Carceri e ddl Sicurezza, gli avvocati penalisti contro il piano governativo. Ma Meloni tira dritto di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 marzo 2025 Un’ora di incontro a Palazzo Chigi, ieri mattina, tra il governo e gli avvocati penalisti non ha prodotto alcun passo avanti, neppure teorico, nelle politiche di contrasto al problema dei suicidi in cella e del sovraffollamento carcerario. “Nessuna convergenza” su questi temi, riferisce il presidente dell’Unione delle camere penali italiane (Ucpi) Francesco Petrelli a fine incontro, perché si tratta di questioni che “non possono trovare rimedio nell’ampliamento degli spazi disponibili, che non garantisce alcuna possibilità di recupero ed incentiva la recidiva, ma deve, al contrario, procedere da un progressivo abbandono di una visione carcerocentrica inevitabilmente priva di prospettive risocializzanti”. L’avvocato si riferisce all’avvio del recupero edilizio di alcuni edifici allo scopo di ampliare la capienza delle carceri, unica azione governativa intrapresa per un problema che, assicura la premier Meloni, “rimane uno degli obiettivi dell’azione dell’esecutivo”. Il governo tira dritto anche sul ddl Sicurezza, attualmente al Senato, che Petrelli invece critica chiedendo che siano quantomeno rivisti “i punti critici”, quelli che “riguardano le violazioni del diritto penale liberale e le contraddizioni di molti principi della nostra Costituzione”. L’associazione Antigone avverte: “Il sovraffollamento ha raggiunto livelli molto alti ingestibili in alcune carceri. Nei minorili si dorme per terra. E se dovesse passare il ddl Sicurezza con i suoi nuovi 15 reati le carceri piomberanno nel caos”. Intelligenza artificiale “cavallo di Troia” contro il sovraffollamento? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2025 Nel cuore di una crisi ormai cronica, il sistema penitenziario si trova a fare i conti con una realtà insostenibile: 62.132 detenuti costretti a convivere in strutture progettate per accogliere appena 46.910 persone, con un tasso di occupazione pari al 132,4%. I dati, emersi nell’ambito della mobilitazione nazionale indetta dalla Conferenza Nazionale dei Garanti, dipingono un quadro allarmante che ha spinto, lo scorso lunedì, i garanti dei detenuti - capitanati dal portavoce dei Garanti e Garante campano Samuele Ciambriello - a manifestare per chiedere interventi urgenti e strutturali. Il sovraffollamento non è solo un problema quantitativo, ma si traduce quotidianamente in condizioni di vita degradanti per i detenuti, con un impatto diretto sulla salute mentale e fisica degli stessi. Numerosi casi di suicidi e tentativi di autolesionismo testimoniano il peso insostenibile di un sistema che, oltre a non garantire spazi adeguati, fatica a fornire un supporto psicologico e riabilitativo efficace. La crisi, dunque, non è solo un’onta istituzionale, ma un grave affronto ai diritti umani e alla dignità delle persone detenute. Nel mezzo di questo scenario, emerge la proposta di Irma Conti, membro del Collegio del Garante Nazionale dei Detenuti. Secondo i suoi dati, ben 19.000 detenuti, con pene residue fino a tre anni, potrebbero - in linea teorica - beneficiare di misure alternative alla detenzione. Purtroppo, la realtà è ben diversa: la burocrazia, con le sue procedure interminabili e labirintiche, si erge come un ostacolo insormontabile, impedendo a molti di accedere a soluzioni più umane e risorse riabilitative. Il sistema, infatti, è vincolato non solo dai limiti fisici degli edifici, ma anche da una gestione amministrativa che rischia di soffocare, almeno, l’utilizzo delle leggi già esistenti, come i benefici. Proprio in questo contesto si delinea una proposta innovativa e, seppur futuristica, decisamente pragmatica: l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella fase ricognitiva delle istanze per le istruttorie finalizzate all’adozione di misure alternative e alla scarcerazione. L’idea è quella di sfruttare algoritmi capaci di esaminare in maniera rapida e accurata le numerose richieste burocratiche, alleggerendo il carico di lavoro degli uffici dell’esecuzione penitenziaria e, allo stesso tempo, garantendo una valutazione - almeno sulla carta - più obiettiva e tempestiva delle pratiche. In questo modo, l’AI potrebbe trasformarsi nel “cavallo di Troia” che apre la porta all’impiego di tecnologie avanzate in vari ambiti del sistema penitenziario, dalla gestione dei detenuti al supporto nelle attività riabilitative, passando per la formazione e la selezione del personale. Il progresso non si può fermare ed è inevitabile che si debbano affrontare le sfide, prevenendo ogni forma di stortura. Per questo, lo scorso anno il Consiglio d’Europa ha elaborato un documento che offre un quadro normativo e deontologico estremamente dettagliato sull’uso dell’AI e delle tecnologie digitali nel contesto penitenziario e della probabilità. Il documento, frutto di un attento esame delle condizioni operative delle strutture carcerarie, evidenzia alcuni punti chiave. Innanzitutto, ribadisce l’importanza di utilizzare l’intelligenza artificiale nel rispetto assoluto della dignità umana e dei diritti fondamentali, garantendo sempre la massima trasparenza. In altre parole, anche quando si fa ricorso a tecnologie automatizzate, è imprescindibile che il rispetto per la dignità e i diritti delle persone non venga mai compromesso. Inoltre, il documento sottolinea come ogni sistema di AI debba operare in linea con le normative vigenti a livello nazionale e internazionale, assicurando che, in caso di eventuali danni, vi sia una chiara responsabilità nell’uso di tali tecnologie. Il documento chiarisce sin dall’inizio cosa si intende per “intelligenza artificiale” e “tecnologie digitali correlate”, spiegando che tali strumenti devono essere concepiti come un supporto al lavoro umano, piuttosto che come sostituti dei professionisti che operano nei servizi penitenziari e di probabilità. In questo modo, l’innovazione tecnologica si integra armoniosamente con l’essenza stessa del lavoro riabilitativo, mantenendo intatto il valore del contatto umano. Il testo prosegue evidenziando una serie di principi etici e organizzativi fondamentali. Innanzitutto, sottolinea che l’impiego dell’AI deve essere strettamente necessario e proporzionato agli obiettivi perseguiti, evitando l’introduzione di strumenti troppo invasivi che potrebbero nuocere al benessere delle persone interessate. Ogni decisione automatizzata, infatti, deve essere sempre spiegabile e soggetta a una revisione umana, in modo da permettere il controllo e, se necessario, la contestazione dei processi decisionali. Particolare attenzione è riservata anche alla protezione dei dati e alla tutela della privacy. Il documento impone che le informazioni raccolte siano gestite con il massimo rigore e conservate solo per il tempo strettamente necessario, adottando il principio della minimizzazione. In pratica, si suggerisce di utilizzare tecniche di anonimizzazione laddove possibile, così da ridurre al minimo i rischi di abusi o violazioni della riservatezza. Infine, il documento distingue chiaramente tra gli usi dell’AI finalizzati alla sicurezza e all’ordine e quelli orientati al reinserimento sociale. Da un lato, gli strumenti per il monitoraggio e la gestione del rischio devono essere sempre affiancati da un controllo umano e applicati in modo proporzionato. Dall’altro, l’AI può offrire un valido supporto nella valutazione oggettiva del rischio di recidiva, facilitando la predisposizione di piani personalizzati di riabilitazione. Tuttavia, è essenziale che le decisioni finali non siano affidate esclusivamente alla tecnologia, ma che siano prese da operatori qualificati in grado di integrare il giudizio umano con i benefici offerti dagli strumenti digitali. L’adozione di tali linee guida rappresenta un passo fondamentale per l’approccio dell’AI nel sistema penitenziario. Tale impiego, se attuato nel rispetto dei principi etici e dei diritti umani, potrebbe non solo snellire il percorso burocratico - rendendo possibile, per esempio, l’uscita anticipata di migliaia di detenuti con pene residue brevi - ma anche instaurare un nuovo modello di gestione penitenziaria che metta al centro la riabilitazione e il reinserimento sociale. Non diffidenza, anche perché sarà inevitabile a lungo termine, ma piena regolamentazione. Ma soprattutto che non diventi l’alibi per non fare riforme penitenziarie volte al carcere come l’estrema soluzione. “L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata”, disse Marta Cartabia quando era presidente della Consulta e prima di diventare ministra della giustizia. Ma di misure deflattive non se ne parlò all’epoca, così come non se ne parla oggi. Il Pd a Nordio: “Modello Albania per le carceri?” L’Unità, 6 marzo 2025 Interrogazione dei deputati dem in commissione giustizia sull’ipotesi del ricorso ai moduli prefabbricati contro il sovraffollamento. Serracchiani: “Il ministro spieghi”. “Chiediamo al ministro Nordio se non ritenga urgente e necessario rendere conto al Parlamento dei programmi di costruzione di nuove carceri per fronteggiare l’emergenza del sovraffollamento e se le notizie in merito all’acquisto da parte del governo di moduli prefabbricati siano fondate, nonché quali siano stati i criteri individuati e i costi di questa operazione”. Così Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Partito democratico e tutti i componenti Pd della commissione Giustizia della Camera in un’interrogazione al ministro della Giustizia. “Apprendiamo infatti, anche da dichiarazioni recenti dello stesso ministro, che il governo, anche per tramite del Commissario straordinario per l’edilizia carceraria Marco Doglio, nominato mesi fa per affrontare la drammatica emergenza del sistema dell’esecuzione penale e del quale ancora si attendono notizie ufficiali, avrebbe intenzione di fronteggiare il sovraffollamento carcerario utilizzando dei moduli prefabbricati, che avrebbe già acquistato, destinati ad essere ‘stipati’ nelle carceri in funzione dove ci sarebbe spazio, oppure in caserme dismesse rifunzionalizzate a carceri. Il Governo farebbe, dunque, ricorso ad una sorta di Modello Albania, rivelatosi fallimentare, incostituzionale oltre che costosissimo e dannoso dunque per la finanza pubblica. Inoltre, la necessità avvertita dall’esecutivo di istituire un Commissario straordinario ha certificato l’inadeguatezza dell’efficacia dell’azione della struttura amministrativa a ciò deputata e della guida politica attuale. Il governo lo ha nominato l’estate scorsa, ma da allora nessun aspetto della gravissima crisi del sistema carcerario è stata affrontato, anzi tutto il sistema della giustizia tra il 2025 e il 2027 ha subito un ulteriore taglio di 500 milioni, a danno principalmente dei programmi di amministrazione penitenziaria, edilizia penitenziaria, giustizia minorile e di comunità con le pene alternative, giustizia riparativa ed esecuzione penale esterna”. Il dialogo non decolla, Governo e Anm restano lontani di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 