Carcere, tutti i nodi di un mondo che riguarda l’intera società di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2025 Settemila nuovi posti nel piano del commissario all’edilizia; sul lavoro, fermo il ddl del Cnel come la cabina di regia per la salute penitenziaria. C’è un pezzo di Repubblica dietro quelle alte mura. Ed è lì che siamo andati. Al di là di cancelli, pregiudizi e slogan. Tra vecchi edifici e improvvise eccellenze; tra brucianti bisogni, nuove emergenze e princìpi inattuati; ma anche tra “generosi operatori” e preziosi volontari, che si adoperano per bilanciare la sicurezza con la funzione costituzionale della pena. Consapevoli che “tutte le istituzioni e tutti i corpi sociali - secondo il richiamo del Presidente della Repubblica - sono chiamati a fornire collaborazione per quanto avviene dentro gli istituti penitenziari”. Lì dove Papa Francesco ha aperto la seconda Porta Santa del Giubileo con un appello a “non perdere la speranza”. Ma già 12 persone si sono tolte la vita in quest’inizio 2025. Edilizia e sovraffollamento - È la più evidente delle emergenze: 62.165 detenuti al 28 febbraio 2025 per 51.323 posti. Cifre che insieme al trend di aumento degli ingressi (+2062 nel 2022; +3970 nel 2023) avvicinano il rischio di nuove condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, considerando casi limite come i 15 in cella con un bagno a Canton Mombello (Bs). Nel 2013, ai tempi della sentenza Torreggiani, i detenuti erano 62mila per 47mila posti. Il 20 febbraio il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, ha consegnato al governo la ricognizione delle opere in capo a Ministero della Giustizia, attraverso Dap e Provveditorati; Infrastrutture e commissario. Un programma fino al 2027, con un budget a sei zeri e la stima di 7mila nuovi posti, come anticipato dalla premier Giorgia Meloni. I posti dovrebbero essere recuperati dal ripristino di camere fuori uso, 4.494 al 19 novembre; dagli 8 padiglioni previsti nel Pnrr (Vigevano, Rovigo, Ferrara, Viterbo, Perugia, Civitavecchia, S.M. Capua Vetere, Reggio Calabria) e da nuove costruzioni. “Con moduli prefabbricati all’interno del perimetro dell’istituto: ne abbiamo ordinati a migliaia”, ha detto il Guardasigilli, Carlo Nordio, dai cantieri di San Vito al Tagliamento (Pn). “Un progetto pilota” a suo dire: ristrutturazione dell’ex caserma e costruzione di fabbricati senza ulteriori spazi. Così al Verziano di Brescia il nuovo plesso sorgerà al posto del campo di calcio. O un nuovo edificio dentro Sollicciano (Firenze), mentre la casa circondariale di Marassi (Genova) sarà “ricollocata nell’aggiornamento semestrale del piano del commissario”, spiega via Arenula. Carcere dentro o fuori dalle città? Ristrutturare quelle storiche o trasformarle? E se ammontano a 7mln 700mila euro -secondo la relazione sulla giustizia -le procedure in capo al Dap, dalle decisioni del comitato paritetico Giustizia/Mit discendono le opere principali: 25 interventi deliberati l’anno scorso per 36,2 milioni, da aggiungere a quelli del 2023 per 166 mln. I principali a Brescia-Verziano (38mln), Forlì (27mln), Poggioreale (12mln), oltre a San Vito al Tagliamento, Reggio Calabria, San Vittore. La pluralità degli attori rende più difficili risposte tempestive in un sistema che non deve solo chiudere. Così chiede la Costituzione e così suggerisce la convenienza: se il reinserimento funziona, la recidiva crolla. Sull’edilizia, si attende un decreto del Presidente del Consiglio, dopo un confronto con la Ragioneria dello Stato. Lavoro - Giace in Parlamento dal 17 giugno 2024 un ddl presentato dal Cnel, guidato da Renato Brunetta, che punta ad ampliare le agevolazioni della legge Smuraglia per le imprese che impiegano detenuti, al lavoro all’esterno, con ulteriori 12 mesi di sgravi a pena ultimata. Il mondo produttivo è sempre più sensibile a quello penitenziario (al Sud minore è il ricorso alla norma), ma restano pochi i detenuti lavoranti: 20mila al 30 giugno 2024 (32%), di cui solo 3mila per società esterne, il resto alle dipendenze dell’amministrazione. Il rientro nella società rappresenta uno dei momenti più delicati, visto che per sempre più persone “fuori non c’è niente”, raccontano le voci di dentro. E se il 60% dei detenuti si toglie la vita nei primi sei mesi, gli altri anche a ridosso della ritrovata libertà. Carcere della marginalità - È il carcere della marginalità, popolato da quanti pur potendo accedere a misure alternative restano in cella perché senza casa né sostentamento. A loro si rivolge uno dei punti del decreto dell’estate 2024, che prevede un elenco di strutture residenziali per accogliere queste persone. Nove mesi dopo, si attende il decreto ministeriale. E mentre una nuova estate si avvicina, non manca chi paventa una “privatizzazione dell’esecuzione penale”. Salute - Carcere che vai, sanità che trovi. In tutte, però, è un’emergenza l’alto numero di tossicodipendenti (18mila al 30 giugno, il 30%) e il dilagare delle malattie psichiatriche. Dipendenza da più sostanze e da farmaci, non riconosciuta dal Servizio sanitario: situazioni foriere di potenziali tensioni. L’indicazione politica punta allo spostamento in “comunità per i tossicodipendenti”. Per ora restano in carico ai servizi per le dipendenze e alla sanità penitenziaria che fa i conti pure con le patologie di detenuti anziani - un uomo di 92 anni è uscito a novembre da Poggioreale - e con inadeguato supporto per i disturbi psichiatrici. Per gli specialisti le paghe vanno da 24euro lordi a Siracusa a 96 a Trento. Il sottosegretario Andrea Ostellari si confrontò nel 2023 col Ministro della salute, Orazio Schillaci, su una cabina di regia per la sanità penitenziaria. Nulla è finora avvenuto. Mentre sulla salute mentale si sta lavorando ad un piano per 300 nuovi posti nelle Rems. Dopo 3 anni dal monito della Corte costituzionale. Diritto all’affettività - Nessuna indicazione è invece arrivata ai 190 istituti dopo la sentenza della Consulta sul diritto all’affettività. Singoli Tribunali - dopo la pronuncia anche della Cassazione - hanno ordinato l’individuazione di spazi adeguati, ma i penitenziari aspettano chiarimenti. Il carcere diventa così la cartina di tornasole della volontà di dare risposte (complesse per realizzazione o consenso?) a diritti dei cittadini reclusi. Detenuti con meno di un anno di pena - Qui si entra nel campo delle decisioni legislative, come l’annunciata stretta sulle madri detenute con figli su cui si è arenato il ddl sicurezza. Tra le questioni, c’è un dato destinato ad emergere nell’incontro tra il collegio dei Garanti delle persone private della libertà con Nordio l’11 marzo. I detenuti con meno di un anno di pena residua: 8.087 al 31 dicembre; altri 8.422 fino a due anni. “E se i partiti ragionassero su un indulto parziale, escludendo i condannati per reati di criminalità organizzata?”, aveva proposto il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli. Cellulari e droni - Dopo l’ultima inchiesta su Cosa Nostra, il Procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, rilancia l’allarme sui “telefoni che circolano liberamente” nelle celle, permettendo a boss - esclusi dal carcere duro - di comunicare. Nel 2023 sono stati 3.606 i cellulari sequestrati, l’anno scorso 5.007. Nel frattempo sono stati attivati sistemi anti-drone in 37 istituti e per due c’è un progetto di schermatura. Minori - I problemi del carcere per adulti, dal sovraffollamento alla carenza di personale, sono diventati gli stessi degli istituti penali per minori, come abbiamo visto negli ipm di Nisida e Bologna dove sono deflagrate le proteste per il trasferimento di 50 neo ventenni tra gli adulti. Così tra gli operatori cresce il timore di non essere più nelle condizioni di investire sulla lenta opera di cambiamento a favore di esigenze contenitive. E se in tanti interpretano come una sconfitta delle istituzioni educative l’annunciata riapertura di 3 ipm (Rovigo, L’Aquila e Lecce), va registrata la realizzazione di 3 nuove comunità rieducative in Lombardia. Dietro ogni ragazzo, autore talvolta di reati gravi, c’è un contesto con una molteplicità di attori che hanno fallito. Perché con la stessa concretezza (in attesa dei risultati) con cui è stato chiamato un commissario per l’edilizia la premier non affronta anche gli altri bisogni del carcere con i tanti ministri coinvolti? Carcere che non è solo contenitore per 62mila reclusi, ma specchio del mondo di fuori, come per primi sanno gli agenti penitenziari che respirano la stessa aria ferma. La lettera del detenuto - Tra le reazioni al nostro viaggio, la lettera di P.F., detenuto comune del carcere di Pesaro, che ci ha espresso, tra l’altro, il desiderio di leggere puntate che non aveva. Gli abbiamo spediti gli articoli, come avvenuto con San Vittore, ma sono stati respinti. Ecco, questo mondo potrà cambiare solo quando, anche nei piccoli gesti, tutti concorreranno affinché i detenuti respirino “un’aria diversa”, come disse il Presidente Mattarella. Per questo, anche se tutti noi forse ci crediamo assolti - scrivemmo all’inizio del viaggio parafrasando De Andrè - siamo lo stesso coinvolti. Le carceri sono sovraffollate, il Governo pensa di utilizzare le ex caserme di Filippo Biafora Il Tempo, 7 marzo 2025 La popolazione penitenziaria conta 62.132 persone contro una disponibilità di 46.910 posti. Una strage silenziosa è quella che si consuma da anni nelle carceri italiane. Dal 2020 a oggi sono 1.118 í detenuti morti in carcere e di questi sono stati 361 i detenuti suicidi. Il carcere romano di Regina Coeli detiene il triste primato per numero di suicidi nello stesso arco di tempo: 15. A riportare i dati è il report del Garante dei detenuti del Lazio “Un silenzio assordante sul carcere”. Il 2024 è stato l’anno nero, partendo dal 2020, con 248 morti fra i carcerati ma nel primo bimestre del 2025 si è già a 54. Numeri in linea con quelli del 2022 in cui nei primi due mesi i morti toccarono quota 85. I suicidi in carcere sono strettamente legati alle condizioni di vita nei penitenziari, rese difficilissime soprattutto dal sovraffollamento. A fine febbraio 2025 il numero dei detenuti presenti nelle celle sono 62.132 contro una disponibilità di posti regolamentari pari a 46.910. Il tasso di sovraffollamento è arrivato a quota 132,4%. Ma ci sono regioni che se la passano molto peggio, basti pensare che in Puglia, Lombardia e Veneto si va oltre il 150%. Svetta in testa a questa triste classifica la Casa circondariale di San Vittore a Milano con un indice del 214%. Fra le emergenze spicca anche la carenza di personale di Polizia penitenziaria, carenza che si riflette soprattutto nelle attività complementari. Ecco perché il Garante nazionale dei detenuti Stefano Anastasia ha proposto “l’amnistia e l’indulto per alleggerire la situazione”. Un’altra misura suggerita è stabilire il numero chiuso programmato degli istituti di pena “sulla base della capienza regolamentare e del personale effettivamente disponibile”. Anche il governo è in cerca di soluzioni per ovviare al problema. Nordio spinge per la conversione delle ex caserme e, allo stesso tempo, con l’installazione di moduli temporanei antisismici in cemento armato per ospitare la popolazione carceraria in eccesso. La prima struttura di questo tipo verrà realizzata in provincia di Pordenone nel carcere di San Vito al Tagliamento. Un progetto che risale al 2016 quando il governo Renzi firmò il progetto per costruire proprio in quell’edificio un nuovo istituto penitenziario con 300 posti. Solo che dopo un lungo tira e molla fra rinvii e aumenti dei costi alla fine la soluzione che sembra più alla portata è quella di non lavorare per convertire la struttura originaria in un carcere ma collocare dei moduli in cemento nel piazzale della caserma. Per cercare di accelerare i tempi Nordio aveva anche pensato di istituire la figura del Commissario straordinario con lo scopo di semplificare le procedure e velocizzare la burocrazia. Un’altra alternativa è quella di far scontare la pena in comunità, per quanto riguarda i carcerati italiani, mentre gli stranieri potrebbero scontare la detenzione nei loro luoghi d’origine. Anche perché, come ha sottolineato il ministro della Giustizia, “abbiamo un 30% di detenuti che sono in attesa di giudizio, statisticamente la metà di questi alla fine viene assolta e quindi la loro carcerazione si rivela ingiustificata”. 41 bis, ergastolo ostativo e delirio politico di Eugenio Losco* umanitanova.org, 7 marzo 2025 Gennaio 2023. Con uno sciopero della fame a oltranza, l’anarchico Cospito sta costringendo tutto il paese a interrogarsi sulla legittimità del 41 bis, il regime di carcere durissimo cui è sottoposto. La determinazione dell’anarchico sta facendo emergere il tema del rispetto dei diritti umani dei detenuti in genere, e di quelli sottoposti a regimi detentivi differenziati, uno dei grandi rimossi del dibattito pubblico italiano. Il governo più a destra della storia della repubblica, insediato solo pochi mesi prima, è in difficoltà. Ma il deputato meloniano Donzelli crede di avere in mano la carta vincente per cambiare la narrazione: ha la prova che Cospito ha parlato con un condannato per mafia, ricevendone solidarietà. Coincidenza, succedeva nello stesso giorno in cui alcuni parlamentari della sinistra (non invitati) si recavano in visita all’anarchico. Risulta da un rapporto della Polizia Penitenziaria, che ha registrato la conversazione. Apriti cielo. Il 31 gennaio, il deputato Donzelli, con ostentato sdegno, svela il contenuto del rapporto alla Camera: “Questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia?”. A tanto è ridotto il livello del dibattito parlamentare. Parole che non meriterebbero neppure replica non fosse che, senza volere assumere la difesa d’ufficio dei parlamentari accusati, offrono un’occasione per ricordare cosa significa essere sottoposti al 41 bis. Censura totale della corrispondenza; limitazione dei colloqui con i familiari, che avvengono con un vetro divisorio; accesso limitato ai mezzi di informazione, scelti arbitrariamente dall’amministrazione penitenziaria; assurdi divieti alimentari. Si sta chiusi in isolamento per ventidue ore al giorno e l’ora d’aria si svolge in piccoli cortili sotto stretta sorveglianza; al detenuto è concessa la possibilità di incontrarsi con al massimo altri tre detenuti, ovviamente sottoposti allo stesso regime e scelti dall’amministrazione. E arriviamo al presunto scandalo sbandierato dal deputato di Fratelli d’Italia. L’anarchico parlava con un condannato per mafia e ne riceveva la solidarietà. E che scandalo sarebbe? Se Cospito parlava con un condannato per mafia è perché, letteralmente, era l’unica persona umana con cui l’amministrazione penitenziaria gli avesse consentito di farlo. I detenuti sottoposti alla tortura del 41 bis in Italia sono circa 700; tutti (tranne Cospito e i BR-NCC Lioce, Mezzasalma e Morandi) sono condannati per mafia. Con chi mai avrebbe Cospito potuto confrontarsi se non con altri detenuti sottoposti al 41 bis? Da chi mai avrebbe potuto ricevere solidarietà per una battaglia in nome dell’uguaglianza nella lotta se non da altri, sottoposti allo stesso regime? Per aver divulgato il contenuto della relazione al deputato e compagno di partito (nonché, sembra, coinquilino) è stato adesso condannato in primo grado a 8 mesi di reclusione Andrea Delmastro, sottosegretario alla giustizia del governo Meloni. Secondo la Procura, che aveva chiesto per l’imputato l’assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo, Delmastro non sapeva, quando le ha divulgate, che fossero notizie segrete. Diversa la valutazione del Tribunale. Senza entrare troppo nel merito, così, anche a occhio, il contenuto di una conversazione tra detenuti al 41 bis, è una cosa un po’ riservata: difficile (o grave) che un sottosegretario alla giustizia, che è anche avvocato, lo potesse ignorare. Quel che resta, alla fine di questa storia, è la determinazione di Cospito nel portare avanti anche a rischio della propria vita la battaglia contro le condizioni detentive cui sono sottoposti i detenuti al 41 bis e forse, il modo migliore per ricordarla lo ha offerto proprio il deputato Donzelli, svelando al Parlamento le sue parole: “Deve essere una lotta contro il regime 41 bis e contro l’ergastolo ostativo: non deve essere una lotta solo per me. Per me noi al 41 bis siamo tutti uguali”. *Avvocato penalista Ergastolo bianco. Il paradosso delle Case di Lavoro di Franco Corleone e Katia Poneti L’Espresso, 7 marzo 2025 Pubblichiamo qui un estratto della prefazione al libro “Un ossimoro da cancellare”, frutto di un lavoro di ricerca de “La società della ragione”, condotto tra il 2022 e il 2023 grazie al contributo della Chiesa Evangelica Valdese e alla collaborazione dell’Ufficio del Garante dei detenuti della Toscana. Da 250 a 300 persone subiscono una pena aggiuntiva dopo aver scontato la condanna. Sono i destinatari delle misure di sicurezza, un meccanismo perverso di epoca fascista. Da abolire. Un fenomeno, quello delle case lavoro e delle colonie agricole - nove strutture in tutto - che sta al margine perché riguarda un numero esiguo di persone, ma anche perché ne intercetta la marginalità, non per supportarla ma per punirla. Sono strutture che ospitano una popolazione che, piuttosto stabilmente da anni, oscilla attorno alle 250-300 persone, di cui un numero davvero ridottissimo - sempre inferiore a 10, negli ultimi anni - sono donne. Le case di lavoro sono realtà ignorate e sconosciute, o per dirla con le parole di Valerio Onida, in una delle poche pubblicazioni recenti sul tema (De Vanna, 2020), sono “trascurate”, “una “provincia” un po’ dimenticata del nostro diritto penale”. Le Case Lavoro raccolgono un piccolo numero di condannati, secondo lo stigma lombrosiano dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Persone che, quasi per un perverso gioco alla roulette, vengono “sorteggiate” tra le decine di migliaia di condannati e colpite da una misura di sicurezza che sarà eseguita dopo avere scontato la pena detentiva. Aggiunta, quindi, alla pena. La differenza non è da poco, mentre la quasi totalità dei prigionieri esce dal carcere, i malcapitati entrano in un altro luogo di afflizione. Il paradosso è che la misura di sicurezza si può rivelare senza fine temporale e certamente senza un fine riabilitativo. Si aggiunge alla pena, erodendone la certezza (principio spesso assunto come valore assoluto), rendendone ignota la durata e portando nei fatti a una doppia pena. Se, infatti, le misure di sicurezza sono teoricamente distinte dalle pene - le prime basate sulla pericolosità sociale che mirano a contenere e in prospettiva a rimuovere, le seconde sulla colpevolezza -, ciò che emerge dall’applicazione pratica è una sostanziale omogeneità