che nel Regolamento del 2000 fu colpevolmente stralciato il fondamentale diritto all’affettività, ma fu mantenuta la possibilità di incontri lunghi con i famigliari, per consentire anche la consumazione di un pasto condiviso; eppure, anche questa possibilità non è mai stata implementata. Al riguardo, sarebbe il caso che giuristi e avvocati inizino cause per omissione di atti di ufficio perché dal 2000 al 2025 non è più una accettabile che si sostenga che la norma è ordinatoria e non perentoria. Veniamo al sovraffollamento. Riccardo De Vito ha sostenuto che ci vuole subito un’amnistia e un indulto e, contestualmente, l’approvazione di una legge che istituisca il numero chiuso nel caso la capienza raggiunga il massimo. Dobbiamo dire basta alla detenzione sociale in carcere. Basta sul serio. Abbiamo più di 90mila persone in misure alternative, compresa la messa alla prova che in realtà non è una misura alternativa ma incide notevolmente assicurando addirittura con un processo di reinserimento la cancellazione del processo penale. Credo di poter ragionevolmente affermare che in carcere non dovrebbero essere presenti più di 30mila reclusi. Se le persone in misure alternative diventassero 120mila sarebbe favorita l’inclusione sociale con meno costi, senza problemi di carenza di personale di polizia penitenziaria e senza necessità di nuova edilizia. Insomma, la detenzione in carcere dovrebbe essere limitata ai responsabili dei reati di sangue, contro la persona, contro le donne, magari ai reati economici e informatici. La detenzione sociale dovrebbe invece essere diffusa nelle città realizzando le case di reinserimento sociale: è una proposta depositata in Parlamento, ripresa da una idea di Margara, per rimediare all’errore di avere chiuso le case mandamentali, esistite in Italia dal 1940 al 2000, che erano centinaia, gestite dal sindaco, che consentivano una detenzione leggera con la positiva partecipazione degli enti territoriali. Il momento richiede anche la fantasia di misure straordinarie. Ad esempio, i magistrati di sorveglianza dovrebbero dare ai detenuti tutti i giorni dei permessi premio consentiti e previsti dalle norme. Di fronte alle inerzie annose e dolose di governi e parlamento nell’emanare le necessarie misure deflattive, come amnistie e indulti, forse dovremmo chiedere al Presidente della Repubblica di esercitare in maniera ampia e dispiegata il potere di grazia. Dobbiamo, insomma, inventarci delle cose scandalose, nel senso etimologico di turbare le coscienze attraverso l’azione. Azione. Perché il momento che stiamo vivendo rappresenta una discontinuità assoluta e per questo temo il rischio di analisi astratte, anche se lucide; la conseguenza potrebbe risolversi in una eterogenesi dei fini e portarci da parte di loro signori ad accettare la critica al principio rieducativo realizzando pienamente il carcere duro, perché oggi il carcere mite è davvero un mito. Riccardo De Vito ha fatto bene a riproporre un testo di dieci anni fa di Grazia Zuffa pubblicato su Questione Giustizia: “Ripensare il carcere, dall’ottica della differenza femminile”. Rileggendolo credo che tutte e tutti rimarremo colpiti dall’intelligenza acuminata di Grazia e saremo d’accordo nel ritenere che questo sguardo su “tutto” il carcere che muove dall’ottica della soggettività femminile, per uscire dalle ambiguità di un trattamento penitenziario sempre in bilico tra approcci retributivi e prospettiva correzionale, può essere la via per sperimentare un sistema penitenziario che trasformi i corpi da custodire in soggetti responsabili e che alla logica dei premi sostituisca quella dei diritti. Secondo me, questo deve essere il nostro manifesto della riforma necessaria. È quanto Grazia sostiene: la necessità di restituire alle autrici e agli autori di reato la piena responsabilità, nella prospettiva del reinserimento sociale; gli strumenti di socializzazione devono uscire dalla sfera della discrezionalità per essere declinati il più come diritti che non come concessioni. Grazia Zuffa - come sa bene Susanna Marietti - era impegnata contro l’isolamento disciplinare, una questione discriminante che dobbiamo porre come tale. Molto spesso viene ripetuta la richiesta di una presenza degli psicologi in carcere e della necessità di loro assunzioni senza distinguere ruolo e funzioni. Dobbiamo certamente chiedere alle Asl la presenza di medici che assicurino assistenza anche nelle ore serali e nei giorni festivi, che garantiscano con il Dipartimento di salute mentale la presenza di psichiatri e psicologi. Non mi convince, invece, la richiesta di assunzione di psicologi da parte della amministrazione penitenziaria, poiché crea confusione; tanto è vero che le psicologhe o psicologi esperti ex articolo 80 partecipano ai consigli di disciplina per irrogare sanzioni, con un vero conflitto deontologico. Non basta. Non dobbiamo essere corrivi. Ad esempio, di fronte al problema della presenza del disagio mentale in carcere non dobbiamo favorirne un’enfatizzazione strumentale, utilizzata da chi sostiene fosse meglio quando persone di difficile gestione venivano mandate in Opg per osservazione, col rischio di rimanerci per sempre. Diversamente, tocca a noi chiedere l’applicazione della sentenza 99 della Corte costituzionale per individuare luoghi terapeutici al posto della detenzione, evitando ritorni al passato. Abbiamo in corso anche ricerche su questo tema, proprio per contrastare in modo scientifico e argomentato il risorgere della nostalgia dell’istituzione totale. Noi dobbiamo essere rigorosi, denunciando che il disagio mentale in carcere è massimamente determinato non dalle patologie individuali ma dalle condizioni quotidiane di vita del carcere. Se dimentichiamo questo costruiamo delle figure di persone da curare, da redimere, da controllare, ma non è la strada del tentativo di rispettare soggettività e autonomia. Non è facile, ma dobbiamo tentare di avere un pensiero lungo. Grazie a un lavoro di ricerca sulle misure di sicurezza e sulle case di lavoro abbiamo pubblicato il volume Un ossimoro da cancellare che contiene una proposta di legge per cancellare una misura introdotta dal fascismo costruita sulla figura del “delinquente professionale, abituale e per tendenza”. Abbiamo il sostegno del teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto che si è espresso contro una realtà che contraddice la Costituzione. Dobbiamo fare una battaglia per l’eliminazione di quelle strutture che fanno proseguire la detenzione anche dopo avere scontata la pena: con la truffa delle etichette trasformano questi soggetti da detenuti a internati producendo il rischio di una pena infinita, di proroga in proroga, senza diritti. Una realtà che ora riguarda 300 persone, di fatto scelte casualmente, come monito. Pensate che due nuove case lavoro sono state aperte ad Aversa e a Barcellona Pozzo di Gotto nei locali dell’ex Opg. Tale esperienza negativa vale anche per i cosiddetti sine titulo, cioè la realtà di alcune decine di persone detenute e che grazie alla valutazione di un perito o di un magistrato si trasformano in non responsabili di intendere e volere e con il diritto di trovare accoglienza in una Rems (che hanno un caposaldo nel numero chiuso), come internati. Forse un po’ di attenzione e di coordinamento su questo sarebbero necessari, senza aumentare la demagogia e la polemica contro la mancanza dei posti in Rems e la strumentalizzazione della lista d’attesa. Anche la denuncia della presenza dei cosiddetti tossicodipendenti in carcere rischia, paradossalmente, di far tornare in auge la prospettiva delle comunità chiuse. Allora, io penso che dovremmo proporre un referendum su alcuni punti della legge proibizionista sulle droghe. Abbiamo già una bozza di testo possibile; lo valuteremo assieme e poi dovremo fare il miracolo di raccogliere le firme occorrenti - come è avvenuto per quello sulla cittadinanza - per rispondere a chi ha aumentato le pene per i fatti di lieve entità e vuole equiparare la canapa tessile alla canapa con qualche potere stupefacente. Forse questo governo ha paura delle lenzuola come luogo peccaminoso: denunciano la denatalità, però le lenzuola di canapa per il sottosegretario Mantovano vanno proibite! Infine, mi piace ricordare che Grazia voleva una giustizia di comunità, nella comunità, e aveva costruito un modello perché la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità fossero alternative ricche di opportunità, occasioni di vita, fuori dal sistema penale, anziché essere pene mascherate. Dobbiamo lavorare sul riconoscimento integrale ed effettivo della dignità della persona reclusa, è un discrimine che va tenuto assolutamente presente. Oggi la pena reclusiva non solo non la riconosce, ma la nega quotidianamente in mille modi. Le celle stracolme non consentono dignità a nessuno. Il sovraffollamento ha una consistenza materiale che viene celata e misconosciuta. Chiediamoci che conseguenze umane si realizzano quando in cella si vive l’intera giornata con un’altra persona sconosciuta; chiediamoci la stessa cosa quando la convivenza è con altre tre o quattro persone o quando arriva a sette. Il problema non è solo che si sta con persone che non si sono scelte, ma pure che si ha un solo cesso. Ecco: il problema è anche il cesso! Rappresenta un’intollerabile vergogna civile che tre, quattro, sette, otto persone, di notte e di mattina, abbiano a disposizione un solo servizio igienico in cui spesso, oltretutto, di fianco al wc, c’è il lavandino dove si lava e prepara il cibo. Facciamo convegni e dotte analisi - pur certo necessarie - tutti i giorni. Ma l’abbiamo mai fatta una battaglia sul cesso? No! Una persona, un cesso. Ecco, forse, questo potrebbe essere uno slogan efficace ed eloquente su di un aspetto della dignità distrattamente negata a chi sta in carcere. Il sabato prima di Natale abbiamo organizzato a Udine una marcia dal Duomo fino al carcere di via Spalato, con la presenza del vescovo. Incredibilmente sono intervenute centinaia di persone, con una rosa bianca in mano per ricordare la resistenza antinazista. Ieri Patrizio Gonnella ha evocato la riscrittura dell’articolo 27 da parte del sottosegretario Cirielli, ma non ha detto che nella legislatura precedente una proposta simile era già stata presentata da Giorgia Meloni e dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro. In passato, all’epoca del ministro Angelino Alfano (non ci siamo fatti mancare nulla in questo paese, persino Giovanardi zar antidroga!), il nostro Alessandro Margara aveva ironizzato su come avrebbe voluto modificare l’articolo 27 quel Guardasigilli del governo Berlusconi. Non aveva immaginato che esponenti del governo e che giurano sulla Costituzione sarebbero stati capaci di mettere nero su bianco uno stravolgimento di un principio fondamentale. Concludo dicendo che abbiamo molto da fare e assieme dobbiamo valorizzare tutte le cose buone già fatte. Seguendo la linea e il pensiero di Grazia Zuffa, che era molto esigente e non faceva sconti. In questi anni a Udine come Garante, Società della Ragione e associazione di volontariato Icaro, assieme, abbiamo realizzato un calendario per i detenuti con dodici articoli della Costituzione; a gennaio l’articolo 27, a dicembre l’articolo 32 e così via. In una riunione del Consiglio dei detenuti li ho invitati a imparare a memoria l’articolo 27 e a recitarlo agli agenti nei momenti difficili. E quella la bussola, il programma e l’indicatore di marcia che ci hanno consegnato i padri costituenti. Abbiamo molto da fare per trasformarli in realtà e per non farli manomettere dagli epigoni del Guardasigilli Alfredo Rocco. Dopo tante Commissioni per cambiare il Codice Rocco, assistiamo attoniti al paradosso del peggioramento di alcune norme dello stesso codice fascista. È l’ora di chi ha filo da tessere. *Intervento di Franco Corleone al convegno organizzato da Antigone il 14 febbraio scorso per i 50 anni dell’Ordinamento penitenziario. Lo pubblichiamo in occasione della grande assemblea che oggi, 8 marzo, la Società della Ragione terrà a Firenze per ricordare la presidente Grazia Zuffa a un mese dalla sua scomparsa. Psicologa, femminista, grande studiosa anche delle questioni legate al mondo della pena, a lei si devono - tra le moltissime cose - contributi fondamentali sulla salute in carcere, l’ergastolo, il superamento della cultura manicomiale, la condizione femminile nelle prigioni. Tra le sue ultime battaglie, quella contro il Ddl sicurezza e la vergognosa norma che vorrebbe chiudere in cella anche le donne incinte e con figli fino a un anno di età. Di Franco Corleone, conosciuto tra i banchi del Parlamento, Grazia Zuffa è stata compagna di vita, di impegno, di lotta. “Immaginare una società libera dal carcere? Doveroso!” di Caterina Peroni e Luca Galantucci dinamopress.it, 8 marzo 2025 Nell’intervista a Valentina Calderone vengono passasti in rassegna orrori e disfunzioni del sistema carcerario italiano, di cui sovraffollamento e suicidi sono solo gli aspetti più vistosi. Il tabù dei provvedimenti di clemenza e come immaginare una società libera dal carcere. La drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri si sta ogni giorno aggravando e il numero dei suicidi dei detenuti è solo il suo indice più vistoso e intollerabile. Abbiamo intervistato al proposito Valentina Calderone, Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà del Comune di Roma, direttrice dell’associazione A Buon Diritto dal 2013 al 2023, autrice, insieme ad altri, dei libri Quando hanno aperto la cella (Il Saggiatore 2011), Abolire il carcere (Chiarelettere 2015) e Il carcere è un mondo di carta (Momo edizioni 2024). Il 2024 è stato un annus horribilis per Regina Coeli e le carceri italiane in generale. Il numero di suicidi è stato il più alto di sempre (88), così come il numero dei decessi (243). Anche il numero di rivolte è sempre più frequente. Cosa sta succedendo? Io le chiamerei proteste e non rivolte, innanzitutto. Stanno succedendo una serie di eventi all’interno degli istituti. Ovviamente, non si può parlare del momento attuale senza parlare delle condizioni di vita delle persone, senza parlare del sovraffollamento. E questo interessa tanto le persone che sono nelle carceri per adulti, quanto purtroppo anche i minorenni e le minorenni che si trovano recluse. Assistiamo a un aumento sproporzionato dei numeri che ci sta facendo tornare molto rapidamente ai tempi pre-Torreggiani, quindi a un momento in cui già siamo stati sanzionati [dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ndr] per lo stato dei nostri istituti penitenziari. Poi, ovviamente, ci sono strutture che soffrono di più questa condizione. Nella domanda citavate Regina Coeli: Il vecchio carcere romano ha un sovraffollamento di oltre il 180%, il che significa che su 570 posti disponibili ci sono attualmente 1.050 persone. Ma il sovraffollamento non è solo una questione di corpi, di spazi e di persone che devono contendersi le docce o un materasso o un posto letto. Il sovraffollamento ha ovviamente degli effetti a cascata, riguarda anche quello che è il senso della presa in carico delle persone e del trattamento individuale. Se raddoppiano i numeri, non raddoppiano i funzionari giuridico-pedagogici, non raddoppiano i medici, non raddoppia il personale di polizia che è preposto a fare la sorveglianza, ma anche, in realtà, a garantire lo svolgimento delle attività ordinarie e quotidiane. In queste condizioni ogni cosa è esasperata ed è esasperata ancora di più dal fatto che nei mesi scorsi era montata una sorta di speranza nella popolazione detenuta rispetto a dei provvedimenti di clemenza o almeno deflattivi; speranze che sono state completamente frustrate nell’indifferenza generale e nella pochezza dei provvedimenti governativi su questo tema. Hai menzionato anche la questione degli istituti per minori. Sappiamo che c’è stato un aumento dei detenuti e un aumento delle proteste e delle tentate evasioni. Quale ruolo gioca il cosiddetto DL “Caivano”, che è stato approvato dal Governo Meloni? Penso che della situazione degli istituti di pena minorili se ne parli sempre troppo poco, mentre invece dovrebbe essere il principale campanello d’allarme per capire dove stiamo andando. Il nostro sistema penale minorile era un sistema modello per l’Europa e stiamo riuscendo a smantellarlo. Fino a pochissimi anni fa, in Italia avevamo una media di 300 tra ragazzi e ragazze all’interno degli istituti penali per minori. I dati, al 15 febbraio 2025, ci dicono che sono 610, quindi un aumento di oltre il 100% in pochissimi anni. In base allo stesso ragionamento nei confronti degli istituti per adulti, qual è, in queste condizioni, l’attenzione riguardo ai percorsi individuali che questi ragazzi e ragazze si meriterebbero e a cui dovrebbero accedere per diritto? I problemi che elencavamo prima sono i medesimi, anche rispetto alla quantità di lavoro richiesto al personale, visto che a un aumento dei detenuti e delle detenute non corrisponde un aumento del personale stesso. Sicuramente il DL Caivano ha contribuito da più punti di vista a questa situazione. Purtroppo non abbiamo ancora le statistiche ufficiali rispetto agli specifici reati introdotti, penso all’arresto in flagranza per spaccio di lieve entità di sostanze stupefacenti, che sarebbe importante scorporare da tutti gli altri arresti effettuati. Sull’osservatorio che ho dell’istituto penale minorile di Casal del Marmo, su una settantina di ragazzi e ragazze che sono lì detenute, sette/otto mediamente sono dentro con un’imputazione di spaccio di lieve entità. C’è questa vicenda che racconto spesso ultimamente, di questo ragazzo sedicenne tunisino che è detenuto in un minorile perché è stato trovato con 0,6 grammi di hashish, 0,4 di marijuana e 20 € in tasca a prova, diciamo così, di chissà quale attività illecita. Allora, se noi incriminiamo e deteniamo ragazzi minorenni con queste accuse, stiamo totalmente fallendo l’approccio alla giustizia minorile, che dovrebbe prevedere la detenzione ancora più residuale rispetto a quella degli adulti. Il risultato è che stanno entrando più minorenni che giovani adulti e sta aumentando il numero, ovviamente, dei minori stranieri non accompagnati. E quindi tutto questo sistema, tanto per gli adulti quanto per i minori, in realtà racconta della nostra incapacità come società nell’offrire delle soluzioni alle persone. È evidente come per alcune categorie lo spauracchio dell’incarcerazione sia sempre presente, anche a causa della nostra inadeguatezza nella creazione di servizi sul territorio che possano prevenire ed evitare a queste persone di finire in carcere. Questa sembra essere la tendenza di questo governo rispetto al rapporto fra prevenzione, trattamento e incarcerazione. Emerge abbastanza chiaramente dal cosiddetto “Disegno di legge Sicurezza” in discussione al Senato. Questo disegno di legge introduce anche il reato di rivolta penitenziaria. Puoi spiegarci cosa prevede, quali rischi comporta per la popolazione carceraria e quali sono le conseguenze sul rapporto fra agenti penitenziari e detenuti? Non possiamo dire che sia una prerogativa di questo governo, da molti anni ormai assistiamo a una dinamica politica e governativa in cui si danno risposte a questioni complicate attraverso decretazione d’urgenza, introduzione di nuovi reati e inasprimento delle pene. Purtroppo un trend molto ben consolidato degli ultimi decenni, con un evidente picco negli ultimi due anni. A me colpisce la spietatezza che traspare dalla decisione di intitolare un decreto in cui si inaspriscono le pene per i cosiddetti scafisti a Cutro, il luogo di un naufragio, o intitolare a Caivano, luogo di un evento altrettanto tragico, il decreto con cui inasprire le pene e in parte smantellare il sistema penale per minorenni. La linea del Governo è affermare che la risoluzione di alcune questioni molto complesse passi attraverso l’aumento dei reati e degli anni di carcere, provvedimenti rapidi e a costo zero, ma con un impatto emotivo molto forte sulla cittadinanza e con indubbi ritorni in termini di consenso elettorale. In questo contesto, si pensa quindi che il problema delle proteste in carcere sia una questione esclusivamente di ordine e sicurezza, non rendendosi conto che in realtà, nella maggior parte dei casi, le persone protestano perché si trovano a vivere in una situazione di fatto illegale. È evidente come il corpo delle persone detenute sia l’unico strumento che esse stesse hanno per riuscire a ottenere una risposta, per avere un incontro con la direzione, per riuscire a chiedere che venga ripristinata l’acqua calda dopo due settimane che si