6 marzo 2025 Due ore di confronto a Palazzo Chigi, senza avvicinamenti. La premier ripete: sulla riforma che separa le carriere andremo avanti. Le toghe deluse restano in mobilitazione: almeno c’è stata chiarezza. Alla fine, l’atteso incontro a Palazzo Chigi fra il Governo e l’Associazione nazionale magistrati si è concluso con un sostanziale nulla di fatto. Dopo due ore di confronto pomeridiano - al netto di convenevoli, schermaglie e chiarimenti - sulla dibattuta riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario (che separa in modo ferreo le carriere di pm e giudice, crea due diversi Csm e istituisce un’Alta corte disciplinare), ciascuna parte è rimasta con le proprie convinzioni. Le voci su alcune aperture governative, circolate nei giorni scorsi, non hanno trovato conferma. E lo scontro in atto da mesi, che ha portato allo sciopero dell’80% dei magistrati il 27 febbraio, non si è ricomposto. La premier Giorgia Meloni, i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, il Guardasigilli Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano hanno ribadito che la riforma “non è contro i magistrati, ma per i cittadini” e sono intenzionati ad andare avanti; i vertici dell’Anm, la cui delegazione era guidata dal presidente Cesare Parodi e dal segretario Rocco Maruotti, restano critici sulle modifiche, ritenendo che pregiudichino l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, e continueranno con la propria mobilitazione. Il muro del Governo: “Incontro franco” - Posizioni che trovano eco nelle considerazioni finali delle due parti. L’esecutivo affida le proprie a una nota, in cui giudica l’incontro “franco e proficuo”, ringraziando l’Anm per “le osservazioni e i contributi”, annunciando “la disponibilità ad aprire un tavolo di confronto” non sul testo costituzionale in sé ma “sulle leggi ordinarie di attuazione” e sul documento in 8 punti presentato dalle toghe, con richieste per far funzionare meglio l’amministrazione della giustizia e le carceri. Ciò detto, però, la nota si chiude con la perentoria riaffermazione della “volontà di proseguire con determinazione e velocità nel percorso di attuazione della riforma” (che per ora ha incassato il primo dei 4 sì, due per Camera, necessari), auspicando “la sua approvazione in tempi rapidi” (verosimilmente, non prima dell’autunno). La delusione dell’Anm: almeno c’è stata chiarezza - Dal canto loro, dopo essere entrati a Palazzo Chigi con una coccarda tricolore appunta sulle giacche, i magistrati ne sono usciti senza grandi entusiasmi. “Abbiamo chiesto maggior rispetto per i magistrati, spesso accusati di produrre dei provvedimenti non giurisdizionali ma ideologici”, come nel caso delle sentenze sui migranti, riferisce Parodi dopo l’incontro, spiegando che la presidente del Consiglio “ha risposto che la politica a sua volta sente di essere attaccata”. In ogni caso, aggiunge il presidente dell’Anm, “non mi aspettavo di più e non lo considero un fallimento, è stato un lungo scambio di opinioni. E non ha portato a sostanziali modifiche delle nostre posizioni e tanto meno di quelle del Governo. Lo considero un momento di chiarezza”. Parodi, esponente di Magistratura Indipendente (la corrente conservatrice delle toghe), si dice ben consapevole che “questo processo è destinato ad andare avanti legittimamente”, è una procedura costituzionale “nella quale ci inseriremo come cittadini nel dibattito democratico”. La mobilitazione dunque continuerà, anche in vista di un possibile referendum confermativo, necessario nel caso in cui il Parlamento non dovesse approvare il testo con la maggioranza dei due terzi. Nessun punto di incontro neppure rispetto alle possibili modifiche ventilate da fonti di governo nel giorno dello sciopero. “Non abbiamo parlato di sorteggio temperato - dice Parodi -. Ero certo che nulla sarebbe arrivato, per una ragione di tempi. La riforma non può tornare indietro. Se il governo vuole approvarla in questa legislatura, non può neanche fare una piccola correzione perché altrimenti dovrebbe ripartire da capo alle Camere”. L’unico “dato positivo”, aggiunge, è che sulla presunta intenzione di togliere ai pubblici ministeri il coordinamento della polizia giudiziaria “c’è stata una netta smentita della notizia, sia Meloni che Nordio non hanno intenzione di dare corso a quest’illazione giornalistica”. Insomma, a suo parere, “meglio così, chiarezza per tutti. Noi andiamo avanti con serenità” e “se la riforma sarà approvata, saremo i primi ad applicarla”. La sponda degli avvocati penalisti: l’esecutivo vada avanti - In mattinata, a Palazzo Chigi è stata ricevuta una delegazione dell’Unione camere penali, guidata dal presidente Francesco Petrelli. Anche lui usa il termine “proficuo” per definire l’incontro con la premier, che gli ha assicurato che ce ne saranno altri. A Meloni, Petrelli ha confermato il “pieno sostegno” alla riforma da parte degli avvocati penalisti, convinti che sarà utile per frenare “le degenerazioni correntizie” nella magistratura. Al Governo, Petrelli ha rappresentato anche altre questioni, come la richiesta di rivedere alcuni “punti critici del pacchetto sicurezza”, fermo in Senato, e di intervenire sul “problema tragico dei suicidi in carcere e del sovraffollamento”. Dal canto suo, la presidente del Consiglio ha ribadito ai penalisti che “la separazione delle carriere costituisce ormai un processo ineludibile” e che “la riforma prevede la separazione fra chi accusa e chi giudica e punta a garantire una vera parità processuale fra accusa e difesa”. Nessun cedimento, dunque. Il che fa presagire che il clima di tensione, al di là dei giri di parole, fra toghe e governo proseguirà. Carriere separate, il Governo non tratta. L’Anm prepara la battaglia referendaria di Valentina Stella Il Dubbio, 6 marzo 2025 L’incontro a Palazzo Chigi con la magistratura va come previsto: nessuno passo indietro sulla riforma. Muro contro muro, ci rivediamo al referendum: questa la sintesi dell’incontro tra il Governo e l’Anm in merito al ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Al vertice di palazzo Chigi a cui hanno partecipato la premier Meloni insieme ai Vicepresidenti Tajani e Salvini, al Ministro della Giustizia Nordio e al Sottosegretario Mantovano, l’Esecutivo ha detto chiaramente al ‘sindacato’ delle toghe che non c’è possibilità di nessun minimo passo indietro. L’unica disponibilità offerta, come anticipato dal Dubbio, è quella “di aprire un tavolo di confronto sulle leggi ordinarie di attuazione della riforma”. I dieci membri della Giunta sono arrivati a Chigi alle 15:20, tutti con la coccarda tricolore sulle giacche, scelta che avrebbe ancora di più irrigidito la premier Meloni. Dopo due ore di incontro Chigi emana una nota: “Il Governo ha ribadito la volontà di proseguire con determinazione e velocità nel percorso di attuazione della riforma costituzionale, auspicando la sua approvazione in tempi rapidi”. Durante il faccia a faccia la premier ha ribadito che molte delle azioni del Governo sono state fatte in memoria di Paolo Borsellino. Al che l’Anm le avrebbe detto che proprio Borsellino metteva in guardia dalla sottoposizione del pm all’Esecutivo. Nel botta e risposta la Meloni ha tirato fuori allora Giovanni Falcone, che sarebbe stato favorevole alla separazione delle carriere. A quel punto, ci sarebbe stato, a partire da Stefano Celli, esponente di Magistratura Democratica, un sbuffo generale del tipo “ancora con questa storia di Falcone”. Al termine dell’incontro il presidente dell’Anm Cesare Parodi ha improvvisato una conferenza stampa: “È stato un incontro non breve, in cui c’è stato un lungo scambio di opinioni che devo dire non ha portato a sostanziali modifiche delle nostre posizioni e tanto meno a quelle del governo. Io credo non sia stato inutile perché abbiamo avuto modo di spiegare nel dettaglio le ragioni specifiche tecnico-giuridiche che ci portano assolutamente a non condividere questa riforma. Lo abbiamo fatto, abbiamo preso atto con molta chiarezza di una volontà del governo di andare avanti senza alcun tentennamento e alcuna modifica sul punto”. L’unico aspetto positivo dell’incontro, secondo Parodi, è il fatto che Nordio abbia smentito le indiscrezioni apparse sul Fatto Quotidiano per cui ci sarebbe la volontà in fase di legge attuativa di privare il pm del controllo sulla polizia giudiziaria. “Non abbiamo parlato di sorteggio temperato - ha aggiunto Parodi - Ero assolutamente certo che nulla sarebbe arrivato, anche per una ragione di tempi. Noi andiamo avanti con serenità, parleremo ai cittadini in vista del referendum e se la riforma sarà approvata saremo i primi evidentemente ad applicarla”. Sul tema non ci saranno altri momenti di confronto: “Non abbiamo ulteriori appuntamenti con il governo. Speriamo di averne per gli altri aspetti ma su questo tema andiamo avanti per conto nostro”. Il riferimento del presidente del sindacato delle toghe è al fatto che hanno presentato al Governo una serie di punti per migliorare l’amministrazione della giustizia, tra cui l’aumento degli organici, l’aggiornamento dei sistemi informatici, la depenalizzazione dei reati minori, la costruzione di nuovi uffici giudiziari. Il presidente dell’Anm ha raccontato di aver “notato un grande interesse” sugli otto punti, “perché effettivamente riguardano concretamente il prodotto giustizia finale, non questa riforma che, come abbiamo detto più volte, non è una riforma della giustizia ma del ruolo dei magistrati all’interno dell’ordinamento”. Parodi ha poi aggiunto: “Ci tenevo a fare un discorso importante: chiedere un maggiore rispetto per i magistrati spesso accusati di produrre provvedimenti non giurisdizionali ma ideologici. Io ho chiesto con forza che questo atteggiamento possa essere modificato perché ferisce i magistrati, che sono i primi a rifiutare questa logica”, ha continuato Parodi spiegando che il governo ha risposto che “la politica sente di essere attaccata in qualche misura. Io ho risposto che i magistrati possono sbagliare, accettiamo le critiche ma siamo profondamente feriti e avviliti quando queste critiche non hanno per oggetto i nostri provvedimenti ma la nostra posizione ideologica che avrebbe, secondo la politica, condizionato le nostre scelte”. “Unica speranza da questo incontro -ha concluso Parodi - è che ci possa essere almeno uno spiraglio sotto questo profilo, recuperare un reciproco rispetto che gioverebbe al Paese”. Dopo Parodi ha parlato anche il Segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti: “Abbiamo espresso con convinzione le nostre ragioni. Abbiamo avuto anche la sensazione di aver colpito nel segno, nel senso che le nostre ragioni sono sembrate giuste, ma è una riforma che devono portare avanti il più velocemente possibile quindi non possono essere accolte”. Il faccia a faccia avrà l’effetto indiretto di ricompattare la magistratura: adesso anche coloro i quali, ad esempio una parte di Magistratura Indipendente, si erano aperti ad una possibile trattativa, dovranno prendere atto della chiusura del Governo e unirsi per portare