tra pena e misura di sicurezza. A partire dai luoghi in cui le misure di sicurezza vengono eseguite, spesso sezioni di case circondariali o di reclusione, in tutto uguali alle sezioni detentive, senza differenze nel trattamento né nell’accesso al lavoro. La riforma del 2018 (D.lgs. 124) ha stabilito che il lavoro penitenziario è volontario e retribuito (con uno stipendio pari ai due terzi di quanto previsto dalla con- trattazione collettiva), non ha carattere afflittivo e deve riflettere l’organizzazione e i metodi del lavoro nella società libera: essa ha così sancito l’allontanamento definitivo dal modello precedente di lavoro coatto e reso (quasi) uguale il lavoro penitenziario a quello libero. È dunque, a maggior ragione, paradossale che le case di lavoro non offrano lavoro, o comunque non offrano un lavoro formativo e spendibile nella società libera. L’altro nodo critico è quello della casa. Nella sua concretezza, la Casa di Lavoro è un luogo chiuso, un’istituzione totale al pari del carcere, lontano dagli affetti e dagli interessi. Se la funzione che, in teoria, le case di lavoro dovrebbero soddisfare non è più attuale nella società di oggi, né è stata sostituita da una diversa funzione, costituzionalmente orientata al reinserimento sociale, a cosa servono le case di lavoro? Le visite nelle nove case lavoro hanno offerto uno spaccato spesso drammatico, con le case di lavoro collocate nell’edificio del carcere, come a Vasto e ad Alba, con un’evidente “truffa delle etichette”, o con la riconversione del manicomio criminale in pseudocasa lavoro, come ad Aversa e a Barcellona Pozzo di Gotto. L’unica struttura che risponde alla mission proclamata è quella di Castelfranco Emilia. La visita ad Aversa, ultima tappa di questo giro kafkiano, fu impressionante per i racconti dei cinquanta internati che incontrammo nella sala socialità e dai quali ascoltammo le denunce circostanziate delle incongruenze che si scaricano su di loro. Molti lamentano che il passaggio dalla casa lavoro alla libertà vigilata è segnato dall’incertezza, perché basta una violazione alle prescrizioni di comportamento per tornare in casa lavoro con un nuovo provvedimento di misura di sicurezza detentiva: “questo è un ergastolo bianco, noi lo sappiamo”, è stato il grido condiviso. Non mancano, nelle case di lavoro, utilizzi “creativi” della misura. Un giovane del Ghana aveva un decreto di espulsione che non si riusciva ad eseguire e quindi la misura di sicurezza veniva prorogata in attesa che l’Ambasciata del suo Paese lo riconoscesse come cittadino e potesse tornare dalla madre. Un altro lamentava di avere finito la misura e di essere ancora lì: per fortuna il giorno dopo tornò a casa, seppure con venti giorni di detenzione in più. Ecco alcune delle voci che dipingono una realtà di dolore: “Internati si chiamavano gli ebrei nei campi. Non sarà un caso. C’à nun s’esce mai”; “Preferiamo tre anni di carcere che uno di casa lavoro”; “Siamo in uno Stato democratico e dobbiamo avere la misura dei tempi di Mussolini”. Abbiamo verificato che in questo microcosmo si verificano delle assurdità come l’utilizzo della Casa lavoro per alcuni detenuti sottoposti al regime del 41bis a Tolmezzo. Altrettanto stravagante è la realtà delle poche donne alla Giudecca di Venezia. Anche gli educatori e la polizia penitenziaria condividono la necessità di far chiudere la Casa lavoro. “Dalla cella dico alla politica: qui siamo al collasso” di Gianni Alemanno e Fabio Falbo* Il Tempo, 7 marzo 2025 Caro Direttore, ci rivolgiamo a Lei come detenuti che si trovano oggi a fare i conti con un pianeta carcerario collassato. Siamo due persone molto diverse: una da sempre impegnata in politica che si è trovata improvvisamente catapultata in questo mondo e l’altra che, vivendo da molto tempo in questa condizione, in carcere è riuscita a laurearsi in giurisprudenza e oggi lavora per assistere gli altri detenuti nella difesa dei propri diritti. Ci accomuna lo stupore e l’indignazione per una situazione carceraria insostenibile, contraria ai dettati costituzionali, che non viene neppure percepita nel dibattito pubblico italiano. L’inizio dell’Anno giubilare e i ripetuti appelli di Papa Francesco per un atto di clemenza finalizzato almeno a ridurre il sovraffollamento carcerario, avevano aperto una speranza tra i detenuti e i loro familiari, ma quegli appelli sono fin troppo rapidamente caduti nel vuoto. La politica, stando in silenzio su quello che avviene in carcere, dimentica che la nostra Costituzione è stata scritta anche da chi per le proprie idee politiche ha vissuto le sofferenze della detenzione e, forse anche per questa consapevolezza, recita all’art. 27 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Attualmente il populismo penale che condiziona ampie fasce di opinione pubblica ha come motto “Buttiamo via la chiave”, l’indifferenza politica raccoglie questo invito con l’altro detto “Chiudiamoli in cella e dimentichiamoci di loro” con l’alibi della costruzione di nuove carceri che richiedono almeno altri vent’anni di lavoro. In realtà si confonde la necessità di tutelare la sicurezza del cittadino con l’inasprimento della condizione carceraria, non volendo comprendere che si tratta di due situazioni del tutto opposte: chi sta nel carcere è già stato colpito e messo in condizione di non nuocere, mentre coloro che minacciano la sicurezza pubblica sono delinquenti in libertà non raggiunti dall’azione penale, spesso perché tutelati dalle lobby del permissivismo progressista. Semmai il problema dovrebbe essere quello di evitare la recidiva, ma un carcere sovraffollato e inumano è esattamente lo strumento migliore per impedire la riabilitazione del detenuto e spingerlo a delinquere ancora. Se la politica tende a tutelare l’ordine pubblico approvando norme sempre più severe, senza creare dei contrappesi nella gestione delle carceri, il risultato è questo collasso del sistema penitenziario. In più, negli ultimi anni si è assistito ad una deformazione del concetto di “certezza della pena”, che non significa che la pena debba essere tutta scontata in carcere. Infatti nell’art. 27 della Costituzione si parla di “pene” al plurale, indicando chiaramente la strada delle pene alternative al carcere. Noi diciamo che bisogna vederle le nostre patrie galere, bisogna esserci stati, per rendersene conto, visto che tutte le strutture penitenziarie italiane sono collassate con tassi di sovraffollamento dal 150% al 200%, senza considerare che le persone detenute crescono circa 5 volte di più rispetto alla crescita dei posti in carcere. Non solo: il carcere non può essere la discarica della società, ospitando persone con problemi psichiatrici o affette da dipendenze varie, perché il carcere non cura le dipendenze, che sono patologie croniche recidivanti, e tantomeno le malattie psichiatriche, per non parlare dell’abuso di psicofarmaci per sedare i detenuti. Ma più in generale il diritto alla salute non viene tutelato: assistiamo continuamente a mancate cure anche di patologie gravi per mancanza di scorte di agenti che possano accompagnare i detenuti in ospedale. Ultimamente si assiste ad un incremento di persone ultrasettantenni detenute nelle patrie galere. Che riabilitazione può esserci su persone così anziane? La morte per vecchiaia di una persona detenuta rappresenta una grave sconfitta per uno Stato di diritto e infatti la sentenza 56/2021 della Corte costituzionale ha stabilito che i condannati che hanno più di settant’anni, se non recidivi, devono beneficiare della detenzione domiciliare. Invece nel nostro reparto ci sono nonnetti di quasi 90 anni. Per quanto riguarda l’abuso della carcerazione preventiva, basta citare il dato delle 1.180 domande di risarcimento per ingiusta detenzione per un totale di quasi 27,4 milioni di euro pagati dallo Stato italiano. Sono queste le cifre salienti ed i numeri della cosiddetta “stagnazione in carcere”, del default del diritto, dell’assenza di umanità, dell’ipocrisia di chi critica le carceri iraniane ma ignora la condizione carceraria italiana. Quando si parla di decongestionare le carceri si pensa subito a provvedimenti emergenziali come l’indulto e l’amnistia, che sono ovviamente la via maestra per ridurre drasticamente la popolazione carceraria. Ma anche provvedimenti meno drastici potrebbero dare un forte contributo in questo senso, a patto però che vengano realmente applicati dalla Magistratura di sorveglianza. C’è un intero cimitero di leggi e di sentenze della Corte costituzionale che, per un’incomprensibile severità dei giudici di sorveglianza, non vengono applicate. L’ultima di queste norme non applicate dai giudici è la legge dell’8 agosto 2024, n. 112, varata su iniziativa del Ministro Nordio, che ha introdotto il “fine pena virtuale” per consentire più rapidamente l’accesso agli istituti giuridici che riducono la permanenza in carcere. Stesso discorso per il limitatissimo accesso alla detenzione domiciliare, basti pensare che nell’ultimo anno le persone detenute ai domiciliari sono solo 3.357 (a fronte di una popolazione carceraria di oltre sessantamila persone), nonostante la spesa di diversi milioni di euro per acquistare un numero dieci volte superiore dei celebri “braccialetti elettronici” che rimangono in larga parte inutilizzati. Ugualmente ignorate dalla Magistratura di Sorveglianza rimangono varie sentenze della Corte costituzionale, tra cui quella che ha ammesso al beneficio del permesso premio coloro che tengono un comportamento carcerario virtuoso a prescindere dalla collaborazione nelle vicende giudiziarie, oppure quella che prevede la “scindibilità dei cumuli” per evitare che detenuti condannati anche per un solo anno al “carcere ostativo” vengano assoggettati al regime speciale carcerario per tutta la durata della pena. Ed ancora vi è la questione dei vari rigetti alle richieste ex art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario per applicare lo sconto del 10% di pena previsto dall’art. 3 della Corte di Giustizia europea per condizioni di detenzione contrarie al senso di umanità. Il ragionamento elementare da fare è questo: se i vari dati ministeriali ci dicono che in tutti gli istituti di pena vi è un sovraffollamento dal 150% al 200%, con uno spazio per ogni singolo detenuto nelle celle inferiore agli standard previsti dall’Ordinamento, come mai nella maggior parte dei casi il Magistrato di sorveglianza non concede il dovuto? Recepire le sentenze della Consulta e applicare queste norme permetterebbe di iniziare a decongestionare le carceri con un risparmio enorme. In più si potrebbe pensare a nuove riforme che estendano la possibilità di usufruire degli affidamenti in prova, oppure che aumentino gli sconti di pena per la buona condotta o che facilitino l’accesso a “permessi trattamentali”. Ma queste riforme devono poi essere recepite e valorizzate dai Tribunali di sorveglianza, a differenza di quello che già oggi accade. Ecco perché noi chiediamo al Ministro della Giustizia e a tutte le forze politiche l’apertura di un Tavolo di lavoro per ridurre il sovraffollamento carcerario e l’insostenibilità della condizione dei detenuti. Un Tavolo che coinvolga tutti i possibili attori di una riforma che non si limiti a rimanere sulla carta: non solo il mondo politico, ma anche la Polizia Penitenziaria, l’associazionismo sociale che opera nelle carceri e le rappresentanze della Magistratura e dell’Avvocatura italiana. Un organismo che promuova delle ispezioni all’interno delle carceri per verificare direttamente la situazione che noi stiamo qui denunciando. Una simile mobilitazione di professionalità e competenze non può non trovare una strada per riportare entro i principi dettati dalla Costituzione e il più elementare buon senso la situazione delle carceri italiane prima che l’Anno giubilare finisca, facciamo in modo che non cadano nel vuoto gli appelli di Papa Francesco che sono gli stessi di trent’anni fa di San Giovanni Paolo II. Grazie per l’attenzione. *Detenuti a Rebibbia Il carcere piega anche gli agenti di Delia Cascino e Titti Vicenti L’Espresso, 7 marzo 2025 Nel 2024, oltre a 88 detenuti, si sono tolti la vita sette membri della Polizia penitenziaria. Resistere a violenze, disorganizzazione e doppie mansioni è difficile. Soprattutto se si è lasciati soli. “A1 lavoro ho visto persone cucirsi la bocca con il filo di ferro. Alle volte, pur iniziando la mattina, finisco il turno a tarda sera”. Mario (nome di fantasia) fa l’agente di Polizia penitenziaria in un carcere del Nord Italia. Soffre di ansia e disturbi del sonno. “Ho preso molti chili. I pensieri mi tormentano”, ammette. Alcuni suoi colleghi, rivela, chiedono il congedo o preferiscono assentarsi tramite certificato di malattia. Nel sistema carcere perdono tutti. Lo scorso anno, si sono tolti la vita sette agenti e 88 persone detenute. Suicidi, aggressioni e rivolte generano alti livelli di stress. Roberto Coniali, professore di Criminologia all’Università Statale di Milano, li definisce eventi critici. Le cause del sovraccarico lavorativo e mentale per la polizia in carcere non riguardano, però, solo la gestione degli episodi più violenti. Turni estenuanti, formazione poco pertinente, paghe basse, scarso riconoscimento da parte dei superiori sono altri fattori di rischio. Lo denuncia il sindacato degli agenti penitenziari della Uil-Pa. “Ho subìto aggressioni più di una volta con un pentolino di olio bollente, con penne e lamette. È tutto fuori dalla realtà di una vita normale”, racconta Mario. In questi casi, il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria offre alla polizia dei colloqui con uno psicologo tramite gli sportelli d’ascolto. Secondo Cornelli, però, alcuni istituti non hanno accesso a questo servizio o non ne garantiscono la continuità. “In ambienti militarizzati, anche se di ordinamento civile, chiedere aiuto significa essere più deboli. Chi affronta situazioni tese può sentirsi sopraffatto”, commenta Mauro Palma, ex garante nazionale delle persone detenute. A fine giornata, Mario è sfinito. Non crede che il suo lavoro possa essere svolto per tutta la vita. “Alcuni poliziotti, dopo 40 anni sempre in carcere, cercano di tirare avanti. Li vedi distrutti. Se stai lì 18 ore, come fai a non pensarci?”, si chiede. Secondo la letteratura scientifica, gli ambienti detentivi suscitano malessere. Mario prova rabbia e paura. Quando torna a casa, trascorre il tempo con suo figlio, ma a stento si distrae: le immagini, i volti, le voci e i rumori del carcere gli tornano in mente quasi ogni notte. “Se devi fare fronte a eventi drammatici, l’adrenalina ti tiene attivo e non realizzi subito il pericolo. A volte, ridi di cose che non dovrebbero far ridere”, spiega. Secondo Cornelli, le problematiche di questo tipo sono dovute a fattori socio-culturali e alle difficoltà relazionali ed emotive. Durante gli episodi più violenti, gli agenti spesso non hanno a disposizione neppure gli equipaggiamenti di protezione individuale. Lo denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale Uil-Pa Polizia penitenziaria: “Per ovviare alle emergenze, si ricorre al personale libero da servizio di altri istituti penitenziari. Gli effetti negativi si ripercuotono sulla mole di compiti, già elevatissima, e sulla compressione dei diritti”. Mario lavora in carcere dal 2022. Sei mesi prima, aveva frequentato un corso di formazione: “In teoria, abbiamo imparato a gestire aggressioni, proteste, decessi. In pratica, no”. Perciò Palma suggerisce di strutturare i piani di studio in modo diverso: “Il sistema a rete, più delle lezioni frontali, consente di fare fronte a situazioni critiche. La formazione del personale deve essere continua”. Anche secondo Cornelli, la teoria non va disgiunta dalle esperienze sul campo: “Bisogna acquisire competenze relative alla comunicazione tra persone detenute e agenti”. Il dialogo è fondamentale. “I poliziotti - commenta Palma - possono condividere le rispettive difficoltà tramite gruppi di ascolto, quando sentono un senso di solitudine”. Alle volte manca una vera interazione con i vertici degli istituti. Cornelli la chiama “distanza relazionale”. Gli agenti che lavorano nelle sezioni detentive faticano a segnalare gli eventi critici ai colleghi di grado superiore. “Dovrei occuparmi dell’area rieducativa. Mi assegnano, però, mansioni diverse. Le comunicano il giorno stesso, in base alle emergenze”, racconta Mario. La discrepanza tra ordini e ruoli genera ambiguità. Lo attesta l’indagine sulla Polizia penitenziaria in Lombardia, a cura di Cornelli: circa il 60 per cento degli agenti non sa quale regola seguire esattamente. Secondo la letteratura scientifica, il senso di smarrimento sarebbe causato dai pregiudizi sul lavoro in carcere. “Questa pressione sociale è il risultato di un modello gestionale disorganizzato”, afferma Mario. I poliziotti si sentono avviliti, frustrati, confusi, perché svolgono doppie mansioni: custoditili e riabilitative. Cornelli lo definisce “conflitto di ruolo”. “Per esempio, gli agenti aiutano le persone detenute nell’ottica del reinserimento e nello stesso tempo provvedono alla sorveglianza”. La causa, secondo Palma, è la mancanza del personale nelle carceri di tutta Italia. L’Associazione Antigone denuncia una carenza che riguarda gli operatori penitenziari in generale, come educatori, funzionari giuridico-pedagogici, tecnici amministrativi. Secondo il ministero della Giustizia, lo scorso anno solo il 16 per cento degli agenti era in servizio negli istituti, a fronte del crescente numero di persone detenute. “Non si tratta solo di numeri. In carcere confluiscono gli esiti di altre contraddizioni sociali: tossicodipendenti, pazienti psichiatrici autori di reato. Va rimodulato il sistema”, commenta Palma. Mario è stanco e rassegnato: “Il carcere è un vivaio; il benessere di noi poliziotti è correlato a quello delle persone detenute. Non ci devono essere né vincitori né vittime”. Cappellani in carcere? O denunciano la violazione dei diritti o non sono credibili di don Vincenzo Russo* perunaltracitta.org, 7 marzo 2025 Ho letto l’intervista rilasciata su Toscana Oggi dall’Ispettore Generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, in occasione della sua visita di tre giorni presso alcuni istituti penitenziari della Toscana. Dalle sue parole voglio trarre alcune riflessioni. Tutti deplorano le condizioni in cui sono costrette a vivere le persone detenute e, alla loro situazione oggi disperata, vogliono anteporre l’annuncio di una prospettiva opposta, appunto quella della speranza. Così si esprime anche l’Ispettore Generale. Ma se ci fermiamo un attimo e andiamo oltre la superficie, scopriamo che la speranza di cui si sente parlare è un vestito vuoto, una parola di fumo che presto svanisce, piuttosto adatta ad infiorettare