fanno la doccia con l’acqua fredda o per pretendere che vengano aggiustati i riscaldamenti. La cosa grave, a mio avviso, è che il nostro ordinamento prevede già la possibilità di sanzionare i comportamenti illeciti all’interno degli istituti. Non c’è bisogno di creare nuovi reati specifici, abbiamo tutti gli strumenti per intervenire. Se il decreto sicurezza dovesse passare così com’è, mi preoccupa molto l’introduzione di questa nuova fattispecie di reato: la rivolta passiva. Azioni di protesta quali ad esempio il non rientro in cella (una modalità di dissenso molto utilizzata che consiste nel non rientrare in stanza alla fine della cosiddetta ora d’aria) oppure lo sciopero del carrello (non prendere il cibo dell’amministrazione) configurerebbero una non ottemperanza all’ordine dell’autorità. Questi comportamenti potrebbero essere sanzionati, se messi in atto da tre o più persone, con una pena fino a otto anni di carcere. Mi pare evidente la gravità di questa previsione. Bisogna poi chiedersi: chi è titolato a denunciare questi comportamenti? Sono ovviamente le stesse persone che hanno in custodia le persone detenute. Questa nuova fattispecie di reato potrebbe diventare uno strumento molto pericoloso, che si presta ad abusi e arbitri nei confronti di una popolazione detenuta che spesso non ha altro modo per farsi sentire o per rivendicare dei diritti che continuano a mancare. Rispetto al sovraffollamento alcuni degli strumenti utilizzati negli ultimi decenni sono l’amnistia e l’indulto. Tuttavia, l’ultima amnistia è del 1992 e l’ultimo indulto del 2006. Poi, come ben sappiamo, più nulla. Secondo te sono provvedimenti che potrebbero essere ripresi oppure sono destinati a sparire definitivamente? Qual è il dibattito su questo? Vari esponenti dell’attuale Governo si sono più volte espressi in maniera contraria, arrivando a dire che i provvedimenti di clemenza rappresentano una “resa dello Stato”. Io vorrei ricordare che sono strumenti previsti dalla Costituzione, non ce li stiamo inventando adesso. E dato che esistono, significa che possono essere utilizzati quando ce n’è bisogno. Mi pare superfluo aggiungere che ce n’è bisogno ora. Nel disastro del sistema attuale, pensare di intervenire in maniera strutturale investendo sulla formazione, sul lavoro, su percorsi individualizzati, sul potenziamento delle strutture di accoglienza per consentire percorsi alternativi, è semplicemente irrealizzabile. Se il sistema è sovraffollato, congestionato, esausto, questi interventi non si possono fare. Amnistia e indulto sono stati previsti e utilizzati come strumenti straordinari ma possibili, proprio perché in alcune fasi non è pensabile affrontare nel complesso e in maniera sistematica la condizione delle persone all’interno degli istituti senza prima operare un provvedimento di deflazione. Sono strumenti esistenti e attivabili, che dovremmo utilizzare e che hanno un senso. Solo un provvedimento deflattivo, nell’attuale condizione, può riportare il sistema delle carceri all’interno di un ambito di legalità. Però, appunto, la tendenza è quella di non di non mettere in campo questa forma di deflazione. Perché? Affermare che uno strumento previsto dalla Costituzione sia una resa dello Stato credo dica molto circa la visione del Governo su questi temi. D’altra parte per me la vera sconfitta dello Stato è l’attuale condizione in cui versano i nostri penitenziari. Con il numero di suicidi che citavate all’inizio, con i dati sul sovraffollamento, con le 2078 persone che sono state salvate da un tentativo di suicidio, con gli atti di autolesionismo costanti. La vera resa dello Stato è consentire che le persone in carcere vivano in queste condizioni, non riuscendo a garantire accesso alle cure, ai percorsi individualizzati, permettendo che saltino tutte le tutele e le garanzie previste dalla Costituzione e dalla legge. Le persone private della libertà hanno come pena, appunto, solo la privazione della libertà. Non ne hanno di altre aggiuntive, non perdono con il loro ingresso in carcere il diritto alla salute, all’istruzione, alla dignità. La limitazione della libertà è la loro unica sanzione. E allora diciamo così, la vera sconfitta dello Stato è consentire che ci siano più di 60.000 persone che ogni giorno hanno difficoltà o non riescono ad accedere ai loro diritti più basilari. Voi come garanti delle persone private della libertà, cosa potete fare? Cosa state facendo per cercare, appunto, di affrontare la situazione che si sta presentando negli istituti penitenziari? Purtroppo, la sensazione è di essere costantemente chiamati a tamponare delle emergenze e di avere poco margine di progettualità e costruzione. Parlando della mia esperienza da garante qui a Roma, nel momento in cui in carcere, su venti colloqui che faccio, in dieci mi dicono: “Dovevano portarmi a fare una visita ospedaliera e non c’era la scorta”. E questo succede in continuazione. A Regina Coeli almeno tra il 50 e il 60% delle visite programmate ogni anni saltano per assenza di personale. Ci sono persone che non vengono portate a fare la chemioterapia. Ci sono persone che non vengono portate a fare i controlli post-intervento oncologico. Perché, appunto c’è la mancanza del nucleo traduzione piantonamenti, il servizio che si occupa di portare le persone a fare le udienze e anche a fare le visite. Nel momento in cui il sistema è così carente di tutto, noi siamo chiamati a svolgere un ruolo che diventa sempre più faticoso ed è sempre più difficile dare risposte alle persone. È frustrante sapere di poter rappresentare un punto di riferimento e di contatto con l’esterno, ma avere così poche possibilità di intervenire. Come coordinamento dei garanti territoriali abbiamo incontrato il ministro della Giustizia Carlo Nordio e, più volte, i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Abbiamo condiviso le nostre preoccupazioni e ovviamente continuiamo a pensare che le interlocuzioni con le istituzioni siano fondamentali, ma la carenza di risposte e di interventi che abbiano una visione a lungo termine, una visione sistemica, fa sì che ci troviamo quotidianamente ad affrontare grandi e piccole emergenze, con un margine di azione ristrettissimo e totalmente insufficiente. Per quanto riguarda gli agenti penitenziari e i sindacati: chiaramente si trovano anche loro a vivere una situazione di disagio enorme e sono pochi, troppo pochi per gestire il sovraffollamento e tutte le situazioni di cui parlavi, anche molto gravi, rispetto alla salute dei detenuti. Voi avete interlocuzioni anche con loro? Cosa dicono e quali azioni propongono per questa crisi? Il panorama dei sindacati di polizia penitenziaria è molto variegato, quindi non si può generalizzare rispetto alle loro istanze. Sicuramente tutti gli operatori, civili e di polizia penitenziaria, soffrono le condizioni di lavoro. Ho incontrato spesso in questi mesi agenti di polizia che facevano turni in sezione sulle 24 ore, che si trovavano da soli a gestire tre piani, o quattro o cinque poliziotti cui era affidato l’intero istituto per la notte. La scorsa estate mi sono accorta che un agente da solo aveva la responsabilità dell’intera sezione e contemporaneamente doveva svolgere una sorveglianza a vista. La sorveglianza a vista è quel provvedimento disposto dai medici quando c’è un elevato rischio suicidario e quindi la persona deve essere letteralmente guardata a vista per tutte le ventiquattr’ore fino a quando il provvedimento non viene revocato. Sono convinta che il clima all’interno degli istituti dipenda anche dal benessere delle persone che ci lavorano. Non possiamo prescindere dal fatto che un ambiente così complicato sia influenzato dalle dinamiche, anche personali, che si instaurano tra chi custodisce e chi è custodito. Se una persona fa un turno di 24 ore, quale potrà essere la sua capacità di mediazione, la sua capacità di evitare il conflitto, di provare a interloquire per abbassare la tensione? Parlo sempre con il personale di polizia e non di rado dalle loro parole emerge stanchezza per le condizioni in cui si trovano a lavorare. Per questo mi colpiscono molto certe dichiarazioni, come quelle del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove quando dice che nelle sue visite all’interno degli istituti incontra solo la polizia penitenziaria (lo scorso agosto disse che lui non si inchinava “alla mecca dei detenuti”). Dopodiché, però, tutti i provvedimenti messi in atto sembrano di totale disinteresse anche nei confronti del personale di polizia. Perché fare lavorare uomini e donne in queste condizioni significa portarli allo stremo, significa non permettere loro di svolgere i propri compiti correttamente. Significa contribuire a innalzare la tensione e a produrre una serie di dinamiche a cascata che non capisco a chi giovino. Non giovano ai/alle detenuti/e né al personale di polizia che in qualche modo chiede di risolvere il problema del sovraffollamento. Il lavoro di tutte e tutti sarebbe più facile, e molto più umano, se ci fossero meno persone dentro gli istituti. Sarebbe giusto lavorare a capienza regolamentare, con degli spazi adeguati e in strutture che facilitino l’organizzazione di attività che facciano sì che le persone detenute non passino nel nulla più totale le loro giornate. Perché il prodotto di questa situazione disastrosa è un continuo innalzamento del livello di tensione. Un recente articolo del “Guardian” illustra come nei Paesi Bassi negli ultimi dieci anni sono state chiuse venti carceri e il numero di persone private della libertà è diminuito del 40% negli ultimi 20 anni. L’articolo insisteva tuttavia su come la società olandese non per questo sia diventata una società meno sicura. Qual è quindi la via di uscita da questo populismo penale nostrano? È ancora possibile, ha ancora senso immaginare una società libera dal carcere? Non è solo possibile, ma doveroso. È necessario fare tutti gli sforzi possibili per continuare a dire, immaginare, e far sì che il nostro orizzonte sia quello del superamento di uno strumento ormai decisamente obsoleto. Il carcere è un’invenzione umana, e come tale non è detto debba esistere per sempre. Non c’è sempre stato, non è detto che non inventeremo qualcosa di migliore. Ogni sforzo possibile per immaginare altri modi di affrontare i reati e lavorare per la residualità del carcere nella nostra società, è per me assolutamente necessario. I discorsi sul populismo penale, sulla sicurezza reale e percepita, i dati sulla criminalità e la distanza tra l’evidenza di questi e la narrazione mediatica, ci dovrebbero costringere ad affrontare questi temi in maniera totalmente diversa. È estremamente facile colpire il lato emotivo delle persone in occasione di eventi tragici, creando consenso intorno a provvedimenti carcerocentrici. Questa via è senza dubbio molto più comoda e più immediata. Quanto fatto in Norvegia con l’abolizione dell’ergastolo, e quanto citato da voi riguardo ai Paesi Bassi, dimostra che è possibile cambiare il nostro punto di vista, e renderci conto di quanto le persone che imprigioniamo non sono solo le persone che hanno commesso il “male”: sono anche quelle di cui non ci vogliamo occupare al di fuori del carcere, di cui non siamo in grado di prenderci cura e la cui detenzione consente forse anche a noi di sentirci un po’ dispensati dalla responsabilità che abbiamo come collettività. Dispensati dal pretendere politiche abitative eque, stipendi adeguati, accesso a un’istruzione di qualità, abbattimento delle differenze nei territori in cui la prossimità ai servizi è totalmente un miraggio. E allora, se noi riuscissimo a guardare da un altro punto di vista la popolazione attuale degli istituti penitenziari, rimettendo in discussione quello che è il nostro modello di welfare, quella che è l’organizzazione delle nostre città, dei nostri luoghi di vita e anche delle nostre interazioni sociali, potremmo renderci conto di quanto è facile, e a volte consolatorio, puntare esclusivamente il dito contro chi ha commesso un reato. In questo cambio di sguardo e di prospettiva, potremmo provare a riprenderci un po’ la responsabilità collettiva del sistema dentro al quale viviamo, che produce queste diseguaglianze e questo carcere. Perché il carcere non diventi per noi solo un alibi per non vedere e per non occuparci di queste questioni. Donne in carcere: “Sbarre di zucchero” lotta contro la loro doppia pena di Luisa Brambilla iodonna.it, 8 marzo 2025 Donne in carcere: la pena è più gravosa perché il sistema è pensato per gli uomini. Intervista a Micaela Tosato, di “Sbarre di Zucchero”. A dar vita a “Sbarre di zucchero”, movimento che sensibilizza su tutte le tematiche inerenti la vita carceraria, in particolare quella delle donne in carcere, è Micaela Tosato. Ha avviato l’associazione come account social nell’agosto di due anni fa e in breve tempo si è affermata come associazione che ha referenti in tutta Italia. È oggi uno dei canali che testimonia quotidianamente sulla condizione due volte penalizzante delle donne in carcere. Perché la pena delle donne in carcere è doppia - Doppia pena perché le 2392 donne “ristrette”, secondo i dati del più recente rapporto pubblicato, dall’associazione Antigone nel 2023, sono il 4 per cento della popolazione carceraria complessiva. Doppia pena perché “tutto quello che riguarda le donne in carcere è di risulta, il carcere è un’istituzione pensata su misura per gli uomini. E se per i maschi le difficoltà sono tantissime, per le femmine sono ancora di più” spiega Micaela. Come è nato “Sbarre di Zucchero”? “Sbarre di Zucchero nasce nell’agosto 2022 come un gruppo social perché nella notte tra l’uno e il 2 agosto si suicida Donatella Hodo nel carcere di Verona. Donatella è stata mia compagna di cella e amica di molte ragazze con cui abbiamo aperto il gruppo. Se ne è andata inalando tre bombole di gas. Non se ne sono accorti né al momento del cambio turno, né a quello di consegna della terapia medica, né alla colazione né per molto tempo dopo. E quando l’hanno trovata morta, l’intenzionalità del gesto era resa evidente dal fatto che ha lasciato un biglietto al fidanzato in cui era palese la sua intenzione di uccidersi” spiega l’attivista per i diritti delle carcerate e dei carcerati. I numeri dei suicidi e del malessere psichico - Donatella è una delle 85 persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane nel 2022, di cui cinque donne. I tentati suicidi delle donne sono 3,7 ogni 100 detenute contro l’1,6 ogni cento negli istituti maschili. Una doppia pena, anche in questo caso, una doppia fatica di vivere. Fuori dal carcere in Italia il tasso di suicidi, sopra i 15 anni, è dell’11,8 per centomila tra gli uomini e 3 per centomila tra le donne. Sempre il report di Antigone 2023 segnala come nelle donne detenute i casi di autolesionismo siano il doppio che negli uomini, l’uso abituale di psicofarmaci, precedente o contemporaneo all’ingresso in carcere riguardi il 63 per cento delle ristrette. Perché la morte di Donatella ha messo tutto in moto? Torniamo a Micaela Tosato: “Ci sono state fatte pressioni perché non si parlasse del suicidio. Tra le donne presenti nelle due sezioni femminili era già stata fatta girare la voce che Donatella aveva “esagerato” a stordirsi con il gas e che la sua morte fosse perciò un incidente. Ne ho parlato con Monica Bizaj, che oggi è la presidente di “Sbarre di Zucchero”, e siamo state d’accordo che non si potesse stare ancora una volta in silenzio. Abbiamo cominciato raccontando le nostre storie su Facebook, nel giro di un mese era davvero imponente il numero di quanti ci spronavano ad andare avanti, familiari, detenuti ed ex, avvocati, garanti dei detenuti, medici che lavorano nelle carceri. Centinaia di persone. Abbiamo deciso di parlare dell’abbandono più forte che c’è nel femminile rispetto al maschile, e di questo ghetto nel ghetto, a metterci la faccia. Abbiamo organizzato eventi in presenza, siamo andate a parlare a Roma, Verona, Napoli. E e ci siamo costituiti in associazione nazionale dal settembre del 2023. Abbiamo un tavolo di lavoro con l’università di Roma sulla detenzione femminile. Sbarre di zucchero l’8 marzo a Verona ha organizzato Donne fragili scarto nello scarto dalle 16 alle 18 in collaborazione con Demos e Azione comunitaria. E alle detenute del carcere di Verona, Santa Maria Capua Vetere e di alcune sezioni femminili della Calabria saranno donati prodotti per il make up. Il 12 aprile poi a Milano in Sesta opera andiamo a parlare di donne in carcere, anche nel carcere minorile, una altra realtà di cui nessuno parla” anticipa Tosato. Perché Sbarre di zucchero è un punto di riferimento - “La nostra popolarità, dire successo mi sembra brutto, dipende dal fatto che non ci siamo mai nascoste, ci abbiamo sempre messo la faccia e che riferiamo situazioni a prova di smentita. Riteniamo che il detenuto sia uomo che donna sia un portatore di diritti. Tu mi prendi la libertà e io pago quello che è giusto, ma quando ho pagato ho il sacrosanto diritto di ricominciare e di rifarmi una vita. Invece, anche questo è molto difficile, sia per i pregiudizi che trovi fuori, sia per la mancata preparazione all’uscita che è fatta fuori. Donatella è il simbolo di tutto quello che non funziona in carcere” prosegue Micaela. Di che cosa parlate sui vostri canali? “La nostra attività è di denuncia, ma fatta da chi il carcere lo vive, chi entra nel carcere a ogni livello e ne sente la puzza. E poi siamo riusciti ad acquistare ulteriore autorevolezza, attraverso i referenti regionali, che sono professori universitari e che hanno un certo ambito intorno, che entrano in carcere che non hanno scontato pene e che credono in questo lavoro. Noi ci troviamo con tantissime segnalazioni da parte delle famiglie di problemi all’interno del carcere, perché succede di tutto dentro e riusciamo a intervenire, e quindi abbiamo una rete di volontari che entrano, di avvocati e riusciamo a risolvere qualche problema dentro. Ci segnalano chi è picchiato. Magari da altri detenuti, perché si ponga rimedio. O dove manca l’acqua. Ad Avellino l’acqua qualche settimana fa veniva chiusa alle 18. Avendo portato alla conoscenza dell’opinione pubblica la circostanza, il problema si è risolto” racconta la nostra interlocutrice. Sbarre di Zucchero si concentra sui problemi delle donne? “Siamo partiti dalle donne. Il nome completo dell’associazione è … quando il carcere è donna in un mondo di uomini. Adesso è per donne e uomini perché non era mai stata fatta una cosa così per i maschi. Oa è diventato sbarre per tutti. Il nostro focus è la detenzione femminile ma il diritto è per tutti. Le donne sono più penalizzate perché avendo solo 4 carceri femminili - Trani, la Giudecca a Venezia, Roma e Pozzuoli, il resto, 40 sezioni, è ricavato da spazi delle carceri destinate agli uomini . È una detenzione di risulta fai fatica ad aver corsi ad avere istruzione. Al femminile fai uncinetto, non hai una formazione professionale seria come succede per i maschi”. La scuola in carcere per le donne non esiste quasi - A Verona, da dove la nostra iniziativa si è messa in moto, ad esempio, per i detenuti maschi c’è un corso di formazione alberghiera e uno per gli odontotecnici. C’è un’area cani e uno spazio per i cavalli, che potrebbe essere di svago anche per le donne; invece, è solo per il maschile. Donne e uomini sono tenuti separati e le donne sono troppo poche per organizzare corsi. Così sono doppiamente penalizzate. Ci sono solo corsi di alfabetizzazione, in pratica” dice la promotrice di Sbarre di Zucchero. Chi sono le donne in carcere? Sono le donne sinti che fanno tantissimi furtarelli, ma proprio perché sono tanti scontano in carcere la detenzione. E sono in carcere anche il tempo in custodia cautelare, prima dell’erogazione della pena, con il processo. Infatti, le roulotte non sono considerate domicilio, in quanto non hanno numero civico e quindi non abilitano agli arresti domiciliari. Molte di queste ragazze non sanno né leggere né scrivere, per cui serve un corso di alfabetizzazione, prima che di formazione. E poi sono le donne tossicodipendenti che rubano per procurarsi le sostanze e che spesso sono senza dimora. E senza famiglie che le sostengono. Cosa dice il rapporto Antigone - Le donne straniere sono il 4 per cento degli stranieri detenuti, quindi con una percentuale pari a quella dell’intero universo carcerario. E sono però il 30 per cento delle donne detenute, un dato in flessione rispetto al 2022. Le donne in carcere hanno un età media maggiore degli uomini: il 21 per cento ha tra i 50 e i 59 anni. il 14 per cento dei reati sono per droga, un altro 14 per cento contro la persona, il 28 per cento dei reati per cui le donne sono in carcere sono furti e rapine. Delle donne ristrette al momento della stesura del rapporto su 2392 donne, 1598 condannate. Le altre in attesa di giudizio. Anche finita la pena per le donne è più dura? “Il reinserimento comincia con la formazione, con la possibilità di lavorare, magari anche con la possibilità del regime di semilibertà, uscire di giorno per lavorare e tornare in carcere di notte. Uscire per lavorare permette di riprendere in mano i rapporti con la società. Esco che ho una rete e qualcosa da spendere. Ma se io resto sempre dentro, ed esco all’improvviso con le mie cose dentro un sacco della spazzatura, tutto è tremendamente difficile” risponde l’attivista di Sbarre di Zucchero. Solo l’8,6 per cento delle detenute svolge un lavoro commissionato dall’esterno, il 41 per cento all’interno della struttura, sono compiti a basso impegno e bassa retribuzione, segnala ancora il rapporto Antigone. Carlo Nordio: “Il modello Albania per costruire carceri. 