avanti efficacemente la comunicazione in vista del referendum. Nella mattinata la premier aveva incontrato anche il presidente e il segretario dell’Unione Camere Penali, Francesco Petrelli e Rinaldo Romanelli, che “hanno rappresentato al Governo il pieno sostegno alla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario”. Nel corso dell’incontro, durato oltre un’ora, i rappresentanti dell’Ucpi hanno avuto, altresì, modo di ricordare “la sempre più drammatica situazione delle carceri italiane, il crescente fenomeno del sovraffollamento e la tragica ed inarrestabile escalation dei suicidi”. La premier ha però escluso qualsiasi possibilità che si possano attuare provvedimenti di clemenza. Nella nota di Palazzo Chigi si è letto che “Governo e Camere penali si incontreranno nuovamente in futuro, in modo da mantenere uno spazio di confronto stabile volto alla modernizzazione dell’amministrazione della giustizia”. Sulla riforma della giustizia la distanza tra toghe e Governo è insanabile di Giulia Merlo Il Domani, 6 marzo 2025 Le toghe hanno incontrato Meloni sulla separazione delle carriere, presentando una proposta opposta e altre sette riforme per far ripartire la giustizia. Ma lo spazio di dialogo è poco. Le distanze rimangono più ampie che mai. Come da pronostico, il vertice tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati ha certificato l’impossibilità di una qualsiasi mediazione sulla riforma costituzionale della giustizia. “È stato un incontro non breve in cui c’è stato un lungo scambio di opinioni che, devo dire, non ha portato a sostanziali modifiche delle nostre posizioni né di quelle del governo”, ha dichiarato il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, uscendo dall’incontro con la premier Giorgia Meloni e i vertici di governo a Palazzo Chigi. Parodi ha anche aggiunto: “Credo non sia stato inutile perché abbiamo avuto modo di spiegare nel dettaglio le ragioni specifiche, tecnico giuridiche, che ci portano assolutamente a non condividere questa riforma. Lo abbiamo fatto. E abbiamo preso atto con molta chiarezza di una volontà del governo di andare avanti senza alcun tentennamento, e alcuna modifica sul punto”. Del resto, sul tavolo c’era un margine di trattativa inesistente: il governo si presentava con la separazione delle carriere blindata, l’Anm con una controproposta di segno opposto, con la “promozione di una maggiore interscambiabilità tra le funzioni”, ovvero il contrario della netta separazione, perché “la limitata possibilità di cumulare esperienze di giudicante e requirente riduce la qualità della giurisdizione”. Se la premier Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il vicepremier Antonio Tajani e il ministro della Giustizia Carlo Nordio avrebbero voluto circoscrivere il dialogo alla sola riforma, la delegazione dell’Anm si è presentata con tutti i dieci componenti della nuova giunta, con la coccarda tricolore usata durante lo sciopero al petto e con un documento di otto punti che ha allargato ad altri argomenti. Questa infatti è stata la contromossa studiata dalle toghe: il governo sperava di accontentare il Colle con un’apertura al dialogo ma solo sulle future leggi ordinarie di attuazione, in particolare sul sorteggio temperato; i magistrati si sono presentati con una lista di richieste molto più ampia. Dall’assunzione di 1.000 magistrati alla chiusura dei piccoli tribunali, fino ad investimenti in personale e in edilizia giudiziaria e penitenziaria. Tradotto: “Sulla separazione delle carriere abbiamo capito il bluff del dialogo, ora incalziamo il governo sulle vere riforme necessarie e vediamo cosa fa”, spiega una fonte interna. Del resto è scontato che di leggi attuative si parlerà almeno nel 2026 e dando per scontato che la riforma passi in via definitiva, superando anche lo scoglio del referendum costituzionale. Esattamente il passaggio su cui invece punta l’Anm per far saltare tutto: sperando che, quando si celebrerà, il governo sia in calo nei sondaggi e il quesito di fatto si trasformi in uno sondaggio sul suo operato di fine legislatura. Dopo due ore di riunione, l’esito è stato quello di una certificazione di una oggettiva incomunicabilità. Nonostante la nota di Chigi che parla di incontro “proficuo e franco”: la presidente “ha ringraziato l’Anm e ha annunciato la disponibilità di aprire un tavolo di confronto” ma solo “sulle leggi ordinarie di attuazione della riforma e sul documento in otto punti di Anm, che riguarda l’amministrazione della giustizia”. Il governo ha trovato convergenza con le Camere penali guidate da Francesco Petrelli, eloquentemente incontrate in mattinata prima dell’Anm. Meloni ha ringraziato gli avvocati “per il grande lavoro che svolgono quotidianamente” e con loro ha condiviso la necessità di separare le carriere tra giudici e per “garantire la parità processuale tra accusa e difesa”. Toghe e politica: due ore scarse di “cortesie” pensando già allo scontro finale di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 6 marzo 2025 l presidente del sindacato delle toghe Cesare Parodi non considera l’incontro di ieri con il governo un fallimento, ma un momento di chiarezza. Ma lo strappo sulla riforma ormai c’è e non si può rattoppare. Forse è giusto così, che ciascun soggetto rientri nei propri ranghi. Il parlamento a fare le leggi, i magistrati ad applicarle. Non in silenzio però, questo non accadrà, anche si ieri l’incontro di due misere orette tra la giunta dell’Anm guidata dal presidente Cesare Parodi e il segretario Rocco Maruotti da una parte e la premier Giorgia Meloni con i ministri Antonio Tajani, Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano è stato civile. Cortese, ma niente di più. Aumentate il personale e sistemate il sistema informatico, hanno detto le toghe, mostrando loro proposte di piccolo cabotaggio in otto punti, chiedendo in pratica di cestinare la riforma sulla separazione delle carriere. Quella sponsorizzata nella mattinata dall’Unione delle camere penali, quella che nel processo rappresenta la parte debole, il difensore, con la delegazione composta dal presidente Francesco Petrelli e il segretario Rinaldo Romanelli. I magistrati erano arrivati tutti sorridenti con le coccarde tricolore sulla giacca, un po’ stile resistenza sul Piave del Borrelli anno 2002 versus Berlusconi, e un pizzico di pubblicità pannelliana a caccia di adesioni e solidarietà. Sulle spalle lo zainetto però è bello pieno. Non tanto delle otto proposte su aumenti di organici della magistratura e del personale amministrativo, pura provocazione di fronte a un Parlamento che sta affrontando una radicale riforma costituzionale. Ma sono proprio questi argomenti, quelli che erano stati già ben fissati nei programmi elettorali delle forze politiche che due anni fa hanno vinto e portato Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, e che hanno tutto il diritto di attuarlo, quel programma, quello di cui la magistratura associata non vuol sentir parlare. Ed è inutile andare a cercare all’interno della corporazione qualche crepa, che pure continua a vivere sottotraccia. Uno dei motivi di questa riforma, la parte che sta alla base della modifica del Csm con lo sdoppiamento tra quello che dovrà occuparsi delle carriere dei pm e quello dedito ai percorsi dei giudici, riguarda la paura. Il timore della singola toga di vedersi bloccate le ambizioni e le conseguenti promozioni o trasferimenti solo per un dissenso, una rottura di complicità, un allontanamento dal sistema delle correnti. A sentirli parlare, questi “scioperanti”, nei giorni delle loro manifestazioni, sembrava che quello che era successo dopo la serata dell’hotel Champagne e tutto ciò che poi con grande sincerità ha raccontato Luca Palamara, fossero ormai solo un’ombra sbiadita nei ricordi di pochi. E nel tono sprezzante che qualcuno di loro usa rispetto al sistema del sorteggio, previsto dalla riforma rispetto ai membri togati dei due Csm, nei confronti degli eventuali fortunati, c’è un che di offensivo. E se poi la sorte premiasse i più cretini, sembrano dire neanche tanto tra le righe i più militanti. E si capisce bene che il loro disappunto è determinato dal timore della perdita del controllo, quello che ancora manovra e briga su promozioni e nomine. E così sull’introduzione dell’Alta Corte disciplinare, quella voluta da Pietro Calamandrei, il costituente nel cui nome i magistrati militanti hanno esibito cartelli con citazioni, ma dimenticando quelle che non erano loro gradite. Perché non vogliono sentirsi ricordare quel numero piccolissimo di sanzioni inflitte, con il salvataggio di comportamenti assai gravi. Anche quell’80% di adesione all’astensione dal lavoro, che cosa significa? Nei confronti della legge Cartabia, quella che impedendo di fatto il passaggio tra le diverse funzioni aveva aperto la strada alla separazione delle carriere, solo poco più della metà dei magistrati che son oggi in una sorta di sciopero permanente, aveva deciso che valesse la pena di incrociare le braccia. Ma la verità è che il clima si è inasprito. Prima di tutto perché c’è una parte delle toghe, quelle che aderiscono alle correnti più vicine alla sinistra, che ha alla base un problema politico, ed è quello del governo Meloni, della sua politica giudiziaria che loro continuano a ritenere di tipo securitario, e al problema dell’immigrazione clandestina. Poi c’è un altro osso duro, un enorme nocciolino difficile da mandar giù, ed è la presenza di un ex collega nel ruolo di guardasigilli. Il ministro Carlo Nordio è la figura del Grande Traditore della casta, e la casta non perdona, anche se poi qualcuno che ne fa parte va a farsi uno spritz con lui ogni tanto. Ma il vero dissenso politico risiede nel fatto che questa categoria è nel profondo controriformatrice e spesso reazionaria. Negli anni ottanta, quando si avvicinava il tempo della riforma che nel 1989 introdusse nel nostro ordinamento il processo “tendenzialmente” accusatorio, la gran parte delle toghe non era d’accordo, preferivano il sistema inquisitorio con le indagini segreti. Il fatto che l’articolo 111 della Costituzione, così come modificato nel 1999, preveda che la prova si formi nell’aula del dibattimento attraverso il confronto tra le parti e di fronte a un giudice terzo, ha trovato prima di tutto una serie di ostacoli in delibere della Corte Costituzionale, ma soprattutto non è entrato nella mente e nella cultura di tanta parte della magistratura. Infatti tutto si gioca nella fase delle indagini preliminari, dove nel 97% dei casi l’adesione dei giudici alle ipotesi dell’accusa è garantita. È vero che in seguito, ma più in appello e cassazione che non nel processo di primo grado, ci saranno correzioni che arrivano fino al 40% dei casi, ma il dato non è così significativo, dal momento che nel frattempo sono passati anni e il circo mediatico ha intanto fatto il lavoro sporco. Per questo, come ha giustamente sottolineato nell’intervista di mercoledi il professor Nicolò Zanon, costituzionalista e già membro dell’Alta Corte, il problema culturale non è quello di mantenere la “cultura della giurisdizione”, come dicono i sindacalisti in toga, nella figura del Pm, ma al contrario “allontanare il giudice dalla cultura del pubblico ministero”. Purtroppo leggiamo continuamente ordinanze di gip che non solo ricopiano in toto le richieste dell’accusa, ma che addirittura citano continuamente sentenze della cassazione che giustificano la loro attività di copia- incolla. E rimandiamo a un futuro che speriamo non troppo lontano il discorso sulla farsa della finta obbligatorietà dell’azione penale, visto i criteri di priorità esistono, e ben vengano, se sarà il Parlamento a darli, dal momento che quelle vere le sceglie invece ogni giorno ciascun singolo pm. E dietro ogni reato c’è sempre qualcuno che lo ha commesso o che, proprio a causa della scelta arbitraria quotidiana di ogni pm, rischia imputazioni e carcere da innocente. Magari perché pare un tipo d’autore ideale per quel determinato reato. Per tutto ciò, per questo vero potere che è di vita e di morte su ogni singolo cittadino, le toghe non mollano. Ma questa volta un Parlamento che si è suicidato nel 1993 e si è arreso a questa corporazione così accanita e sopra le righe, non cederà. È scritto nel verbale, se c’è stato, dell’incontro di ieri. Due orette per dirsi addio. E fingere di lavorare insieme su piccoli otto punti. Le critiche della premier e le frecciate di Salvini. Ma l’Anm evita la spaccatura di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 marzo 2025 Il segretario dell’Anm cita il no di Borsellino alla separazione delle carriere. Dietro il rispetto reciproco, e dunque dietro il bon ton che si addice a un appuntamento istituzionale, resta la realtà di un dialogo tra sordi. Per via della determinazione della premier Giorgia Meloni - spalleggiata dai due magistrati transitati nel governo come il ministro Nordio e il sottosegretario Mantovano, ma anche dai vicepresidenti del Consiglio Salvini e Tajani - a portare avanti la riforma della magistratura, quella con più possibilità di vedere la luce tra le modifiche costituzionali in cantiere; ma anche per via della determinazione con cui il “sindacato delle toghe”, forte di uno sciopero più che riuscito, è deciso a sostenere la contrarietà alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, allo sdoppiamento del Csm, a un tribunale disciplinare fuori dall’autogoverno. Poi se la riforma passerà si adegueranno, come è logico e come ieri ha ribadito il neopresidente dell’Anm Parodi. Ma finché c’è da discutere non hanno intenzione di rinunciare a far sentire la loro voce. Sebbene con la sensazione che a volte sia inutile, come nella riunione di ieri. Che tuttavia è servita sia al governo che ai magistrati. Perché ciascuno ne è uscito rafforzato nelle proprie convinzioni e strategie. E tra i magistrati non era scontato. In caso di eventuali offerte di “mediazione” su qualche punto, l’unità dell’Anm si sarebbe potuta incrinare. Con la corrente più moderata e dai buoni agganci nell’esecutivo, Magistratura indipendente, tentata da possibili pressioni aperturiste sul “suo” presidente Parodi, mettendone a rischio la fiducia da parte degli altri gruppi. Ma di fronte a Meloni che esclude l’ipotesi di ritocchi al testo già approvato in prima lettura dalla Camera perché vogliono andare spediti, questo pericolo al momento non c’è. E certo non può bastare la promessa di qualche rinvio alle leggi ordinarie di applicazione della riforma generale, necessarie a rimediare a errori o dimenticanze ma non a cambiare l’impianto della riforma. Parodi è un neofita di politica associativa, ma sta mostrando di sapersi muovere con limpidezza e coerenza. E paradossalmente il muro contro muro confermato ieri ne rafforza la posizione. Perché, come dice lui stesso, “rende tutto più chiaro”. Perciò non considera l’esito dell’incontro un fallimento. Per il resto, il confronto nella sede del governo s’è risolto in un concentrato di schermaglie e qualche sfida. Più o meno diretta. A cominciare dalla presenza di Salvini, che prima di arrivare aveva definito la riforma “fondamentale anche per liberare dai vincoli i tanti magistrati indipendenti e perbene che sono sotto sequestro di alcune correnti partitiche”; le stesse che poi s’è trovato davanti, giacché l’Anm le riunisce e rappresenta tutte. Alle toghe politicizzate, premier e ministri non hanno mancato di fare cenni espliciti, evocando pm e giudici che vanno in giro “con il manifesto o l’Unità in tasca” (forse dimenticando la mutazione della testata che fu organo del Partito comunista), mentre loro li vorrebbero vedere tenere in mano solo i codici. Gli orientamenti politici delle toghe sono una costante degli attacchi sferrati da governo e maggioranza contro decisioni sgradite, che Parodi ha chiesto con fermezza di fermare. Perché “feriscono i magistrati, e perché i magistrati sono i primi a rifiutare la logica di provvedimenti non giurisdizionali ma ideologici”. La stessa presidente del Consiglio non si è sottratta a questa pratica, sebbene davanti all’Anm abbia rivendicato di criticare ordinanze o sentenze, non di accusare i magistrati sul piano personale. Anzi, è lei a sentirsi vittima di attacchi da parte di singole toghe, facendo nomi e cognomi di chi s’è espresso contro le politiche del suo governo. Inutile la replica che le legittime posizioni personali non influiscono sui verdetti, così come non ha sortito effetti una citazione di Paolo Borsellino che il segretario dell’Anm Rocco Maruotti, appartenente alla sinistra giudiziaria di Area, ha voluto fare quasi in omaggio alle sempre richiamate origini della militanza di Giorgia Meloni, all’indomani della strage di via D’Amelio: il magistrato assassinato da Cosa nostra parlò contro la separazione delle carriere, considerata “uno strumento per mortificare i pm, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario”. Tra le proposte “per una giustizia più efficiente” lasciate dall’Anm a Palazzo Chigi, tra l’altro, c’è quella di una maggiore flessibilità nei passaggi tra le funzioni di pm e giudice, “raccomandata anche in sede europea”; quasi una provocazione per chi vuole dividerne le carriere. Come (senza quasi) l’invito al governo a indicare la percentuale di assoluzioni da raggiungere per non dire che i giudici si appiattiscono sui pm. “O forse sarebbe meglio dire prima quali processi devono concludersi con una sentenza di assoluzione?”, ha chiesto Maruotti. Ricevendo in risposta solo eloquenti sorrisi. Che lasciano tutto come prima. E tutti, alla fine, soddisfatti. Il confine per il giudice è solo la Costituzione di Antonio D’Andrea Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2025 Si potrebbe davvero suggerire, da parte dei giuristi ispirati da buon senso e nulla di più, una piccola formale precisazione da apportare alla nota e spesso impropriamente richiamata disposizione costituzionale secondo la quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, c. 2, Cost.). Contestualmente alla cosiddetta riforma sulla giustizia avanzata dal governo Meloni, che ha sollevato inevitabilmente polemiche e prese di posizione oppositive da parte di quasi tutta la magistratura ordinaria in attività del Paese (di sicuro non solo “toghe rosse”, ammesso che esistano oltre il porpora che segnala alcuni magistrati chiamati a ricoprire funzioni superiori), si potrebbe tentare di trovare un pacifico accordo con il potere politico precisando che la indiscutibile soggezione alla legge riguarda quella “alla cui applicazione essi siano tenuti nell’esercizio delle loro funzioni”. Si chiarirebbe in modo - come si dice, incontrovertibile - quello che già accade sulla base di una interpretazione logico-sistematica del dettato costituzionale: di fronte a una norma vigente da applicare per risolvere un qualsiasi procedimento giudiziario in corso di definizione, ma che contrasta con un principio costituzionale (della cui elasticità interpretativa dovrebbero sapere tutti i giuristi e non solo i costituzionalisti), l’autorità giudiziaria - quella decidente, di sua iniziativa o su istanza di una delle parti, incluso il pubblico ministero, ove previsto nel giudizio - è tenuta a investire della questione di costituzionalità la Corte costituzionale, sospendendo il giudizio pendente e attendendo la decisione del giudice costituzionale cui compete, come è noto, la possibilità di annullare la norma incostituzionale, che dunque potrebbe non trovare più applicazione nell’ordinamento non solo nel caso pendente. Si chiarirebbe, inoltre, che la potestà legislativa tanto dello Stato quanto delle Regioni, oltre che al richiamato rispetto della Costituzione è tenuta a considerare i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117, c. 1, Cost.). Questo significa che sottovalutare, da parte del legislatore, questo limite costituzionale di natura sovranazionale renderà in ogni caso inapplicabile la norma interna. Ed è qui che si apre la questione, per il giudice, di dare a sua volta diretta applicazione alla norma europea e/o attivare il controllo di costituzionalità della nostra Corte: anche su queste questioni di ordine essenzialmente procedurale si è consolidata nel tempo una elaborazione giurisprudenziale tanto della Corte costituzionale quanto della stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea, che ovviamente non potrà essere ignorata dall’autorità giudiziaria chiamata a disapplicare la norma interna laddove registri il paventato contrasto. La produzione del diritto, alla cui applicazione sono tenuti i magistrati, si potrebbe dire “subisce”, per definizione, ontologiche limitazioni, la cui valutazione è affidata solo ed esclusivamente all’autorità giudiziaria chiamata a rispondere della effettività del “comando” politico. In ciò si sostanzia il significato profondo della democrazia costituzionale, nella quale l’esercizio della funzione giurisdizionale spetta ad altre autorità pubbliche, distinte e separate dagli organi politici. Il confine è dunque tracciato e andrebbe preservato affinché il potere politico, ancorché legittimamente esercitato, non travalichi e conculchi libertà e diritti preesistenti allo Stato e alla sua stessa sovranità originaria. Certo, dal costituzionalismo delle origini siamo giunti ad una lettura più evoluta della democrazia costituzionale che, come è noto, consente alle condizioni dettate dall’articolo 11 della nostra Costituzione restrizioni della sovranità in favore di organizzazioni sovranazionali il cui scopo è quello di preservare “la pace e la giustizia fra le nazioni”, il che naturalmente apre un nuovo capitolo legato proprio alla capacità di far valere, prima di tutto sul piano internazionale, regole che coinvolgono direttamente gli Stati e le autorità politiche che li rappresentano. Rispetto agli impegni direttamente assunti tra gli Stati nulla potrà essere richiesto ai giudici nazionali laddove la norma sovranazionale vincoli esclusivamente l’autorità politica contrariamente alle norme di derivazione internazionale che, trasfuse nell’ordinamento statuale, dovranno, al contrario, trovare piena applicazione all’interno dell’ordinamento nazionale