un cristianesimo di facciata. Davvero il carcere è luogo di disperazione. Non solo per le inadeguatezze strutturali e di risorse umane, ma particolarmente per l’assenza di proposte vere di vita. Alla desolazione dei detenuti si pensa di opporre un laboratorio o un’attività, organizzati tra quattro mura e semmai immortalati da foto ricordo a fini pubblicitari? Può essere questo motivo di vera luce e speranza per chi è recluso? Non occorre, piuttosto, rendere tali persone capaci di “stare in piedi” nella vita, di uscire da quella sfortunata esperienza con elementi di forza e preparazione che possano consegnarle ad un futuro possibile e sereno? Ripenso all’intervista e scorgo come la speranza richiamata quale emblema di questo anno giubilare, appaia ridotta a santino, a bella parola. In carcere quello che manca è la dignità; questa non può scaturire da una pacca sulla spalla, da una buona parola. Per rigenerarla occorre la presenza di una testimonianza che si fa vicina, che condivide, che porta insieme. Il cappellano ha un ruolo essenziale, può sostenere tale percorso di speranza: ma ciò comporta concretezza, significa portare alle persone detenute una prospettiva reale di uscita da quella situazione di pura passività e mestizia. Il cappellano deve essere voce di uno che grida nel deserto: nel deserto della mancanza di dignità, della violazione dei diritti, dell’assenza di difesa e sostegno in favore delle persone recluse che oggi prevale in ogni contesto. Una voce coraggiosa, che non si limita al momento liturgico ma va oltre e denuncia gli orrori che vede, affondando la propria attenzione nei luoghi dove l’umanità dei detenuti è calpestata. Caro Ispettore, non è l’invito a guardare Gesù che può risollevare la sorte presente di un detenuto; può farlo, piuttosto, lo sguardo dell’uomo che non si dimentica di lui, sguardo che deve appartenere all’intera comunità esterna e anche al cappellano. Il detenuto ha bisogno di sentirsi riconosciuto nella sua dignità, di acquisire la forza di stare in piedi nella vita, di ricominciare a costruire un proprio futuro. Tutti parliamo di speranza ma non ci accorgiamo che essa rimane parola vuota se non segue l’impegno a trascinare quelle persone fuori dal non senso, per offrire loro un percorso concreto ed efficace. La preghiera non è un fatto intellettuale o puramente spirituale, ma un evento che coinvolge tutte le dimensioni della vita. Davanti ai cappellani si pone oggi un grido di angoscia, fatto di vere ferite, di sangue che scorre. La morte spadroneggia in carcere, come dimostra il numero record dei suicidi nello scorso anno. Di fronte a questo non può reggere la storiellina dell’attività ricreativa, o della visitina del personaggio di turno. È necessaria la profezia, quella capace di riconoscere in chi è oltre quelle mura, il povero e, quindi, lo stesso Cristo. “Ero forestiero, avevo fame, ero nudo, ero in carcere…”. Ogni persona detenuta ci interpella e attende da noi la speranza vera, che deve essere connotata da fatti, qui ed ora, da elementi concreti e oggettivi, non parola di pura promessa rinviata ad un domani che mai arriva. I detenuti sono orribilmente soli e, ad oggi, poco o nulla si fa per strapparli a questa condizione. Soli sono anche i cappellani. Ho letto che un elemento di forza è la vicinanza dei loro pastori. Nella mia esperienza di cappellano ho provato una terribile solitudine, che si è accentuata nel momento in cui più avrei avuto bisogno di sostegno. Volevo essere voce e lo sono stato, voce che grida nel deserto. Ma nessun’altra voce, nella famiglia della Chiesa, si è fatta accanto. Leggo che finalmente oggi è inaugurata una stagione nella quale il carcere ha ricevuto un volto nuovo. Si fa fatica a scorgere questo nuovo volto, che non saprei dove individuare se non, amaramente, nel silenzio. Sì, il volto del silenzio: il silenzio delle Istituzioni politiche, della società, dell’Ispettorato dei Cappellani. Se, come accade fino ad oggi, manca la denuncia forte e chiara dei veri soprusi perpetrati contro il povero dentro le carceri, allora di cosa stiamo parlando, quale speranza vogliamo annunciare! Non siamo assolutamente credibili. *Già Cappellano del carcere di Sollicciano Come funziona l’Unità di Trattamento Intensificato per detenuti sex offenders di Marco Bracconi Il Venerdì di Repubblica, 7 marzo 2025 Carcere milanese di Bollate. Trentotto detenuti condannati per reati sessuali seguono un programma speciale, unico in Europa, che dovrebbe aiutarli a riconoscere le violenze commesse. Obiettivo: non commetterle più. Risultati? Ottimi. Abbiamo assistito a uno dei loro incontri (senza dimenticare le vittime) La prima cosa di cui ti accorgi quando varchi il muro di cinta del carcere di Bollate è la luce, tanta luce. E poi i colori. Vuol dire che la galera non è mai un bel posto ma può almeno essere un luogo dove provare a ricominciare, perfino se hai commesso il reato più odiato dalla società, dai reclusi comuni e talvolta da te stesso: stupro, molestie sessuali gravi, pedofilia, pedopornografia, revenge. “L’assemblea con i sex offender comincia tra poco, dobbiamo sbrigarci”, mi avverte Alessia Valentini, la funzionaria pedagogica del ministero della Giustizia che sovrintende ai progetti di recupero per i detenuti del Settimo reparto, riservato ai condannati per reati sessuali e ai “maltrattanti”. Accanto a lei il criminologo Paolo Giulini, che con la cooperativa Cipm coordina dal 2005 il gruppo di lavoro. Mi spiega: “All’assemblea cui assisterà convergono le esperienze della settimana: i gruppi di parola e le sedute di attività fisica, yoga, meditazione, arteterapia, cinema”. Riassumendo l’intero pacchetto in un acronimo si ottiene Uti, Unità di trattamento intensificato, programma che si ispira a un modello canadese ed è un unicum in Italia e in Europa. Non per caso siamo a Bollate, istituto che qualche buontempone dice “a cinque stelle” e invece è solo un posto civile, come da Costituzione. Essere presi in carico dall’Uti non uno scherzo, i partecipanti sono tutti volontari ma il programma li sottopone a esperienze psicologicamente molto impegnative, e con verifiche continue. Il tasso di recidiva Per il tipo di problematiche che sottostanno a questo genere di reati, sono chiamati in causa strati profondi della personalità, rimozioni primitive, resistenze di ogni tipo. Dice Giulini: “Non necessariamente chi compie abusi è stato vittima di abusi sessuali a sua volta, come si tenderebbe a credere; c’è invece un dato che la nostra esperienza ci fa considerare acquisito, tutti hanno avuto un’infanzia non protetta”. E allora quello che si cerca di fare qui, con rigore e senza buonismi, è portare in chiaro le zone in ombra, offrire strumenti di elaborazione con il fine di riconsegnare queste persone al controllo di se stesse e dei propri impulsi. In ballo c’è anche l’accesso ai benefici di legge, aspetto delicatissimo quando si tratta di simili reati: “Per entrare nel nostro programma il detenuto deve firmare un contratto di impegno, ma alla fine, per quelli che arrivano alla meta, il tasso di recidiva del reato precipita tra il 3 e il 5 per cento”. E scusate se è poco. Dalla metà del corridoio un vociare chiama all’appuntamento con la El plenaria del giovedì, appuntamento atteso da trentotto detenuti in tutto, qualcuno alla prima esperienza con l’Uti, altri già al secondo o terzo anno. Sulle pareti i pannelli realizzati durante le sedute di arteterapia fanno uno strano effetto lisergico, uguali come sono ai murales del mondo di fuori mentre qui siamo dentro che più dentro non si può, nella pancia di un penitenziario ma anche in fondo all’oscurità e alle residue speranze di ciascuno di questi esseri umani. A spanne, l’età media è tra i trentacinque e i quaranta, altrettanto a spanne il gruppo è interclassista, il livello di scolarizzazione diversificato. Un rebus sociologico che sciogli solo tenendo conto della singolarità di ognuno. Giocare, disegnare, imparare In assemblea si parla per alzata di mano e ora si comincia discutendo di un gioco con la palla di cui m’è scappato il nome, ma intanto comprendo meglio quel che Sergio, l’educatore di attività motoria, mi ha detto prima di entrare: “Organizziamo solo esperienze di gruppo, dove ci si misura con la competizione e l’aggressività, e ne traiamo indicazioni fondamentali. Educare a vedere il corpo dell’altro come il “proprio” corpo, per esempio, significa aiutare a fare un salto percettivo anche versus il corpo delle vittime”. Il lavoro collettivo è la struttura portante, l’assedi un programma lontanissimo dall’idea di una psicoterapia individuale. Oltre ai gruppi di parola, infatti, i detenuti che disegnano, meditano o vedono film lo fanno sempre assieme: “Abbiamo inserito il cinema nel programma da poco” racconta Giulini “e andremo avanti con la proiezione di pellicole come Crash di Cronenberg e La bestia nel cuore di Cristina Comencini”. Sono visioni capaci di innescare dinamiche emotive e di consapevolezza, come si cerca di fare in un altro dei momenti salienti del percorso, forse il più intenso: l’incontro con le vittime di reati sessuali, chiamate a raccontare la propria esperienza e le conseguenze della violenza subita. Si alza la mano di Andrea, che segnala di aver battuto per la prima volta nella vita la palla dall’alto, e con i compagni ammette di essersi dato “per la prima volta la possibilità di fallire”. È l’intervento che sblocca la discussione, ora sono quattro le mani in attesa di esprimere una sensazione, un pensiero o un richiamo dell’istinto. Non è una narrazione collettiva ma certi argomenti ricorrono, finiscono per stabilirsi. E in tanti confessano la paura di apparire deboli, con la conseguente chiusura interiore. Tocca a Salvatore, che ammette “una grande difficoltà a chiedere aiuto”, poi a Matteo, che dice più o meno la stessa cosa, quindi a Jaime che non riesce “a urlare” come gli si chiede di fare “sul campo di gioco”, infine a Ivan e alla sua “enorme fatica a parlare con le altre persone”. Non è uno sfogatoio della repressione, che in questa sala si taglia con il coltello, ma il suo esatto contrario, un momento di valore terapeutico che Giulini coglie al volo per stabilire direzioni di senso: “Vedete che il tenere dentro, pensare di gestire con l’isolamento, poi fa venire fuori l’energia nel suo aspetto sbagliato?”. L’urlo che non esce, la parola che resta muta, spesso sono questi i tratti di un sex offender, così è ancora Giulini a invitare i detenuti a un’inversione concettuale, a considerare prima la violenza e poi il sesso e non viceversa: “Partiamo dall’aggressività, che poi trova un modo sessuale per esprimersi...”. Pare facile, ma arrivarci significherebbe già per metà “guarire” e la guarigione è lunga, per ora qui ci sono solo prognosi riservate. A un certo punto, questo sì che è sorprendente, ci accorgiamo di aver dimenticato di essere in un carcere, anzi si ha la sensazione fortissima di trovarsi in un “normale” luogo di cura. Parla Riccardo, che riconosce il reato che ha commesso” e vuole “capire fino in fondo” come è arrivato “a farlo”. E Francesco, che l’anno scorso non si riconosceva nel proprio autoritratto e ora, al secondo giro di arteterapia, riesce un filino a vedersi. Chiude Andrea, che ha finalmente “smesso gli ansiolitici grazie allo yoga”. Piccoli passi, gli operatori festeggiano con l’implicito invito a durare nel tempo: “Bene, è un ottimo segnale, buon lavoro”. L’evoluzione in positivo di un sex offender non è impossibile, ma nessuno ha detto sia una cosa breve. Scusate se è poco Fine dello straniamento: che siamo nel carcere di Bollate ce lo ricorda Flavio, costretto a lasciare l’assemblea perché chiamato dal servizio di ritiro lenzuola. Ma la riunione era comunque agli sgoccioli e noi, tornati al piano terra, incrociamo il direttore Giorgio Leggieri, soddisfatto per il rifinanziamento dei fondi dedicati a questo tipo di progetti. “Così possiamo programmare, per noi è la cosa più importante”. Se deve sintetizzare il motivo per cui Bollate è da prima del suo arrivo un modello vincente, dice: “È perché siamo concreti”, e la sua frase mi accompagna fino al cancello di uscita, mentre le persone in semilibertà fanno il cammino inverso al mio. Dopo tanta immedesimazione nei colpevoli, non posso non pensare alle vittime dei delitti che oggi sono rimaste sullo sfondo, uomini e donne spesso segnate per sempre dagli abusi o dalle violenze subite. Ma concretezza significa anche rendere effettuale una Costituzione che non dice punire e vendicare, ma infliggere una pena e riabilitare. E se non bastano queste belle parole, concretezza per concretezza, può bastare anche solo il tasso di recidiva. Scusate se è poco. Magistratura, riforma infinita di Guido Corso* L’Espresso, 7 marzo 2025 La separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero richiede una modifica costituzionale? È questa la strada battuta dal governo e dalla maggioranza parlamentare. È possibile, tuttavia, che l’operazione possa essere compiuta a costituzione invariata. Gli argomenti? 1) Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale (articolo 111 comma 2 della Costituzione) Il pubblico ministero è parte, come lo è l’imputato (e il suo difensore). Dalle parti il giudice deve essere equidistante: non può identificarsi con una delle parti perché cesserebbe di essere terzo e imparziale. 2) I giudici sono soggetti soltanto alla legge (articolo 101 comma 2 della Costituzione). I giudici, non i magistrati del pubblico ministero. Non che questi non debbano essere soggetti alla legge; ma essi non sono soggetti soltanto alla legge. Mentre guarda ai giudici come individui, la Costituzione guarda al pubblico ministero come un ufficio. Un ufficio particolarmente complesso (procuratore della Repubblica, procuratore aggiunto, sostituto procuratore) che, come tutti gli uffici complessi richiede, per funzionare, una relazione di gerarchia; in cima alla quale c’è il procuratore della Repubblica. Gli altri componenti d’ufficio sono soggetti alla legge, ma anche al procuratore capo. 3) Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Queste norme sono norme di legge ordinaria (articolo 108 comma 1 della Costituzione). Ma le garanzie dei giudici sono stabilite direttamente dalla Costituzione (Csm, articolo 104; riserva al Csm dei provvedimenti di assunzione, trasferimento, promozione, disciplina, articolo 105; inamovibilità, articolo 107). Queste norme (articoli 104, 105 e 107), per la verità, fanno riferimento ai “magistrati”: sembrerebbero, quindi, includere fra i destinatari i magistrati del pubblico ministero. Perché, allora, prevedere per loro garanzie stabilite con legge ordinaria? Non potrebbe significare che ai magistrati del pubblico ministero non si applicano le garanzie stabilite con norme costituzionali? E che, di conseguenza, queste ultime - le norme costituzionali di garanzia - riguardano essenzialmente i giudici? Alla luce di queste osservazioni può essere messo in discussione l’assetto attuale del Csm, composto per due terzi da magistrati (giudici e pm); ossia da rappresentanti dei giudici e da rappresentanti di una delle parti (del processo penale). Che ne diremmo di una composizione in cui, accanto ai giudici, ci fossero gli avvocati, ossia i rappresentanti dell’altra parte, e fossero esclusi i pm? Che le cose non siano così ovvie, come ritengono i nemici della riforma, lo attesta il dibattito all’Assemblea Costituente. La maggioranza dei partecipanti era dell’avviso che i giudici e magistrati dell’accusa non fossero equiparabili, nel piano delle garanzie. L’onorevole Bettiol, penalista illustre ed esponente importante della democrazia cristiana, rilevò che “è proprio dei regimi totalitari il concetto di voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia mentre in tutti i regimi liberali esso è considerato come un organo del potere esecutivo” (Assemblea Costituente, pagina 2.519). Piero Calamandrei, preoccupato che “una magistratura così chiusa e appartata” potrebbe entrare in conflitto con il potere legislativo o il potere esecutivo, propose di istituire un Procuratore generale commissario della giustizia, come organo di collegamento tra Magistratura e Governo - in parte magistrato e in parte rappresentante politico - con diritto di partecipare con voto consultivo alle sedute del Consiglio dei ministri. Palmiro Togliatti propose che la vice presidenza del Csm fosse affidata al Ministero della Giustizia (e che una quota di magistrati fosse eletta dal popolo). Per Giovanni Leone, illustre docente di procedura penale e futuro presidente della Repubblica, “lo scopo da raggiungere è di sganciare il potere giudiziario degli altri poteri dello Stato G..), ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della Magistratura”. Il pm, “in quanto promotore dell’azione penale (...) e in quanto promotore del procedimento disciplinare a carico di magistrati (...) rappresenta presso il potere giudiziario l’organo di iniziativa e di controllo dello Stato”. Se la separazione delle carriere è possibile, e in qualche modo imposta, a Costituzione vigente, non è esagerato combattere la riforma definendola incostituzionale? I magistrati che per protesta hanno brandito una copia della Costituzione, avrebbero fatto meglio a leggerla. E leggere anche il penultimo articolo (art. 138) che disciplina la “revisione della Costituzione”: e quindi ammette che la Costituzione possa essere cambiata. *Professore emerito di Diritto amministrativo Università Roma Tre Anm, tra le otto richieste a Meloni spunta il passaggio tra funzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2025 Muovendo in direzione opposta rispetto alla separazione delle carriere, i magistrati chiedono di promuovere una “maggiore interscambiabilità tra le funzioni”. “Le nostre proposte per una giustizia più efficiente”. È quanto si legge nel documento dell’Anm che contiene gli otto punti presentati ieri dalla giunta del sindacato delle toghe nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi. Dalla richiesta di assunzioni e investimenti, alla tecnologia, per arrivare a quella definita “più spinosa” che punta a “promuovere una maggiore interscambiabilità tra le funzioni”, con un cambio di direzione completo rispetto alla riforma per la separazione delle carriere, che è stata per confermata ieri dalla premier nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi. Per le toghe le riforme ‘Castelli-Mastella’ e ‘Cartabia’ hanno drasticamente ridotto tale possibilità che invece esiste negli altri paesi europei, garantendo una migliore qualità della giurisdizione. “Abbiamo prospettato al governo otto soluzioni per altrettanti gravi problemi”, ha scritto l’Anm dopo l’incontro a palazzo Chigi nel quale ha consegnato alla premier Giorgia Meloni il