7.000 posti in più in due anni” di Alessandro Sallusti Il Giornale, 8 marzo 2025 Il ministro della Giustizia: “Piccole strutture modulari sicure e confortevoli, facili e veloci da costruire e da controllare. Siamo già partiti a San Vito al Tagliamento con un’ex caserma”. La notizia della sentenza della Cassazione sul caso Diciotti che condanna l’Italia a risarcire gli immigrati rimasti, nell’agosto del 2018, nove giorni bloccati al largo delle coste italiani su disposizione dell’allora ministro Salvini, arriva nel bel mezzo di una chiacchierata con Carlo Nordio e il ministro della Giustizia non nasconde il suo stupore per questa ennesima sentenza dal sapore politico: “Sono perplesso. In Africa milioni di individui ambiscono a entrare in Italia in modo illegale. Se dovessimo risarcirli tutti le nostre finanze andrebbero in rovina”. Ministro, sulla sua testa c’è una mozione di sfiducia da parte dell’opposizione per la gestione del caso Almasri, il generale torturatore libico arrestato in Italia e subito rimpatriato, non peggiori la sua situazione… “Glielo dico sinceramente”. Prego... “Non solo non sono per nulla preoccupato, ma la cosa mi lascia totalmente indifferente”. Lo dirà anche in Parlamento il giorno della votazione su di lei? “Intanto lo dico a lei. In aula spiegherò puntualmente le mie ragioni, non ho proprio nulla di cui dovermi scusare o pentire”. Qualche anticipazione? “Il mio rispetto per le istituzioni me lo impedisce”. Lei giovedì ha partecipato all’incontro definito “storico” tra il premier Giorgia Meloni e i vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Da allora lei non ha detto una parola. Anche qui massimo riserbo? “Le posso dire che le posizioni del governo e dell’Anm sulla riforma della giustizia sono state chiarissime”. Direi inconciliabili… “Appunto, nell’incontro ognuno è rimasto sulle sue posizioni. La nostra è che il progetto di riforma costituzionale non viene assolutamente toccato”. Qualcuno invece ha parlato di vostre aperture... “Non confondiamo. Un conto è il progetto di riforma costituzionale che non viene assolutamente toccato, altro è discutere su una serie di punti che ci sono stati presentati e che in verità stanno a cuore anche a noi, tipo la carenza di organico sia di magistrati che di personale amministrativo, i problemi di edilizia carceraria, quello dei suicidi in carcere”. Tutte cose di cui si parla da tempo, ma solo parla... “Le annuncio che per la prima volta dalla fondazione della Repubblica, entro il 2026 colmeremo tutti i vuoti d’organico: abbiamo in corso cinque concorsi che andranno a colmare i 1500 posti vacanti”. Sulle carceri ci torneremo. Stiamo sulla riforma tanto contestata... “Sono più che fiducioso che andrà in porto senza intoppi. Su questo sia il governo che la maggioranza parlamentare sono granitici. Io spero entro l’estate, ma certamente entro la fine dell’anno l’iter sarà completato”. Sì, però poi si andrà al referendum... “A prescindere che è impensabile avere la maggioranza qualificata nelle due Camere necessaria essendo una riforma costituzionale per evitarlo, io sono assolutamente favorevole a sottoporre comunque una legge che riguarda una materia così delicata al giudizio degli italiani”. Saggio ma rischioso, soprattutto su materie così tecniche... “Non credo sia questo il caso. Primo perché essendo un referendum confermativo non serve il quorum dei votanti che quello sì avrebbe potuto essere un problema. Secondo perché la materia è soltanto apparentemente tecnica. In realtà si chiederà agli italiani se vogliono una magistratura più efficiente e trasparente nel suo governo e nelle sue dinamiche interne. Non mi sembra un quesito incomprensibile ai più”. I magistrati non staranno con le mani in mano, stanno già preparando una campagna referendaria agguerrita e come noto non godono di cattiva stampa... “Più che legittimo. Io ho sempre avuto forte perplessità sugli scioperi della magistratura da magistrato non ne ho mai fatti - non sulla sua libertà di parola. Quello che auspico è che il dibattito sia contenuto in termini civili e razionali. Gli slogan tipo si vuole mettere la mordacchia ai magistrati o una riforma punitiva non hanno alcuna aderenza alla realtà del testo della riforma. I processi alle intenzioni invece che ai fatti non sarebbe corretto, soprattutto da parte di magistrati che per mestiere devono attenersi agli atti”. Mi sembra una pia illusione... “Vedremo, mi limito a dire che meno astiosa sarà la campagna elettorale meno impattante e umiliante sarà la sconfitta di chi la perderà”. Intanto arrivano al pettine altri nodi che riguardano la giustizia, dalla riforma della prescrizione al tetto temporale alle intercettazioni... “Io posso parlare a nome del governo, non del Parlamento che sta discutendo di questi temi rispetto ai quali certo abbiamo dato il nostro contributo. Ovviamente so che queste riforme, compresa quella che riguarda la custodia preventiva, sono in dirittura di arrivo e la cosa mi fa piacere”. Certo la sua idea di togliere alle Procure il controllo diretto della polizia giudiziaria non sta contribuendo a rasserenare il clima... “Si tratta di una enorme bufala messa in giro da alcuni giornali che son peraltro recidivi nel diffondere notizie non vere. Non solo non ho mai pensato, e di conseguenza detto una cosa del genere, ma resto sorpreso e stupito come una associazione seria come l’Anm possa cadere in una trappola del genere: sarebbe bastato leggere il testo della riforma per vedere che non si tocca l’articolo 106, quello che stabilisce che la polizia giudiziaria risponde direttamente alla procura”. Intanto in Consiglio dei ministri proprio in queste ore varate un disegno di legge per introdurre il reato di femminicidio... “Non è tanto un problema di aggravamento di pene, che già sono alte, ma un segnale di attenzione anche culturale a questo fenomeno odioso e devastante”. Certo, ma l’omicidio è già punito... “Vero, ma noi abbiamo fatto un altro ragionamento”. Quale? “Che il femminicidio sta all’omicidio come il genocidio sta alla strage. Nel senso che il genocidio non colpisce a caso, vuole colpire una specie, una etnia, una categoria di esseri umani e lo stesso vale per il femminicidio che colpisce una donna in quanto tale. È un segnale di attenzione verso un soggetto debole che negli ultimi anni, aimè, ha avuto una serie di aggressioni che va al di là della statistica ordinaria degli omicidi”. Immagino lei sappia che il mondo liberale non vede con entusiasmo lo spacchettamento dei reati. Un omicidio è un omicidio... “Conosco queste perplessità, ma il diritto penale segue in realtà dovrebbe precedere quelli che sono i fenomeni nuovi di una società. Mentre alcuni reati diminuiscono e addirittura potrebbero non avere più senso, altri emergono. Pensiamo un po’ di anni fa ai reati relativi all’inquinamento, più di recente quelli alle frodi informatiche che hanno soppiantato le rapine in banca per il semplice motivo che in banca non c’è più il cash. Ma c’è di più”. Tipo? “Introducendo una fattispecie autonoma di reato si evitano tutte le tematiche connesse al gioco di attenuanti e aggravanti che invece ci sarebbero state se avessimo introdotto solo delle aggravanti specifiche”. Tutto chiaro, ma la moltiplicazione di reati porterà più giustizia? “I reati si possono anche sottrarre. Una volta era reato l’adulterio, poi è stato tolto. Lo stesso vale per la bestemmia. E comunque mi lasci dire che al di là dell’effetto giuridico c’è un segnale culturale e un effetto dissuasivo, deterrente. Prenda il caso del cosiddetto reato Rave party che abbiamo introdotto all’inizio del nostro mandato e che tante polemiche ha sollevato. Da allora non c’è stato bisogno di applicarlo perché i fenomeni illegali di quei raduni non si sono più verificati”. Torniamo al problema delle carceri. È un fatto: stanno scoppiando, situazione insostenibile e incivile... “È vero, ma mi faccia fare una premessa: nel nostro Paese, con i vincoli idrogeologici, culturali, artistici e paesaggistici che ci sono costruire carceri è cosa difficilissima. Non mancano né i soldi né la volontà, mancano gli spazi. Per questo abbiamo preso un’altra strada”. Quale? “Voi giornalisti lo avete chiamato il modello Albania: piccole strutture modulari sicure e confortevoli, facili e veloci da costruire e da controllare. L’altro giorno sono stato a San Vito al Tagliamento a inaugurare il cantiere di una di queste strutture che sorgerà al posto di una vecchia caserma rasa al suolo. Tra poco più di un anno potrà ospitare fino a trecento detenuti”. Obiettivo? “C’è un commissario straordinario incaricato di individuare le aree che ogni quindici giorni fa il punto con la presidenza del Consiglio. Pensiamo entro due o tre anni di aumentare la capacità ricettiva del sistema carcerario di settemila posti”. Il vero scopo della giustizia non è punire, ma sanare le ferite e ricostruire relazioni di Enrico Marignani* L’Unità, 8 marzo 2025 A due anni esatti dalla entrata in vigore della riforma Cartabia in materia penale, si rende necessario un bilancio, seppur sintetico, dei lavori in corso. Molto è stato fatto, ma molto è ancora da fare, anzi, potremmo dire che ciò che è stato fatto sono i preliminari alla messa a sistema della vera novità della riforma: la Giustizia di Comunità. L’istituzione di un albo nazionale di mediatori penali esperti, coloro che da almeno cinque anni praticano la mediazione penale nei centri di giustizia riparativa, è senza dubbio un primo importante passo. È infatti un riconoscimento esplicito del lavoro svolto in passato dai già menzionati centri e, secondo una interpretazione estensiva della riforma, potranno continuare a operare parallelamente a quelli di prossima apertura che il Ministero di Giustizia delegherà alle Corti di Appello territoriali. Ma la novità ancora più rilevante è la sentenza della Cassazione pubblicata il giorno di San Valentino del 2024, la n. 6595, con cui per la prima volta la Suprema Corte definisce in maniera esplicita la Giustizia Riparativa come “un servizio pubblico di cura delle relazioni tra persone, non diversamente da altri servizi di cura relazionale ormai diffusi in diversi settori della sanità e del sociale”. L’obiter dictum ha una portata molto più ampia di quanto si creda, perché porta con sé l’idea che la Giustizia non è solo la risposta al male con la inflizione di un altro male, la punizione appunto, ma si preoccupa anche di ristabilire il benessere con la cura della ferita causata dal reato. Per comprendere la portata rivoluzionaria della definizione di Giustizia data dalla Cassazione, è utile ripartire dalle considerazioni comuni secondo cui la giustizia è spesso rappresentata come una bilancia, un’immagine che evoca equilibrio e imparzialità. Ma per comprendere appieno la sua complessità e il suo potenziale introdotto dalla sentenza n. 6595/2024, possiamo immaginarla come un organismo vivo che respira con due polmoni: uno punitivo e l’altro relazionale. Il polmone punitivo è quello tradizionale, radicato nella ricerca della colpa e nell’applicazione di una pena proporzionata al reato commesso. Questo approccio si basa sul principio di deterrenza e retribuzione: chi viola la legge deve risponderne di fronte alla società, e la punizione serve sia a riparare simbolicamente l’ordine infranto, sia a scoraggiare futuri comportamenti illeciti. Il polmone relazionale, invece, si alimenta di un’altra visione della giustizia, quella riparativa. Qui, l’obiettivo non è solo individuare una colpa, ma favorire un’assunzione di responsabilità che coinvolga non solo il reo, ma anche la vittima e la comunità. La giustizia riparativa offre uno spazio di dialogo in cui le parti possono confrontarsi, riconoscere il danno subito e lavorare insieme per ripararlo, sia a livello materiale che emotivo. In questo processo, il focus si sposta dalla punizione alla cura e alla ricostruzione delle relazioni. Quest’ultima prospettiva è tuttavia possibile con la Giustizia di comunità, che si fonda su una società multietnica e trasversale, libera da pregiudizi di vincoli sociali, religiosi o di censo. I valori di riferimento della Giustizia di comunità sono l’ascolto, il non giudizio e la volontarietà della partecipazione alla vita comunitaria. Questo approccio promuove una visione della giustizia basata sul dialogo e la coesione sociale, dove ogni individuo è parte attiva di un processo volto a stabilire relazioni più solide e consapevoli. Oggi, i due polmoni della giustizia operano in modo complementare. Il sistema punitivo permane essenzialmente al fine di dare un senso di sicurezza e ordine, mentre quello relazionale inizia a trovare spazio come risposta alle limitazioni della giustizia tradizionale, soprattutto nei casi in cui il reato ha generato ferite profonde che la sola punizione non può sanare. Tuttavia, questa complementarietà rappresenta solo una fase transitoria. Con l’introduzione della Giustizia di comunità ci accingiamo a una evoluzione, oserei dire necessaria, della coscienza sociale, con cui riconoscere che il polmone relazionale non è solo un’aggiunta al sistema punitivo, ma una sua trasformazione più profonda. Infatti, nella giustizia riparativa è già implicito un senso di responsabilità e di riparazione che ingloba, in una forma più umana e inclusiva, il concetto di giustizia retributiva. Quando comprendiamo che il vero scopo della giustizia non è solo punire, ma anche prendersi cura e quindi ristabilire un nuovo equilibrio sociale fondato su un concetto di salute che si adegua continuamente al contingente, possiamo iniziare a immaginare un sistema giuridico che respira con un unico polmone: quello relazionale. Questa evoluzione richiederà tempo, coraggio e un profondo cambiamento culturale. Ma il percorso è già tracciato. E ogni passo verso una giustizia più riparativa è un passo verso una società più consapevole e coesa, capace di riconoscere che, nell’assunzione di responsabilità e nella ricostruzione delle relazioni, si trova la vera essenza della giustizia. *Presidente Unione Giuristi Cattolici Italiani Dietro gli attacchi alla Cassazione il pensiero del Governo sul referendum sulla giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 marzo 2025 Il successo del referendum confermativo che si terrà sulla riforma della magistratura non appare più così scontato. Da qui la strategia di delegittimazione della magistratura per alimentare la sfiducia nelle toghe in vista del referendum. È presto per parlare di paura, timore, preoccupazione. Un pensiero ha però cominciato a circolare nel governo, come confermano fonti autorevoli di Palazzo Chigi ma anche del ministero della Giustizia, e cioè che il successo del referendum confermativo che si terrà sulla riforma costituzionale della magistratura non è poi così scontato, come appariva fino a poco tempo fa. È in questo contesto che si colloca il duro attacco lanciato ieri dal governo e da numerosi esponenti della maggioranza nei confronti della corte di Cassazione, colpevole di aver condannato proprio l’esecutivo a risarcire un gruppo di migranti a cui, dal 16 al 25 agosto del 2018, fu impedito di sbarcare dalla nave Diciotti della Guardia costiera che li aveva soccorsi in mare. Lo scontro istituzionale come strategia per mobilitare l’opinione pubblica contro i mali della giustizia italiana. Con conseguenze paradossali. Come vedere la premier Meloni accusare le Sezioni unite civili della Cassazione di aver affermato un principio “opinabile”, alla luce della “giurisprudenza consolidata”, quando è compito proprio delle Sezioni unite fare giurisprudenza, cioè stabilire come le norme vanno correttamente interpretate. O ascoltare il Guardasigilli Nordio affermare che le “finanze andrebbero in rovina” se passasse il principio che i clandestini vanno risarciti (cosa che non ha nulla a che vedere con gli eventi oggetto della sentenza). Anche se resta impareggiabile la sguaiataggine di Salvini (ministro dell’Interno all’epoca dei fatti): “Pagassero i giudici”, ha detto, aggiungendo che “se di fronte allo splendido palazzo della Cassazione allestissero un bel campo rom e un bel centro profughi magari qualcuno cambierebbe idea”. Interventi che hanno prodotto la dura reazione della prima presidente della corte di Cassazione, Margherita Cassano (“Insulti inaccettabili che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo stato di diritto”), dell’Associazione nazionale magistrati (“Attacchi ingiustificati senza rispetto per la separazione dei poteri”) e pure dei togati al Consiglio superiore della magistratura. Non paga, la Lega ha anche replicato con una nota ufficiale alle parole della presidente Cassano. In un crescendo di delegittimazione dell’attività della magistratura che potrà pure servire ad alimentare la sfiducia nelle toghe in vista del referendum, ma che non sembra proprio giovare a un sano funzionamento del sistema paese. Il Cdm approva Ddl sul femminicidio, è aggravante punibile con ergastolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2025 Il testo del provvedimento aumenta anche le pene per maltrattamenti, minacce e revenge porn. “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575” del codice penale, che prevede una pena non inferiore a 21 anni. Lo si legge nel disegno di legge sull’introduzione del delitto di femminicidio approvato dal Consiglio dei ministri. Pene aumentano fino al 50% per maltrattamenti - “La pena è aumentata da un terzo alla metà se”, nel caso di maltrattamenti di familiari o conviventi, “il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Questa è un’altra delle novità introdotte dal disegno di legge approvato dal Cdm. Negli stessi casi, la pena è aumentata da un terzo a due terzi per quanto riguarda le minacce e il revenge porn. Attualmente i reati di maltrattamenti in famiglia sono puniti con la reclusione da tre a sette anni, pena che aumenta nel caso siano coinvolti minori, donne in stato di gravidanza o disabili. Pm obbligato a sentire vittima reati codice rosso - Nei casi di codice rosso l’audizione della persona offesa non è più delegabile alla polizia giudiziaria, ma sarà “obbligatoria” per il pubblico ministero. Un’altra norma che riguarda i magistrati è quella che, rafforzando gli oneri formativi, introduce l’obbligo per i magistrati di partecipare ad almeno uno specifico corso tra quelli organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, indipendentemente dalla appartenenza a gruppi o sezioni specializzate in materia e dalle funzioni svolte. Ampliato diritto vittima violenza a essere informata sul procedimento - Previste aggravanti e aumenti di pena per maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, violenza sessuale, atti persecutori (stalking) quando il reato è motivato da odio o discriminazione di genere. Sono alcune delle misure contenute nel ddl che introduce il reato di femminicidio. Nel testo viene ampliato il diritto della vittima a essere informata sul procedimento e sulla richiesta di patteggiamento dell’imputato. Viene inoltre introdotta una maggiore tutela delle vittime nei procedimenti per femminicidio, tentato femminicidio e altri reati di violenza di genere. L’articolo 2, per esempio, apporta alcune modifiche al codice di procedura penale: all’articolo 90-bis, comma 1, dopo la lettera d) è inserita la seguente: “d-bis) al diritto di essere avvisata, quando si procede per taluno dei delitti di cui all’articolo 444, comma 1-quater, della presentazione fuori udienza della richiesta di applicazione della pena di cui all’articolo 444 e della facoltà di presentare memorie e deduzioni in relazione alla richiesta medesima