da parte di chi vi è tenuto, vale a dire, ancora una volta l’autorità giudiziaria. Illeciti dei magistrati, c’è (quasi) sempre un buon motivo per assolvere di Riccardo Radi e Errico Novi Il Dubbio, 6 marzo 2025 Della riforma Nordio, l’Anm contesta tutto, anche l’istituzione di un’Alta corte disciplinare. Forse perché la “giustizia domestica” delle toghe già funziona benissimo? Non esattamente, a leggere solo alcune massime recenti. La scorsa settimana il Corriere della Sera ha ospitato un intervento di Edmondo Bruti Liberati in cui la gestione disciplinare del Csm era descritta come “rigorosa”. La questione ha particolare valenza, a poche ore dall’incontro fra governo e Anm, considerato come nel ddl sulla separazione delle carriere sia prevista anche l’istituzione di un’Alta Corte che diverrebbe competente per i procedimenti disciplinari a carico di tutti i magistrati ordinari. Una soluzione criticata, come il resto della riforma, dall’associazionismo giudiziario. A fronte di tali perplessità, ci permettiamo di consigliare la lettura del massimario delle decisioni della sezione disciplinare del Csm e del sito web della Procura generale della Cassazione, dove sono raccolte le massime attinenti all’uso dei poteri che il capo di tale ufficio ha in materia disciplinare. La lettura incrociata di queste fonti consolida alcune impressioni. La prima riguarda la cornice normativa: l’ordinamento disciplinare dei magistrati ha un’intonazione robustamente protezionistica, nel senso di essere congegnato, sia nella tipizzazione degli illeciti sia per la clausola generale dell’esenzione dagli addebiti per scarsa rilevanza del fatto, in modo da confinare l’area di ciò che è disciplinarmente rilevante entro spazi ristretti. La seconda riguarda l’interpretazione di quella cornice, cui concorrono con pari importanza sia la sezione disciplinare che la Procura generale: pare, cioè, che entrambe facciano largo uso della discrezionalità insita nelle previsioni normative, attraverso una altrettanto larga valorizzazione della scarsa rilevanza e l’adozione di parametri di minimizzazione del fatto. Seguono alcuni esempi (tutti recentissimi) che, almeno nell’opinione di chi scrive, sono in grado di giustificare le impressioni di cui sopra. Sentenza n. 40/2024. “In tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, integra l’illecito nell’esercizio delle funzioni dell’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato, la condotta del magistrato di sorveglianza che invia al pm titolare del procedimento a carico di sua moglie una mail contenente una ricostruzione giuridica del fatto, dandone una propria interpretazione, tesa a ritenere il reato non configurabile. Tale condotta può tuttavia reputarsi priva di sostanziale offensività, tenuto conto delle modalità in cui si è estrinsecata, nonché del carattere meramente occasionale dell’episodio e dell’assenza di clamore in ordine al caso, trovando pertanto applicazione l’art. 3-bis del d.lgs. 109 del 2006”. Qui per esempio si riconosce da un lato che l’incolpato ha interferito in modo ingiustificato nell’attività di un altro magistrato, e per ciò stesso si attesta la materialità dell’illecito, ma dall’altro se ne banalizza la portata in virtù di parametri eccentrici che - se ne può star certi - sarebbero considerati risibili in un giudizio penale: l’occasionalità dell’episodio, come se la gravità potesse essere ricavata solo dalla serialità di condotte analoghe, e l’assenza di clamore, quasi a premiare la segretezza che, a quanto pare, deve avere circondato il fatto. Sentenza n. 99/2024. “In tema di illecito disciplinare dei magistrati, l’omessa scarcerazione dell’imputato per oltre sei mesi dalla data di perdita di efficacia della misura integra certamente, trattandosi di disciplina a tutela del bene della libertà personale, la violazione di legge derivante da errore o negligenza inescusabile. Nella specie la Sezione disciplinare ha ritenuto di applicare l’esimente di cui all’art. 3 bis tenuto conto di una serie di elementi, tra cui la mancata richiesta di revoca della misura cautelare da parte del difensore dell’imputato e la figura professionale dell’incolpato”. C’è dunque la rilevanza disciplinare del fatto, e il fatto è un imputato rimasto in carcere sei mesi oltre la data di perdita di efficacia della misura cautelare. Eppure, anche in questo caso, quella rilevanza scolora fino a scomparire perché - si badi bene - il difensore dell’interessato non ha chiesto la revoca della misura e l’incolpato ha una certa, non meglio precisata, figura professionale. La colpa del magistrato viene traslata sul difensore rimasto inerte, e in tal modo si banalizza o addirittura si nega il dovere, in capo al magistrato, di vigilanza sulle misure in corso. Rimangono sullo sfondo, alla stregua di un fastidioso inconveniente, i sei mesi di vita sottratti allo sventurato cui è toccato in sorte una così eminente figura professionale. Sentenza n. 122/2024. “L’illecito di cui all’art. 2 comma 1 lett. g) d.lgs. 109 del 2006 richiede per la sua configurazione che la violazione di legge sia grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. La gravità, oltre ad avere una rilevanza in termini deontologici, deve essere rapportata anche alla rilevanza dell’errore nell’approccio giurisdizionale e al ‘peso’ che la violazione ha avuto nella vicenda giudiziaria nella quale è stata commessa. Nel caso di errore che ha determinato la mancata scarcerazione esso è da ritenersi grave perché incide su un diritto fondamentale della persona umana, garantito sia a livello costituzionale sia sovranazionale. Nella specie il fatto è stato ritenuto di scarsa rilevanza per mancata compromissione dell’immagine del magistrato nella sua funzione giudiziaria”. Questo caso è analogo a quello immediatamente precedente. L’unica differenza è che nell’occasione si valorizza come esimente la mancata compromissione dell’immagine del magistrato. È una giustificazione insieme sconcertante e arrogante perché il suo presupposto giustificativo è parametrato all’interno del ristretto ambito giudiziario. Ben diverso sarebbe stato l’esito - si crede - se si fosse chiesta l’opinione di chi è rimasto in cella più del giusto. Strage di Ustica, chiesta l’archiviazione. L’ira dei parenti: “Il muro di gomma” di Andreina Baccaro Corriere di Bologn, 6 marzo 2025 Esclusa la bomba, resta la pista della battaglia aerea. Le 63 rogatorie a vuoto. La verità sulla strage di Ustica potrebbe rimanere sepolta per sempre e l’abbattimento del DC-9 Itavia, inabissatosi la sera del 27 giugno 1980 con 81 vittime innocenti a bordo, restare senza colpevoli. La Procura di Roma, dopo anni di indagini, ha chiesto l’archiviazione dei due procedimenti ancora aperti per la strage di Ustica. Quello avviato nel 2008 dopo alcune dichiarazioni dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che affermò di sapere che quella notte un aereo militare francese si mise sotto il Dc9 e lanciò un missile per sbaglio. La rabbia dei famigliari delle vittime. La verità sulla strage di Ustica potrebbe rimanere sepolta per sempre e l’abbattimento del DC-9 Itavia, inabissatosi la sera del 27 giugno 1980 con 81 vittime innocenti a bordo, restare senza colpevoli. La Procura di Roma, dopo anni di indagini, ha chiesto l’archiviazione dei due procedimenti ancora aperti per la strage di Ustica. Quello avviato nel 2008 dopo alcune dichiarazioni dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che affermò di sapere che quella notte un aereo militare francese si mise sotto il Dc9 e lanciò un missile per sbaglio e il fascicolo aperto nel 2022 dopo un esposto dell’Associazione per la verità su Ustica in cui si sollecitavano i magistrati a verificare la pista della bomba esplosa a bordo del volo partito da Bologna diretto a Palermo. I pm romani accreditano la tesi di una battaglia aerea ma devono fermarsi di fronte all’impossibilità di ricevere risposte esaurienti alle decine di rogatorie che negli ultimi anni sono state inviate soprattutto a Usa e Francia. Risposte che non sono mai arrivate oppure arrivate in maniera incongruente e confusa. L’attività peritale porta ad escludere la presenza di un ordigno all’interno dell’aereo. Per chi indaga nessun elemento sembra avvalorare la matrice terroristica di quanto avvenuto. Di contro le piste più accreditate, così come emerso anche nelle indagini del passato, restano quelle di una collisione con altro oggetto volante o di una deflagrazione avvenuta in uno scenario di guerra per mano di jet militari. La cui nazionalità però resta impossibile da accertare. Tra le centinaia di documenti presenti in atti anche il file audio con l’ultimo tratto della registrazione della scatola nera dal quale è emerso che uno dei piloti, pochi istanti prima che si perdesse il contatto radar, la frase “guarda cos’è”. Le ultime parole prima che l’aereo si inabissasse in uno dei misteri più fitti d’Italia. La richiesta di archiviazione riapre le polemiche trai familiari delle vittime: Daria Bonfietti, presidente dell’associazione dei familiari, parla di “grande dolore per i nostri morti che non hanno ancora avuto completa giustizia e delusione per i tanti anni di indagini e sforzi di magistratura e avvocati che non hanno ancora potuto portare alla completa verità”. Per il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, “questo è il momento in cui la nostra comunità deve far sentire la propria voce forte nel chiedere che questa terribile strage, che ha strappato alla vita 81 civili innocenti, non resti senza colpevoli e, soprattutto, senza la speranza di individuarli”. E l’ex sindaco Virginio Merola sollecita “che il Governo italiano chieda con decisione ai Paesi alleati, a cominciare dalla Francia, di collaborare con informazioni adeguate al lavoro della magistratura”. Anche Bonfietti insiste: “È necessario che la Repubblica italiana continui a pretendere collaborazione da tutti gli Stati amici e alleati per la propria dignità nazionale e per dare giustizia e verità alle vittime della strage di Ustica. L’avevamo sempre ribadito - prosegue -, anche nell’ultimo anniversario a Bologna, confortati dalle parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ci è sempre stato vicino, che il nodo centrale dell’indagine era la collaborazione degli Stati amici e alleati, che avevano aerei da guerra nella vicinanza del DC9 quella notte”. L’avvocato dei familiari delle vittime Alessandro Gamberini, che sottolinea di voler aspettare la notifica dell’atto, osserva che la richiesta di archiviazione potrebbe essere “la presa d’atto che il sistema giudiziario ha fatto quel che poteva, di più non può fare”. Infine il segretario regionale del Pd, Luigi Tosini: “Mi unisco ai sentimenti di amarezza e indignazione di chi da decenni lotta affinché questa terribile strage non resti senza colpevoli e, soprattutto, senza la speranza di individuarli”. Torino. Salute mentale, al via l’attività psicoeducativa per detenuti e agenti penitenziari agensir.it, 6 marzo 2025 L’8 e il 15 marzo, presso la Casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino, Walter