documento. “Aumentare l’organico della magistratura”, recita il primo punto del documento. Dai dati CEPEJ del 2024 emerge che l’Italia ha il più basso rapporto tra magistrati e popolazione in Europa. In Italia ci sono 11,8 giudici ogni 100.000 abitanti, rispetto a una media europea di 17,6. Per i pubblici ministeri, il rapporto è di 3,8 ogni 100.000 abitanti, contro una media europea di 11,6. Inoltre, ogni pubblico ministero italiano gestisce in media 1.192 casi, rispetto ai 204 della media europea. Nonostante l’elevata produttività dei magistrati italiani, i processi durano ancora troppo a lungo. Noi proponiamo di aumentare l’organico della magistratura, assumendo almeno 1.000 nuovi magistrati all’anno per i prossimi 5 anni, per avvicinarsi alla media europea e migliorare così l’efficienza del sistema giudiziario. Il secondo punto chiede di “rivedere le piante organiche degli uffici giudiziari”. Le piante organiche attuali degli uffici giudiziari sono obsolete e non riflettono gli effettivi carichi di lavoro - scrive l’Anm -. La presenza di tribunali e procure di piccole dimensioni crea inefficienze e problemi di gestione, soprattutto in caso di incompatibilità del giudice e non consente un’adeguata specializzazione dei giudici in un contesto di crescente complessità delle istanze provenienti dalla società. Noi proponiamo di ridisegnare le piante organiche degli uffici giudiziari in base agli effettivi carichi di lavoro, di chiudere gli uffici con meno di 10 Pm e 30 giudici e di destinare maggiori risorse (umane ed economiche) agli uffici con maggiori sofferenze n modo da migliorare l’efficienza e la qualità del servizio. Al punto numero tre si chiede di “assumere nuovo personale amministrativo e stabilizzare quello precario”. Negli uffici giudiziari italiani c’è una scopertura media del personale amministrativo superiore al 30% - si legge nel testo consegnato al governo -. Il personale amministrativo è essenziale per il funzionamento degli uffici giudiziari, supportando i magistrati e fornendo un punto di riferimento per operatori e utenti della giustizia. La mancanza di personale qualificato e motivato compromette l’efficienza del sistema. L’Ufficio per il Processo deve essere concepito come un team di personale qualificato di supporto ai magistrati, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza complessiva del sistema giudiziario in sintonia con gli obiettivi del PNRR. Per funzionare, però, gli addetti all’Ufficio per il processo devono essere stabilmente e strutturalmente inseriti nel sistema, previa adeguata formazione. L’Anm propone di realizzare un piano straordinario di assunzioni del personale amministrativo per ridurre le scoperture di organico e di stabilizzare il personale precario dell’Ufficio per il Processo. La quarta richiesta punta a “dotare i magistrati di applicativi informatici adeguati”. Grandi risorse sono state investite, nel tempo, nel Processo Civile Telematico - sostiene l’Anm -. Gli applicativi attualmente in uso, però, risalgono a circa 20 anni fa e, nel corso del tempo, sono stati continuamente aggiustati e modificati in una logica emergenziale. Tuttavia, questa pratica ha portato - oltre alla necessità di continui aggiornamenti che interferiscono con l’attività lavorativa dei magistrati - all’attualità ad un sistema informatico frammentato e inefficiente, non adeguatamente interconnesso con i sistemi delle altre pubbliche amministrazioni e all’interno dei medesimi uffici. L’Applicativo per il Processo Penale (APP), inoltre, si è rivelato sin qui del tutto inadeguato: vi sono frequenti interruzioni del servizio e criticità operative che rallentano l’attività giudiziaria. L’impostazione del programma non favorisce l’efficienza e manca di integrazione telematica tra le attività di polizia giudiziaria e gli uffici requirenti. Inoltre, il sistema di predisposizione degli atti da parte del pubblico ministero è complesso e poco flessibile. Noi proponiamo di procedere con una reingegnerizzazione completa dei sistemi informatici per garantire maggiore efficienza e sicurezza; migliorare le funzionalità di APP, ripensare le tempistiche per il suo utilizzo e potenziare l’assistenza tecnica; investire in hardware e software moderni e migliorare le reti informatiche per ridurre i disservizi e le interruzioni del servizio’. “Intervenire sulla situazione carceraria” è la quinta richiesta. La situazione carceraria in Italia è drammatica - si legge nel testo - il numero dei suicidi in carcere n’è la prova. Il sovraffollamento, le condizioni fatiscenti degli istituti di pena e delle case di lavoro e una sanità penitenziaria inadeguata compromettono gravemente la funzione rieducativa della pena. La riforma della liberazione anticipata ha peggiorato la situazione, e le pene alternative sono di macchinosa applicazione. Noi proponiamo, oltre a una misura immediata per diminuire in tempi brevi il sovraffollamento, investimenti adeguati per risanare le strutture, aumentare il personale civile di custodia e un serio ampliamento delle misure alternative, in modo da garantire condizioni dignitose e l’effettiva funzione rieducativa della pena. Al punto sei, “investire nell’edilizia giudiziaria”. Le condizioni dell’edilizia giudiziaria in Italia sono precarie, con strutture inadeguate e uffici spesso inospitali e insalubri. Questa situazione crea disagio per gli operatori della giustizia e gli utenti. Nonostante l’attenzione dell’ANM e le segnalazioni ai Ministri, la situazione è peggiorata negli ultimi anni a causa di interventi frammentari e d’emergenza. Noi proponiamo di intraprendere iniziative urgenti sull’edilizia giudiziaria e sulle condizioni di lavoro del personale della Giustizia, fondate su una visione strategica e non emergenziale. La settima richiesta al governo evidenzia il bisogno di “ottimizzare la giustizia penale e civile” L’efficienza del sistema giudiziario può essere notevolmente migliorata attraverso la depenalizzazione dei reati minori e, soprattutto, attraverso riforme nel processo penale e una revisione delle recenti modifiche nel processo civile - spiega l’Anm. Da anni, l’Associazione, attraverso le sue Commissioni di Studio che prevedono la partecipazione di numerosi magistrati elabora proposte che possono essere messe a disposizione del Governo e del Parlamento al fine di migliorare il sistema processuale penale e civile. Noi proponiamo luoghi di confronto con il Governo, il Parlamento, le Istituzioni, gli Ordini professionali e la società civile al fine di: prevedere l’immediata depenalizzazione dei fatti adeguatamente sanzionabili attraverso interventi di natura non penale; introdurre meccanismi processuali finalizzati ad assicurare la deflazione e l’accelerazione dei procedimenti, soprattutto davanti al giudice monocratico e nei giudizi di impugnazione; riconsiderare completamente, a due anni di distanza dall’entrata in vigore della legge Cartabia, la sua efficacia sul processo civile eliminando tutti quegli aspetti che hanno determinato, in primo e secondo grado, un appesantimento del rito. L’ultima questione, e la più spinosa, punta a “promuovere una maggiore interscambiabilità tra le funzioni”. Le riforme ‘Castelli-Mastella’ e ‘Cartabia’ hanno drasticamente ridotto la possibilità di passaggio tra le funzioni di giudicante e requirente, contrariamente alle indicazioni della comunità internazionale - si legge nel documento -. Nei Paesi europei, anche dove vige un sistema di separazione delle carriere, è prevista una maggiore interscambiabilità tra ruoli di Giudice e Pubblico Ministero e i componenti della Procura Europea possono esercitare, negli Stati di provenienza, funzioni sia giudicanti sia inquirenti. La limitata possibilità di cumulare esperienze di giudicante e requirente riduce la qualità della giurisdizione: un Pubblico Ministero con esperienza da Giudice potrebbe valutare con maggiore solidità e accortezza gli elementi necessari per sostenere l’accusa in giudizio. Noi proponiamo di garantire una maggiore flessibilità nel passaggio tra le funzioni requirenti e giudicanti, nella piena consapevolezza che l’esperienza in diverse funzioni, raccomandata anche in sede europea, rappresenta per un magistrato una straordinaria opportunità di arricchimento sul piano della comune cultura della prova, che è la caratteristica distintiva del sistema accusatorio. “Queste sono le nostre proposte - conclude l’Anm - per rendere il sistema giudiziario più efficiente e a migliorare la qualità del servizio offerto ai cittadini”. Uno sciopero per amore di giustizia. Colloquio con Cesare Parodi di Emilio Carelli L’Espresso, 7 marzo 2025 La protesta all’inaugurazione dell’anno giudiziario e l’astensione dal lavoro dello scorso 27 febbraio. Giudici e pm sono uniti contro la riforma delle carriere. Parola del presidente Anm L’Associazione nazionale magistrati, che lei presiede, ha espresso ferma contrarietà al disegno di legge costituzionale in tema di separazione delle carriere, giungendo, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, ad abbandonare l’aula quando hanno preso la parola il ministro Carlo Nordio (a Napoli) o i delegati in rappresentanza del governo (negli altri distretti delle Corti d’Appello). Perché questa riforma è così pericolosa? “Vorrei rispondere di no, ma non sarei sincero. Stiamo parlando dei princìpi fondamentali che hanno improntato il sistema giustizia e che hanno delineato il ruolo e la funzione del pm e l’indipendenza, in senso sostanziale, di tutti i magistrati. Un sistema che è stato adeguato, in termini assolutamente condivisibili, con le disposizioni sul giusto processo. Forse non ci rendiamo conto che, sottolineando la necessità di un giudice terzo, stiamo affermando che sino a oggi non lo abbiamo avuto. I numeri sulle assoluzioni, il dovuto rispetto per il lavoro che i giudici italiani hanno svolto in tutti questi anni impongono una ferma risposta a una tesi che parrebbe non solo voler alterare gli equilibri per il futuro, ma sostanzialmente anche delegittimare il passato. Non mi pare cosa da poco”. La posizione dell’Anm è condivisa dalla maggioranza dei magistrati italiani? Anche dei magistrati giudicanti? “Assolutamente sì. Chiedere oggi un giudice terzo significa - come ho già detto - che finora non lo abbiamo avuto. Se fossi un giudice, non lo riterrei un complimento. I colleghi giudici sono molto orgogliosi della loro indipendenza e autonomia di giudizio. E i numeri dello sciopero parlano da soli. Conosco molti colleghi che non avevano mai scioperato e che questa volta hanno ritenuto di doverlo fare e conosco altri colleghi che non condividono lo sciopero come strumento di protesta e non hanno aderito, ma che sono fermamente convinti delle ragioni che hanno portato a scioperare”. Uno degli argomenti posti per opporsi alla separazione delle carriere è il rischio che il pm diventi dipendente dal potere esecutivo. Il testo della riforma non prevede questa eventualità. Da cosa nasce questo timore? Ci sono segnali in tal senso? In che modo potrebbe avvenire la sottomissione della magistratura inquirente al potere esecutivo? “Come cittadino mi sento oggi maggiormente garantito, come potenziale indagato, sapendo che il Pubblico Ministero è un organo che si fa carico di un’indagine a 360 gradi sulle condotte che mi vengono contestate. Considerate l’attuale criterio di valutazione previsto dalla riforma Cartabia, dove il pm per primo è chiamato a valutare se gli elementi consentono una ragionevole previsione di condanna. Bene, proprio nel momento in cui questo principio è stato introdotto nel sistema penale, noi chiediamo al Pubblico Ministero di assumere un ruolo diverso. Le nostre ragioni riguardano il ruolo del Pubblico Ministero che è un soggetto, quando inizia le indagini, libero di indagare e valutare solo in base alla sua coscienza e alla sua professionalità. Un Pubblico Ministero doverosamente libero, ma senza pregiudizi. L’avvocato, che è una parte fondamentale del sistema giudiziario - se sarà inserita la sua figura in Costituzione, io sarò il primo a rallegrarmene - evidentemente ha dei doveri nei confronti del proprio assistito. Non ha l’obbligo di depositare prove contrarie al proprio assistito, se lo fa viene meno al suo ruolo. Il Pubblico Ministero ha, invece, in ogni fase del procedimento, dei doveri nei confronti della legge e della propria coscienza. Questo è il punto fondamentale. Perché vogliamo in qualche modo rinunciare a questo? A chi sottolinea che nella riforma non è previsto formalmente l’assoggettamento del pm all’esecutivo e che non è neppure prevista una differente applicazione degli attuali princìpi processuali che impongono al pm di cercare prove a favore anche dell’indagato rispondo che la riforma deve essere valutata in base al generale impatto che può avere sul sistema. Un pm non adeguatamente rappresentato in sede di Csm, oppresso dal timore di incorrere in responsabilità disciplinari di natura “oggettiva”, condizionato dalla necessità di evitare possibili accuse di giustizia ideologica è già un pm che ha perso la propria indipendenza. È un pm destinato a un irreversibile mutamento genetico, calato progressivamente in un’ottica efficientista di ricerca delle condanne”. Quindi questa riforma potrebbe comportare uno scadimento della qualità della giustizia italiana? “Spesso la Camera penale interviene, anche con scioperi, quando ritiene che modifiche normative possano incidere sulle garanzie dei cittadini. È uno slancio nobile nelle intenzioni. Mi chiedo: un pm debole, timoroso di conseguenze disciplinari ingiuste, condizionato da poteri forti o semplicemente da cittadini “forti” rispetto ad altri più deboli - magari molto più deboli - è una prospettiva che lascia tutti tranquilli o non sarebbe preferibile un pm pronto ad ascoltare le ragioni di coloro che sono ingiustamente accusati?”. Le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate in moltissime democrazie occidentali. Quali rischi potrebbero esservi in Italia che invece non si sono registrati in altre nazioni? “È assolutamente pacifico che in molti Stati dove le carriere sono separate esistono forme di controllo o condizionamento dell’esecutivo sul pm. È questa la soluzione che vogliamo? Vogliamo davvero che a ogni mutamento politico, in esito alle elezioni, la parte soccombente abbia motivi di temere indagini strumentali all’affermazione del potere gestita dai pm condizionati dai nuovi organi governativi? È una prospettiva accettabile? Sarebbe una possibilità così remota? Personalmente non lo credo. Non solo. Mi chiedo: perché non si è parlato del Pubblico Ministero come di soggetto sottoposto soltanto alla legge, come prevede l’articolo 101 della Costituzione per i giudici? Qual è il motivo per cui questo non è avvenuto?”. Oggi il giudice è davvero terzo ed equidistante dalle parti come imposto dal Codice e dalla stessa Costituzione? “Osservi i numeri delle assoluzioni: la risposta la può trovare in quei numeri ed è oggettiva. Mi pare inequivocabile”. La fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia è ridotta ai minimi termini o comunque sensibilmente diminuita. Qual è, secondo lei, la causa? La separazione delle carriere potrebbe riaccendere e rinsaldare quella fiducia? “Domanda delicata e complessa. Questa riforma non sarebbe stata ipotizzata se non si fosse creata, nel tempo, una diffusa opinione negativa sul ruolo, sui poteri, sulle scelte della magistratura. Questo è l’humus all’interno del quale la volontà di riforma è nata, è cresciuta e ha assunto le attuali forme. Noi non nascondiamo i problemi, le criticità che si sono manifestate. Se oggi vogliamo essere creduti, quando affermiamo che difendiamo i princìpi della Costituzione in tema di giustizia nell’interesse solo dei cittadini, dobbiamo prima dimostrare di essere credibili. Questa è la nostra vera sfida per i prossimi mesi: difficile, ma senza alternative”. L’Anm sarebbe disponibile a un dialogo per apportare modifiche al testo di legge - penso, ad esempio, alla previsione del sorteggio - o la sua contrarietà alla riforma è assoluta, senza che sia possibile raggiungere alcuna forma di compromesso? “È proprio la natura non ideologica delle ragioni che portano Anm a opporsi alla riforma che rende logicamente ardua questa possibilità. Su ognuno dei punti della riforma esistono delle ragioni specifiche, che abbiamo più volte descritto, le quali rendono sostanzialmente impossibile una logica di scambio”. Rispetto all’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, qual è il suo pensiero? Crede che il Csm abbia svolto bene la funzione disciplinare o sul punto è opportuna un’autocritica? “L’opposizione all’Alta Corte, in estrema sintesi, si fonda su più argomenti. Prima di tutto, si tratta di una scelta che desta quantomeno qualche stupore, perché tutti gli organismi di valutazione in sede disciplinare sono in realtà fortemente integrati con il momento gestionale organizzativo dell’ente, nell’ambito del quale le responsabilità disciplinari vengono valutate. Ci pare difficile che ci possa essere una scissione tra quella che è la valutazione dell’attività fisiologica di un ente, di un organo, e quello che è il momento disciplinare, quindi patologico, dello stesso. Come si fa a valutare correttamente i profili patologici, se non si conosce nel dettaglio quotidianamente quella che è la fisiologia del sistema e del suo funzionamento? A noi interessa che chi potrà valutare dal punto di vista disciplinare la condotta dei colleghi sia pienamente calato in questa realtà, fortemente calato, perché solamente in questo modo ci potrebbe essere una valutazione equa, fondata su una conoscenza concreta dell’attività dei colleghi. Inoltre, dobbiamo rilevare che il nuovo sistema prevede una valutazione in sede di appello sempre in capo all’Alta Corte. Non voglio neanche porre un problema di autoreferenzialità: mi permetto di rilevare come in questo modo l’Alta Corte verrebbe completamente svincolata dalle indicazioni della Corte di Cassazione, che invece è la massima garanzia per tutti i cittadini, anche in una prospettiva di lettura ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione”. Lo sciopero del 27 febbraio scorso è stato partecipato? È soddisfatto? “Lo sciopero non è stato solo un successo, ma anche un evento di grande portata per la vita associativa. Dopo molti anni di polemiche e di divisioni - per certi aspetti fisiologiche - lo sciopero e ancora più le valutazioni sulla riforma ci hanno consentito di scoprire che sono più le ragioni ideali che ci accomunano di quelle che ci dividono. Vecchi e giovani, moderati e democratici. Ho cercato di dare un nome a questo e forse è facile. Siamo tutti, in fondo, innamorati dei princìpi della Costituzione in tema di giustizia. L’amore si declina in vari modi: con passione o con tenerezza, con impeto o con dolcezza (mai con violenza). Ecco: siamo tutti innamorati, ciascuno a suo modo. Ed è una splendida sensazione”. Violante: avremo i super-pm. Di Pietro: riforma doverosa di Valentina Stella Il Dubbio, 7 marzo 2025 Il padre fondatore del Pd critica lo sciopero dell’Anm. L’ex pm di Mani pulite: “Dov’è l’asservimento all’Esecutivo?”