nonché a quella formulata in udienza ai sensi degli articoli 446, comma 2, primo periodo, e 554-ter, comma 2”. Se concessi benefici a condannato, obbligo comunicazione a vittime - Per i reati di femminicidio, violenza domestica e stalking sono previste misure cautelari più severe, con la possibilità di arresti domiciliari o custodia in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza. Previsto, inoltre, l’obbligo di comunicazione alle vittime o ai loro familiari “quando al condannato o all’internato sono applicate misure alternative alla detenzione o altri benefici analoghi che comportano l’uscita dall’istituto”. Bene ddl antiviolenza, avvocatura sempre al fianco delle donne - L’Organismo Congressuale Forense (OCF), rappresentante istituzionale dell’Avvocatura italiana, accoglie con favore il nuovo disegno di legge contro la violenza sulle donne, che introduce il reato autonomo di femminicidio e rafforza le misure di protezione per le vittime. “Questa riforma - dichiara Laura Massaro, responsabile del dipartimento Pari Opportunità dell’OCF - segna un avanzamento importante nella lotta alla violenza di genere, riconoscendo la peculiarità del femminicidio come fenomeno sociale e giuridico che merita un inquadramento specifico nel Codice penale. La tipizzazione di questo crimine garantisce una risposta più tempestiva ed efficace da parte della magistratura, ponendo la protezione delle vittime al centro del sistema giudiziario. Apprezziamo, inoltre, l’introduzione di nuove garanzie procedurali, come l’audizione obbligatoria da parte del Pubblico Ministero su richiesta della vittima, e il rafforzamento delle misure cautelari, tra cui l’aumento della distanza minima nei divieti di avvicinamento. Tali strumenti contribuiscono a migliorare la sicurezza delle donne e a prevenire episodi di recidiva”. Il femminicidio diventa reato e l’ergastolo è il vero “gol” di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 marzo 2025 La pena è ciò che conta di più. Roccella: con le leggi attuali quasi mai si arriva al carcere a vita per il bilanciamento delle attenuanti. Lo schieramento è quello delle grandi occasioni. Cinque ministri in fila (Roccella, Piantedosi, Calderone, Bernini e Casellati) e uno in collegamento da remoto (Nordio) - ma senza la premier Meloni - per celebrare l’8 marzo in stile giustizialista, cominciando dalla repressione (certa) in attesa dei diritti (enunciati). Suono di fanfare ed eccolo là, il nuovo reato che mette d’accordo tutti o quasi, introdotto nel codice penale con un disegno di legge varato in mezz’ora dal Consiglio dei ministri: il femminicidio. Punito con l’ergastolo. E Qui la pena è ciò che conta di più, come spiega bene la ministra della famiglia Eugenia Roccella (autrice del provvedimento insieme al Guardasigilli Nordio) quando dice che con le leggi attuali “all’ergastolo non si arriva quasi mai per il bilanciamento fra aggravanti e attenuanti”. Invece era proprio lì che si voleva arrivare. Perché il femminicidio, che “diventa un nuovo reato autonomo” punito con il carcere a vita, è una “novità dirompente, non solo giuridica ma anche sul piano culturale”, parola di tutto l’esecutivo. La premier Giorgia Meloni, attraverso una nota di Palazzo Chigi, parla di “passo avanti nell’azione di sistema” e di “sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga”. Dettagli però in conferenza stampa non emergono - Nordio surfa come non mai - anche se già dal pomeriggio gira una bozza che, assicurano fonti di via Arenula, ha subito modifiche ogni paio d’ore. Stando alla quale il femminicidio non sarebbe proprio un reato autonomo ma un’aggravante, inserita nel codice penale con l’articolo 577-bis che recita: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. In questo modo il reato di femminicidio assume una forma determinata, nel primo dei sette articoli che compongono il ddl governativo. Seguono altre aggravanti e aumenti di pena per maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, violenza sessuale, stalking, revenge porn e altri reati connessi al cosiddetto codice rosso, nel ddl che “è propedeutico a un Testo unico - spiega la ministra delle Riforme Casellati - che conterrà da una parte i diritti delle donne, affinché ne abbiano consapevolezza, e dall’altra tutte le forme di negazione di quei diritti e di violenza, fino al femminicidio”. Il Testo unico è atteso per l’inizio dell’estate. Ma ci sono altre novità. Nordio le annuncia come parti integranti della “svolta epocale”. Particolare attenzione è riservata alla vittima dei reati da codice rosso o ai parenti della donna uccisa: i pm hanno “l’obbligo” di ascoltarli “senza delegare la polizia giudiziaria, cosa che responsabilizza di più la magistratura”, sottolinea il ministro. Un altro aspetto, aggiunge, è “l’obbligo di sentire l’opinione della vittima quando si chiede un patteggiamento, anche se non è un parere vincolante”, o quando “si parla di liberazione o di attenuazione delle misure nei confronti del detenuto o per la modifica del trattamento penitenziario”. In sostanza, conclude Nordio, “la figura della vittima o dei parenti viene valorizzata perché diventa a tutti gli effetti protagonista della dialettica processuale”. I magistrati, poi, hanno “l’obbligo di partecipare ad almeno uno specifico corso” di formazione sui reati contro le donne. Il ministro degli interni Piantedosi aggiunge che con l’occasione si è intervenuti anche “limitando l’accesso ai benefici penitenziari per i reati di codice rosso” e invertendo “l’ordine sulla presunzione di adeguatezza delle misure cautelari applicate per i reati più gravi”, ossia nei casi in cui sussistano esigenze cautelari, si prevede prima la custodia in carcere. Secondo la bozza trapelata da Palazzo Chigi, si introduce pure un timing: “Anche nei casi di tentato femminicidio il procuratore può revocare l’assegnazione per la trattazione del procedimento se il pm non assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato”, salvo diverse esigenze d’inchiesta. E, con l’ultimo articolo del ddl, si introduce anche una “priorità di valutazione da parte della magistratura”, per usare le parole della deputata meloniana Augusta Montaruli: “Questo significherà - spiega - che, se una donna viene uccisa, dovrà essere ipotizzato come primo reato il femminicidio”. Il provvedimento, come prevedibile, trova molti plausi, anche nell’opposizione: per le parlamentari dem della Bicamerale femminicidio (che non è stata coinvolta nella stesura della legge), il ddl “pare andare nella direzione da noi molte volte invocata e potrebbe essere un utile passo avanti”. Anche se, sottolinea il Pd, occorre affiancare alla repressione azioni per la prevenzione, la cultura, l’educazione affettiva e le politiche del lavoro. Più dura la Cgil: “Le donne vogliono diritti da vive”. Femminicidi, lotte vere e leggi demagogiche di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 marzo 2025 I dati del Servizio Analisi Criminale, riferiti a gennaio 2025, segnalano una diminuzione dei femminicidi. È doveroso riconoscere che le cose stanno cambiando in senso positivo: la lotta contro il femminicidio e la violenza di genere è possibile, grazie a una maggiore sensibilizzazione e a strumenti di prevenzione. Il Servizio Analisi Criminale del ministero dell’Interno ha svolto una analisi dedicata agli omicidi volontari commessi nei confronti delle donne, confrontando i dati del primo mese del 2025 con quelli dello stesso periodo dell’anno precedente. La base statistica è ristretta, ma, pur con questi limiti, consente di delineare una tendenza alla riduzione. Gli omicidi volontari in generale scendono da 27 a 20, quelli con vittime femminili passano da 9 a 3, i femminicidi commessi da partner o ex partner si dimezzano, da 4 a 2. Naturalmente anche un solo omicidio è intollerabile, ma la diminuzione del fenomeno non può essere trascurata, quando si tratta di assumere decisioni politiche in merito. In particolare il consiglio dei ministri, che ha varato nuovi provvedimenti in materia dei femminicidi, dovrebbe ragionare più sui dati di fatto che sulla, pur giusta e ragionevole, campagna di opinione su questo argomento. La tendenziale riduzione di questi crimini odiosi è dovuta probabilmente a una maggiore sensibilizzazione, a strumenti di protezione cui possono ricorrere le donne che si sentono in pericolo, nell’attività di centri di sostegno e delle forze dell’ordine. È ragionevole essere preoccupati, ma è altrettanto doveroso riconoscere che qualcosa sta cambiando in senso positivo. Non si tratta solo di portare su un piano realistico la dimensione del fenomeno, ma di individuare quali siano i processi che hanno contribuito a limitarlo in modo da intervenire per rafforzarli e se necessario finanziarli in modo adeguato. La prevenzione del femminicidio e della violenza contro le donne è possibile, sta dando risultati e va studiata. È estendendo la prevenzione che si possono raggiungere obiettivi più soddisfacenti, mentre l’inasprimento della repressione, peraltro assai robusta, o la creazione di uno specifico reato di femminicidio che è stata decisa può dare qualche soddisfazione mediatica, ma cambia di poco o nulla la situazione reale delle donne. Ddl femminicidi, le opposizioni: “Serve più attenzione all’educazione affettiva” di Lucia Ori Il Domani, 8 marzo 2025 Il decreto legge che introduce il reato di femminicidio: la nuova fattispecie da un lato risolve la controversia su cosa sia nei fatti un femminicidio, ma lo strumento non convince le opposizioni, concordi sul fatto che non basta la misura punitiva ma sia necessario anche prevenire la violenza con una migliore prevenzione. Alla vigilia della Giornata internazionale della donna, è stato approvato in Consiglio dei ministri un testo che modifica il Codice penale introducendo la fattispecie del nuovo reato di femminicidio. “Noi abbiamo fatto già una legge all’inizio del nostro mandato con strumenti importanti, dai braccialetti che si sono moltiplicati, alla distanza, dall’allontanamento all’arresto in flagranza differita, ma vediamo che il numero dei femminicidi ancora non cala”, ha detto la ministra per le Pari opportunità Eugenia Roccella. “E allora abbiamo introdotto, anche in vista dell’8 marzo, alcune modifiche significative e abbiamo inserito il reato di femminicidio per rimarcare l’assoluta specificità del femminicidio che dipende da questioni strutturali nella società e quindi va isolato come reato con una fattispecie specifica, proprio per far capire la diversità di questo problema”. Secondo il testo, il nuovo reato punirebbe “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. La controversia - Si tratta di una modifica che potrebbe avere una portata importante sulla giurisprudenza italiana: Il nuovo articolo 577 bis permetterebbe di mettere fine al controverso dibattito che ha riguardato il termine femminicidio, prima definito come “l’omicidio di una donna in quanto tale”, ma che non aveva mai trovato una definizione normativa specifica. Nell’attuale Codice penale sono previste aggravanti specifiche per l’omicidio di una donna solamente se il responsabile è legato alla vittima dal matrimonio o da un rapporto di parentela: il nuovo articolo reato non terrebbe più conto di vincoli di vario tipo tra vittima e omicida, ma andrebbe a considerare il fatto che l’omicidio sia stato commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti. Nel testo vengono inserite aggravanti specifiche che aumentano la pena da un terzo ai due terzi per diverse fattispecie di reato, in particolare per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti contro i familiari e i conviventi, di interruzione non consensuale di gravidanza, atti persecutori e di diffusione non consensuale di materiale video o foto a contenuto sessualmente esplicito. Si dice soddisfatta Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio. “L’introduzione del reato di femminicidio, considerata la sua assoluta specificità, irrobustire la formazione dei magistrati, soprattutto degli operatori del diritto e il potenziamento delle misure cautelari, sono scelte che si muovono sugli stessi binari percorsi dalla Commissione”. Le reazioni delle opposizioni - Arriva invece scetticismo dalle opposizioni. Le parlamentari del Partito democratico D’Elia, Ferrari, Forattini, Ghio, Sensi e Valente sottolineano: “Non possiamo non rilevare però che il governo agisce con misure penali che intervengono a violenza o femminicidio oramai agiti, continuando ad ignorare l’azione preventiva dell’educazione”. “Femminicidio e violenza di genere sono fenomeni culturali, legati alla sperequazione di potere tra uomo e donna e a modelli sociali e di relazione segnati da un patriarcato che ancora persiste. Dobbiamo essere tutti consapevoli che la battaglia contro il Femminicidio e la violenza contro le donne si combatte prima di tutto sul terreno del cambiamento socioculturale e che non può certo bastare il diritto penale”, continua la nota. Anche Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra vorrebbe più attenzione alla prevenzione. “La vita delle donne si salva prevenendo l’atto di violenza, prima ancora che reprimendo il gesto”. E ancora, la questione della formazione: “Senza l’educazione affettiva e sentimentale nelle scuole, che dia forma al rispetto del corpo femminile, fino a fare del suo oltraggio un tabù, è un percorso ineludibile senza il quale ogni approccio securitario sarà insufficiente, così come sono essenziali la formazione di forze dell’ordine, magistratura, operatori e operatrici sociali e il finanziamento dei centri antiviolenza”. Critica anche la reazione della Cgil: “Le donne vogliono diritti da vive”. Per la segretaria confederale, Lara Ghiglione, “non ci si occupa mai dell’elemento culturale, del superamento della visione arcaica e patriarcale che fa da substrato alla violenza. E non si parla mai di lavoro stabile e retribuito per le donne, non si affronta il nodo della condizione delle donne nel lavoro e nella società, con tutte le disparità e le discriminazioni ormai tristemente note. È questa condizione di marginalità che espone alla violenza”. Per il sindacato, l’ombrello protettivo del governo per le donne va esteso ulteriormente. “Per l’esecutivo evidentemente le donne sono visibili e degne di attenzione solo se vittime, madri o mogli. E in queste due ultime vesti, unicamente come destinatarie di bonus di dubbia incisività o titolari del lavoro di cura. Di misure strutturali a sostegno della genitorialità neanche l’ombra, così come di provvedimenti per migliorare la qualità del lavoro, combattere discriminazioni e precarietà”. Inchiesta su Paragon, il sospetto di una rete clandestina di spioni di Irene Famà La Stampa, 8 marzo 2025 Giornalisti e attivisti monitorati con il software: si muove anche Roma. Palermo. Napoli. E ora sul caso Paragon si muove anche la procura di Roma. Dopo la denuncia del sindacato dei giornalisti finita sul tavolo del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, a piazzale Clodio è stato aperto un fascicolo per fare chiarezza sulle intercettazioni abusive. E alla polizia postale sono stati affidati accertamenti per risalire a chi, da almeno un anno, ha utilizzato il software di produzione israeliana per spiare giornalisti e attivisti. La faccenda ha i contorni di una spy story internazionale. I servizi segreti italiano assicurano: “Non siamo stati noi”. E Palazzo Chigi scende in campo per avvalorare la posizione dell’intelligence. Stessa versione è stata fornita dalle forze di polizia. Tutte. Nessuna esclusa. E il Guardasigilli Carlo Nordio ha eliminato anche un ipotetico ruolo delle procure. Ma allora chi è stato? E perché? Tra le ipotesi al vaglio dei magistrati italiani che indagano sulla vicenda c’è anche il possibile ruolo di un’agenzia esterna. Privata. Una sorta di contractor. Perché è vero che Paragon Solutions, la ditta israeliana che produce lo spyware Graphite, vende solo ai governi. Ma è altrettanto vero che l’utilizzo improprio di strumenti destinati alle forze di polizia da parte di agenzie private non sarebbe una novità. C’è poi la legge italiana che vieta alle procure di utilizzare i dati raccolti da un server fuori dal territorio nazionale. Insomma: secondo fonti ben informate, qualcuno potrebbe aver commissionato il dossieraggio ad un’agenzia esterna. Così da ottenere i dati richiesti eludendo i rigidi vincoli previsti per legge. I contractor, va da sè, non hanno bisogno di garantire l’affidabilità della legalità. C’è poi la questione del contratto. A inizio febbraio, WhatsApp annuncia che lo spyware di Paragon è stato utilizzato per spiare 90 utenti europei, tra cui sette italiani. La notizia fa il giro del mondo. Il Guardian scrive che Paragon Solutions ha stracciato il contratto con l’Italia. Violazioni contrattuali, si vocifera. E gli addetti ai lavori si interrogano: “Violazione contrattuale sui target o su chi è abilitato ad utilizzarlo?”. Netta la smentita pubblica del governo. “Nessuno ha rescisso in questi giorni alcun contratto nei confronti dell’intelligence”, dice il sottosegretario di Palazzo Chigi con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano. “Il contratto c’è ed è in essere”. Quarantotto ore dopo viene comunicata la sospensione in attesa delle verifiche avviate dal Copasir, il comitato parlamentare che controlla l’operato dell’intelligence, oltre che dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Illegittimo il divieto di permessi premio (per due anni) per chi ha commesso reati in carcere Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2025 Per la Corte costituzionale, sentenza n. 24 depositata ieri, il magistrato di sorveglianza deve sempre poter valutare il rilievo del fatto. È incostituzionale la preclusione biennale alla concessione di permessi premio a un detenuto che sia stato imputato o condannato per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 24, depositata oggi, con la quale è stata ritenuta fondata una questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto. La Consulta ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, co. 