Fontanini, docente di Psicologia criminale presso il Dipartimento di Diritto penale e Diritto penitenziario, terrà due incontri formativi. Il primo incontro, rivolto a un gruppo pilota di detenuti, ha l’obiettivo di illustrare tecniche psicologiche per la gestione dell’ansia e della depressione senza ricorso a farmaci, promuovendo una cultura della prevenzione e dell’auto-cura e contribuendo così alla dignità e al benessere mentale dei partecipanti in un percorso di riabilitazione della Persona. In caso di esito positivo, si valuterà l’estensione dell’iniziativa a un campione più ampio di detenuti. Il secondo incontro, invece, è destinato agli operatori della Polizia penitenziaria dello stesso istituto penitenziario. Durante questa sessione verranno approfonditi i fenomeni di burn-out, depressione e fatica da compassione, nonché presentate tecniche psicologiche per la gestione di tali condizioni, frequentemente riscontrabili tra gli operatori delle Forze dell’ordine e del Primo Soccorso (quali pompieri, personale medico e paramedico). L’iniziativa rientra nel più ampio progetto “La bussola ri-trovata”, promosso dall’Associazione Con Voi aps e che vede impiegate numerose iniziative di differente portata, il tutto co-progettato da Claudia Amoruso, psicologa clinica e psicoterapeuta analista transazionale, referente di Vite-Inceppate e membro Emba del Politecnico di Milano, e da Laura Grassi, docente di Investment Banking and Finance Lab Courses presso il Politecnico di Milano, Finetech Awards 2024. L’Associazione Con Voi aps nasce nel 2003 come ente di solidarietà familiare dall’iniziativa di un gruppo di esperti pedagogisti, educatori professionali, psicologi, con l’obiettivo di offrire un supporto personalizzato alla fragilità e al disagio della famiglia. L’esperienza del gruppo fondativo ha consentito di sviluppare ricerca, formazione, consulenza pedagogica ed educativa, che, nel tempo, hanno preso la forma di servizi diurni per famiglie, servizi per studenti e giovani, servizi di comunità e autonomia per mamma con bambino, housing sociale. Perugia. “Ripensare il carcere delle donne”: la nuova sfida dell’avvocatura per l’8 marzo Il Dubbio, 6 marzo 2025 Riaprire gli occhi sul carcere femminile, tra le pieghe invisibili di un sistema penitenziario già separato dallo sguardo della società. È la sfida lanciata dal Consiglio nazionale forense (Cnf) attraverso la sua Fondazione dell’Avvocatura Italiana (Fai) in occasione della Giornata internazionale della donna, che ricorre l’8 marzo. Con il supporto del Dubbio, l’avvocatura ha organizzato un evento che si terrà questo sabato a Perugia, presso la Sala dei Notari del Palazzo dei Priori: l’iniziativa è interamente dedicata ai diritti delle donne e alla loro condizione nelle carceri, con lo scopo di ripensare e riflettere sulla detenzione femminile. Una vera e propria “minoranza penitenziaria” 2.718 donne ristrette su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini, secondo l’ultimo aggiornamento del Dap al 31 gennaio 2025 - troppo spesso trascurata dal dibattito politico. Che avrà luogo anche nel corso dell’evento con le esponenti parlamentari che vi prenderanno parte insieme a rappresentanti del mondo forense e accademico. I lavori saranno aperti dai saluti della Sindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi, del Presidente del Cnf, Francesco Greco, e del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, Carlo Orlando. A seguire, il programma si articolerà in diverse sessioni tematiche. Alla prima, coordinata dal vicepresidente della Fai Vittorio Minervini, parteciperanno Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, Elisabetta Brusa, componente della Commissione Carcere Ocf e della architetta Federica Sanchez, esperta in neuroscienze applicate. La sessione successiva, moderata dalla giornalista de “Il Dubbio” Francesca Spasiano, accoglierà i contributi di figure istituzionali e avvocati impegnati nella tutela dei diritti delle donne in ambito carcerario, tra cui la Consigliera segretaria del Cnf Giovanna Ollà, la coordinatrice della Commissione Progetto Donna dell’Ordine degli avvocati di Perugia Francesca Pieri, e la Consigliera Cnf e Coordinatrice della Commissione per le persone private della libertà, Francesca Palma. Quindi il confronto con il mondo politico nella tavola rotonda moderata dal direttore de Il Dubbio Davide Varì, con la partecipazione delle parlamentari Susanna Donatella Campione (Fdi), Mariastella Gelmini (Noi moderati - Centro popolare), Maria Elena Boschi (Iv) e Debora Serracchiani (Pd). Infine, la sessione conclusiva con gli interventi di Francesca Brutti, presidente Cpo dell’Ordine degli avvocati di Perugia e di Lucia Secchi Tarugi, consigliera Cnf e coordinatrice Cpo del Cnf. L’evento è valido ai fini della formazione continua per gli avvocati, con il riconoscimento di 3 crediti. Roma. “Chiudiamo le carceri minorili”. Appello e appuntamento il 7 marzo a Casal del Marmo Il Domani, 6 marzo 2025 Il sistema degli Istituti penali minorili è al collasso, il parlamento metta all’ordine del giorno il tema urgente della chiusura delle carceri minorili, da sostituire con percorsi alternativi incentrati sui ragazzi e le ragazze e non sulla cancellazione di presente e futuro. Nelle carceri italiane l’attitudine vendicativa sta cancellando la funzione rieducativa richiamata in Costituzione. Le condizioni di vita sono insostenibili, si riduce il ricorso alle pene alternative e con esse le progettualità mirate al reinserimento sociale e lavorativo. La situazione è ancora più odiosa per persone minorenni e giovani, per cui a maggior ragione la reclusione dovrebbe essere misura residuale. Invece a ottobre 2024 negli Istituti penali minorili c’erano 570 persone: erano 496 a fine 2023 e 381 a fine 2022. Non fa eccezione l’Ipm di Casal del Marmo di Roma: tra giugno 2023 e dicembre 2024 il numero di persone ristrette si è incrementato del 28%, arrivando a 63 (capienza massima 57). Le conseguenze del decreto Caivano - È una conseguenza delle scelte del governo Meloni, che attraverso il Decreto Caivano da settembre 2023 ha incentivato il ricorso alla carcerazione di minorenni e giovani detenuti, in particolare in forma di misure cautelari e di esclusione dalla messa alla prova. Pochi giorni fa il ministro della Giustizia è arrivato ad annunciare il primo trasferimento di decine di giovani detenuti dall’Ipm di Bologna al carcere per adulti per contrastare il sovraffollamento, senza neanche fare cenno all’idea alternativa del ricorso in maniera più massiva ai percorsi esterni. Insomma, si va in direzione esattamente opposta a quella che richiederebbe il buonsenso e la più elementare civiltà, con il Ddl “sicurezza” presentato dai ministri Nordio, Crosetto e Piantedosi che radicalizza ulteriormente la situazione. Un ex sistema avanzato - La centralità dell’approccio educativo ha reso per molto tempo il sistema italiano di giustizia penale minorile uno dei più avanzati in Europa e l’involuzione alla quale stiamo assistendo non è accettabile. Le cicliche proteste della popolazione detenuta sono la conseguenza dell’aumento di senso di esclusione, solitudine, e disperazione vissuto da chi si trova ad avere la detenzione come unica risposta. Chiediamo di mettere all’ordine del giorno nelle aule parlamentari il tema urgente della chiusura delle carceri minorili, da sostituire gradualmente con percorsi alternativi incentrati sui ragazzi e le ragazze e non sulla cancellazione di presente e futuro. Facciamo appello a politici, intellettuali, organizzazioni sociali e di movimento, a giuristi e accademici, a tutte le persone e le realtà organizzate che hanno a cuore la democrazia di questo Paese affinché si levi forte la voce di chi la reclusione e il carcere li vuole ridurre fino all’estinzione e non moltiplicarli, a cominciare da quelli per i minorenni. Per rilanciare le mobilitazioni bolognesi, tornare a reclamare l’applicazione massiva di pene alternative e andare verso la chiusura delle carceri minorili in ogni città, vi invitiamo a partecipare al presidio con conferenza stampa all’ingresso dell’Ip, di Casal del Marmo, in via G. Barellai 140 (Roma) il prossimo venerdì 7 marzo alle ore 12. Per adesioni: stopcarceriminorili@gmail.com Primi firmatari: Luigi Manconi - politico; Ilaria Cucchi - Senatrice AVS; Andrea Catarci - Resp.le Ufficio Giubileo delle persone e della partecipazione - Roma Capitale; Rita Vitale - A Buon Diritto; Francesca Ghirra - Deputata AVS; Carlo Testini- ARCI; Riccardo Magi - Deputato +Europa; Caterina Pozzi - Presidente CNCA; Iacopo Melio - Consigliere regionale Toscana - PD; Alessandro Luparelli - Consigliere comunale Roma -SCE; Michela Cicculli - Consigliera comunale Roma - SCE; Daniela Patti - co-presidente VOLT; Padre Giuseppe Bettoni - Presidente Fondazione Arché; Pierfilippo Pozzi - Fondazione Don Gino Rigoldi; Claudio Marotta - Consigliere regionale Lazio - AVS; Vanessa Cremaschi - Associazione culturale V&C; Mattia Tombolini - Momo Edizioni; Germana Cesarano - Coop Magliana 80; Amedeo Ciaccheri - Presidente Municipio VIII - Roma; Simona Maggiorelli - Direttrice Left; Roberto Eufemia - Consigliere città metropolitana Roma - SCE; Anna Sereno - Coop Cecilia; Mario Pontillo - ass. Il Viandante; Francesca Malara - Presidente CNCA Lazio; Lillo Di Mauro - Presidente Conferenza del Volontariato Giustizia Lazio; Francesca Danese - portavoce Forum III settore Lazio. Roma. Seconda Chance, ecco dove potrebbe lavorare l’ex comandante Francesco Schettino di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2025 La storia dell’associazione no profit fondata nel 2022 dalla giornalista Flavia Filippi. Il sodalizio si occupa di mettere in comunicazione il mondo delle imprese con quello delle istituzioni per offrire una seconda possibilità ai detenuti. Potrebbe lavorare in Vaticano Francesco Schettino, il comandante della Costa concordia naufragata davanti all’isola del Giglio più di 10 anni fa. L’ex comandante (il tribunale di sorveglianza si pronuncerà il prossimo 8 aprile) potrebbe trovare impiego nell’ambito del progetto portato avanti dall’associazione “Seconda chance” che ha siglato un protocollo per la Fabbrica di San Pietro in Vaticano per consentire ai detenuti di lavorare fuori o dentro le carceri. Che cosa è Seconda Chance - Fondata nel 2022 da Flavia Filippi, giornalista di La7, Seconda Chance è un’associazione che “porta occupazione dentro e fuori dalle carceri”. Un ponte tra imprese e mondo delle carceri dato che il sodalizio “presenta agli imprenditori la possibilità di fare impresa (a condizioni super agevolate) direttamente all’interno dei penitenziari, dove si trovano capannoni o locali dismessi il cui uso è ceduto a titolo gratuito”. Il tutto grazie alla legge Smuraglia (193/2000) “che offre sgravi fiscali e contributivi a chi assuma, anche part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21 O.P. (legge 354/75) cioè persone ammesse al lavoro esterno”. L’attività sul campo - L’azione dell’associazione si sviluppa con un intervento sul campo con una sorta di “porta a porta”, tra aziende e territori. “Il nostro lavoro - aggiunge Flavia Filippi - si sviluppa attraverso un lavoro di rete e una collaborazione, non solo con le piccole realtà ma anche con le grandi aziende”. Tra coloro che hanno siglato la convenzione e quindi l’impegno a inserire nei piani di lavoro detenuti, ci sono Arcaplanet, terna, ma anche McDonald, e poi aziende di trasporto come Joule, Fabbrica di San Pietro e Autostrade. “Anche Intesa San Paolo che ci ha sostenuto in maniera forte - aggiunge - e poi altre realtà come Claudia Cremonini”. 