. Ma Bruti Liberati: “Rischio insito nel nuovo assetto”. Ormai le posizioni sul ddl costituzionale per la separazione delle carriere sono chiarissime, dopo l’incontro di mercoledì scorso tra la premier Giorgia Meloni e l’Anm. L’obiettivo del governo è chiudere la partita quanto prima, senza alcuna modifica in sede parlamentare. Tale elemento sarà anche l’oggetto della riunione di domani del “parlamentino” del sindacato delle toghe che, preso atto della chiusura di Palazzo Chigi e via Arenula, dovrà adesso intensificare la campagna comunicativa in vista del referendum, che si terrà probabilmente nella primavera 2026. Comunque ieri sono proseguite le audizioni in commissione Affari costituzionali del Senato. Erano state già fissate, prima ancora del faccia a faccia del 5 marzo. Davanti ai parlamentari e al presidente Alberto Balboni hanno sfilato alcune tra le figure di maggior rilievo della giustizia negli ultimi trentacinque anni: Luciano Violante, Edmondo Bruti Liberati e Antonio Di Pietro. I quali hanno manifestato opinioni assai diverse. Il primo a parlare è stato l’ex presidente della Camera Luciano Violante: “Non credo che questa riforma migliori il sistema giustizia, non risolve i vuoti di organico e delle risorse materiali, se pensiamo che in alcuni tribunali manca anche la carta per le fotocopie. Né riesce a intervenire sulla lentezza dei processi”. Secondo Violante l’obiettivo reale è quello di “un riequilibrio dei poteri tra politica e giurisdizioni. La proposta della separazione viene da lontano e allora aveva un senso, ma credo che dopo la riforma Cartabia occorrerebbe un supplemento di riflessione. La riforma istituisce un corpo investigativo speciale composto da circa 1.500 magistrati, autogovernato, privo di vincoli gerarchici, che conferma e aggrava il sovra- potere della magistratura inquirente sulla società e sulla politica”. Inoltre, per l’ex magistrato, “la riforma si rivolge solo alla giurisdizione ordinaria. Va ricordato che 28 magistrati sono stati uccisi, e la maggior parte erano pubblici ministeri”. A proposito dei pm, Violante ha ricordato quanto detto da Nordio nella sua relazione al Parlamento, ossia che “nel sistema attuale il pm è già un superpoliziotto, con l’aggravante che, godendo delle stesse garanzie del giudice, egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità. Oggi infatti il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea, attraverso la cosiddetta clonazione del fascicolo”. Per Violante allora “questa riforma non raggiungerà lo scopo: aumenterà il potere della magistratura requirente, e il pm diverrà un organo inquisitorio. Non dimentichiamo che ci sono già state condanne per chi ha nascosto prove a favore dell’imputato”. L’ex presidente della Camera ha poi rilevato una contraddizione, e ha citato anche il ddl Sicurezza: “A ogni nuova ipotesi di reato corrisponde sicuramente un aumento dei poteri di intromissione dei pm nella vita civile, politica ed economica del Paese. Per questa legislatura i dati oscillano tra i 30 ei 49 nuovi reati. Il solo ddl Sicurezza prevede 16 nuove figure di reato, più un certo numero di circostanze aggravanti che potenziano i poteri di intromissione del pm. Mi chiedo se non vi sia una contraddizione tra la denuncia di un ruolo eccessivo dei pm e l’aumento di questo potere d’intervento”. Ma non è mancata, nell’audizione di Violante in Senato, una critica allo sciopero delle toghe: “Tu magistrato non puoi scendere in piazza perché la gente deve avere fiducia in te, tutta la gente, non solo quelli che stanno dalla tua parte”. Sul sorteggio ha concluso: “È abbastanza singolare come previsione: mi chiedo se sia rispettato il principio di eguaglianza con le altre istituzioni. E il sorteggiato apparterrà comunque a una corrente”. Poi è intervenuto l’ex pm di Mani pulite e già leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, indicato da FdI: “Ho sentito in questi giorni, anche tra chi ha fatto sciopero, che la riforma mina l’indipendenza soprattutto della magistratura requirente. Ma leggendo l’articolo 104 non è vero. Certo, domani la magistratura requirente potrebbe avere troppo potere, e allora il politico lo rivaluterà, ma per farlo bisognerà modificare la Costituzione, e quando e se ci sarà quel tentativo di modifica sarò il primo a oppormi. Ma al momento questo non c’è scritto”. Ha proseguito: “Condivido la critica di Violante per cui la riforma riguardi solo la magistratura ordinaria e non quella amministrativa e contabile. La si sarebbe potuta far meglio, ma se si ragiona sempre così allora non si fa mai nulla. Si dice no al sorteggio? Ma quale sarebbe l’alternativa? Le cose, per come stanno, non hanno funzionato: Palamara docet. Il correntismo ha rovinato la credibilità della magistratura”. Ha poi espresso piena approvazione per la riforma: “È una conseguenza naturale di quella che fu la riforma del processo penale. È vero che non risolve i problemi della giustizia, ma risolve quello che aveva previsto il legislatore con il sistema accusatorio”. Di Pietro ha ammesso: “L’accusa non cerca mai le prove per la difesa, ben venga che ci sia un organo separato su cui interviene l’Alta Corte disciplinare”. Ha proseguito: “Il governo ha sbagliato a metterci il cappello sopra: non voglio che sembri che io dia ragione al governo, voglio però riconoscere una ragione organizzativa”. Ha concluso rivolgendosi all’associazione presieduta da Cesare Parodi: “L’Anm fa bene il proprio lavoro ma sbaglia quando va oltre, ad esempio con lo sciopero, per opporsi a quello che fa il Parlamento”. È stata quindi la volta di Edmondo Bruti Liberati, già procuratore di Milano: “Il Csm viene ridotto all’irrilevanza. Eppure è stato un modello per le realtà che hanno riconquistato la democrazia come la Spagna, il Portogallo, gli Stati dell’Europa dell’Est dopo la caduta del Muro”. L’ex togato Csm ha proseguito: “Non ho dubbi sull’onestà dei fautori della riforma, ma le istituzioni hanno una loro logica intrinseca che prescinde dal legislatore: ho letto adesso le dichiarazioni di Sisto all’Ansa per cui ‘ se poi qualcuno vuole strumentalmente evocare fantasmi e inventare il ‘ lupo cattivo è libero di farlo’, ma evocare la sottoposizione del pm all’Esecutivo non significa affatto evocare un fantasma”. Bruti Liberati ha poi concluso: “Si vuol ridurre il magistrato a bocca della legge, a un essere inanimato. Ma i magistrati sono come tutti gli altri: votano. E secondo le più elementari statistiche, oggi le toghe azzurre- nero- verdi sono in maggioranza rispetto a quelle giallo- rosso, perché i magistrati uomini e donne votano come tutti gli altri. Sarebbe il caso di abolire la citazione delle toghe rosse ogni volta che vi sia un provvedimento che non viene gradito”. Il pm Celli: “Dalla premier nessuna apertura, solo accuse ai magistrati” di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 marzo 2025 Intervista al vicesegretario dell’Anm: “Tutti i giudici hanno le loro idee, anche chi non ha giornali in tasca”. Stefano Celli, sostituto procuratore a Rimini, esponente di Magistratura democratica e vicesegretario dell’Anm. Durante il vostro incontro a palazzo Chigi ha mai avuto l’impressione che il governo volesse aprire un dialogo sulla riforma della giustizia? Prima dell’incontro c’è stato il tentativo di accreditare a Meloni la volontà di dialogare, con concessione di possibili modifiche gradite a quelle parti dei gruppi che ragionano e agiscono in chiave clientelare. Sorteggio temperato, magari con una platea di sorteggiati talmente ampia da consentire loro un ampio margine di manovra. Non si poteva escludere una scelta di questo genere, ma a parte le voci, non si sa bene messe in giro da chi, anche prima dello sciopero, non mi è parsa mai una proposta realmente sul tavolo. Come vede questo futuro tavolo promesso dal governo? Non credo che l’Anm possa accettare di partecipare a un tavolo per l’attuazione di una riforma ritenuta sbagliata e dannosa. Se invece si tratta di segnalare le criticità del sistema giustizia e indicare possibili soluzioni lo abbiamo fatto anche ieri (mercoledì, ndr) e manteniamo la disponibilità alla collaborazione. Che atteggiamento ha avuto Meloni nei vostri confronti? L’atteggiamento è stato sicuramente cordiale. È mancato, però, l’altro aggettivo che di solito accompagna il primo: “costruttivo”. Ecco io confidavo in un’apertura, anche solo di massima, ad alcune nostre argomentazioni, una disponibilità di fondo al cambiamento. O, almeno, l’esposizione di ragioni tecniche, giuridiche, culturali che potessero indurci a rivedere il nostro punto di vista. Abbiamo invece ascoltato accuse a singoli magistrati, fuori fuoco rispetto ai temi che avremmo dovuto trattare. L’affermazione che le correnti, che come tutte le associazioni sono tutelate dalla Carta, non avrebbero copertura costituzionale a differenza dei partiti. Critiche superficiali alla sentenza della sezione disciplinare, uno degli organi più rigorosi nel panorama degli ordini professionali, unica che ha in seno un terzo di non magistrati. Argomenti veramente poveri. Si è parlato anche di giudici che vanno in giro con l’Unità e il manifesto in tasca. A dirla tutta qualcuno di voi scrive anche su questo giornale. Come la mettiamo con l’imparzialità? Tema ampio. Rispondo con una domanda e una riflessione. Il giudice che non tiene alcun giornale in tasca non vota alle elezioni? Smette di avere idee politiche, orientamenti culturali, preferenze di partiti? Il fatto di non conoscerle tranquillizza il cittadino, si dice, sull’imparzialità del giudice. Dubito che questa tranquillità sia ben riposta. Quali che siano le idee del giudice, questi deve motivare le sue decisioni. E in quel momento le parzialità vengono a galla, perché la motivazione basata sulle preferenze ideologiche, invece che sulle prove, semplicemente non regge. Non trova che il muro contro muro che si è venuto a creare col governo contribuisca a tenere l’Anm compatta? Proprio così. È stato il mio secondo pensiero, che mi ha fatto dimenticare la delusione causata non tanto dall’esito, ma proprio dal tipo di argomentazioni usate dai nostri interlocutori, anche i più tecnici. Dopo lo sciopero della settimana scorsa quali altre iniziative dovrebbe mettere in campo l’Anm? Dobbiamo far comprendere ai cittadini le conseguenze della riforma. Per questo abbiamo già deciso, fra l’altro, la formazione di del Comitato per la difesa della costituzione, che sarà incaricato di organizzare iniziative per promuovere la conoscenza della riforma e delle sue implicazioni. È un punto cui il gruppo di Md tiene molto, perché la nostra è una storia di confronto con il punto di vista esterno, una storia di contaminazione e di messa in discussione continua del proprio ruolo. Abbiamo poi intenzione di coinvolgere le istituzioni europee preposte al monitoraggio dell’indipendenza e imparzialità della magistratura. Alcuni paesi hanno adottato leggi in chiaro contrasto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura e l’Europa ha saputo reagire. Del resto gli organi europei hanno sempre raccomandato di facilitare il passaggio da una funzione all’altra, scambio che innesta equilibrio nell’azione del pubblico ministero e concretezza in quella del giudice. De Cataldo: “Obiettivo della destra è la Costituzione, vogliono limitare i controlli sul Governo” di Francesca Schianchi La Stampa, 7 marzo 2025 L’ex magistrato, autore di Romanzo criminale: “La riforma della giustizia è inutile e dannosa. C’è un’interpretazione della democrazia in chiave nuova, in senso sostanzialmente autoritario”. Fosse stato ancora in attività, la settimana scorsa Giancarlo De Cataldo avrebbe scioperato insieme ai colleghi magistrati. “Ho aderito idealmente”, dice. Perché anche lo sceneggiatore, scrittore, autore del libro cult Romanzo criminale, in magistratura per quarant’anni, giudica negativamente la riforma della giustizia in discussione in Parlamento: “Ha fatto il miracolo di mettere d’accordo un bravissimo procuratore come Nicola Gratteri e quelli che hanno le mie idee, non proprio identiche”. Ed è convinto che all’origine di quel testo di legge ci sia un obiettivo preciso: “Modificare la Costituzione nell’equilibrio dei poteri”. È questo secondo lei il vero scopo della legge? “È una tendenza non solo italiana e non solo di destra, quella di accentuare il potere di governo rispetto al sistema di controlli che le Costituzioni liberali come la nostra hanno inserito”. Nonostante le smentite della premier, pensa che vogliano aprire la strada al controllo della politica sui pm? “Ma non perché sono brutti e cattivi. Aderiscono a una corrente di pensiero secondo cui l’attività di governo deve trovare meno ostacoli possibile. Vuol dire interpretare la democrazia in chiave nuova, in senso sostanzialmente autoritario”. Non è cosa da poco. Se è come dice lei verrà minata l’indipendenza dei pm… “Dal mio punto di vista infatti è un’involuzione. Ma vede, la nostra Costituzione è chiara: il magistrato è una figura che abbraccia chi accusa e chi giudica, e ne viene garantita indipendenza e autonomia. Se il pm non sarà più un magistrato, se non sarà più comandato dalla legge, ci dovrà essere qualcun altro a comandarlo”. La separazione delle carriere avrà almeno effetti sulla velocità dei processi? “Non sposterà di un grammo l’efficienza della giustizia. Per questo credo che la riforma sia inutile, e anche dannosa, se si parla di intercettazioni. Leggevo di un allarme per il rischio di fake grazie all’intelligenza artificiale: curioso che si limitino le intercettazioni legali quando qualunque smanettone può alterare la realtà a piacimento”. Cosa ne pensa dell’idea di eleggere i membri del Csm per sorteggio? “Di sorteggio si parla dagli anni Settanta. E rientra in quel quadro ben descritto già quarant’anni fa dal settimanale socialista Mondo Operaio: lo scontro tra i limiti posti dalla Costituzione e chi vuole governare senza forme di controllo. Per dire quanto è antica la discussione”. Deduco che non sia d’accordo. “Nella vita contano le abilità, la cultura, il consenso, lo spirito di sacrificio. Il sorteggio azzera tutto questo e lo riduce a un fatto casuale. Chi ci garantisce che dall’urna non esca il peggiore?”. Secondo il governo è un modo per stroncare le degenerazioni correntizie. Che, ammetterà, ci sono state… “E con il sorteggio non ci saranno correnti, ma come le vogliamo chiamare? Cordate, gruppi? Quando il Csm dovrà scegliere il procuratore di Roma tra due candidati, non si formeranno comunque cordate per uno o per l’altro?”. La destra dice: c’è una magistratura politicizzata. Si sente di dire che non è vero? “I magistrati hanno, come tutti, idee politiche. Ma, quando si giudica, il discrimine è il rispetto della legge e la cultura della prova. Pensare che i magistrati giudichino in base alle loro idee politiche è primitivo, pre-Costituzionale. E sul tema noto due pesi e due misure”. A cosa si riferisce? “Quando la destra parla di magistrati politicizzati intende toghe di sinistra, Magistratura democratica. Ma nel governo ci sono ex magistrati di destra: io non ho mai contestato il loro essere di destra prima né il loro fare politica oggi. Perché è legittimo per chi è di destra quello che, se fatto a sinistra, reputano vergognoso?”. Nell’incontro di mercoledì a Palazzo Chigi, alla richiesta di rispetto dei magistrati, la premier ha risposto che anche la politica si sente attaccata… “La politica si sta ancora leccando le ferite da Tangentopoli. Lì è partito il cortocircuito, quando la politica ha capito che con questo impianto normativo un’intera classe politica poteva essere messa sotto processo”. Dopo la condanna di primo grado, il sottosegretario Delmastro ha attaccato i giudici politicizzati: che effetto le ha fatto? “I magistrati sono un bersaglio interposto. Sono scaramucce che nascondono il vero terreno di battaglia, il cambio della Costituzione”. Secondo lei Delmastro e la ministra Santanché, rinviata a giudizio, dovrebbero dimettersi? “È come sulla sicurezza: quando sei all’opposizione critichi il Paese, e quando sei al governo va tutto bene. E così per le indagini: se sei all’opposizione chiedi le dimissioni di chiunque, se sei al governo è colpa della magistratura politicizzata. Penso che la decisione riguardi loro e i loro elettori”. La riforma alla fine passerà? “Non ho dubbi, perché è consustanziale all’ideologia che sorregge l’attività di questo governo”. Poi però ci sarà il referendum… “E mi fa sorridere che da destra qualcuno abbia detto: “i magistrati già si preparano”, come fosse una cosa sconveniente. Mi sembra una di quelle mancanze di rispetto di cui ha parlato il presidente dell’Anm Parodi alla premier. Deciderà la volontà popolare”. Come spiegherete una battaglia che ai cittadini rischia di apparire corporativa e molto tecnica? “È un’impresa difficile, anche perché a nessuno piace essere giudicato. La legge incarna un comando oggettivo e terrificante. Ma penso abbia ragione Gianrico Carofiglio, quando dice che dovremmo spiegarla come a un bambino di 8 anni”. Ci provi... “Un bullo entra in una classe e prende a schiaffi un bambino. Il bambino va dal maestro e si lamenta. E il maestro risponde: aspetta, devo chiedere al preside se posso fare qualcosa. Questo esempio si avvicina alla giustizia che stanno costruendo. In cui c’è un filtro che dice: questo si persegue, questo si lascia andare”. L’ombra di un caso George Floyd a Milano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2025 Una notte che avrebbe dovuto concludersi con un intervento di soccorso si è trasformata in una tragedia irrisolta. Igor Squeo, 33 anni, milanese, è morto dopo essere stato immobilizzato dalla polizia in circostanze ancora avvolte nel mistero. La sua vicenda, oggi al centro di un’interrogazione parlamentare del deputato Marco Grimaldi (Avs), riaccende i riflettori su pratiche di fermo che ricordano da vicino la morte di George Floyd a Minneapolis nel 2020. Un parallelo agghiacciante, tra compressioni toraciche, omissioni istituzionali e una madre in cerca di giustizia. Tutto inizia alle ore 1: 00 del 12 giugno 2022, a Milano, quando il coinquilino di Squeo, allarmato dal suo stato di agitazione, chiama la polizia. Gli agenti, giunti sul posto, dichiarano di averlo ammanettato e messo in posizione laterale di sicurezza, una procedura standard per prevenire rischi di asfissia. Ma la versione degli operatori sanitari, intervenuti successivamente, è diametralmente opposta: Squeo era prono a terra, con il torace compresso da un agente. Nonostante una crisi respiratoria già in atto, gli viene somministrato il Propofol, un potente sedativo utilizzato in anestesia generale. Due minuti dopo, il primo arresto cardiaco. Alle 6: 45, Igor muore. A chiamare Franca Pisano, madre di Squeo, furono i sanitari del policlinico di Via Francesco Sforza, dicendole che il figlio era morto a causa di un arresto cardiaco: “L’ho visto sdraiato su quel letto, pieno di lividi e ferite, il corpo fasciato. Nessuno che mi spiegasse, ‘overdose da cocaina’, dissero, per loro finiva lì”. Il pubblico ministero aveva inizialmente chiesto l’archiviazione, attribuendo il decesso alla cocaina assunta da Squeo almeno cinque ore prima. Ma il gip ha respinto la richiesta, ordinando nuove indagini. Ma si può liquidare il tutto con la droga? Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritto, da anni in prima linea contro gli abusi delle forze dell’ordine, tuona: “La combinazione della cosiddetta manovra Floyd, quindi della compressione del torace, e la somministrazione di un anestetico prima del quale non è chiaro se l’uomo fosse stato monitorato avendo già crisi respiratorie in atto, sono elementi critici che devono essere approfonditi per restituire la verità su quella notte e su questa morte!”. A scuotere il caso in parlamento, come detto, arriva l’interrogazione presentata da Grimaldi, che punta il dito sulle linee guida disattese. Nel 2014, una circolare dei Carabinieri (n. 1168/ 4831- 1993) vietava esplicitamente le immobilizzazioni a terra in posizione prona, definendole un rischio di “asfissia posturale”. Ma nel 2016, quel documento fu sostituito da una nuova circolare (n. 1168/ 483-1-1993), che eliminò molte delle garanzie precedenti. Il deputato chiede di ripristinare quelle norme. L’interrogazione, rivolta al ministero della difesa, chiede “se non si ritenga opportuno ripristinare quanto previsto dalla circolare n. 1168/ 483- 1- 1993, vietando espressamente negli interventi operativi la cosiddetta manovra Floyd o, comunque, qualsiasi forma di compressione toracica”. Il paragone di questa vicenda con quella di George Floyd è inevitabile. La condanna dell’agente Derek Chauvin aveva dimostrato che fu la pressione sul collo, non la droga nel sangue, a uccidere Floyd. Eppure, in Italia come negli USA, pare che queste tecniche siano permesse. La pena pecuniaria sostitutiva va applicata accertando il reddito giornaliero del condannato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2025 L’ampia forbice entro cui si può fissare l’entità della pena pecuniaria impone la valutazione delle condizioni economiche e patrimoniali del condannato e del nucleo familiare al fine di rapportarla al suo reddito giornaliero. Il giudice che, anche in assenza di richiesta dell’imputato, decida per l’applicazione della pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva breve deve tener conto delle condizioni reddituali e patrimoniali della persona condannata e del suo nucleo familiare. Non può quindi decidere sull’entità della pena pecuniaria senza acquisire gli elementi che definiscono la condizione economica della persona condannata, ossia il suo reddito giornaliero. Inoltre, nel regime transitorio non poteva il giudice di appello stabilire la sostituzione in assenza di richiesta avanzata dall’imputato. Per tali motivi la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 9234/2025 - ha accolto il ricorso contro la sentenza di appello che aveva stabilito in 50 euro giornalieri la consistenza della pena pecuniaria sostitutiva di tre mesi di detenzione. Il motivo accolto faceva rilevare che, al di là della mancata fissazione di un’apposita udienza di sentencing, il giudice di appello non aveva provveduto ad alcuna istruttoria per accertare le condizioni economiche del ricorrente condannato che costituiscono il parametro per commisurare la quota giornaliera di denaro dovuta per l’estinzione della pena pecuniaria sostitutiva. In base al regime transitorio della Riforma Cartabia, applicabile al caso concreto, l’applicazione delle nuove pene sostitutive nel giudizio di appello pendente non prevedeva il potere del giudice di applicarle d’ufficio (sezioni Unite Punzo) e questi era tenuto a decidere sul punto solo in base a espressa richiesta dell’interessato. In ogni caso nel giudizio sottoposto all’attenzione del giudice non vi era stata alcuna richiesta dell’imputato all’applicazione della pena pecuniaria. Comunque se nel vigore del nuovo articolo 545 bis del codice di procedura penale non è richiesto il consenso dell’imputato quando la sostituzione avviene con pena pecuniaria non poteva - a maggior ragione - il giudice nel caso concreto applicarla senza alcuna interlocuzione con l’imputato. Nel caso della pena pecuniaria, infatti, il giudice dispone di una così ampia forbice, entro cui stabilire la consistenza della pena pecuniaria (da 5 a 2.500 euro giornalieri), che si impone la sua cognizione sul profilo economico della persona condannata al pagamento. Emilia Romagna. Carceri, la Regione apre un Osservatorio permanente modenatoday.it, 7 marzo 2025 Si punta sul recupero dei tossicodipendenti. Lo ha annunciato l’assessora regionale al Welfare intervenendo ieri in Commissione assembleare. Un Osservatorio regionale sulle carceri che coinvolga le Camere penali, l’Ordine degli Avvocati, gli enti del Terzo settore per fare in modo che ci sia un monitoraggio continuo degli esiti delle politiche che la Regione Emilia-Romagna intende mettere in campo e delle condizioni di detenuti e operatori di polizia. Lo ha annunciato oggi l’assessora regionale al Welfare, Isabella Conti, intervenendo in Commissione per la parità e per i diritti delle persone e Cultura dell’Assemblea legislativa. Tra le misure annunciate, l’avvio di un’interlocuzione con il ministero della Giustizia per avviare un percorso con le comunità di recupero in modo che i detenuti tossicodipendenti possano essere trasferiti e curati, il potenziamento dell’assistenza sanitaria attivando un percorso di dentisti volontari all’interno del carcere, nuovi corsi di formazione, teatro, educazione. E ancora, la possibilità di individuare istituti che possano essere tutti dedicati a formazione e lavoro. “Il 17 marzo arriveranno alla Dozza di Bologna i primi giovani detenuti dalle carceri minorili- sottolinea Conti-, andrò a conoscerli e raccontare le loro storie alla città perché ci si ricordi che sono poco più che bambini con storie dolorose, non numeri senza volto. Vogliamo dare risposte perché ormai il sovraffollamento nelle carceri emiliano-romagnole non è più tollerabile. Sono strutture vecchie e inidonee per spazi e servizi in grado di garantire dignità ai detenuti”. “A questo si aggiunge il tema annoso della carenza di personale- prosegue Conti-. È importante che le istituzioni siano consapevoli che il tema della mancanza di dignità affligge sia i detenuti sia chi lavora all’interno del carcere. In mancanza di risorse dello Stato, la Regione ha deciso di intervenire per migliorare le condizioni e fare la propria parte. Vogliamo attivare- chiude l’assessora- percorsi qualificati e personalizzati di assistenza, formazione professionale e al lavoro, promuovere misure alternative al carcere e sostenere percorsi di inserimento abitativo e di orientamento al lavoro. Solo così potremo parlare di recupero e ridare un futuro alle persone dopo la detenzione”. Nelle carceri dell’Emilia-Romagna, questi i dati presentati dall’assessora in Commissione, ci sono 3.834 detenuti, ma la capienza è di 2.987: nelle celle bisogna stringersi per fare spazio a 847 persone in più. A garantire la sicurezza ci sono 1.907 agenti di Polizia penitenziaria, anche se da pianta organica dovrebbero essercene 2.105. Ne mancano quindi 198. Si registra un sovraffollamento che va dal 170% a Bologna al 122% a Parma. Nel 2024 in regione ci sono stati 9 suicidi: tre a Parma, due a Bologna, uno a Ferrara, uno a Reggio Emilia, uno a Piacenza e uno a Modena. In questi primi mesi del 2025 sono già 5 i morti: tre a Modena, uno a Bologna e uno a Reggio Emilia. Quanto al trasferimento di una cinquantina di detenuti minori al carcere della Dozza, Conti ha poi ricordato che nel corso dell’incontro, avvenuto pochi giorni fa, con il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, “è stata rappresentata preoccupazione e contrarietà, ma anche la disponibilità a collaborare e fare il possibile per attivare una rete di educatori”. Infine, l’assessora ha annunciato anche nuovi sopralluoghi, dopo quelli a gennaio alla Dozza a Bologna e Sant’Anna a Modena, insieme al presidente Michele de Pascale “in modo che entro aprile si abbia contezza delle situazioni di tutte le carceri dell’Emilia-Romagna”. Cuneo. “Quelle celle anguste dove manca l’aria”. L’ennesima denuncia sui guai delle carceri di Barbara Morra La Stampa, 7 marzo 2025 L’associazione “Nessuno tocchi Caino”, i Garanti territoriali dei detenuti e Unione Camere penali hanno visitato le Case di reclusione in provincia. “Dopo la visita a quello di Cuneo al carcere di Fossano ci siamo rifatti gli occhi e l’anima”. Così Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” che, nei giorni scorsi, insieme ai garanti territoriali per i detenuti e l’Unione delle Camere penali, ha visitato le case di reclusione della Granda nell’ambito di un giro più vasto in tutto l’universo carcerario del Piemonte. A Fossano i componenti della delegazione, guidati dal garante regionale Bruno Mellano, hanno condiviso osservazioni a caldo denunciando “il silenzio assordante della politica e della società civile sul carcere”. Il riferimento è alla recente ondata di suicidi dietro alle sbarre, segnale di un malessere certificato dalla magistratura di sorveglianza e legato “al mancato rispetto dei diritti umani dei detenuti” a partire dal sovraffollamento. “Noi garanti siamo osservatori privilegiati, abbiamo il potere di ingresso nelle carceri senza necessità di autorizzazione preventiva. Possiamo avere il polso della situazione che talvolta può sfuggire anche alle amministrazioni penitenziarie e alla politica” ha esordito Mellano. Questo “polso della situazione” ha fatto dire all’ex deputata, membro del partito radicale che i 114 detenuti di Fossano si trovano “in una dimensione umana”. “Sapevo che questo carcere era situato in un vecchio convento e pensavo che, proprio per questo, i detenuti stessero male invece le strutture antiche quando non sono oltre la capienza regolamentare determinano una condizione più umana che non le carceri di cemento che venivano chiamate carceri d’oro; a Fossano si sente il muro quasi familiare, i colori, gli spazi, i tre cortili”. Dora Bissoni, avvocata e referente di Cuneo per l’Unione camere penali, faceva parte della delegazione: “Dal 99 ho iniziato la pratica da avvocato frequentando il carcere (di Cuneo ndr) ma non l’ho mai percepito così. Grazie all’architetto Cesare Burdese che ci accompagnava ho guardato con occhi diversi: ho compreso che se le realtà non si recepiscono in modo concreto non si possono mutare. Chi amministra i nostri soldi dovrebbe fare questa esperienza di dialogo e rapporto diretto con le situazioni a maggior ragione nel carcere”. Su Fossano: “Al carcere di Fossano è stato come vedere la luce dopo la notte non tanto quanto alla struttura ma perché in un carcere come Cuneo c’è la percezione di una mancanza di futuro”. Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino” ha descritto la visita alla sezione isolamento del Cerialdo come “una sorta di discesa agli inferi”: “Scendi finché non ti infili in un budello lungo circa 50 metri. Con l’architetto lo abbiamo misurato: 1,82 metri di larghezza e 2,20 di altezza, senza ventilazioni e finestre. È buio e ti chiedi in che posto ti stai infilando, un bassofondo di un luogo di privazione della libertà, una cantina. Ci sono sette celle, dalla zero alla sei. Siamo entrati: c’è una finestra alta con le sbarre e la rete metallica a maglie così fini che non si vede quasi oltre e, fuori, a un metro, un muro di cemento. Manca la luce naturale, manca l’aria e non si può vedere nulla, è un luogo di privazione di tutto. Cuneo è una pena non solo per i detenuti ma anche per i detenenti”. L’invito è ad andare oltre la dimensione del carcere: “Non è una struttura da cambiare o migliorare ma da superare, aiutateci a farlo”. Davide Mosso dell’Osservatorio carcere ha sottolineato la piaga della mancanza di occupazione: “A Cuneo ci sono 388 persone e solo 3 per ognuna delle 3 sezioni svolgono lavori a turnazione: fare la spesa, pulire e raccogliere ordini per lo spaccio”. Asti. Nessuno tocchi Caino: “Il carcere è una cattedrale nel deserto sovraffollata” di Selma Chiosso La Stampa, 7 marzo 2025 I dirigenti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” hanno visitato la Casa di Reclusione ad Alta sicurezza. Gli avvocati Gatti e Capra della Camera penale: “I magistrati di sorveglianza incontrino i detenuti in istituto”. “La prima impressione è stata quella di un sommergibile”. “A me è sembrata una cattedrale nel deserto”. Così è sembrata la Casa di Reclusione ad Alta sicurezza di Asti visitata dai dirigenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Nel loro viaggio sono stati accompagnati dagli avvocati Davide Gatti e Roberto Capra presidenti delle Camere penali di Asti e Torino e Bruno Mellano garante regionale dei detenuti. Diverse le problematiche emerse, alcune croniche come gli organici ridotti, altre nuove come il diritto all’affettività. “Ma una è la madre di tutte: il sovraffollamento”, ha evidenziato Capra. Lo confermano i numeri. Elisabetta Zamparutti, segretaria di Nessuno tocchi Caino: “La capienza del carcere è di 207 detenuti, attualmente sono 248”. Un dato sotto la media nazionale, ma significa che in una cella pensata per una persona ne abitano due. Spazio chiuso e convivenza forzata fanno esplodere tensioni, disagi, depressione, rabbia. Le conseguenze possono essere mortali: i suicidi nelle carceri italiane sono in aumento e riguardano tutti, carcerati e poliziotti. La carenza di organico - La mancanza di personale frena drasticamente tante iniziative e blocca l’utilizzo delle strutture. “La sala hobby è chiusa; il parco giochi per fare incontrare i papà con i bambini non si può sfruttare, il campetto da calcio viene usato solo in rare occasioni”, ha evidenziato Bruno Mellano. Zamparutti: “La pianta organica prevede che l’organico della polizia penitenziaria sia di 167 persone. In servizio ce ne sono 109 ma da questi bisogna sottrarne 24: cinofili e addetti ai trasporti che quindi non possono prestare servizio in istituto”. Inoltre bisogna conteggiare ferie, mutua, permessi, servizi esterni con altre forze dell’ordine, piantonamenti in ospedale. Un organico che si assottiglia sempre più come da anni sottolineano i sindacati. La Ragioneria sguarnita è una spina nel cuore della direttrice Giuseppina Piscioneri. Significa un rallentamento della contabilità e delle pratiche burocratiche che sono un po’ il motore di progetti e iniziative. I problemi sanitari - Sono 225 i detenuti con sentenze definitive, 40 gli ergastolani. Persone che devono scontare reati gravissimi, soprattutto di mafia, quindi: pene lunghe e età che avanza. Zamparutti: “Servirebbe un geriatra che non c’è”. Mellano annuncia una buona notizia. “Da tempo era stato chiesto uno psicologo per assistere i detenuti in entrata. Mi risulta che la Regione abbia imposto all’Asl di Asti di organizzarsi”. Gli avvocati Gatti e Capra: “Sono 4 o 5 i detenuti che usufruiscono dei permessi e solo il 15% lavora. Gli universitari iscritti a Giurisprudenza sono una decina. Abbiamo stipulato un accordo con l’Università di Torino per la formazione”. Poi: “I magistrati di sorveglianza devono venire in carcere e incontrare i detenuti. Non basta il diritto penale serve umanità dal vivo e non da remoto”. Sulle celle raccontano: “Un astigiano trasferito a Tempio Pausania avendo scontato ad Asti giorni in una cella troppo piccola ha chiesto e ottenuto lo sconto di alcuni giorni. Tornato ad Asti ha riformulato la domanda che è stata respinta. La cella era la stessa”.La presidente Rita Bernardini e il segretario Sergio Elia: “ Visitiamo le carceri del Piemonte, bisogna fare emergere le sacche di illegalità, il diritto umano è fondamentale per tutti. Il sistema carcere va riformulato. Sulla questione dei magistrati di sorveglianza presenteremo una interrogazione al ministro”. Mellano ha ricordato Mariangela Cotto che con il sindaco si era opposta alla costruzione di un secondo istituto: “Sarebbero raddoppiati i problemi e lo volevano fare in zona esondabile”. Sommergibile. Cremona. Emergenza carcere, i Radicali: “Serve una riflessione vera” cremonaoggi.it, 7 marzo 2025 Cresce la preoccupazione per il carcere di Cremona, sempre più al centro di episodi di violenza. A intervenire è l’associazione Radicale Fabiano Antoniani, che fa il punto della situazione: “Di settimana in settimana la situazione in Casa Circondariale Ca’ del Ferro diventa sempre più complessa: al suicidio di un detenuto settimana scorsa (il tredicesimo da inizio anno cui si è aggiunta, a pochi giorni di distanza, una donna detenuta uccisasi nel carcere di Mantova) e alle condizioni critiche di sovraffollamento spesse volte denunciate, si è aggiunta l’aggressione a un agente di polizia penitenziaria nel pieno del servizio” commentano Nancy Pederzani, Vittoria Loffi e Vittorio Mascarini, rispettivamente presidente, segretario e tesoriere dell’associazione. “Episodi ravvicinati che vanno a segnalare il raggiungimento di un vero e proprio limite che sta mettendo a dura prova la salute psicofisica di chiunque viva la struttura detentiva quotidianamente, dal personale ai detenuti. Come Associazione Radicale Fabiano Antoniani ci teniamo a manifestare solidarietà all’agente aggredito, oltre che complessivamente al Personale di Polizia Penitenziaria di stanza presso la Casa Circondariale, con cui ci confrontiamo ad ogni nostra visita ispettiva”. Tuttavia, l’associazione prende le distanze da quanto affermato dal Consigliere Regionale di Fratelli d’Italia, Marcello Ventura, “che auspica l’adozione di “strumenti adeguati alla gestione di detenuti violenti” oltre che l’isolamento in strutture terze. Ci teniamo a ricordare al Consigliere che il compito primario e costituzionale dello Stato - e a cui non assolve ormai da tempo - è quello della rieducazione e risocializzazione del reo” commentano i radicali. “Attività impossibili quando le voci di spesa destinate al personale e al trattamento sono sempre esigue. Ricordiamo infatti, al Consigliere Ventura, che in ottobre, è stato firmatario di un Odg in Regione Lombardia che impegna la giunta regionale a