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). La vicenda - Un detenuto, in carcere dal 2017, aveva chiesto di essere ammesso a un permesso premio. La sua richiesta era però inammissibile, perché l’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario vietava, per due anni, di concedere permessi premio a detenuti che siano stati condannati o siano imputati per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Nel caso concreto, il richiedente era stato rinviato a giudizio per avere tentato, un anno prima, di introdurre droga nel carcere per un altro detenuto. Il magistrato di sorveglianza ha tuttavia rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo la preclusione stabilita dalla legge incompatibile, tra l’altro, con la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. La motivazione - La Consulta ha anzitutto osservato che un’analoga questione era stata ritenuta non fondata in una sentenza del 1997, che peraltro aveva invitato il legislatore a modificare la norma per renderla più conforme alla funzione rieducativa della pena. Rilevato che il tendenziale rispetto dei precedenti costituisce una condizione essenziale dell’autorevolezza delle proprie decisioni, la Corte ha tuttavia rammentato come ci possano essere “ragioni cogenti” che rendano non più sostenibili le decisioni precedentemente adottate, ad esempio quando esse non siano più coerenti con il successivo sviluppo della giurisprudenza costituzionale o di quella delle Corti europee. In questo caso, una preclusione che si fondi sulla sola circostanza che il richiedente sia “imputato” per un reato appare, oggi, incompatibile con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il diritto dell’Unione europea e con la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale in materia. Gli effetti della presunzione di non colpevolezza non si esauriscono, come ancora si riteneva alcuni decenni fa, all’interno del procedimento penale relativo alla responsabilità per il reato addebitato all’imputato, ma implicano un generale divieto di considerare l’imputato colpevole del fatto anche in qualsiasi altro procedimento giudiziario, sino a che il reato non sia definitivamente accertato. Conseguentemente, una norma che vieta in via assoluta al magistrato di sorveglianza di concedere un permesso premio, per il solo fatto che il richiedente sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero, “agli effetti pratici (…) vincola il giudice a ‘presumere colpevolè l’imputato”. Una disposizione così concepita, ha concluso la Corte, “sottrae al magistrato di sorveglianza ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto (…), con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza”. La Corte ha inoltre affermato che l’automatismo preclusivo stabilito dalla norma è ormai divenuto incompatibile con i principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, in base ai quali il giudice della sorveglianza deve essere sempre libero di compiere una valutazione individualizzata sui progressi effettivamente compiuti dal condannato nel suo percorso penitenziario, nonché sulla sua residua pericolosità sociale. Anche nell’ipotesi, dunque, in cui il richiedente sia stato condannato in via definitiva per un reato commesso durante l’esecuzione della pena, il rispetto del principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della Costituzione esige che il magistrato di sorveglianza resti sempre “libero di valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa”. Legge Nordio, la Cassazione rinvia alla Consulta l’abrogazione del reato di abuso di ufficio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2025 La cancellazione del reato non è compensata dall’esistenza o dall’adozione di strumenti compensativi dell’abolitio criminis lasciando una “zona franca” nell’ambito dell’anticorruzione in violazione della Convenzione Onu. La Cassazione penale ha autonomamente rivalutato la sussistenza di profili di incostituzionalità dell’articolo 1 della legge 112/2024 in vigore dal 25 agosto scorso nota come “Riforma Nordio” dove abroga il reato di abuso d’ufficio. La Suprema Corte ha così promosso incidente costituzionale al fine di decidere il ricorso con cui la difesa chiedeva l’annullamento della condanna ex articolo 323 del Codice penale appena abrogato in applicazione del principio del favor rei che non consente la sanzione penale per un reato abolito anche se il fatto è stato commesso quando la norma incriminatrice era vigente. Ovviamente la Corte di cassazione - con l’ordinanza n. 9442/2025 - non discute sulla piena rilevanza dell’abolitio criminis anche in ordine a condanne per fatti avvenuti precedentemente. Però la stessa ordinanza ha rilevato i profili di illegttimità di tale abrogazione per la violazione degli obblighi sovranazionali da parte dello Stato italiano, in particolare della Convenzione Onu contro la corruzione adottata a Merida nel 2003 e ratificata in Italia con la legge 116/2003. L’eventuale declaratoria di illegittimità della norma abrogativa non fa che riespandere la norma incriminatrice, mai validamente abrogata, senza che la Consulta incorra nel rischio di prevedere la criminalizzazione di una condotta invadendo la sfera di potere affidata al Legislatore dall’ordinamento nazionale. Secondo la Cassazione penale la scelta del Legislatore ben può essere sottoposta al vaglio costituzionale per giudicare le norme di legge in base a diverse tipologie di violazione: contrasto con disposizioni e principi recati dalla Costituzione, esercizio illegittimo del potere legislativo da parte dei consigli regionali, del Governo privo di delega o del Parlamento oppure per violazione di obblighi internazionali. Tale ultima ipotesi riguarda il caso sottoposto alla Consulta. In particolare, la Cassazione incentra il rinvio ai giudici costituzionali sul contrasto dell’articolo 1 della legge Nordio con l’articolo 19 della Convenzione anticorruzione in quanto tale disposizione internazionale descrive - tra le astratte fattispecie penali da adottare da parte degli Stati prodromiche o indicative di fatti corruttivi - proprio il contenuto del previgente articolo 323 del Codice penale italiano. Ma la complessa valutazione sui profili di illegittimità non si limita a rilevare la violazione della specifica disposizione convenzionale, ma soprattutto degli impegni assunti con la ratifica e dei principi ispiratori di un’efficace azione di contrasto alla corruzione. Infatti, la Convenzione fissa degli standard della lotta contro il fenomeno criminale che si consuma nell’ambito della pubblica amministrazione in danno dell’interesse della collettività con la conseguenza che pur non essendo vietata la depenalizzazione di alcune condotte impone che l’abrogatio crimiins sia compensata da altri meccanismi di tutela dei privati e di repressione delle condotte illecite tenute da pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni. La Cassazione di fatto esclude che si sia realizzata tale compensazione attraverso altri strumenti quali il sistema disciplinare interno alla pubblica amministrazione lasciando di fatto una pericolosa lacuna nella lotta contro la corruzione. La Suprema Corte rimette quindi la questione di costituzionalità alla Consulta pur riconoscendo la validità dell’intento del Legislatore di evitare i fenomeni della paralisi della burocrazia amministrativa e della discrepanza tra il numero di iscrizioni di reato per abuso d’ufficio rispetto a quello delle decisioni di merito assunte. Reggio Calabria. In carcere con un tumore al quarto stadio, Lucano (Avs): “Perché non è stato curato?” di Simona Musco Il Dubbio, 8 marzo 2025 L’eurodeputato in visita al carcere di Arghillà di Reggio Calabria ha chiesto chiarimenti sulla situazione di Habashy Rashed Hassan Arafa, da tutti conosciuto come Ahmed, ora a Riace per la terapia del dolore. “Come è possibile che un uomo arrivi al quarto stadio di un tumore e venga scarcerato solo a dieci giorni dalla fine della sua pena?”. È con questa domanda che Mimmo Lucano, europarlamentare di Avs, ha sollevato il caso di Habashy Rashed Hassan Arafa - per tutti Ahmed - un detenuto egiziano accusato di essere uno scafista, affetto da un tumore al pancreas al quarto stadio. Habashy - la cui storia è stata raccontata in esclusiva sul Dubbio -, è stato arrestato nel 2021, quando è arrivato in Calabria su una bagnarola insieme ad altri profughi. Ahmed è scappato dall’Egitto e in tasca porta un passaporto. E viene individuato come colui che ha condotto la nave fino in Italia, uno scafista, un trafficante di esseri umani. Sebbene lui abbia sempre provato a dire, nell’unica lingua che conosce - l’arabo - di essere solo un passeggero come gli altri, uno che cercava la vita dall’altro lato del Mediterraneo. In carcere Ahmed si è ammalato. Ma proprio le difficoltà di comunicazione hanno reso impossibile rendere chiaro il suo enorme malessere. Così, quando è stato scoperto il suo tumore al pancreas era ormai troppo tardi: a pochi giorni dal fine pena, ha ricevuto un’altra condanna definitiva, una sentenza di morte. Lucano, questa mattina, si è recato nel carcere di Arghillà a Reggio Calabria insieme al suo avvocato Andrea Daqua, chiedendo spiegazioni sul perché Ahmed, pur lamentandosi per il suo stato di salute, non abbia ricevuto assistenza tempestiva. “Ahmed mi ha raccontato di aver detto più volte di non sentirsi bene, ma non parlando l’italiano, nessuno lo ha capito”, ha spiegato Lucano, visibilmente sconvolto dalla situazione. “Mi hanno detto che quest’uomo non si lamentava mai, ma la verità è che la sua malattia è stata ignorata troppo a lungo”. Le sue condizioni sono peggiorate drasticamente a gennaio, ma, come riportano i documenti del carcere, solo quando la sua situazione è diventata gravissima, è stato trasferito in ospedale. “Le condizioni del detenuto sono precipitate”, hanno scritto il direttore della Casa circondariale e il coordinatore sanitario. “Il dirigente medico, stando a quanto ci hanno raccontato oggi, avrebbe insistito tante volte per farlo ricoverare - ha sottolineato Lucano -. Non si capisce perché non lo abbiano fatto ricoverare prima”. “Ahmed aveva tutti i criteri per chiedere asilo politico, ma è stato arrestato - spiega ancora -. Non sa parlare italiano, ma solo l’arabo, e ha un carattere particolare: quasi non vuole difendersi, non reagisce energicamente alle ingiustizie. Non ha parenti in Italia, poteva contare solo sul suo avvocato d’ufficio”. Il carcere di Arghillà, spiega ancora l’eurodeputato, “è degradato e sporco. Ma il tumore al pancreas non è una malattia infettiva, non compare da un giorno all’altro e per caso. Com’è stato possibile ignorare il suo stato per così tanto tempo?”. L’assenza di un interprete per l’arabo ha reso ancora più farraginoso il tutto. “Il dirigente medico del carcere - aggiunge il sindaco di Riace - ha ammesso di non sapere come si sia evoluta la malattia, se fosse malato già all’arrivo o meno. Non c’è certezza su questo. Nonostante le sue lamentele, solo dopo un’ecografia, sono emersi problemi molto gravi e poi una tac ha confermato la presenza di un tumore. Nonostante tutto, non è stato ricoverato, ma è rimasto in carcere. Il medico si è scontrato con la direzione proprio per questo motivo, chiedendo il suo ricovero - aggiunge -. Ce lo hanno confermato anche le vicedirettrici”. Quando Ahmed è arrivato a Riace, per la prima volta ha incontrato qualcuno in grado di parlare la sua lingua. “Mi ha detto: “Finalmente posso parlare”. Ha bisogno non solo di medicine e flebo, ma anche di presenza umana. Qui c’è un contatto diretto, c’è solidarietà tra rifugiati. Ahmed è felice di essere qui. Noi, come Italia, abbiamo rivendichiamo il martirio di Giulio Regeni in Egitto, ma Ahmed ha subito in Italia una grave violazione dei diritti umani. Rischiava di rimanere invisibile: gli abbiamo almeno restituito la dignità. Chi pagherà questa ingiustizia? È quello che chiedo oggi io per lui, che ha cinque figli in Egitto, e per la sua famiglia. Porterò questa questione in Europa”. Roma. Catarci: “Sempre più giovani in carcere, bisogna incentivare misure alternative” di Natascia Grbic fanpage.it, 8 marzo 2025 Il responsabile dell’Ufficio Giubileo delle Persone e Partecipazione di Roma Capitale Andrea Catarci ha tenuto oggi una conferenza stampa davanti il carcere minorile di Casal del Marmo: “La detenzione deve essere l’estrema ratio, vanno incentivati i percorsi di inserimento sociale e lavorativo”. Settanta ragazzi in un posto che può racchiuderne massimo cinquantasette. La maggior parte sono minori, il resto giovani adulti, il 60% stranieri. Una decina sono ragazze. Nell’Istituto penale minorile di Casal del Marmo i detenuti aumentano di anno un anno: adesso sono settanta, a ottobre erano sessantadue. Il trend in crescita non è chiaramente un dato positivo: non solo perché il sovraffollamento è un problema reale, che condiziona in negativo la vita delle persone recluse, in questo caso giovanissime. Ma perché vuol dire che si ricorre in modo più frequente alla carcerazione invece di prediligere misure alternative. E, nel caso di minori, non si tratta di una misura che impatta positivamente sulla loro vita. “Una volta gli Istituti penali minorili italiani erano il fiore all’occhiello dell’Europa, perché erano caratterizzati da poca detenzione e tanti percorsi esterni, con pene alternative finalizzate al reinserimento sociale e lavorativo. Adesso stiamo diventando il fanalino di coda: lasciando stare la Norvegia, dove praticamente le carceri minorili non esistono, se prendiamo a esempio la Spagna e la Germania vediamo che fanno molti più percorsi esterni rispetto a noi, che usiamo molto di più la detenzione”, spiega a Fanpage.it Andrea Catarci, responsabile dell’Ufficio Giubileo delle Persone e Partecipazione di Roma Capitale. Catarci, firmatario insieme a Luigi Manconi, Ilaria Cucchi, Ilaria Salis e molti altri, dell’appello ‘Chiudiamo le carceri minorili’, ha tenuto oggi una conferenza stampa davanti l’istituto di Casal Del Marmo. “Negli altri paesi le strutture sono inoltre molto più piccole, ospitano a malapena una decina di persone e in questo modo si favoriscono i percorsi di educazione. Da noi invece abbiamo istituti molto grandi, che scimmiottano le carceri per adulti. Ribadiamo che la detenzione deve essere l’estrema ratio, vanno invece incentivati i percorsi di inserimento sociale e lavorativo e le pene alternative. Oltre a promuovere e facilitare il lavoro delle associazioni che operano nell’istituto e svolgono un lavoro molto importante per questi ragazzi. Bisogna affidarsi a queste realtà esterne, soprattutto se si parla anche di carenza di personale. Parlando con il direttore di Casal del Marmo Giuseppe Chiodo mi sono detto disponibile a inserire l’istituto all’interno delle attività che stiamo organizzando per il Giubileo delle persone detenute: le iniziative non devono essere solo nelle carceri per adulti, ma soprattutto questo Giubileo deve essere per gli ultimi, dare un impulso al rapporto tra il dentro e il fuori, e prefigurare una nuova speranza”. Ciò che si vuole scongiurare è l’applicazione della misura che il ministro della Giustizia Claudio Nordio ha previsto come ‘risolutiva’ per la questione del sovraffollamento dell’Istituto penale minorile di Bologna. Che prefigura lo spostamento di un gruppo di detenuti minorenni nel carcere per adulti. “Nel Lazio c’è un sovraffollamento che oscilla intorno al 170% - continua Catarci - Figuriamoci se quel decreto venisse applicato anche qui cosa potrebbe succedere. Non solo: ci vogliamo chiedere a cosa andranno incontro dei minori in un carcere per adulti? C’è il rischio che siano maltrattati e sottoposti a soprusi da parte dei detenuti più grandi. Che i giovanissimi non debbano stare con gli adulti mi pare evidenti: la strada non è quella proposta dal ministro Nordio. I giovani non vanno trasferiti, ma va data importanza e priorità alle misure alternative”. Bologna. Presto i primi giovani alla Dozza: “Ma non provengono dal Pratello” Il Resto del Carlino, 8 marzo 2025 L’assessora Madrid: “Tra i cinquanta e i settanta, però sono di altri istituti. Servono più risorse”. “C’è un colpo di scena: nessun giovane detenuto del Pratello verrà trasferito alla Dozza. Saranno tutti provenienti da altri minorili d’Italia”. L’ha annunciato ieri al question time l’assessora al Welfare Matilde Madrid, tornando sul discusso trasferimento di una cinquantina (ma potrebbero, altra novità, essere di più, pare fino a 70) di ragazzi provenienti da istituti minorili. Il Pratello, dunque, a sua volta pesantemente sovraffollato, anche nei prossimi mesi “vedrà le attuali dimensioni di capienza che noi conosciamo. E all’incontro della prossima settimana avremo l’arduo compito di capire come potremo mantenere intatta la qualità educativa al Pratello e allo stesso tempo attuare un progetto educativo per un numero di almeno cinquanta ragazzi nella sezione della Dozza”, dice Madrid. Per l’assessore della giunta Lepore, a fronte di questo bisogno di educatori superiore al previsto, “è chiaro che servono risorse aggiuntive. È nostra intenzione interloquire quanto prima, certamente prima di giovedì, per capire cosa il ministero può fare per il Comune di Bologna e la Regione Emilia-Romagna. Abbiamo bisogno che la collaborazione sia effettiva per il bene dei giovani che andranno alla Dozza”. I giovani arriveranno a scaglioni a partire dalla fine della prossima settimana, con un primo gruppo che dovrebbe essere di una quindicina. Il progetto di trasferire i giovani detenuti alla Dozza, anche in via temporanea, aveva scatenato nelle scorse settimane accese polemiche, con la contrarietà netta dei sindacati di polizia penitenziaria. Don Domenico Cambareri, cappellano del carcere minorile del Pratello, aveva anche lanciato una raccolta fondi: “Dicono che questo alloggiamento alla Dozza sarà dismesso entro l’estate, ci credete? Confesso di avere poca fede”, aveva detto. Vercelli. “I detenuti devono diventare parte integrante della società” di Robertino Giardina La Sesia, 8 marzo 2025 La visita dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” al carcere cittadino. “Il legame tra il direttore della Casa circondariale e il sindaco è la visione di un luogo che deve essere intimamente connesso con la città. Il carcere vive una felice contraddizione perché, ha una struttura che ha più di quarant’anni, intaccata dallo scorrere del tempo, quindi obsoleta. Ma nello stesso tempo ha un governo diretto dal direttore Rempiccia che ha voluto ridurre il danno insito nella struttura. Un direttore che, ha saputo fare il suo lavoro interpretandolo come missione e non come impiego, e che cerca di rendere quel luogo abitabile e vivibile. L’anno scorso in carcere pioveva, c’erano incrostazioni, oggi questi problemi non ci sono più, nel carcere non piove. Non è poco per chi deve abitare in quel luogo, deve starci o lavorarci. Ci sono i detenuti ma anche i detenenti. Bisogna avere cura dei diritti dei detenuti ma anche degli operatori che lavorano dentro queste strutture. Ma c’è un altro aspetto innovativo, che riguarda il coinvolgimento dei detenuti che hanno contribuito alla realizzazione delle opere. Anche l’ala che ospita la struttura sanitaria è stata oggetto di cambiamenti che rendono più tranquilla ed accessibile la gestione della sezione”: così Sergio D’Elia nel corso della conferenza stampa che si è svolta giorno 6 marzo, nella sede Gioin di Vercelli e che ha avuto come oggetto la visita alla Casa circondariale di una rappresentanza dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino, composta dalla presidente Rita Bernardini, dal segretario Sergio d’Elia e dalla tesoriera Elisabetta, accompagnata dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e da alcuni cittadini vercellesi. In conferenza stampa sono intervenuti oltre ai rappresentanti dell’associazione, il sindaco Roberto Scheda, il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e quello comunale Pietro Oddo con l’onorevole Emanuele Pozzolo. Il sindaco Roberto Scheda ha messo in chiaro la necessità di una solida collaborazione tra l’Amministrazione cittadina e la struttura carceraria: “Sono onorato della vostra presenza e mi fa piacere essere qui insieme voi che avete svolto questa attività. Con Bruno Mellano, ho un lungo rapporto di amicizia caratterizzata da una fattiva collaborazione. Così i rapporti con Pietro Oddo e con la dottoressa Pitaro sono finalizzati a garantire ai detenuti di essere parte integrante della società, anche al di fuori delle mura penitenziarie. L’Amministrazione comunale sarà sempre parte attiva, insieme a tutto il personale e lavorerà con voi perché vogliamo una detenzione che sia umanizzata e a misura dell’integrazione lavorativa”. L’on. Pozzolo nel corso della conferenza stampa ha espresso alcune considerazioni: “Abbiamo visto gli spazi dei detenuti, un grande lavoro di ristrutturazione, ed ho ascoltato le parole di speranza pronunciate dal direttore, sono convinto che è un messaggio che anche la politica dovrebbe avere come stella polare. Il carcere è una città nella città, è una comunità. In quanto tale non è lo spazio degli esclusi, poiché sarebbe una sconfitta per tutti”. Poi la presa di posizione politica personale in merito all’amnistia e all’indulto; un punto di vista, ha tenuto a precisare, nettamente lontano dal concetto di “svuota carceri”: “La politica, al di là delle fazioni politiche, degli schieramenti di destra e sinistra, dovrebbe trovare un surplus di coraggio affinché si torni a ragionare di amnistia e indulto, sia in vista dell’anno giubilare, sia perché in un momento di rinnovamento della giustizia italiana è giusto fare alcune riflessioni”. A seguito di queste dichiarazioni è intervenuta Rita Bernardini, per ricordare alcuni passaggi storici fatti dal partito radicale e dal suo leader Marco Pannella nel portare avanti alcune tematiche quali le pene alternative al carcere ed il potenziamento dei servizi collegati al reinserimento sociale dei detenuti: “Che cosa ci unisce: il rispetto del diritto dei fondamentali diritti umani così come il rispetto delle leggi e della nostra Costituzione. Nella nostra Carta non è mai citato il carcere, ma si parla di sanzioni, al plurale. Ecco, queste non necessariamente devono riguardare solo il carcere ma esistono le misure alternative che, in alcuni casi, sono più efficaci e non creano il rischio di recidiva. Con la detenzione in carcere, il rischio di recidiva è alto ed è legato alle difficoltà del reinserimento che dovrebbe iniziare già con attività che partono dalle strutture carcerarie”. Poi la questione economica, che in verità rileva un limite nella politica: “Il bilancio dello Stato prevede 500 milioni per le pene alternative e 3 miliardi e 600 milioni per il funzionamento del settore giustizia. Di questo, il 40% è destinato al mantenimento, al funzionamento del sistema carcerario”. Quante risorse si potrebbero destinare alle pene alternative, abbassando la quota delle spese per il sistema carcerario? Uno spunto di riflessione che, nelle conclusioni ha evidenziato come il dibattito sull’amnistia e l’indulto debba necessariamente includere le