500 richieste di lavoro - Nel corso della sua attività l’associazione ha procurato quasi 500 posti di lavoro tra i diversi centri d’Italia. “Non ci limitiamo a una sola regione ma cerchiamo di operare in tutta Italia - aggiunge - anche grazie all’impegno dei nostri referenti che poi lavorano per trovare soluzioni più idonee ai singoli casi. E così può capitare che al detenuto di Torino, ma che ha gli affetti nel Lazio gli si trovi l’impiego. Naturalmente dopo che si completa il percorso burocratico previsto dalla normativa”. Un passo avanti nella politica di reinserimento delle persone che scontano una condanna e che guarda oltre. “Non parliamo più del parrucchiere che inseriva in bottega il detenuto - aggiunge - ma di aziende che si sono messe a disposizione per offrire una seconda possibilità a chi ha sbagliato”. Tra le iniziative più significative c’è anche la cittadella dello sport a Secondigliano. L’iniziativa è partita dal campo di basket che Seconda Chance ha fatto donare dalla Feder Pallacanestro. Poi l’avvio del megaprogetto Cittadella dello Sport portato avanti con Entain Group e con Sport Senza Frontiere che vale 400mila euro. Tra le altre iniziative anche un corso per la formazione degli arbitri. “Si tratta di un’attività altamente educativa - aggiunge - finalizzata al rispetto delle regole” Il Centronord corre, il Centrosud arranca - Non tutta l’Italia, però, viaggia alla stessa velocità, come sottolinea la presidente. “Al Centronord abbiamo trovato più disponibilità e anche maggiore velocità e possiamo dire che andiamo molto forte - aggiunge -. Al sud, purtroppo e dispiace dirlo, le cose non vanno così bene”. Roma. Carcere di Rebibbia: al via “Libri Liberi” con Albinati e Fresi di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 marzo 2025 Saranno lo scrittore Edoardo Albinati e l’attore Stefano Fresi a inaugurare alle 16, nella casa circondariale di Roma Rebibbia NC, l’iniziativa “Libri Liberi”, promossa dalla Fondazione De Sanctis con il patrocinio del Ministero della Giustizia e in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura. Albinati - premio Strega con La scuola cattolica e insegnante per 30 anni proprio a Rebibbia - e Fresi - il ‘Secco’ in Romanzo Criminale, il commissario Kostas nell’omonima serie e tanto altro - avranno il compito di rendere appassionanti alcuni brani dell’Odissea e di avviare un dialogo quanto più informale e autentico con i detenuti presenti. L’iniziativa ‘Libri Liberi’ si propone infatti di creare all’interno degli istituti un ambiente di riflessione condivisa e di confronto aperto attorno a grandi opere letterarie. Questo grazie al contributo di attori e scrittori di fama che renderanno le letture avvincenti per stimolare un confronto aperto e rendere i detenuti non solo spettatori ma anche protagonisti degli incontri. A condurre le altre 11 tappe - che si concluderanno il 21 dicembre - Maurizio De Giovanni e Fabrizio Bentivoglio (Napoli Secondigliano), Elisa Fuksas ed Elena Lietti (Milano Opera), Alessio Boni e Daniele Mencarelli (IPM, Istituto per minori Beccaria di Milano), Aurelio Picca e Sergio Rubini (IPM Firenze), Rossella Pastorino e Francesco Montanari (Roma Regina Coeli), Igiaba Scego e Anna Bonaiuti (Venezia Giudecca), Giulia Caminito e Claudia Gerini (Roma Casal del Marmo), Donatella Di Pietrantonio e Lino Guanciale (circondariale Bari), Giuseppe Culicchia e Giorgio Colangeli( Palermo Pagliarelli), Davide Rondoni e David Riondino (IPM Fornelli Bari Bari),Antonio Franchini e Marianna Fontana (IPM Nisida). Oggi, alla prima delle dodici tappe, sono presenti Margherita Cassano, Primo presidente della Corte suprema di cassazione, e Teresa Mascolo, dirigente penitenziario e direttore della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Rimini. Con “Sprigionati”, il Galli “si fa teatro” delle voci e parole dei detenuti riminitoday.it, 6 marzo 2025 Una straordinaria occasione per restituire dignità e voce a chi vive dietro le sbarre, e creare riflessione e dialogo sulla reale possibilità di riscatto. Al Teatro Galli uno spettacolo di voci, musica, teatro e pensieri frutto di un virtuoso percorso realizzato con Risuona Rimini, Alcantara Teatro, Caritas Rimini “Sprigionati. Voci, parole, musica dalla casa circondariale di Rimini” è più di uno spettacolo. È un’occasione unica per restituire dignità e voce a chi vive dietro le sbarre, e nello stesso tempo invitare le persone a una riflessione sulla possibilità concreta di riscatto e reinserimento sociale. “Sprigionati. Voci, parole, musica dalla casa circondariale di Rimini” in programma giovedì 6 marzo, alle ore 21:00, al Teatro Galli di Rimini. Le voci e i pensieri di chi abita la Casa Circondariale si uniscono a musica e immagini per provare a raccontare il complesso mondo delle carceri, spesso ristretto ai margini della società. L’idea è stata sviluppata grazie al Progetto Giustizia con Misericordia - “Cresce Fuori Quello che Germoglia Dentro” di Caritas Italiana, attivo sul territorio riminese dal maggio 2024, che ha permesso di creare momenti di riflessione, dialogo e confronto all’interno e all’esterno dell’Istituto Penitenziario. Un percorso lungo, partito con un laboratorio di scrittura creativa alla casa circondariale di Rimini, e realizzato grazie a Risuona Rimini, Alcantara Teatro, Caritas Rimini ODV con la collaborazione della Casa Circondariale di Rimini, che si conclude ora con la messa in scena delle emozioni e dei vissuti emersi. “È un progetto nato dal cuore del Progetto Giustizia con Misericordia, di Caritas Italiana e con il sostegno di Intesa San Paolo. - spiega Mario Galasso, direttore di Caritas diocesana Rimini e coordinatore del gruppo diocesano per l’opera-segno “Una casa per tutti”, composto dai rappresentanti delle diverse realtà della Diocesi - ed è reso possibile dalla sinergia tra Risuona Rimini, Alcantara Teatro, Caritas Rimini e in collaborazione e con il patrocinio del Comune di Rimini. La presenza del pubblico sarà un dono prezioso. - prosegue Mario Galasso - Un segno di vicinanza a chi è ai margini, un incoraggiamento a proseguire nel difficile percorso di cambiamento. Ne siamo certi: questa serata resterà nel cuore”. “Sprigionati è un mix di proposte artistiche. - spiega il regista Diego Runco - Insieme a Sara Galli, siamo partiti dai testi prodotti nel laboratorio di scrittura, rielaborati e integrati in un copione. Alcune letture e racconti, per voce della stessa Sara Galli e di Giulia Versari, daranno conto della situazione carceraria a livello nazionale e riminese, soprattutto a livello di iniziative di proposte e iniziative di volontariato”. Una band suonerà dal vivo brani di grandi autori con tematiche legate al carcere: da Nicolò Fabi a Lucio Dalla, da Enrico Ruggeri a Giorgio Gaber, Lucio Battisti e Fabrizio De Andrè. La band è composta da 8 elementi: Francesco Mussoni, voce; Stefania Pozzi, voce e violino; Marcello Dolci, voce e chitarra acustica; Marco Mantovani, pianoforte e arrangiamenti musicali; Alessandro Pagliarani, saxofoni; Luca Arduini, chitarra elettrica; Eros Rambaldi, basso, Federico Lapa, batteria. Roberto Ballestracci sarà protagonista della digital painting, disegno dal vivo durante lo spettacolo. Completano la serata le video interviste dalla Casa Circondariale di Rimini di Stefano Bisulli e Andrea Valentini, e il disegno luci di Luca Telleschi. Attraverso il linguaggio universale della musica e la forza evocativa della poesia, Sprigionati intende offrire un’esperienza culturale che sappia toccare le corde più profonde dell’animo umano. Uno spettacolo che trasmette una visione completa e d’impatto. L’ingresso è gratuito con obbligo di prenotazione. Venezia. Volontariato e solidarietà con la Società di San Vincenzo De Paoli Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2025 Dal sostegno alle famiglie in difficoltà al reinserimento dei detenuti, un esempio di umanità e cura. “Esserci sempre!”. Sono le parole di Martina Siebezzi, Presidente dell’ODV Società di San Vincenzo De Paoli - Consiglio Centrale di Venezia. Racchiudono e danno il senso di ciò che significhi fare volontariato all’interno dell’Associazione. Una realtà che oggi, solo nel Capoluogo veneto, conta di 5 Conferenze, per un totale di 60 soci, 258 persone supportate e 82 famiglie assistite. Numeri importanti frutto di un lavoro costante, un impegno certosino distribuito nel tempo che oggi consente anche di affrontare nuove sfide sociali come “La salute mentale dei giovani o le difficoltà collegate a depressione e Alzheimer”, afferma la Presidente dell’ODV Società di San Vincenzo De Paoli - Consiglio Centrale di Venezia e aggiunge: “Questo ci chiama a rinnovare le nostre modalità di contatto rispetto al passato. Proprio per questo a novembre scorso abbiamo organizzato un incontro formativo per i volontari e ne prevediamo un altro a fine marzo”. Il fine primario è fare tutto ciò che serve per stare accanto all’uomo e rispondere alle sue innumerevoli necessità perché la carità va ben oltre l’aiuto istantaneo e onora solo se, insegnava il Beato Federico Antonio Ozanam: “Unisce al pane che nutre, la visita che consola, il consiglio che illumina, la stretta di mano che ravviva il coraggio abbattuto, quando tratta il povero con rispetto” (da “L’assistenza che umilia e quella che onora”, L’Ere Nouvelle, 1848). Ascolto, formazione, supporto socio-economico, distribuzione di alimenti e vestiti. Finanziamento di borse di studio e aiuto nel cercare un lavoro. L’Associazione ogni giorno cerca di rispondere alle innumerevoli fragilità della società odierna che “Sono in crescita” - evidenzia Martina Siebezzi e continua -: “L’incremento dei prezzi, oltre a quello delle bollette, ha portato ad un ulteriore impoverimento della popolazione. Dal punto di vista alimentare crescono le richieste di aiuto, anche da parte di famiglie giovani che si trovano in difficoltà non lavorando nell’ambito turistico”. La maggior parte delle Conferenze che si occupano della distribuzione sono associate al Banco alimentare europeo. “Il passaparola e l’aiuto garantito dalle comunità parrocchiali, anche in termini economici, gioca un ruolo fondamentale. Personalmente mi occupo anche di interfacciarmi con Ulss 3 o con il Comune per quelle situazioni particolarmente complesse” ha dichiarato la Siebezzi. Nasce così un lavoro in rete che consente di riscoprire la bellezza di essere parte attiva e integrante della società. Lo stato di precarietà investe anche molte madri sole, con figli. “Si tratta di