sollecitare il governo a stanziare più risorse sulle strutture e sul personale. A questo impegno, non è ancora stata data risposta. E ricordiamo inoltre, che proprio tra le premesse dell’Odg si menzionava l’importanza dell’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto proibisce ogni forma di tortura, trattamento o pena disumana o degradante in special modo per coloro che sono privati della libertà e soggetti a una autorità - definizione che non sembra sposarsi bene con le aspirazioni unicamente punitive di oggi. In un contesto politico sempre più pronto ad interpretare il carcere come luogo di abbandono, com’è possibile agire - anche a fronte di una continua carenza di personale, tanto penitenziario, quanto educativo - affinché si allontani il detenuto dalla violenza? Quello che succede nella Casa Circondariale di Cremona è esemplificativo di una situazione critica che caratterizza le carceri di tutto il paese e che vede tanto detenuti, quanto Polizia Penitenziaria protagonisti di richieste di una riflessione vera, profonda e urgente sul carcere. Riflessione che manca al di là delle aspirazioni puramente punitive”. Bologna. Il 17 marzo arrivano alla Dozza i detenuti dai minorili ansa.it, 7 marzo 2025 L’Assessora Conti: “Andrò a conoscerli, non sono numeri”. “Il 17 marzo arriveranno alla Dozza di Bologna i primi giovani detenuti dalle carceri minorili, andrò a conoscerli e raccontare le loro storie alla città perché ci si ricordi che sono poco più che bambini con storie dolorose, non numeri senza volto. Vogliamo dare risposte perché ormai il sovraffollamento nelle carceri emiliano-romagnole non è più tollerabile. Sono strutture vecchie e inidonee per spazi e servizi in grado di garantire dignità ai detenuti”. Lo ha detto l’assessora regionale al Welfare, Isabella Conti, intervenendo in commissione per la Parità e per i diritti delle persone e Cultura dell’Assemblea legislativa. Sul problema dei 50 ‘giovani adulti’, in trasferimento alla Dozza di Bologna, è intervenuto anche il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri: “Una scelta sbagliata, forse sarebbe stato meglio svuotare il piccolo carcere di Ravenna per dedicarlo a questi detenuti”. Nel frattempo, la Regione si mobilita per il recupero sociale dei detenuti e migliorare le condizioni di lavoro degli operatori di polizia. Tra le misure annunciate, quella di un Osservatorio regionale sulle carceri che coinvolga le Camere penali, l’Ordine degli Avvocati e gli enti del Terzo settore per fare in modo che ci sia un monitoraggio continuo degli esiti delle politiche che la Regione Emilia-Romagna intende mettere in campo e delle condizioni di detenuti e operatori di polizia. Inoltre, l’avvio di un’interlocuzione con il ministero della Giustizia per cominciare un percorso con le comunità di recupero in modo che i detenuti tossicodipendenti possano essere trasferiti e curati, il potenziamento dell’assistenza sanitaria, nuovi corsi di teatro ed educazione. E ancora, la possibilità di individuare istituti che possano essere tutti dedicati a formazione e lavoro. Infine, l’assessora ha annunciato anche nuovi sopralluoghi, insieme al presidente Michele de Pascale “in modo che entro aprile si abbia contezza delle situazioni di tutte le carceri dell’Emilia-Romagna”. Firenze. Garante dei detenuti, ancora stallo sulla nomina: “Serve un nuovo bando” di Niccolò Gramigni La Nazione, 7 marzo 2025 “Fare presto”. L’ultima riunione dei capigruppo in consiglio comunale, a proposito del carcere di Sollicciano e dell’individuazione tramite bando del garante fiorentino dei detenuti, ha dato come input quello di procedere con la massima velocità possibile. Il ruolo è vacante. Sul bando pubblicato (e su cui erano arrivate candidature) è emersa la posizione dell’associazione ‘Altro diritto’ secondo cui si deve accedere alla selezione anche se non in possesso di cittadinanza italiana (come era contenuto nell’avviso). L’associazione ha fatto notare che “tale requisito si pone come discriminatorio”. Ci sono allora due opzioni: la prima è quella proposta dal presidente del Consiglio comunale, Cosimo Guccione, ed è di modificare il regolamento del Consiglio comunale (approvato lo scorso maggio), rifare il bando “in tempi brevi” e individuare il garante. La seconda è quella di andare avanti con l’avviso attuale, esponendosi però al problema dei ricorsi. “Quello che ho proposto è la strada più coerente - ha spiegato Guccione -. Il mio obiettivo è fare più veloce possibile poi ci sono gli aspetti normativi che vanno rispettati. Stiamo cercando di capire come poter velocizzare al massimo la procedura, come hanno chiesto anche i consiglieri”. In caso di modifica del regolamento del Consiglio, questo dovrà passare dal voto dell’aula. “Modificare il regolamento - ha affermato Dmitrij Palagi di Spc - implica annullare il bando fatto uscire, far decadere le candidature arrivate e rimandare tutto. Apprezziamo l’impegno dichiarato di fare tutto in tempi rapidi. Cercheremo di capirli. Un conto è un mese, un conto due, un conto sei. Se fossero troppo lunghi per noi la soluzione è chiara: si vota con l’attuale sistema e poi appena ci sono le nuove norme, si procede a una nuova scelta. Macchinoso, ma evita vuoti troppo lunghi, con Sollicciano senza direzione”. A proposito delle osservazioni fatte da ‘Altro diritto’, secondo Palagi, è “giusto non limitare la possibilità di candidature a chi ha cittadinanza italiana, però questo non può tradursi in una condizione di vuoto”. “Non sono d’accordo sul fatto che i candidati che hanno fatto domanda entro i termini debbano rifarla”, ha commentato Alessandro Draghi di Fdi. “Il regolamento di Firenze, simile a quello di molte altre città italiane, necessita di una revisione per garantire maggiore inclusività - ha dichiarato Caterina Arciprete di Avs-Ecolò -. Sarebbe problematico se, una volta eletto il garante sulla base dell’attuale regolamento, si rischiasse un’impugnazione che ne comporti la decadenza”. “Sono a favore di un nuovo bando, che si può bandire in tempi velocissimi”, ha osservato Francesco Casini di Iv. Roma. Unindustria: dal 2019 formati 73 detenuti del carcere di Rebibbia Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2025 Unindustria Lazio collabora con l’Agenzia per il Lavoro ORIENTA per formare detenuti di Rebibbia e favorire la loro reintegrazione nella società. Dal 2019 ad oggi, grazie a Unindustria Lazio, con la collaborazione scientifica dell’Agenzia per il Lavoro ORIENTA a valere sui Fondi Forma.temp, sono stati formati un totale di 73 detenuti di Rebibbia. Una iniziativa che nasce dalla convinzione che la sostenibilità sociale sia diventata un elemento sempre più rilevante nella strategia aziendale, poiché le imprese riconoscono l’importanza di contribuire in modo positivo alla società e alla comunità in cui operano, oltre a perseguire il proprio sviluppo competitivo. L’adozione di pratiche socialmente responsabili - spiega Unindustria - può avere un impatto positivo sulla reputazione e la relazione con clienti e stakeholder contribuendo a creare un ambiente più sostenibile a lungo termine per le imprese stesse. I corsi - I corsi di formazione si sono conclusi con un attestato di partecipazione per ciascun detenuto e con alcune simulazioni di colloqui di lavoro avvenuti direttamente con aziende del territorio. Nel dettaglio, nel 2019 nel corso sulla Ricerca Attiva per il Lavoro, sono stati formati 12 allievi con attestato; nel 2020 11 allievi con attestato; nel 2021 7 allievi con attestato; nel 2022 9 allievi con attestato. Nel 2023 la formazione è stata portata avanti con un corso per Addetto alla Vendita nel Settore GDO: 11 allievi con attestato; nel 2023, il corso Ricerca Attiva per il Lavoro ha formato 9 allievi con attestato. L’anno scorso il corso per Addetto alla Logistica di Magazzino ha riconosciuto l’attestato a 14 allievi. I partner - Il percorso si è arricchito nel tempo di partnership illustri, come ad esempio RAI per il Sociale, Fondazione Angelini e Tim, Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino con cui, insieme a Manpower, sono stati realizzati ulteriori 10 incontri ed erogate 40 ore di formazione nel percorso “Libere di rinascere” che ha interessato 12 detenute. Abbattere la recidiva - “I tasso di recidiva, come dicono i dati, per le persone detenute coinvolte in esperienze lavorative - spiega Ciro Cafiero, Presidente Sezione Consulenza, Attività Professionali e Formazione Unindustria - sfiora lo zero, ma anche ad evadere la domanda di lavoro che le aziende esprimono. È necessario investire, muovendo dalla legge Smuraglia in politiche di formazione, di occupabilità, di sgravi contributivi e fiscali con un dialogo virtuoso tra mondo delle carceri e mondo del lavoro”. Più semplificazioni - “Grazie alle testimonianze di aziende virtuose - dice Roberto Santori, Componente GT Capitale Umano Unindustria - sappiamo che sono tante le iniziative singole portate avanti in virtù di accordi locali, e l’obiettivo oggi è porre le basi per creare con tutti gli stakeholder, uno strumento generale che semplifichi e metta a sistema tutte le azioni di inclusione sul tema a livello nazionale”. Milano. Progetto Bollate: la libertà di imparare un lavoro, in un ristorante di Carla Reschia linkiesta.it, 7 marzo 2025 Una cooperativa milanese nata nel 2004 per offrire servizi di catering e al tempo stesso favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti gestisce anche un’attività ristorativa, interna al carcere e aperta a tutti, dove i lavoratori possono ottenere il diploma di istituto alberghiero Pexels. InGalera, nella casa di reclusione di Bollate, è un ristorante davvero speciale, fin dal nome così esplicito, uno tra i primi in Italia a tentare la formula del recupero sociale attraverso la ristorazione. Una storia iniziata nel 2004: il 14 febbraio scorso una cena-evento ha festeggiato i vent’anni della Cooperativa Abc La Sapienza in Tavola, un servizio di catering di livello offerto da una squadra di cuochi, camerieri e soci interni ed esterni ad aziende, pubblica amministrazione, università, associazioni, mondo del non profit e privati in occasione di convegni, compleanni, matrimoni, battesimi, e ogni sorta di eventi. Creata con lo scopo di dare una formazione professionale e un’occasione di lavoro ai detenuti, ribaltando l’immagine comune del carcere che evoca paure e diffidenza, la cooperativa durante la sua attività ha curato con successo più di ottocento eventi, ricevendo l’attestato di Unioncamere Lombarde e Camera di Commercio di Milano di “Migliori buone prassi di responsabilità sociale in Lombardia”. Ma il risultato migliore sono la settantina di soci/dipendenti che, scontata la pena, si sono reinseriti nella società, permettendo così al carcere di Bollate di vantare una recidiva di meno del diciassette per cento contro il settanta per cento della media nazionale. Nel 2013, dalla collaborazione con PwC, è nata l’idea del ristorante, realizzato all’interno del carcere, aperto al pubblico sia a mezzogiorno che alla sera e gestito dai detenuti, seguiti da uno chef e un maître professionisti. Un luogo che offre ai carcerati, regolarmente assunti, la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro, un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione, mettendoli in rapporto con il mercato, il mondo del lavoro e la società civile. Inoltre, grazie alla sezione carceraria dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi di Milano presente nella casa di reclusione di Bollate, i detenuti studenti possono svolgere lo stage obbligatorio per conseguire il diploma alberghiero. Detto tutto questo, InGalera è un ristorante vero, con un décor a tema di manifesti di film come “Il miglio verde” e “Le ali della libertà”, tavoli ben apparecchiati, ottimo cibo e un menu che propone a pranzo un piatto unico a scelta tra un primo e un secondo a prezzi modici e a cena le creazioni dello chef Davide: torretta di melanzane con specchio di salsa al pesto, flan di verdure con colata di crescenza e germogli misti, mondeghili con salsa di zabaione salato, chicche di patate e barbabietola con zola di Novara e granelli di nocciola, tartara di Fassona, piatti di pesce e molto altro, a seconda della stagione. C’è anche, su prenotazione, un menu milanese del sabato sera, con tanto di risotto e cotoletta. Almeno una volta al mese il ristorante propone appuntamenti con degustazioni, musica, incontri e letture e, naturalmente, cena con delitto. Per chi, prima di prenotare, vuole saperne tutto dalla voce della sua ideatrice e animatrice, Silvia Polleri, e conoscere i protagonisti, c’è anche un documentario di Michele Rho del 2023, Benvenuti in Galera, presentato in anteprima a Filmmaker 2023. Trieste. Nella Casa circondariale partito il progetto sportivo “Mai soli” triesteatletica.com, 7 marzo 2025 Si è svolto ieri pomeriggio il primo incontro del progetto “Mai soli” presso la Casa Circondariale Ernesto Mari di Trieste. Il programma ha visto la partecipazione di 18 detenuti, che hanno avuto l’opportunità di conoscere nel dettaglio il percorso di formazione teorica e pratica che li accompagnerà nelle prossime settimane. “Mai soli”, ideato dall’Asd Trieste Atletica Aps e sostenuto da Sport e Salute S.p.A., ha come obiettivo principale la reintegrazione sociale dei detenuti attraverso lo sport, in particolare l’atletica. Nel corso dell’incontro sono stati illustrati i contenuti delle 50 ore di formazione, che spazieranno dall’insegnamento delle tecniche di allenamento a livello giovanile all’organizzazione di eventi sportivi. L’incontro ha rappresentato soprattutto un primo momento di condivisione, con ampio spazio dedicato alla discussione delle esperienze, aspirazioni e obiettivi personali. Un dialogo arricchente che ha visto la partecipazione, tra le file del sodalizio presieduto da Pompeo Tria di Silvina Testa, educatrice professionista ed esperta di comunicazione e Ludovico Armenio, giornalista e collaboratore dell’ufficio stampa della società gialloblù. Nei prossimi appuntamenti, il progetto si arricchirà della partecipazione di istruttori federali di atletica e rappresentanti del mondo sportivo locale, che contribuiranno alla formazione dei detenuti, con l’intento di fornire loro competenze concrete che potranno essere applicate sia nell’ambito dell’atletica giovanile, nel ruolo di istruttore, sia all’interno della macchina organizzativa di eventi come la Mujalonga Sul Mar e la Trieste Spring Run, ma non solo. “Mai soli” non è solo un programma di formazione sportiva, ma un’opportunità per i detenuti di riscoprire se stessi e di sviluppare un senso di appartenenza a una comunità. L’iniziativa mira a trasmettere valori fondamentali come la responsabilità, il rispetto reciproco e la capacità di lavorare insieme per un obiettivo comune. I partecipanti hanno accolto l’iniziativa con tanta curiosità e voglia di mettersi in gioco. Tra loro, più di uno ha esperienze sportive alle spalle e ha espresso la volontà di riprendere il proprio percorso. “Abbiamo bisogno di vivere esperienze del genere - le parole condivise da alcuni detenuti - che ci danno l’opportunità di tornare a toccare con mano la realtà, in questo caso sportiva, presente fuori dalla Casa Circondariale. Per molti di noi lo sport è sempre stata una grande passione e sinceramente siamo veramente curiosi di cosa verrà fuori da questo percorso condiviso con la Trieste Atletica”. Il progetto si inserisce nell’ambito di “Sport di Tutti - Carceri”, avviso pubblico del Ministero per lo Sport e i Giovani e di Sport e Salute S.p.A., che intende utilizzare lo sport come strumento di reintegrazione sociale e di prevenzione del disagio. Grazie alla sinergia tra l’Asd Trieste Atletica e la Casa Circondariale di Trieste, si è dato il via a una collaborazione che rappresenta un’opportunità concreta per i detenuti e che nei prossimi mesi sarà un lungo viaggio tutto da scoprire. La Trieste Atletica, fedele al suo claim distintivo “Nessuno resta in panchina” si impegna con passione per garantire che nessuno rimanga indietro, e che tutti possano avere una seconda chance, partendo dallo sport come leva di cambiamento. “Questo progetto rispecchia - sottolinea il Direttivo dell’Asd Trieste Atletica Aps - la nostra visione dello sport inclusivo a 360° dove tutti possono essere coinvolti, con le giuste indicazioni e un corretto approccio, e contribuire alla creazione e messa in campo dei nostri progetti. Ci teniamo particolarmente a questa iniziativa all’interno della Casa Circondariale di Trieste perché crediamo come spesso ci si dimentichi di questa fascia della società. Il percorso è iniziato, vedremo cosa succederà nelle prossime settimane e soprattutto come reagiranno, stimolati gradualmente ma costantemente, i detenuti, i veri protagonisti di questo progetto”. Como. Caritas: al via mostra “Bassone quale umanità?”, per parlare del carcere agensir.it, 7 marzo 2025 “Bassone quale umanità?”, questo è il titolo della mostra itinerante, pensata e realizzata da Caritas Como per raccontare la realtà della Casa circondariale di Como attraverso 8 totem, nei quali vengono affrontate le dimensioni del carcere, come salute, lavoro, rapporti con le famiglie, mondo esterno ed altri ancora. Dall’8 al 16 marzo la mostra è visitabile negli spazi della parrocchia di Como - Sant’Agata dove, mercoledì 12 marzo alle ore 18,15, verrà presentata con un incontro aperto a tutti al quale interverranno Fabrizio Rinaldi, direttore della Casa circondariale del Bassone, ed il cappellano padre Zeno. Con questa mostra la Caritas Como vuole raccogliere l’invito di Papa Francesco per il Giubileo 2025 “Pellegrini di speranza”, ad ascoltare e testimoniare il disagio di tanti “detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto” (Bolla di Indizione dell’Anno Santo Spes non Confundit, papa Francesco, 2024). L’intento è quello di offrire uno sguardo intimo e profondo all’interno un mondo carico di umanità e fatica, raccontato attraverso scatti non professionali, dentro un set di barriere di cemento. Questo quanto riportato nella presentazione dell’esposizione che vuole essere un viaggio oltre il muro, per aiutare a conoscere la realtà che vi si nasconde, con lo scopo di provare ad aprire un varco di luce, svelando le fragilità di un’”isola” la cui presenza stride con l’Oasi naturalistica del Bassone che la circonda. Migranti. L’ultimo viaggio di Ahmed. Lucano: “In carcere ignorate le sue richieste di aiuto” di Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2025 Affetto da un tumore al quarto stadio, il migrante egiziano, condannato in via definitiva perché considerato uno scafista, è stato accolto a Riace. L’eurodeputato di Avs: “Domani andrò in carcere per capire come sia stato possibile non dargli cure”. Ahmed è