tematiche del reinserimento sociale, del rischio recidiva e soprattutto della possibilità di applicare le pene alternative. “Abbiamo visto un carcere in grande fermento e operativo”, così la visione di Bruno Mellano che ha poi proseguito con la descrizione della visita: “Le persone andavano in giro con scale, tute sporche di intonaco, tutte impegnate a portare avanti il lavoro con passione, impegno e con la volontà di far vedere che si può cambiare. In questa fase si stanno mettendo delle risorse: 250 milioni di euro sono a disposizione dell’amministrazione penitenziaria per lavori di ristrutturazione straordinaria. Sicuramente è una fase in cui la buona progettazione, insieme agli interventi di recupero e ripristino dei serramenti e delle finestre cambia il clima, ma anche la qualità della vita all’interno dell’istituto. In questa fase dobbiamo puntare l’attenzione sull’area sanitaria che è di competenza della regione Piemonte, di cui sono Garante, e che necessita di un intervento. Quei posti dove adesso c’è l’infermeria meritano di essere ampliati sia nello spazio e nei servizi, sia nell’implementazione dei macchinari. Questo permetterebbe alla direzione e ai medici di fare all’interno della struttura degli interventi che, a volte anche banali, oggi si è costretti a fare all’esterno, mobilitando le scorte di agenti”. A margine della conferenza stampa, Tommaso di Lauro, presidente del Meic di Vercelli, ha espresso le sue impressioni: “È stata un’immersione in un mare di umanità. Ringrazio l’associazione “Nessuno tocchi Caino” per aver coinvolto il Meic in questa esperienza di incontro con i detenuti, nonché tutto il personale che quotidianamente dedica le proprie competenze a questa comunità, a partire dal lodevole direttore del carcere, dottor Giovanni Rempiccia. La prolungata mancanza di manutenzione della struttura aveva reso inaccettabili molti spazi del carcere, che ora vengono riqualificati grazie all’intervento degli stessi detenuti. Un plauso, quindi, per questo cambio di rotta, che auspichiamo possa incentivare ulteriormente la rieducazione e formazione dei detenuti, elementi che qualificano questo contesto come un vero e proprio banco di prova della nostra civiltà democratica. Da questa visita emerge un’altra idea di giustizia, moderna, quasi rivoluzionaria: di fronte al male, è necessario attivare progetti di bene”. Verona. “Imbandita”: l’8 marzo delle detenute di Angiola Petronio Corriere di Verona, 8 marzo 2025 I due anni del laboratorio di Montorio dove si producono conserve e marmellate. Un 8 marzo che non è “festa”, ma consapevolezza. È quello che ricorda anche i due anni - che scadono giusto oggi - di “Imbandita - La tavola del riscatto”, il progetto della cooperativa sociale Panta Rei che dà lavoro ad alcune detenute della casa circondariale di Montorio in un laboratorio interno dove vengono prodotte marmellate, conserve e confetture con eccedenze alimentari. E la creazione per la giornata della donna è la marmellata pompelmo e basilico. I frutti. Quelli, “eccedenti”, della terra. E i frutti di un progetto. Declinati a un 8 marzo che non è “festa”, ma consapevolezza. “Essere donna significa custodire la fragilità con carattere, preservare il proprio orgoglio con determinazione”, scelta come “intenzione” in un percorso partito al maschile e coniugato, due anni fa, al femminile in quel luogo che è la casa circondariale di Montorio. È la propaggine di “Alfresco - Il fuori dentro”, quel ramo di progetto dedicato alle donne detenute e chiamato “Imbandita - La tavola del riscatto”. Programma della cooperativa sociale Panta Rei in collaborazione con la direzione del carcere, Fondazione San Zeno e Fondazione Esodo. Un laboratorio di trasformazione alimentare, interno al carcere, che produce confetture, conserve e marmellate. Quella di pompelmo con basilico, la creazione per questo 8 marzo. “Il desiderio di riscatto è l’ingrediente segreto che le donne di Imbandita aggiungono ad ogni ricetta”, viene spiegato. Quel “desiderio” che Simonetta - che “è da molto che faccio avanti e indietro da qua dentro” - racconta come “un modo di evadere dalla cella e dai pensieri con il lavoro. Io, che qui ci sono finita anche perché un impiego non sono mai riuscita a trovarlo”. Adesso ha il suo primo contratto di lavoro, Simonetta. “E penso che questa volta la mia vita fuori potrà davvero essere diversa, per me e per i miei figli”. In un carcere asfissiato dal sovraffollamento di quasi cento detenuti, sugli scudi della cronaca per i detenuti “famosi”, come quel Chico Forti che segue un corso di pizzaiolo, dove appena un sesto dei reclusi ha un lavoro -che quasi sempre è “domestico”, vale a dire interno, “mentre ne servirebbe di più anche all’esterno”, dice l’avvocato Simone Giuseppe Bergamini della Camera Penale di Verona - “Imbandita” e “Al fresco” si raccontano anche con i numeri. Dodici, lo scorso anno, i tirocini nella sezione femminile, otto in quella maschile. Tre gli assunti nella sezione maschile e una nella sezione femminile. Due gli articolo 21, vale a dire le persone che possono svolgere lavoro all’esterno, anche se in regime di detenzione. Cinque le assunzioni all’esterno, tra cui due donne e 5 i tirocinanti, usciti dal carcere, di cui 4 donne. Sono stati ricordati ieri, quei numeri. In un incontro per ricordare i due anni di “Imbandita” al quale hanno partecipato le assessore Luisa Ceni, Alessia Rotta e Stefania Zivelonghi. Con Maria Grazia Bregoli, ritornata a dirigere pro-tempore quel carcere dove, con il garante dei detenuti don Carlo Vinco, aveva dato la spinta propulsiva al progetto. “Galeotto” un vasetto dei prodotti di Panta Rei assaggiato in un ristorante. Quella cooperativa che ha tra i suoi scopi l’inserimento al lavoro di persone svantaggiate. “Quelli che realizziamo qui a Montorio - racconta la presidente Elena Brigo - sono prodotti pieni di voglia di futuro. Nel caso del carcere ogni ora lavorata è un’ora di libertà recuperata, perché il lavoro qui dentro è anche spendere del tempo di senso”. Marmellate, conserve, confetture che fanno il paio con i prodotti da forno e di pasticceria - i “Pasta d’uomo” - della sezione maschile che vengono venduti nel negozio di via Macello 31 e che si possono trovare a villa Buri, nel bar di Calzedonia, online. Con quelle probabilità di allargare le possibilità lavorative legate al progetto che, le parole della direttrice Bregoli, “dipendono dalla risposta dell’esterno. Noi siamo pronti ad aumentare i posti”. “Risposta” che sta nell’acquisto di quei prodotti, quelli di una casa circondariale per cui - ha spiegato l’assessora Ceni “sono in essere altri progetti lavorativi e di benessere, anche per chi qui dentro ci lavora. Questa è la casa circondariale di Verona. Una parte della città di cui tutti noi ci dobbiamo occupare”. Torino. Un’opportunità con le associazioni AiCS per chi sconta la pena fuori dal carcere aicstorino.it, 8 marzo 2025 Nella sola provincia di Torino alla fine del 2024 c’erano quasi tremila persone che scontavano una pena all’esterno del carcere con le cosiddette misure alternative (perlopiù, in questo novero, detenzioni domiciliari e affidamenti in prova al servizio sociale). Un numero veramente elevato di individui, uomini e donne, che stanno per reinserirsi nella società e tornare liberi. La domanda d’obbligo è: se non hanno un lavoro per mantenere sé stessi e, magari, le proprie famiglie, come possono reinserirsi in modo dignitoso e onesto nella società? A questo problema si è dedicata l’organizzazione di volontariato La goccia di Lube con la quale il 7 febbraio scorso AiCS Torino ha sottoscritto un protocollo d’intesa per favorire l’incontro tra i bisogni di personale degli enti aderenti all’associazione e le domande di lavoro di persone in misura alternativa al carcere seguite dalla Odv torinese. La goccia di Lube prende in carico persone selezionate dagli assistenti sociali dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Torino e dall’Ufficio servizio sociale minorenni che si occupa dei giovani 18-25/enni che hanno avuto problemi con la giustizia da ragazzi. I volontari dell’associazione, a coppie, seguono e accompagnano il cammino di reinserimento delle persone a loro affidate anche nel momento in cui queste trovano un’opportunità di lavoro. La Odv assicura anche il collegamento con i Centri per l’impiego, con l’agenzia per il Lavoro Adecco e con gli enti pubblici e privati che sostengono tirocini per agevolare associazioni, cooperative e imprese nel loro impegno generoso a offrire una chance lavorativa alle persone che scontano la pena in misura alternativa. AiCS Torino fa appello alle proprie associate perché nell’esigenza di trovare personale per le proprie attività prevedano la disponibilità a valutare candidature di persone seguite da La goccia di Lube. Il tutto in un quadro condiviso di sostegno alle persone che devono reinserirsi nella società coronando così il proprio bene, ma anche quello della comunità tutta, pure in termini di sicurezza. Il superamento dei rischi di recidiva passa anche attraverso iniziative sociali come questa che vede AiCS Torino e La goccia di Lube alleati. L’associazione torinese chiede agli enti aderenti AiCS che si renderanno disponibili di poter organizzare incontri conoscitivi tra le parti. Basterà segnalare il proprio interesse agli uffici di AiCS o scrivere o agli operatori de La goccia di Lube per fissare appuntamenti di reciproca conoscenza. Scrivere a moraglio.lagocciadilube@gmail.com o a lessona.lagocciadilube@gmail.com Santa Maria Capua Vetere (Ce). Una biblioteca in carcere intitolata a 17enne che si ribellò alla mafia e a una poliziotta di Raffaele Sardo La Repubblica, 8 marzo 2025 È stata intitolata a due donne la biblioteca del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Rita Atria e Imma Cavagnuolo. La prima, una ragazza siciliana che a 17 anni, contro la volontà della madre, si ribellò alla mafia e decise di collaborare con lo Stato, ma che poi si suicidò. La seconda, assistente capo di polizia penitenziaria, deceduta improvvisamente a 45 anni, il 1 giugno 2023, mentre era a Roma per preparare la cerimonia del 2 giugno per la festa della Repubblica. “La biblioteca l’ho immaginata come un luogo di libertà all’interno di un luogo di restrizione” dice Donatella Rotundo, la direttrice del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, davanti a una foltissima platea di autorità, operatori volontari, di studenti e tirocinanti del dipartimento di Giurisprudenza della “Vanvitelli”, arrivati nel reparto Volturno, al centro dell’istituto di pena, per l’inaugurazione della nuova struttura. È un locale ampio, accogliente e negli scaffali ci sono già alcune migliaia di libri donato per lo più da privati. “Deve essere un luogo che dovrà dare la possibilità ai detenuti di entrare per immaginare un cambiamento”, afferma la direttrice. Ad ascoltare ci sono anche i detenuti che hanno contribuito a rendere funzionante la sala e a cui, nel corso della cerimonia, verrà consegnato un encomio da parte del responsabile della struttura, il funzionario Enrico Capitelli. “L’abbiamo voluta intitolare a due donne - spiega ancora la direttrice Rotundo - -che hanno cambiato la loro vita proprio sulla base di scelte importanti che hanno fatto. E la cultura può dare forza e può essere lo strumento di primo piano per le scelte più importanti della nostra vita”. Alla cerimonia, Marco Puglia, il magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Gli interventi di Lucia Castellano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale; Carlo Venditti, professore del dipartimento di Giurisprudenza della “Vanvitelli”; la giornalista Chiara Sparacio. Presenti alla anche Giannino Durante, il papà di Annalisa, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004, e Filomena Lamberti la donna di Cava dei Tirreni che il 28 maggio del 2012 fu sfregiata al volto con dell’acido dal marito che aveva deciso di lasciare. Prima del taglio del nastro, il ricordo di Rita Atria e Imma Cavagnuolo. “Rita aveva stabilito un rapporto di fiducia con il giudice Paolo Borsellino - ha ricordato Nadia Furnari, fondatrice dell’associazione Rita Atria - Ma una settimana dopo la strage di Via d’Amelio, Rita si lanciò dal settimo piano di un appartamento a Roma dove viveva in anonimato. Non c’è nessuna prova che quello di Rita fu un suicidio - ha sostenuto Nadia Furnari - e da tre anni, insieme con Annamaria, la sorella di Rita, stiamo cercando di far riaprire il caso e continueremo a lottare per questo”. A ricordare Rita Atria anche il questore di Caserta, Andrea Grassi: “Da giovane commissario di polizia, nel 1992 - ha raccontato - fui aggregato da Bologna a Palermo, dopo la strage di Capaci. Lì ho conosciuto il dottor Paolo Borsellino. L’ho incontrato in due occasioni. La prima volta quando entrai nella sua stanza timidamente e disse, non solo a me, che c’era forse la necessità di avviare indagini su un possibile testimone di giustizia. La seconda volta l’ho incontrato il 19 luglio del 92, ma non l’ho riconosciuto perché il suo corpo era straziato. Solo qualche giorno dopo capii che forse la persona della quale lui parlava era Rita Atria, una brava ragazza che sognava un paese migliore. Oggi se siamo qui a ricordarla lo dobbiamo anche a lei” L’altra donna a cui è stata intitolata la biblioteca, Immacolata “Imma” Cavagnuolo, è stata ricordata, alla presenza del marito e del figlio, da Alberta Rengone, comandante delle guardie penitenziarie di Santa Maria Capua Vetere: “Imma, assistente capo di polizia penitenziaria, se n’è andata mentre era in servizio a Roma per preparare la cerimonia del 2 giugno. Per il suo fisico veniva schierata come alfiere con il compito più importante, cioè quello di portare la bandiera del corpo. Noi oggi siamo qui perché l’amministrazione penitenziaria, i tuoi colleghi non ti hanno dimenticato” La cerimonia si è chiusa con le parole dell’Arcivescovo di Capua, Pietro Lagnese: “C’è un grande desiderio di comunità, di crescita umana e spirituale. Gli auguri che faccio a tutti è davvero che ognuno di noi possa desiderare ogni giorno di portare il meglio di sé. Ai nostri fratelli detenuti che saranno qui, dico di non perdere mai la speranza e che questa biblioteca possa aiutarvi a sognare un mondo più bello”. Milano. Teatro in carcere: al Beccaria va in scena Alice Augmented di Cristina Lacava iodonna.it, 8 marzo 2025 Al Teatro PuntozeroBeccaria, la prima sala teatrale in Europa all’interno di un carcere minorile, è in scena Alice Augmented, una versione vorticosa, sorprendente e innovativa di Alice nel Paese delle Meraviglie, che utilizza realtà virtuale e aumentata, restando però fedele al testo. Una nuova scommessa vinta dalla compagnia che da 30 anni si impegna per i giovani detenuti Ci sono il Cappellaio Matto, il Bianconiglio, la Lepre Marzolina, la Regina di cuori. E c’è Alice, la bambina che precipita in un pozzo, atterra in una stanza con una porta troppo piccola per poterci passare e quando ci riesce si trova in un mondo incantato, fiabesco. C’è la storia, ci sono i personaggi ma c’è anche molto di più in Alice Augmented, in scena fino al 25 marzo al Teatro PuntozeroBeccaria, il primo teatro in Europa all’interno di un carcere minorile. Lo spettacolo è divertente (si ride molto), veloce, con tanti colpi di scena, musica, balletti. Utilizza una tecnologia assolutamente all’avanguardia, con effetti speciali di grande impatto, grazie al prezioso aiuto di Fondazione Tim. Soprattutto, Alice Augmented è il punto di arrivo di un lavoro iniziato un anno fa, al quale hanno contribuito 57 ragazzi, sia dell’area penale interna, sia di quella esterna del carcere. Sul palco e alla regia ce ne sono 8, quelli cioè che grazie ai permessi possono uscire dalla sezione detentiva. Partecipano anche delle ragazze, alcune inserite in comunità non detentive. Insieme ai giovani ristretti, ci sono gli studenti del corso di Laurea in Lingue dell’università Statale di Milano, che ogni anno partecipano ai seminari teatrali del Beccaria, e alcuni si fermano, come volontari. Unici professionisti i due ballerini (si alterneranno a coppie), che arrivano dalla Fondazione Bolle. Il teatro si apre sulla strada. All’interno, un’altra porta conduce al carcere. Il teatro al carcere Beccaria: un’opportunità per il futuro “Tutti quelli che partecipano sono regolarmente assunti dalla compagnia Puntozero Beccaria, che opera da 30 anni all’interno del carcere, alcuni anche a tempo indeterminato. “Per loro è un’occasione di lavoro, gli resta nel curriculum”, dice il regista, Giuseppe Scutellà. “Acquisiscono competenze che gli saranno utili, e soprattutto una mentalità al lavoro che non avevano, anche perché sono molto giovani. Molti di loro dopo anni vengono ancora a trovarci. Alcuni sono rimasti nel settore, ci sono fotografi, tecnici nei grandi teatri e nelle accademie. Per le Olimpiadi di Milano-Cortina lo Studio Balich farà lavorare i nostri ragazzi per le luci, le scenografie, il live streaming”. La compagnia aveva già messo in scena Alice nel paese delle meraviglie. La nuova versione è però molto diversa: “Tutto è nato un anno fa, con un finanziamento di Fondazione Tim per rinnovare l’apparato tecnologico della scena”, continua Scutellà. “Stavamo già lavorando sulle tecnologie digitali, che per i ragazzi sono affascinanti e utili per professioni come i macchinisti teatrali, i sound e i light designer. Così abbiamo utilizzato le tecnologie multimediali, il videomapping e la realtà aumentata per arricchire il nostro spettacolo. Quasi tutti gli oggetti di scena sono realizzati con la stampante 3D, mentre i costumi sono riciclati da sartorie teatrali come quella di Pia Rame e del Piccolo Teatro”. Torino. Tra le mura del carcere va in scena l’opera di Verdi. Un progetto che unisce arte e dolore di Mario Leone Il Foglio, 8 marzo 2025 “Rigoletto” alle Vallette di Torino con le scene allestite dai detenuti (attesi in futuro al Regio): la bellezza della musica e del melodramma lega insieme teatro e riabilitazione. Che cosa significa pagare per degli errori commessi? Il carcere può essere luogo di vera riabilitazione umana? Sono tante le domande che si susseguono quando si parla di reato, pena, colpa, ma anche di libertà. Argomento delicatissimo, perché ci sono delle vittime, ci sono dei colpevoli, ma soprattutto ci sono uomini: persone a cui la vita, a un certo punto, si è drammaticamente complicata. Nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino - più nota come “Vallette” - sta per inaugurarsi un progetto in cui la bellezza incontra il dolore e l’abbandono. È la bellezza della musica e del melodramma a unire teatro e carcere della stessa città. Per la prima volta, il Teatro Regio porta l’opera all’interno della casa circondariale: il Rigoletto di Giuseppe Verdi, in una versione curata da Vittorio Sabadin. Negli stessi giorni, il capolavoro verdiano è in scena al Regio, con la direzione di Nicola Luisotti e la regia di Leo Muscato. Quello proposto alle Vallette vede protagonisti il Regio Ensemble: Janusz Nosek (Rigoletto), Albina Tonkikh (Gilda), Daniel Umbelino (il duca di Mantova), Siphokazi Molteno (Maddalena), Tyler Zimmerman (Sparafucile e il Conte di Monterone). Nel cast, c’è anche l’attrice Chiara Buratti. “Quello che mi ha impressionato - dice Cristiano Sandri, direttore artistico del Regio - è l’immediato coinvolgimento di tutte le persone che ho interpellato. Tutti hanno aderito prontamente, dimostrando un fuoco e una passione contagiosa.” Al centro del progetto c’è la persona - prima di tutto, i detenuti. Alcuni hanno costruito le scenografie, realizzando praticabili, sgabelli, pedane e oggetti di scena in legno, e dipingendo i periacti. Dunque, non si tratta solo di uno spettacolo, ma anche di un’esperienza che unisce formazione e partecipazione attiva. “Questa iniziativa ha un valore davvero speciale - dice Stefano Lo Russo, sindaco di Torino e presidente della Fondazione Teatro Regio - perché è l’occasione per ribadire che il carcere deve avere un ruolo di educazione e riabilitazione, oltre che di semplice punizione, mettendo in primo piano il rispetto e l’importanza delle persone, che non devono mai essere perdute di vista”. Lo spettacolo va in scena nel teatro del carcere e, per il momento, non sarà aperto al pubblico esterno, ma dalle parti del Regio si guarda già al futuro. “È un progetto che vogliamo rendere stabile - continua Sandri - proponendo ogni anno almeno un’opera e coinvolgendo sempre più detenuti e il pubblico esterno. Non è semplice, perché ci sono numerosi passaggi burocratici che devono essere considerati”. Intanto si va in scena e, tra le mura del carcere, cresce l’attesa. “A opera conclusa, vogliamo raccogliere i pareri dei detenuti - dice Sandri -. Tutti stanno lavorando strenuamente e non vedono l’ora di assistere allo spettacolo”. Il futuro è tutto da scrivere. Sandri, però, ha ancora un desiderio: “Il mio sogno è quello di poter ospitare regolarmente i detenuti al Regio. È tra le missioni di un vero teatro. Fare cultura significa anche questo”. Suor Emma Zordan: in un libro le voci dei detenuti sulla paura del dopo di Roberta Barbi vaticannews.va, 8 marzo 2025 In occasione del Giubileo del mondo del volontariato, la religiosa, volontaria da anni nell’istituto romano di Rebibbia, torna a far parlare i ristretti con il libro “Noi fuori - la voce dei detenuti di Rebibbia”, edito da Il Levante, in cui affrontano la paura che accompagna spesso il momento del fine pena. “Noi fuori siamo considerati scarto. Noi fuori siamo e saremo sempre nessuno”. È un doloroso grido d’aiuto quello che emerge dalle pagine della nuova fatica di suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo, da anni tra i detenuti del carcere romano di Rebibbia dove organizza anche laboratori di scrittura. Un grido sottolineato dalla voce sottile e pacata di questo fiore d’acciaio che è suor Emma, che in occasione del Giubileo del mondo del volontariato torna a far parlare i ristretti con il libro “Noi fuori - la voce dei detenuti di Rebibbia” in cui affrontano la paura che accompagna spesso il momento del fine pena. Il volume ha la prefazione del vescovo di Latina, monsignor Mariano Crociata, ed è stato pubblicato dalle edizioni Il Levante. Il dramma dei suicidi - Il tema suor Emma e i suoi ragazzi l’avevano già affrontato nel 2019 in un altro libro dall’eloquente titolo “Paura della libertà”, ma i dati di cronaca sul drammatico aumento, negli ultimi anni, dei suicidi in carcere che si concentrano proprio nei due momenti dell’ingresso in istituto ma anche del fine pena, li ha portati a riflettere nuovamente sull’argomento: “Rispetto al passato oggi rileviamo che per i detenuti in procinto di uscire spesso il fuori è peggio del dentro - racconta la religiosa ai media vaticani - il mondo spesso è disumano, la società è intrisa di pregiudizi nei confronti di chi sbaglia perciò non perdona, non si fida, non riconosce il cambiamento neppure quando c’è, respinge. Perciò il momento della scarcerazione diventa un incubo”. “Prima, invece, alla paura di uscire si mescolavano sentimenti quali il desiderio di essere liberi, di godere degli affetti, della famiglia, degli amici - rileva suor Emma - oggi prevale la paura di sbagliare al punto che si preferisce restare in galera. E infatti molto spesso ci si torna”. L’importanza di famiglia e lavoro - Soprattutto per i detenuti che escono dopo aver scontato condanne molto lunghe, quel “fuori” è particolarmente difficile anche perché troveranno la società molto cambiata: “Alcuni sanno già che saranno soli e questa è una nuova condanna, anche peggiore della precedente - afferma la volontaria - può fare la differenza un serio accompagnamento nei momenti difficili vissuti dentro, come la perdita di una persona cara, una notizia indesiderata o una malattia incurabile”. È allora che la famiglia diventa fondamentale, come pure il lavoro: “I familiari devono essere bravi ad accogliere il tormento che queste persone provano a causa del reato che hanno commesso - osserva suor Emma - il lavoro come lo studio, poi, è l’unico ponte reale tra l’interno e l’esterno: basterebbe applicare davvero l’Articolo 27 della nostra Costituzione, invece le esperienze di lavoro in carcere sono poche e a rotazione, i corsi professionalizzanti ancora meno”. Paura e speranza - Ed eccole, le due parole che sintetizzano questo caleidoscopio delle sensazioni che provano i ristretti davanti alla prospettiva di uscire: “La speranza, proprio quella che Papa Francesco vuole esaltare nel corso di questo Anno Santo, è la molla che tiene in vita i detenuti - conclude la religiosa - speranza di accoglienza contro paura della recidiva. Le parole del Santo Padre, che esiste una speranza che non delude mai, conforta molto i detenuti, e il mio sforzo da volontaria resta quello di far sentire loro la gioia del perdono del Signore”. Teatro e Polizia penitenziaria. Un incontro disintossicante di Luca Rondi altreconomia.it, 8 marzo 2025 Nel carcere di Vigevano (Pavia) si è tenuto un laboratorio teatrale che ha coinvolto gli agenti ed è stato curato dal regista e drammaturgo Mimmo Sorrentino. Un’esperienza originale per scuotere un ambiente in guerra. Mimmo Sorrentino, drammaturgo e docente di teatro partecipato presso la scuola Paolo Grassi di Milano, non nasconde l’indignazione per le violenze all’Istituto penale minorile “Beccaria” di Milano che definisce come il “simbolo del fallimento del carcere” ricordando però che “i luoghi ai margini raccontano anche gli angoli bui della nostra società”. “Ci indigniamo giustamente per quelle torture, ma siamo sicuri che non ci riguardino? - spiega - Quanti ‘Beccaria’ ci sono, fuori dalle mura? Non è sovrapponibile alle fosse comuni a Gaza?”. Il 18 giugno all’auditorium San Dionigi di Vigevano (PV), Sorrentino presenta i frutti di un laboratorio che sta svolgendo con un numeroso gruppo di agenti di polizia penitenziaria che quella sera porteranno in scena un testo che fotografa, dal loro punto di vista, la quotidianità nella casa di reclusione della città. Un’esperienza unica in Italia, che ha messo il regista in una posizione privilegiata per osservare il mondo degli agenti. Sorrentino, che cosa ha capito lavorando a stretto contatto con gli agenti? MS Gli agenti sentono la necessità di parole nuove che aiutino loro a capire dove sono. Lo racconto nel testo dello spettacolo: come fai a lavorare con un detenuto che ingoia le pile della radio o le penne? Che cosa gli dici? Gli fai rapporto? Sei impotente. Gli agenti sanno che gli manca una formazione adeguata. Faccio un esempio: mi è capitato più volte di assistere a diverbi con le detenute, in cui le agenti urlano usando il falsetto, cioè un tono di voce da maestrine che produce l’effetto opposto sulle detenute, che le ritengono messe peggio di loro. E le agenti si sentono sole, frustrate, fuori luogo e si arrabbiano ancora di più. Avrebbero bisogno di qualcuno che spieghi loro come ci si fa ascoltare. Altrimenti si produce una spirale di violenza che fa più danni alle agenti che alle detenute. In un contesto in cui chi ha la divisa, spesso, è più solo rispetto a chi è ristretto in carcere. Addirittura? MS Il detenuto, se la famiglia non lo abbandona, continua a sentirsi sostenuto da qualcuno. Viceversa se i suoi cari non gli stanno accanto, qualcuno riesce a sopportare il dolore, altri no. E lo vediamo nei suicidi. Per gli agenti è diverso. Appartengono al mondo della piccola borghesia che è rimasta ferma a quarant’anni fa alla famiglia del Mulino Bianco, dei viaggi nelle località esotiche. Ma quei modelli, oltre a essere patologici, sono totalmente desueti, astorici. Inoltre la competitività che caratterizza la nostra società li fa sentire sempre inadatti, inadeguati. E nel carcere cercano la soluzione al loro vuoto provando avanzamenti di carriera che finiscono per stritolarli maggiormente: più responsabilità e pochi soldi in più. Durante lo spettacolo uno degli agenti protagonisti, Cesare, dice che in carcere ci si ritrova come in una “perenne guerra civile”. Tra chi è questa guerra? MS In carcere paradossalmente non è la libertà a mancare (quella emotiva è impossibile da limitare) ma la pace, perché c’è una guerra perenne senza confini netti e separati: i nemici stanno all’interno dei vari gruppi, sia tra i detenuti sia tra gli agenti, e la possibilità di accordarsi è pressoché impossibile. E questo genera sofferenza, dolore, incomprensione, frustrazione e non dialogo. In carcere agenti e detenuti si trovano su un terreno bellico. Frutto di scelte del legislatore. Ci spieghi meglio... MS Il carcere dovrebbe educare le persone alla legalità e alla democrazia, ma di fatto è costruito sui pilastri di un sistema totalitario. Per intenderci: nelle democrazie e negli Stati liberali è permesso tutto ciò che non è proibito mentre in carcere è il contrario. Come nelle dittature è permesso solo ciò che è stabilito dalla legge. Di conseguenza, per ogni singola cosa, il detenuto deve fare una domandina e sperare che la sua richiesta venga accolta. Così è educato a comportarsi come in un sistema totalitario per poi dover vivere quando esce in un sistema democratico. E gli agenti mi hanno fatto notare che è un lavoro impossibile garantire che le persone facciano soltanto ciò che è permesso dalla legge e che quindi in carcere bisogna usare il “buon senso”. Che però è come il coraggio manzoniano, non te lo puoi dare se non ce l’hai. Così diventa molto alta la probabilità che le persone, brave o sadiche, inserite in un sistema con una organizzazione che fa confusione nei ruoli, negli obiettivi, nelle strategie, diventino aguzzine. Quando ci sono deformazioni, guasti così evidenti ed estesi, la responsabilità è dell’architetto del sistema. Il legislatore: il mandante, potremmo dire, delle torture di cui sono responsabili le persone che lavorano in carcere. Qual è la sua idea sui fatti del Beccaria? MS Da quel che ho letto in quel carcere mancava un direttore, quindi una guida e il comandante sembra essere implicato nei fatti criminali contestati. Che cosa ci si attende che accada in un carcere senza alcuna guida? Che detenuti e agenti pranzino insieme? Che si riconoscano reciprocamente? Forse nelle favole. Gli indagati, tra l’altro, sembrano siano agenti molto giovani: si sono ritrovati con una divisa addosso a fronteggiarsi con ragazzi di qualche anno in meno. Questo non dovrebbe succedere: i minori hanno bisogno di padri e non di fratelli maggiori con il compito di contenerli. E aggiungo che è molto peggio di Santa Maria Capua Vetere perché a Milano la violenza era sistematica. Il sistema carcere è al capolinea? MS È palesemente guasto e lo dimostrano i suicidi. Da gennaio a metà maggio sono stati 34 tra i detenuti e cinque tra gli agenti. Come può essere “rieducativa”, o semplicemente restare aperta, una struttura che spinge più di dieci persone al giorno, considerando anche quelli che vengono salvati, a togliersi la vita? Francesca, una delle protagoniste dello spettacolo, esprime in scena la sua sofferenza nel non essere vista al pari dei suoi colleghi. Che cosa racconta il suo personaggio? MS Fa emergere la dimensione patriarcale del suo mondo. Lei è un’agente di polizia penitenziaria che si sposa con un collega. Il marito per la cerimonia indossa l’abito di ordinanza, lei il vestito bianco. Il suo ruolo è di moglie, madre e non di professionista. Questa storia getta una luce sul ruolo della donna nella nostra società. Qual è il sentimento più ricorrente tra gli agenti? MS La solitudine, la rabbia, l’invisibilità, cioè il mancato riconoscimento sociale del loro ruolo. Del resto quando si ha un problema per strada non si chiamano loro. Se si leggono i giornali locali, però, risulta evidente che fanno molti più interventi d’urgenza e rischiosi dei carabinieri e dei poliziotti. Ma questo non si sa. E poi ce l’hanno con le istituzioni. Perché? MS Per scrivere il testo ho visto alcune cerimonie di giuramento dei nuovi agenti. In una di queste il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha sostanzialmente detto che loro li sosterranno nel ripristino della legalità. Insomma, quasi come se paradossalmente suggerisse che la violenza va bene e che l’amministrazione sarà dalla loro parte. Ma gli agenti sanno benissimo che non è così. Che vengono usati in modo strumentale: sanno che da una parte c’è chi li vede solo come torturatori, dall’altra chi li governa e li usa per fini elettorali. Per questo, secondo me, provano molta più rabbia verso le istituzioni rispetto ai detenuti. Attenzione: magari ti dicono che le botte i detenuti se le sono meritate. Ma il rapporto detenuto agente è chiaro. È quello con chi li governa che è falso e per questo malato. Ciò che gli agenti mi ripetono di continuo è di essere soli. Perché secondo lei il loro mondo è uno specchio della società? MS Perché si sentono impreparati a vivere in un mondo che corre a cento all’ora, dove non c’è posto per la storia, ma per il consumo immediato, tutto e subito. Perché “non ci sono più i detenuti di una volta”. Quelli di prima, purtroppo, si sapevano fare il carcere. Oggi si trovano di fronte il più delle volte detenuti con evidenti disturbi della personalità. E non hanno storie a cui aggrapparsi. Esperienze. Sembra proprio come la vita dell’umanità in questo periodo che pare essere senza precedenti e ci mancano le categorie per raccontarla e quindi viverla. A che cosa è servito il suo teatro? MS A provocare dei minuscoli cambiamenti in un mondo chiuso alla trasformazione. Quello degli agenti è un mondo distante ideologicamente da me: la cosa bella però è che ci si rispetta e ascolta. Che futuro vede per le carceri italiane? MS La partita tra chi si appella all’ordine pubblico per inasprire le sanzioni e chi invece si batte per i diritti dei detenuti mi sembra vetusta. È delirante applicare al carcere le stesse categorie in uso nell’Ottocento. Scadute. Ed è uno scandalo far mangiare a tutti coloro che lo vivono, detenuti, agenti, dirigenti un cibo scaduto da anni, avariato. Bisogna cambiare la ricetta. Inserire alimenti freschi. Migranti. Cittadinanza anche a chi non è in grado di imparare l’italiano per via di una disabilità Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2025 La Consulta, con la sentenza n. 25, afferma che l’obbligo deve escludere chi sia in condizioni di oggettiva e documentata impossibilità di imparare la lingua in ragione di una disabilità. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 25, depositata oggi, ha affermato che vìola il principio di uguaglianza la norma che subordina l’acquisto della cittadinanza - per matrimonio o naturalizzazione - alla conoscenza dell’italiano a livello intermedio per qualunque straniero, senza eccettuare chi versi in condizioni di oggettiva e documentata impossibilità di acquisirla in ragione di una disabilità. Accolto dunque il ricorso del Tar Emilia-Romagna che dubitava della legittimità costituzionale dell’articolo 9.1 della legge n. 91 del 1992, introdotto dall’articolo 14, comma 1, lettera a-bis), del Dl n. 113 del 2018, come convertito, nella parte in cui, imponendo il requisito della conoscenza linguistica per l’attribuzione della cittadinanza italiana, precluderebbe la sua concessione “a quei soggetti che, in ragione della impossibilità di apprendere la lingua per gravi disabilità e certificati deficit cognitivi, non siano nelle condizioni di documentar[ne] la conoscenza”. È stata, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 “nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente [la cittadinanza] affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica”. Secondo la Corte, è violato, anzitutto, il principio di eguaglianza formale per trattamento uguale - ingiustificato e irragionevole - di situazioni diverse. Infatti, con l’imposizione generalizzata del requisito linguistico, il legislatore non ha tenuto conto della condizione di coloro che, in ragione di determinate menomazioni, versano in situazione oggettivamente diversa dalla generalità dei richiedenti la cittadinanza. Ancora, la disciplina uniforme dettata dall’articolo 9.1 offende il principio di eguaglianza nella sua declinazione sostanziale perché frappone, anzi che rimuovere, un ostacolo all’acquisto dello status di cittadino per tale specifica categoria di persone vulnerabili e dà luogo ad una loro discriminazione indiretta. Infine, la Consulta ha ritenuto che la norma sia irragionevole perché contraria al principio “ad impossibilia nemo tenetur”: il requisito della prova della conoscenza della lingua a livello intermedio si rivela, infatti, una condizione inesigibile per quegli stranieri che siano oggettivamente impediti ad apprenderla in ragione di una disabilità. La Corte ha dunque dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica”. Migranti. Permesso di soggiorno, stessa pena per chi crea o utilizza un documento falso Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2025 La Corte costituzionale, sentenza n. 27 depositata ieri, ha affermato che la mancata previsione di un taglio della pena per il semplice uso non è illegittimo. Non è costituzionalmente illegittima la mancata previsione, da parte del testo unico sull’immigrazione, di una riduzione della pena per chi si limiti a utilizzare un documento da altri falsificato per ottenere un documento di soggiorno. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 27, depositata oggi, che ha dichiarato non fondata una questione sollevata da un GIP del Tribunale di Vicenza. La vicenda - Il processo principale concerneva un cittadino straniero che aveva presentato alla Questura un certificato di conoscenza della lingua italiana poi rivelatosi contraffatto, al fine di ottenere un permesso di lungo soggiorno per cittadini non appartenenti all’Unione europea. In sede di giudizio abbreviato, il GIP aveva deciso di sospendere il processo e di chiedere alla Consulta se sia legittimo prevedere la pena della reclusione da uno a sei anni sia per chi materialmente abbia falsificato il documento, sia per chi si sia limitato a utilizzarlo. Il GIP aveva in particolare rilevato che il codice penale, nel disciplinare in via generale i reati di falso, prevede una riduzione della pena per chi si sia limitato a fare uso di un documento da altri falsificato. Secondo il GIP, il diverso e più grave trattamento dell’uso del documento falso da parte dell’articolo 5, comma 8-bis, del testo unico sull’immigrazione violerebbe il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, con conseguente pregiudizio alla funzione rieducativa della pena, stabilita dall’art. 27 della Costituzione. La motivazione - La Corte, tuttavia, ha ritenuto infondati i dubbi del GIP. Anzitutto, la Costituzione non vieta al legislatore di prevedere un trattamento sanzionatorio più severo, rispetto a quello stabilito per i comuni reati di falso, per i falsi in materia di immigrazione, i quali offendono l’interesse statale a una ordinata gestione dei flussi migratori. In secondo luogo, la Corte ha osservato che la condotta consistente nel semplice uso del documento falsificato per ottenere un documento di soggiorno non deve essere necessariamente considerata meno grave della condotta di falsificazione del documento stesso. Chi presenta un documento falso alla Questura per ottenere un permesso di soggiorno normalmente ha anche concorso nella sua falsificazione, fornendo all’autore materiale i propri dati identificativi. Inoltre, è proprio l’uso del documento a creare l’immediato rischio che venga rilasciato un documento di soggiorno in assenza dei requisiti di legge, mentre la falsificazione del documento costituisce soltanto un’attività preparatoria rispetto a questo scopo. La norma in esame, dunque, non viola né il principio di eguaglianza, né il principio di proporzionalità delle sanzioni penali, desunto dalla finalità rieducativa della pena. “Caso Diciotti”, il Governo dovrà risarcire i migranti per il trattenimento illegittimo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2025 Lo hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione, sentenza n. 5992/2025, accogliendo con rinvio, il ricorso di un cittadino eritreo, che, unitamente ad altri connazionali, aveva chiesto il risarcimento. La Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Interno dovranno risarcire i migranti per i danni non patrimoniali patiti per essere stati trattenuti a bordo della nave della Guardia Costiera italiana “U. Diciotti”, dal 16 al 25 agosto 2018, a causa del mancato consenso all’attracco nei porti italiani e poi del mancato consenso allo sbarco e il forzato ed arbitrario trattenimento sulla nave nel porto di Catania. Lo hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione, sentenza n. 5992/2025, accogliendo con rinvio, il ricorso di un cittadino eritreo, che, unitamente ad altri connazionali, si era rivolto al Tribunale capitolino chiedendo la condanna del Governo. La quantificazione del risarcimento spetta alla Corte di Appello di Roma. Per la Suprema corte, infatti, il principio cardine di uno Stato costituzionale è la “giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche”. E allora la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato - nel caso specifico col voto del Senato che non ha concesso