egiziano e dal 2021, quando è approdato sulle coste calabresi in cerca di una speranza, si trova in carcere. L’accusa è quella classica: essere uno scafista, un trafficante di esseri umani. Anche se lui si è sempre professato innocente, dichiarandosi solo uno dei tanti passeggeri di una bagnarola scassata che lo ha fatto arrivare sano e salvo, chissà come, in Italia. Ahmed, però, è stato condannato in via definitiva. La sua pena terminerà tra pochi giorni, ma il suo non sarà un lieto fine. Perché in carcere ha a lungo urlato di stare male, senza essere ascoltato. E ora per lui è troppo tardi: quello che era sembrato un capriccio si è rivelato, in realtà, un tumore al pancreas al quarto stadio. A raccontarlo è Domenico Lucano, sindaco di Riace ed europarlamentare di Avs, contattato dall’ospedale per dare un’ultima speranza ad Ahmed: quella di una casa oltre le sbarre. E di affetto. “Ahmed sta morendo”, spiega Lucano. “La sua pena dovrebbe concludersi a metà marzo, ma il destino ha preso una piega tragica. Più volte, in carcere, ha segnalato i gravi problemi di salute, lamentando dolori che non sono mai stati presi sul serio - sottolinea -. Anni di trascuratezza hanno portato il suo corpo a cedere: una mattina, i sintomi sono diventati troppo evidenti per essere ignorati”. Così, il primario di oncologia dell’ospedale di Locri ha contattato Lucano chiedendo se ci fosse posto per lui a Riace. “Non sapevano come gestire la situazione - racconta il sindaco - perché è inutile trovare un’altra sistemazione per lui”. Ahmed sta trascorrendo gli ultimi giorni della sua vita al Villaggio Globale della città dei bronzi, un tempo cuore pulsante dell’accoglienza in Italia, poi smantellato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma rinato dalle ceneri con le sole forze dei volontari, che si sono rimboccati le maniche per portare avanti l’accoglienza senza fondi pubblici. “Aveva gli occhi completamente gialli, una cosa impressionante. La sua condizione è diventata evidente quando, a seguito di alcune analisi, sono stati riscontrati valori di bilirubina altissimi, che segnalavano una compromissione epatica gravissima - continua Lucano -. Gli accertamenti medici successivi hanno rivelato la diagnosi, una condizione che non lascia alcuna speranza di sopravvivenza”. La sua storia non è solo quella di un malato terminale, ma di un essere umano lasciato senza cure e privato della possibilità di rivedere la propria famiglia: cinque figli rimasti in Egitto, lontani da lui da quattro anni. E probabilmente ignaro della gravità della sua condizione, conserva il desiderio di riabbracciare i suoi cari, un sogno che rischia di non realizzarsi. “Ora è nostro ospite - afferma Lucano -. Anche se i progetti di accoglienza non esistono più, ho deciso di assumermi questa responsabilità in qualità di sindaco, come rappresentante di un’istituzione che comunque riconosce in quella persona un essere umano”. Lucano domani si recherà in qualità di europarlamentare al carcere di Reggio Calabria, per chiedere “come è stato possibile ignorare le richieste di aiuto di Ahmed per così tanto tempo e per capire se ci sono altri detenuti nelle sue condizioni. È una barbarie - aggiunge - forse poteva essere salvato, ma è stato abbandonato. E ora, quando è troppo tardi, si accorgono della sua malattia”. Ma non solo: Lucano si recherà anche in Prefettura, per chiedere il reinserimento di Riace nel sistema dei progetti di accoglienza. “All’epoca, Riace fu buttata fuori dallo Sprar da Salvini, ma sia il Tar sia il Consiglio di Stato ci hanno dato ragione, sostenendo che quella scelta fu illegittima”, sottolinea. Il progetto fu infatti chiuso nel 2019 e i migranti portati via da Riace. Alcuni, nonostante non ci fosse alcuna garanzia, decisero di rimanere comunque, fuori dai progetti d’accoglienza. E da allora quell’esperienza diventata famosa in tutto il mondo si è interrotta bruscamente. I giudici amministrativi furono poi chiari: “L’Amministrazione statale prima di adottare qualunque misura demolitoria deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi operando in modo da riportare a regime le eventuali anomalie”, scriveva il Consiglio di Stato, sottolineando come “il potere sanzionatorio/demolitorio è esercitabile solo se l’ente locale che si assume sia incorso in criticità sia stato avvisato, essendogli state chiaramente esposte le carenze e le irregolarità da sanare, gli sia stato assegnato un congruo termine per sanarle, e ciò nonostante, non vi abbia provveduto”. Cosa che non era stata fatta. E “che il modello Riace fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione - si leggeva nelle sentenze - è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti”. Insomma, quell’atto non aveva fondamento. Ma nel frattempo Riace fu svuotata. La vicenda di Ahmed diventa così emblematica di un sistema spesso incapace di riconoscere la dignità delle persone. “Ahmed non è uno scafista, è un profugo, né più né meno degli altri”, ribadisce Lucano. L’unica certezza che rimane è quella di un’accoglienza tardiva, ma profondamente umana. “Ha bisogno di una carezza, prima di tutto”, conclude Lucano. L’ennesimo gesto di solidarietà di Riace. Migranti. Protocollo Roma-Tirana, in aula nuovo flop del Viminale di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 marzo 2025 Il ministero si era opposto alla sospensiva del diniego d’asilo per un cittadino del Bangladesh. Nuovo insuccesso giudiziario del ministero dell’Interno sul protocollo Italia-Albania. La Corte d’appello di Roma ne ha rigettato il reclamo contro la sospensione del diniego dell’asilo deciso dalla Commissione territoriale per uno dei 43 migranti rinchiusi a Gjader a gennaio. È un cittadino del Bangladesh che il giorno dopo lo sbarco, in applicazione della procedura accelerata di frontiera, è stato audito per la protezione. Come in tutti i casi d’oltre Adriatico il No è arrivato in meno di 24 ore per “manifesta infondatezza”. Il richiedente è poi comparso davanti alla Corte d’appello della capitale per l’udienza di convalida del trattenimento. Questa ha sospeso il procedimento in attesa che la Corte di giustizia Ue decida sui criteri di designazione dei paesi sicuri, ai cui cittadini sono riservate le procedure speciali in Albania, e sull’estensione del potere di controllo dei giudici. L’uomo, con tutti gli altri, è così tornato in libertà ed è stato trasferito al Cara di Bari. È qui che l’avvocata Silvia Calderoni, nominata per l’udienza di convalida e poi per la domanda di protezione, lo ha incontrato per spiegare come funziona la procedura d’asilo, su cui non era adeguatamente informato, e preparare il ricorso. Questo è finito davanti alla sezione specializzata in immigrazione del tribunale capitolino che ha dichiarato la sospensiva del diniego, negando la possibilità di rimpatrio prima che un giudice si pronunci sull’asilo. La decisione è stata presa in attesa della causa pendente a Lussemburgo (parere dell’avvocato generale il 10 aprile, sentenza entro la primavera). La Corte d’appello ha ribadito che tutto dipende dalla designazione del paese sicuro: se il Bangladesh non lo è la procedura accelerata di frontiera è stata illegittima. Ragionamento che vale per tutti gli altri casi, compresi quelli dei cittadini egiziani. Cassazione: il Governo dovrà risarcire i migranti del caso Diciotti Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2025 Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso presentato da un gruppo di migranti a cui, dal 16 al 25 agosto del 2018, dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, fu impedito di sbarcare dalla nave Diciotti della Guardia Costiera che li aveva soccorsi in mare. Nell’istanza si chiedeva la condanna del Governo italiano a risarcire i danni non patrimoniali determinati nei profughi dalla privazione della libertà. Il collegio ha rinviato al giudice di merito la quantificazione del danno di fatto, condannando però il Governo. Per la vicenda, il Tribunale dei ministri di Palermo indagò l’allora ministro dell’Interno Salvini per sequestro di persona ritenendo illegittimo il trattenimento dei profughi sull’imbarcazione italiana. Il caso fu poi trasmesso a Catania per competenza territoriale e la Procura etnea chiese l’archiviazione. Il tribunale dei ministri locale la respinse chiedendo al Senato l’autorizzazione a procedere per il leader della Lega. A Palazzo Madama (erano i tempi del Governo M5S-Lega) la Giunta per le Autorizzazioni a procedere votò contro. Le due idee di libertà di Antonio Polito Corriere della Sera, 7 marzo 2025 In nome della libertà di obbedire solo alla “volontà generale”, alla Rousseau, si sono poste le basi di molti dispotismi, e tra i più sanguinari. Ma quel J.D. Vance che dal podio della presidenza applaudiva eccitato l’espulsione dall’aula del Congresso del deputato Al Green, reo di aver contestato platealmente Trump, è lo stesso che a Monaco ha rimproverato a noi europei di non tollerare la libertà di parola? E il presidente Trump, è libertario perché dà la grazia ai teppisti che in suo nome assalirono quello stesso Congresso quattro anni fa, o è autoritario perché licenzia i funzionari dell’Fbi che lo indagarono? La causa di divorzio in corso tra le grandi democrazie occidentali, di qua e di là dell’Atlantico, sembra vertere essenzialmente sul concetto di libertà: che cosa è, e quando va difesa? Il dilemma non è mai stato così chiaro come nel conflitto che si è aperto al Washington Post. L’editore, Jeff Bezos, uno dei grandi oligarchi del big tech, ha ordinato per mail allo staff giornalistico di non pubblicare più editoriali e opinioni che si oppongano alle “libertà individuali e al libero mercato”; ma il direttore della pagina dei commenti si è dimesso perché questa gli è sembrata un’intollerabile limitazione della sua libertà di giudizio e professionale. In realtà lo ha fatto anche e soprattutto perché nell’America di oggi il richiamo alla libertà è diventato una parola d’ordine della nuova destra; come dimostra l’entusiasmo con cui Elon Musk aveva accolto sul social di sua proprietà ciò che a lui, come a tutti, era sembrato un cambio di linea del collega editore in senso conservatore e trumpiano. In realtà il dibattito non è nuovo. Norberto Bobbio ha distinto con chiarezza le due idee di libertà che convivono: quella “negativa”, e cioè la libertà individuale dagli obblighi e dalle costrizioni, e quella “positiva”, intesa invece come autodeterminazione, possibilità di prendere delle decisioni senza essere determinati dal volere altrui. Il nostro filosofo diceva che la libertà negativa è una qualifica dell’azione (posso fare ciò che voglio), mentre la libertà positiva è qualifica della volontà (il mio volere è libero). Nel rapporto con il potere, si può dire che la prima è la libertà dallo Stato, la seconda è la libertà nello Stato, di partecipare cioè alle decisioni pubbliche e di obbedire solo alle leggi che si è contribuito a scrivere attraverso il processo democratico. Perfino nella lingua inglese i due termini, pur interscambiabili, di “liberty” e “freedom” alludono a due diverse sfumature: libertà civili da un lato, libertà individuali dall’altro. È evidente a quale delle due si ispira la nuova destra americana. Ma come si fa quando a rivendicare “libertà dallo Stato” è qualcuno come Musk, per molti aspetti più potente dello Stato? D’altra parte bisogna dire che in nome della libertà di obbedire solo alla “volontà generale”, alla Rousseau, si sono poste le basi di molti dispotismi, e tra i più sanguinari. È proverbiale l’esclamazione attribuita a Madame Roland, moglie di un ex ministro dell’ancien régime, mentre saliva sul patibolo a Parigi vittima del Terrore giacobino: “O libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!”. Non cederemo dunque alla facile tentazione di schierarci con le presunte “vere” libertà europee contro quelle “false” trumpiane. Però questo dibattito era già stato da tempo mirabilmente chiuso da Benjamin Constant in un testo celebre, vero e proprio fondamento del pensiero liberale: il “Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni”. Nel 1819, a Restaurazione ormai in corso, questo grande pensatore politico distingueva per l’appunto la libertà come partecipazione al potere dalla libertà come indipendenza dal potere. Egli rimproverava alla Rivoluzione di aver voluto ispirarsi alla libertà così come la intendevano le antiche repubbliche delle poleis greche e di Roma (libertà politica dalla quale però erano esclusi gli schiavi e le donne). Mentre invece al suo tempo l’interesse dei cittadini era rivolto ai commerci e non alla politica, al benessere e non alla partecipazione, era pacifista e non bellicoso, e dunque la felicità risiedeva non più “nel godimento del potere, ma nella libertà individuale”. Non va aggiunta neanche una parola per spiegare perché, ancor di più ai giorni nostri, le cose stanno proprio così. Constant aveva visto giusto e lontano, scrivendo che “la libertà individuale è la vera libertà moderna”. Ma così come il pensiero “democratico” di Rousseau ha potuto fecondare le peggiori esperienze di tirannia, così anche uno sfruttamento cinico e demagogico delle “libertà moderne” può provocare gravi danni alle libertà politiche. Aggiungeva infatti Constant: “Coloro che vogliono sacrificare la libertà politica per godere più tranquillamente della libertà civile non sono meno insensati” di chi vuole il contrario: “Rinunciano ai mezzi con il pretesto di raggiungere il fine”. Perché “la libertà politica è garanzia della libertà individuale, di conseguenza indispensabile”. Tradotta ai nostri giorni, e sempre ammesso che a Trump o Vance interessi conoscerla, la lezione di Constant e del moderno liberalismo sta “nella possibilità di stabilire un governo forte che, al tempo stesso, sia un governo limitato”, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia in una prefazione a quel Discorso. È la categoria politica del “giusto mezzo”, diventata realtà, proprio grazie alla divisione dei poteri, nella Rivoluzione americana. È sorprendente che la si debba oggi difendere da qui, dalla vecchia Europa. La violenza del potere nudo di Alessandra Algostino Il Manifesto, 7 marzo 2025 Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice. È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta - nuda - la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza. Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra. È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore. Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace. I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere. Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale. È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima - e non sufficiente - come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe “unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva” (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo. Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra. La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra. E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli “non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo” (Fanon), la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte. Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia? Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. “Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare” (Krenak). Stati Uniti. Condannato a morte preferisce la fucilazione alla sedia elettrica e all’iniezione letale di Serena Palumbo Corriere della Sera, 7 marzo 2025 Brad Keith Sigmon, condannato negli Usa alla pena di morte per l’omicidio dei genitori della sua ex fidanzata, ha preferito la fucilazione alla sedia elettrica e all’iniezione letale. Ogni condannato a morte ha un ultimo desiderio. Quello di Brad Keith Sigmon, 67enne condannato negli Stati Uniti all’esecuzione capitale per il duplice omicidio dei genitori dell’ex fidanzata nel 2002, è stato quello di morire fucilato, rifiutando il “metodo” predefinito dallo Stato e quello di “riserva”: la sedia elettrica e l’iniezione letale. Una scelta insolita, che nessuno negli ultimi 15 anni aveva mai preso. E che arriva dal ricordo dell’esecuzione di altri prima di lui, dichiarati morti anche a 20 minuti dall’iniezione, dopo una probabile sofferenza. La morte di Sigmon è prevista per il 7 marzo presso il Broad River Correctional Institution di Columbia, nella Carolina del Sud. Martedì sera, la Corte Suprema della Carolina del Sud ha respinto l’ultima richiesta di Sigmon di rinviare l’esecuzione. Alla base della sua condanna una “vendetta” nei confronti dell’ex compagna. Nel 2001 l’allora fidanzata Rebecca Barbare decise di lasciare Brad dopo 3 anni di relazione, tornando a vivere a casa dei suoi genitori. Tuttavia, l’uomo da quel giorno divenne sempre più ossessionato da lei. Arrivando persino a commettere un duplice omicidio: il 27 aprile del 2001 Sigmon aspettò che Rebecca uscisse di casa nella contea di Greenville, facendo poi incursione e picchiando papà David e mamma Gladysa a morte con una mazza da baseball. Quando Barbare tornò a casa, l’ex la costrinse (minacciandola con una pistola) a salire in macchina. Una volta sopra, però, riuscì a saltare dall’auto in corsa, ma lui la inseguì, sparandole e ferendola. Poi una fuga durata 11 giorni, terminata con la sua cattura nel Tennessee. Ma subito dopo Brad si dichiarò colpevole e fu condannato nel 2002 dalla giuria della Carolina del Sud per omicidio e furto con scasso di primo grado, dandogli poi la pena di morte. Sigmon è stato più volte sul punto di essere giustiziato negli ultimi quattro anni. L’esecuzione è stata sospesa prima nel 2021 e poi nel 2022 in seguito a delle contestazioni al protocollo sulla pena di morte dello Stato e della carenza del farmaco per l’iniezione letale. Ma ecco che ora la sua morte è “inevitabile”: il 7 marzo verrà ucciso. E per quanto non possa scegliere di salvarsi, ha potuto decidere come morire, rifiutando la sedia elettrice perché “equivale a morire cuocendosi” e l’iniezione letale perché “non sono state fornite alcune informazioni sul farmaco che viene somministrato. È scaduto? È diluito? Non vuole soffrire”, ha spiegato il suo avvocato. Ma soprattutto il “processo” che porta alla morte è davvero indolore o è una tortura? A influenzare la sua scelta le recenti esecuzioni di Richard Moore e Marion Bowman Jr., che (a detta del legale) entrambi sembravano aver smesso di respirare in pochi minuti, ma non sono stati dichiarati morti fino ad almeno 20 minuti dopo. Negli Stati Uniti le esecuzioni con fucilazione sono estremamente rare: secondo il Death Penalty Information Center, dal 1977 solo tre persone sono state giustiziate in questo modo, tutte nello Utah. A queste, ora, si aggiunge Brad Keith Sigmon.