l’autorizzazione a procedere per il resto di sequestro di persona nei confronti del Ministro Salvini - è una eccezione, “come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale”. Diversamente, prosegue, “non residuerebbe spazio per separare la responsabilità civile del Ministro da quella dell’amministrazione come apparato, posto che è dalla decisione del primo di negare il POS e l’autorizzazione allo sbarco che è derivato il trattenimento a bordo della nave costiera indicato come lesivo della libertà personale”. La Corte ha così cassato la decisione del Tribunale di Roma che “pur ritenendo sussistere la giurisdizione ordinaria per essersi trattato non di un atto politico, ma di un atto amministrativo, pienamente sindacabile, ha tuttavia respinto nel merito la domanda degli appellanti in difetto della colpa della pubblica amministrazione (non allegata dai ricorrenti e comunque da escludere “alla luce delle concrete modalità con cui si è realizzato il fatto, nonché della complessità e della non univocità della normativa di riferimento”) e, comunque, in mancanza di allegazione e prova del danno conseguenza”. Fortemente critico il giudizio della premier Meloni. “Le Sezioni Unite - commenta - hanno affermato un principio risarcitorio assai opinabile, quello della presunzione del danno, in contrasto con la giurisprudenza consolidata e con le conclusioni del Procuratore Generale”. “In sostanza - prosegue -, per effetto di questa decisione, il Governo dovrà risarcire - con i soldi dei cittadini italiani onesti che pagano le tasse - persone che hanno tentato di entrare in Italia illegalmente, ovvero violando la legge dello Stato italiano”. “Non credo - ha concluso il capo del governo - siano queste le decisioni che avvicinano i cittadini alle istituzioni e confesso che dover spendere soldi per questo, quando non abbiamo abbastanza risorse per fare tutto quello che sarebbe giusto fare, è molto frustrante”. Il vicepremier e Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha parlato di “una sentenza, e lo dico con rispetto, vergognosa, perché mi sembra un’altra invasione di campo indebita”. A stretto giro la durissima risposta della Presidente della Cassazione Margherita Cassano: “Le decisioni della Corte di cassazione, al pari di quelle degli altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono, invece, inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”. Nella decisione la Suprema corte ha espresso una serie di principi giuridici. L’azione del Governo, si legge, ancorché motivata da ragioni politiche, “non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”. E sull’obbligo del soccorso in mare la Cassazione afferma che esso corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità; “come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. E ancora, lo Stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco “nel più breve tempo ragionevolmente possibile” (così come prescritto dalla Convenzione SAR, capitolo 3.1.9), fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso; … per “luogo sicuro” si intende un “luogo” in cui sia garantita non solo la “sicurezza” - intesa come protezione fisica - delle persone soccorse in mare, ma anche il pieno esercizio dei loro diritti fondamentali, tra i quali, ad esempio, il diritto dei rifugiati di chiedere asilo. La “discrezionalità tecnica” che residua agli stati si limita infatti all’individuazione del punto di sbarco più opportuno, tenuto conto del numero dei migranti da assistere, del sesso, delle loro condizioni psicofisiche nonché in considerazione della necessità di garantire una struttura di accoglienza e cure mediche adeguate. E allora, l’autorità SAR italiana che aveva assunto la gestione delle operazioni di soccorso era tenuta in base alle norme convenzionali a portarle a termine, organizzando lo sbarco, “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. Infine, perché un evento dannoso sia imputabile a responsabilità della Pa, si richiede una indagine in ordine alla valutazione della colpa, “che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana”. La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla Pa come apparato, “e sarà configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa”. Caso Diciotti, La Cassazione: “Risarcire i migranti”. Riparte lo scontro con la politica di Valentina Stella Il Dubbio, 8 marzo 2025 Il Governo attacca i giudici dopo la decisione sui migranti trattenuti sulla nave. Csm e Anm con le toghe. La presidente Cassano: “Insulti inaccettabili”. Una decisione delle Sezioni Unite Civili di Cassazione sul tema immigrazione riaccende un fortissimo scontro tra magistratura e politica. Nell’incontro del 5 marzo, seppur rimanendo ognuno sulle proprie rigide posizioni rispetto alla riforma della separazione delle carriere, governo e Anm avevano comunque messo in campo un certo fair play. Tutto è svanito di nuovo, quando è stata resa nota una ordinanza di Piazza Cavour che ha accolto il ricorso con cui un gruppo di migranti eritrei, trattenuti per giorni, su decisione dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, a bordo della nave della Guardia costiera Diciotti dopo un soccorso in mare, ha chiesto un risarcimento dei danni non patrimoniali, patiti dal 16 al 25 agosto 2018, alla Presidenza del Consiglio e al Viminale. Il supremo organo di giurisdizione italiana ha rinviato alla Corte di Appello di Roma per la sola quantificazione del danno. Le 37 pagine infatti fissano dei principi inderogabili. Innanzitutto, “va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale”, in quanto “l’azione del governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”. Inoltre, l’obbligo del soccorso in mare “costituisce un preciso dovere”. La scelta dei giudici ha scatenato la furia dell’Esecutivo. La premier Meloni ha commentato: “Non credo siano queste le decisioni che avvicinano i cittadini alle istituzioni e confesso che dover spendere soldi per questo, quando non abbiamo abbastanza risorse per fare tutto quello che sarebbe giusto fare, è molto frustrante”. Salvini ha parlato di decisione “vergognosa” perché “mi sembra un’altra invasione di campo indebita. Se c’è qualche giudice che ama così tanto i clandestini, li accolga un po’ a casa sua e li mantenga. Chissà se di fronte allo splendido palazzo della Cassazione allestissero un bel campo rom e un bel centro profughi, magari qualcuno cambierebbe idea”. Contrario, ma con parole meno taglienti, il vice premier di FI Antonio Tajani: “Credo che il dovere del governo è di difendere i confini nazionali, ma se tutti gli immigrati irregolari chiedessero un risarcimento faremmo fallire le casse dello Stato. È una sentenza che non condivido”. La reazione della maggioranza politica all’ordinanza dei nove ermellini ha portato addirittura la prima presidente di Cassazione, Margherita Cassano, ad emanare una nota breve, ma dal contenuto molto duro: “Le decisioni della Corte di Cassazione, al pari di quelle di altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono, invece, inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”. Nel pomeriggio è arrivata la presa di posizione dell’Anm: “Ancora una volta inspiegabile è la distanza tra il riconoscimento dei principi e l’applicazione degli stessi. Ora anche le decisioni delle SU della Cassazione sono oggetto di attacchi ingiustificati, senza alcun rispetto per la separazione dei poteri. Ogni volta che una decisione è sgradita, viene collegata ad una valutazione ideologica”. Contemporaneamente tutti i consiglieri togati del Csm, insieme ai laici Carbone, Papa e Romboli, hanno difeso il ruolo dei giudici della Suprema Corte, le cui decisioni “devono essere rispettate perché a presidio del principio di eguaglianza e manifestazione del diritto di ricevere tutela giurisdizionale sancito dall’articolo 113 della Costituzione. La Costituzione è un bene comune dei cittadini italiani e deve essere tutelata da tutti gli attori istituzionali”. Lunedì sarà presentata anche una richiesta di pratica a tutela. Contro l’Esecutivo è intervenuto anche il segretario di AreaDg Giovanni Zaccaro: “Le sentenze, soprattutto se espresse a SU, vanno lette e studiate ed eventualmente criticate nel merito e non perché “non piacciono”. Ieri è stata ribadita la primazia dei diritti fondamentali delle persone sulle volontà delle maggioranze di turno, anche se schiaccianti. È il principio fondante delle democrazie moderne. Spiace che ad alcuni politici ogni tanto sfugga, forse avrebbero dovuto ascoltare con più attenzione cosa ha cercato di dire l’altro ieri il Presidente Parodi all’incontro con il governo”. Il riferimento è appunto all’incontro del 5 marzo a Palazzo Chigi durante il quale il leader del “sindacato” delle toghe aveva chiesto ai vertici dei partiti di maggioranza “un maggiore rispetto per i magistrati spesso accusati di produrre provvedimenti non giurisdizionali ma ideologici”. Soddisfatta per la decisione di Piazza Cavour la segretaria del Pd Elly Schlein che critica la premier: “Giorgia Meloni continua ad alimentare lo scontro con la magistratura per coprire i fallimenti del suo governo. Ma la Cassazione è l’ultimo grado di giudizio, come stabilito dalla Costituzione, che non cambia in base al suo umore. Non è possibile che ogni giorno il governo attacchi le sentenze. Ciò che allontana i cittadini dalle istituzioni è una sanità pubblica presa a picconate dai tagli del suo governo, con quasi 5 milioni di cittadini che rinunciano alle cure. Ciò che allontana i cittadini dalle istituzioni sono salari da fame, con 3,5 milioni di italiani poveri anche se lavorando e mentre Meloni affossa il salario minimo. Ciò che allontana i cittadini è il quasi miliardo di euro dei contribuenti scialacquato proprio da Meloni in Albania, per costruire delle prigioni vuote: il prezzo delle sue scelte intanto continua a pagarlo gli italiani”. A stigmatizzare le parole della premier ci ha pensato anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi: “La Prima Presidente Margherita Cassano ha ragione. Criticare nel merito le sentenze, i magistrati, le decisioni giurisprudenziali è giusto e doveroso. Mettere in discussione la separazione dei poteri è il segno che la presidente del Consiglio ha perso lucidità e correttezza istituzionale. Come del resto abbiamo già visto sui casi Almasri, Paragon e sulla ripetuta fuga dal Parlamento. L’influencer Giorgia ha preso il posto della presidente Meloni. E questo è inaccettabile”. Migranti. Così i Centri albanesi cancellano di fatto il diritto di difesa di Stefano Greco Il Manifesto, 8 marzo 2025 Sul manifesto si è aperto un interessante dibattito su quale autorità giudiziaria possa meglio garantire la tutela del diritto fondamentale all’asilo, che rischia di essere svuotato dalle procedure accelerate di frontiera. Per ora sono riservate ai richiedenti originari dai paesi sicuri, sulle cui modalità di designazione si esprimerà presto la Corte di giustizia Ue (sono uno degli avvocati difensori dei cittadini stranieri). Da giugno 2026 il nuovo Patto Ue estenderà comunque la possibilità di classificare come “sicuri” anche paesi con eccezioni per territorio/categorie di persone e l’iter speciale sarà applicato anche in altri casi. Giustamente Matteo Losana, nell’edizione dell’1 marzo, auspica che a quel punto la Corte costituzionale ponga un “controlimite”, volto a “impedire che il diritto dell’Unione leda i principi supremi e i diritti inviolabili sanciti dalle Costituzioni nazionali”. Questa vicenda non tocca solo i diritti stabiliti dall’articolo 10, sull’asilo, ma anche quelli del 24, sulla difesa. Per capire quanto le procedure accelerate, soprattutto nei centri in Albania, impattino sull’effettività della protezione internazionale occorre seguire la concreta scansione dei fatti che riguardano i richiedenti. Essa mostra chiaramente dove i diritti della persona sono violati per piegare le garanzie del diritto d’asilo alle logiche del contrasto all’immigrazione. Tra i naufraghi salvati in mare dalla guardia costiera vengono selezionati - subito dopo il salvataggio, ancora sulle motovedette italiane - quelli non vulnerabili, senza passaporto e provenienti da “paesi di origine sicura” (Pdos) per mandarli in Albania. Il momento dello screening è importante perché giuridicamente coincide con la conclusione delle operazioni di ricerca e soccorso (Sar) e l’inizio del trattenimento degli asilanti, con violazione di libertà individuale e norme Sar. Successivamente le persone sono trasbordate sulla nave diretta oltre Adriatico. A Gjader incontrano la Commissione territoriale d’asilo (Ct) senza un avvocato e in video conferenza. Il giorno dopo c’è l’udienza di convalida del trattenimento, prevista dall’articolo 13 della Costituzione, con il tribunale di Roma. Lì per la prima volta queste persone vedono, ma in video e senza alcuna riservatezza, un avvocato d’ufficio. Quella stessa mattina ricevono il diniego della protezione emesso dalla Ct, da cui inizia il termine per l’impugnazione. Il concetto di Pdos è quindi determinante per la scelta della procedura, che comporta internamento in Albania, esame accelerato della domanda d’asilo senza presenza del legale e riduzione drastica dei tempi di impugnazione, portati a soli sette giorni per il primo grado e cinque per il reclamo in appello. Ognuno di questi momenti corrisponde a una specifica violazione dei diritti fondamentali della persona: diritto di attraversare la frontiera per chiedere protezione, diritto alla libertà individuale, diritto di difesa. Inoltre il Pdos determina anche l’imposizione al richiedente di un “dovere di allegazione di fatti e prove” davanti alla Ct per superare la presunzione relativa di infondatezza della sua domanda di protezione: deve fornire elementi concreti per dimostrare di essere soggettivamente in pericolo. Tutto questo senza aver mai avuto uno scambio con un ente di tutela o un avvocato che lo aiuti a comprendere la procedura o rappresenti al meglio il suo caso, chiarendo le problematiche di una disciplina complessa. Il legislatore europeo pensava al Pdos come strumento per accelerare le prassi amministrative, non certo per violare i diritti fondamentali dei migranti. Il legislatore italiano, invece, ha inteso l’accelerazione come compressione dei tempi di esame e decisione della Ct e di quelli di impugnativa concessi alla difesa dell’asilante. Il risultato è che l’esercizio del diritto a un effettivo ricorso diventa impossibile o eccessivamente gravoso. La lista dei Pdos stilata dal governo italiano è di 19 paesi (in Germania sono 9), coincidenti con quelli di provenienza degli sbarchi. Ciò porta verso un sistema di asilo fondato su trattenimenti, procedure accelerate, udienze da remoto, azzeramento della difesa. Così viene violata la dignità umana, richiamata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Francia, che fa da contenitore di tutti i diritti fondamentali della persona. Su di essa si basano sia la Costituzione italiana sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Poca scuola e troppe violenze. Il rapporto Unicef sulle bimbe del mondo di Paola D’Amico Corriere della Sera, 8 marzo 2025 A livello globale, in 30 anni, si è dimezzato il numero delle adolescenti che partoriscono, è in calo la pratica delle mutilazioni genitali e in calo le spose bambine. Ma il nuovo rapporto di Unicef con UN Woman/Plan International, dice che per 122 milioni di adolescenti la scuola è ancora un miraggio. Ombre ma anche luci sul pianeta donne. Se il nuovo rapporto di Unicef con UN Woman/Plan International, divulgato in occasione della Giornata Internazionale della Donna - Girl Goals: Cosa è cambiato per le ragazze? I diritti delle adolescenti in 30 anni - dice che per 122 milioni di ragazze la scuola è ancora un miraggio, che devono far fronte a carenze nei servizi sanitari salvavita, e ancora che sono a rischio di pratiche dannose come il matrimonio infantile (1 su 5 si sposa durante l’infanzia), è vero che ci sono buone notizie, a cominciare dalla pratica delle mutilazioni genitali femminili che è finalmente in calo. Negli ultimi 30 anni, Paesi come il Burkina Faso e la Liberia hanno dimezzato la percentuale di ragazze sottoposte a questa pratica. Certo occorre fare di più, il tasso di declino, spiegano gli esperti, deve essere 27 volte più veloce per raggiungere l’obiettivo di eradicazione fissato nei Goals delle Nazioni Unite 2030. I dati - Di positivo c’è anche che a livello globale si è quasi dimezzato il numero delle adolescenti che partoriscono. Però, di nuovo, occorre fare di più: quest’anno si è calcolato che quasi 12 milioni di under 19 partoriranno ma le complicazioni da parto precoce sono molto alte e causano 1 decesso ogni 23 adolescenti. Nel 1995, 30 anni fa dunque, a Pechino l’assemblea generale delle Nazioni Unite individuò tre obiettivi che dovevano rappresentare la base del futuro lavoro in difesa delle donne: la piena uguaglianza fra i sessi ed eliminazione delle discriminazioni sessuali, l’integrazione e la piena partecipazione delle donne allo sviluppo. Vent’anni più tardi, è stato concordato da 193 Paesi un piano d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità. È l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sottoscritta il 25 settembre 2015. Agenda 2030 dell’Onu - Due Goals in particolare riguardano l’universo femminile. Il Goal 5, “Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”, e il Goal10 che punta all’adeguamento delle politiche e degli strumenti legislativi per ridurre, in ogni Paese, le disparità basate sul reddito, o sul sesso, l’età, la disabilità, la razza, la classe, l’etnia, la b, lo status economico o di altra natura. “Le ragazze adolescenti - sottolinea la dg di Unicef Catherine Russell - sono una forza potente per il cambiamento globale. Con il necessario sostegno al momento giusto, possono contribuire a realizzare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e a rimodellare il nostro mondo. Gli investimenti in aree critiche come l’istruzione, le competenze, la protezione e i servizi sanitari e nutrizionali essenziali possono liberare il potenziale delle ragazze adolescenti in tutto il mondo e risollevare le comunità e i Paesi”. La promessa di non lasciare indietro nessuno richiede ancora molti sforzi. Donne e Unesco - Anche per Unesco l’uguaglianza è la base di tutto. Il raggiungimento dell’uguaglianza è la priorità mondiale. E Unesco sostiene le donne, per esempio, come leader nella conservazione dell’ambiente. Begoña Lasagabaster, direttrice divisione uguaglianza di genere Unesco, ha detto che “spesso il nesso donne-ambiente è dimenticato, che il degrado ambientale non è neutrale dal punto di vista del genere. E nemmeno l’emergenza climatica lo è”. Ma non va dimenticato che “quando si verifica un disastro naturale, le donne hanno 14 volte di più la probabilità di morire rispetto agli uomini e rappresentano fino al l’80 per cento degli sfollati. E 150 milioni di donne nel mondo sono costrette alla povertà dai cambiamenti climatici”. Se guardiamo poi nel volontariato italiano, le donne sono una forza imprescindibile ma anche qui in bilico tra il loro contributo determinante e una scarsa rappresentanza nei ruoli decisionali. I dati Istat relativi al Censimento permanente delle istituzioni non profit lo confermano: le volontarie italiane sono quasi 2 milioni, pari al 42% del totale ma se si considera il volontariato in età giovanile, la loro presenza supera quella maschile. Sebbene il calo del numero complessivo di volontari rispetto al 2015 abbia colpito entrambi i generi, la diminuzione della componente femminile (-13%) è stata meno marcata rispetto a quella maschile (-17,6%). Ma nei ruoli di vertice, la presenza femminile è ancora minoritaria nei livelli decisionali più alti. Utile, infine, la lettura dei dati di un’indagine realizzata nel 2023 da Generali Italia, con il supporto della Country Sustainability and Social Responsability, della Business Unit Enti Religiosi e Terzo Settore-Generali Italia e con il contributo di CSVnet: quando riescono a conciliare gli impegni personali con l’attività volontaria, le donne dimostrano una maggiore stabilità e costanza. “Le donne hanno spesso meno tempo per dedicarsi al volontariato a causa dei carichi familiari e lavorativi, ma quando possono farlo il loro apporto è di grande valore, sia per continuità che per affidabilità” - afferma Chiara Tommasini, presidente di CSVnet, la rete che associa i 49 Centri di servizio per il volontariato (Csv) attivi in Italia - Il nostro obiettivo è supportare le organizzazioni nello sviluppo di ambienti sempre più inclusivi e flessibili”.