donne abbandonate dai propri uomini ma anche immigrate che, seppur siano sposate e, abbiano accanto un marito, devono occuparsi totalmente della famiglia” - dichiara la Presidente. Si cerca di raggiungere ogni persona. “Sono parte della nostra vita e quindi il bello è esserci, in ogni momento”, specifica Martina Siebezzi mentre un’imbarcazione viene riempita di beni di prima necessità pronti per essere distribuiti. Il vincenziano rappresenta, per chi gli si affida, un punto di riferimento, un confidente, un amico, una guida saggia e non soltanto una persona che eroga servizi. Le famiglie sono seguite attraverso un percorso di crescita personale che diventa anche stimolo a migliorarsi. La sollecitudine ardente ha condotto l’Associazione a raggiungere anche il mondo delle carceri. Per contribuire a riempire di senso la vita di chi è privato della libertà, i volontari della Società di San Vincenzo De Paoli lavorano a stretto contatto con il Direttore Enrico Farina e con il nuovo cappellano don Massimo Cadamuro: “Siamo riusciti a fare da ponte tra il carcere e il Convento di San Francesco della Vigna, dove abbiamo un nostro punto di distribuzione: sono stati assunti dai frati tre ristretti in regime di semi-libertà. Uno lavora in cucina, un altro è impiegato nella Guardiania della chiesa del Convento e un ristretto è stato assunto dalla Ditta che cura i vigneti dell’edificio religioso”, continua la Presidente Siebezzi. Negli anni è stato realizzato un punto verde nel cortile della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore. Rientra nel progetto “Il cortile ri-creato”. “Si tratta di uno spazio che i detenuti curano per riacquisire quel senso di utilità che li aiuta a sentirsi parte del mondo. Inoltre - aggiunge la Presidente - per accompagnare le persone private della libertà a esprimere il proprio io, conoscersi più a fondo attraverso i propri talenti, abbiamo organizzato un corso di arte”. “Fare arte insieme: imparare a disegnare per riscrivere la nostra quotidianità” è il nome del progetto curato dalla Coordinatrice Anna Gigoli. Un appuntamento settimanale, della durata di due ore. “Sono due anni che me ne occupo con una decina i ragazzi, alcuni dei quali sono in carcere da tanti anni” - racconta la Coordinatrice Anna Gigoli. E attraverso questo corso c’è chi esprimere il suo mondo interiore. Chi rispolvera ricordi, come l’immagine della sua Venezia, e chi ne approfitta per lasciarsi andare a confidenze che manifestano tanta sofferenza e disperazione. “Il carcerato matura la consapevolezza del reato e l’impossibilità di poter rimediare al danno compiuto. Questo genera un profondo senso di angoscia che sfocia nella disperazione. Infondere un po’ di speranza diventa fondamentale. E, in piccolo, attraverso le nostre iniziative cerchiamo di farlo” - confida la Gigoli- “Auspichiamo per la primavera, o al massimo l’estate, di far realizzare ai ristretti dei murales nello spazio esterno”. Intanto in vista del prossimo appuntamento con la XVIII Edizione del Premio letterario Carlo Castelli, quest’anno nella Casa circondariale “Canton Mombello” di Brescia, “Due detenuti sono pronti a partecipare con i loro scritti”, conclude Anna Gigoli. Il Premio letterario Carlo Castelli è un concorso riservato ai detenuti di tutte le carceri italiane e di tutti gli Istituti per minori. La partecipazione è aperta a cittadini italiani e stranieri, senza limiti di età, condannati almeno con sentenza di primo grado. L’evento, organizzato dalla Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, Settore Carcere e Devianza, quest’anno rifletterà intorno a un tema potente e attuale: “Mi specchio e (non) mi riconosco: non sono e non sarò il mio reato”. Rispetto agli altri impegni futuri dell’ODV Società di San Vincenzo De Paoli - Consiglio Centrale di Venezia la Presidente ricorda le cose da consolidare, come l’interazione con il carcere, con l’Ospedale Civile e spera: “Se arriveranno i fondi previsti, di mettere in campo un investimento dedicato ai campi estivi. Un’occasione per riunire bambini di qualsiasi etnia e religione: un’attività inclusiva!” - sorride e conclude - mentre la piccola imbarcazione è già pronta ad attraversare nuovamente la laguna carica di beni di primaria necessità. Pronti per essere distribuiti. La Società di San Vincenzo De Paoli da 191 anni è accanto agli ultimi, ai vulnerabili, agli invisibili. Ogni giorno la Società di San Vincenzo De Paoli si fa prossima all’umanità ferita grazie al sostegno di oltre 11.300 soci e volontari che, in tutta Italia, supportano 30.000 famiglie - più di 100.000 persone -. I volontari della Società di San Vincenzo De Paoli incontrano i più fragili visitandoli nelle loro case, negli ospedali, nelle residenze per anziani, nelle strade e perfino nelle carceri. Palermo. AS.VO.PE., 25 anni di volontariato come ponte fra carcere e società civile di Nunzio Bruno cesvop.org, 6 marzo 2025 L’Associazione di Volontariato Penitenziario (AS.VO.PE.) si appresta a celebrare un traguardo significativo: venticinque anni di solidarietà e impegno civico nel complesso e delicato ambito del sistema penitenziario. Un percorso che ha visto l’associazione protagonista di un dialogo costante tra il mondo del carcere e la società esterna, con l’obiettivo di promuovere la dignità, il recupero e la reintegrazione delle persone detenute. Il 7 marzo 2025 al CreZi Plus di Palermo si svolge l’evento celebrativo, inserito nel contesto delle iniziative di lancio di Palermo Capitale Italiana del Volontariato 2025. Sarà un momento di riflessione e confronto pubblico. Un’occasione per ripensare criticamente il ruolo del volontariato contemporaneo e il senso stesso della detenzione in un’era di profondi cambiamenti sociali e giuridici. Un percorso di venticinque anni - Dal 2000 ad oggi, ASVOPE ha rappresentato un punto di riferimento importante per quanti credono nel valore del recupero e della riabilitazione. L’associazione ha sempre sostenuto che il carcere non debba essere un luogo di esclusione, ma un contesto di possibile trasformazione personale e sociale. Il programma dell’evento Ore 16,30-18: Volontari oggi Dopo i saluti del presidente ASVOPE Bruno Distefano, un primo momento di dialogo vedrà protagonisti Maria D’Asaro e Augusto Cavadi, che si confronteranno a partire dal volume “Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia”. Un’analisi critica sulle sfide attuali del volontariato, tra criticità e nuove opportunità di impegno civico. Ore 18-18,30: Pausa e intermezzi musicali Un breve intervallo con aperitivo offerto da ASVOPE, arricchito dagli interventi musicali del maestro violinista Giorgio Gagliano, a simboleggiare la dimensione culturale e umana del recupero. Ore 18,30-20: La detenzione in prospettiva La tavola rotonda, con Santi Consolo, Francesco Foraci e Giovanni Fiandaca, prenderà spunto dal volume “Punizione”, aprendo un dibattito sul senso e le modalità della detenzione contemporanea. Obiettivi e visione L’iniziativa si propone di: Stimolare una riflessione pubblica sul ruolo del volontariato; Analizzare criticamente il sistema penitenziario; Promuovere la comprensione e l’inclusione sociale; Ridurre le distanze culturali tra il dentro e il fuori del carcere. Invito alla partecipazione attiva ASVOPE non cerca solo spettatori, ma protagonisti. L’associazione invita la cittadinanza a partecipare, a riflettere e a impegnarsi nel volontariato, credendo fermamente che il cambiamento sociale nasca dalla partecipazione diretta e consapevole. Dove: CRE.ZI.PLUS, Cantieri Culturali della Zisa, Via Gili 4, Palermo Quando: Venerdì 7 marzo 2025, ore 16,30-20. Per informazioni e adesioni: Email: asvope.pa@gmail.com. Telefono: 339 1842660. L’evento è gratuito e aperto al pubblico Carcere, vie d’uscita senza ritorno di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 marzo 2025 In dieci anni quasi 700 suicidi in cella: Alessandro Trocino denuncia un orrore italiano. “Se una mosca vi si posa - non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre - resta presa dapprima per l’estrema falange ricurva di tutte le sue zampette”, scrive Robert Musil in una delle “Pagine postume pubblicate in vita”, narrando gli spasmi degli insetti inchiodati sulla carta moschicida. Il destino è già segnato. Ogni tentativo di “districarsi frullando le ali” che ricorda quasi “Laocoonte nell’espressione sportiva dello sforzo estremo” è vano finché “le mosche non hanno più la forza di sollevarsi dal vischio, ricadono un poco e in quell’attimo sono interamente umane”. Non poteva trovare parole più dense, Alessandro Trocino, per spiegare in “Morire di pena. 12 storie di suicidio in carcere”, il libro in uscita domani da Laterza, la tragedia di tante vite perdute nelle galere italiane. Quelle che fecero dire a Papa Francesco: “Ogni volta che varco la porta di un carcere, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie...”. Ecco il nodo: “Quei criminali non è detto che siano tutti criminali. Molti, circa un terzo, sono in custodia cautelare, cioè non sono mai stati condannati, talvolta neanche in primo grado”. Come Giovanni Manish Polin che, abbandonato il giorno stesso della nascita in India, adottato da una famiglia veronese, segnato da problemi adolescenziali di droga e di alcol, sbattuto incensurato nel penitenziario di Montorio con l’accusa (da lui respinta) d’aver malmenato la compagna, descritto dalla sorella come “un semino venuto da mondi lontani e circondato di altri climi, altri terreni, altre atmosfere”, non resse la carcerazione e si impiccò 21 giorni dopo l’arresto senza avere mai potuto incontrare la famiglia (“fanno una domanda di colloquio ma la carta viene smarrita”) né ricevere “un cambio della biancheria”. Un caso limite? Mica tanto: due terzi, tra gli 89 detenuti che si sono tolti la vita nel 2024, erano in attesa di giudizio. E così tra i 15 che si sono uccisi nei primi due mesi del 2025. Numeri inaccettabili: “Negli ultimi dieci anni i suicidi in carcere sono stati quasi 700”. Sette volte di più di quanti furono registrati in tutti gli anni Sessanta. Ecco, spiega Trocino, perché ha scritto: “Questo libro vuole essere un piccolo obelisco di carta, un memoriale dedicato ai militi ignoti delle carceri”. Destinati altrimenti, come sostengono nella prefazione Luigi Manconi e Manca Fantauzzi, a “esser immersi irreparabilmente nel fiume Lete, in quel profondissimo canale della dimenticanza in cui le biografie di donne e uomini reclusi perdono la propria singolarità e unicità sino a fondersi e ad annullarsi”. Ed ecco da quell’oblio riemergere, tra diagnosi in burocratese che parlano di “infuturazione scarsamente propositiva ed altamente velleitaria” e smentite di “pregressi tentativi anticonservativi”, derive umane come quella di Lombardo Damiano Cosimo, travolto da una gioventù marcata dall’alcolismo e da hashish, cocaina, crack, anfetamine, ketamina, che cerca via via di uccidersi con sostanze caustiche “perché si ricorda di una preghiera che diceva: “Gesù, lavaci con il fuoco”“ e viene pianto dalla madre così: “Se lo sono mangiato i sensi di colpa”. E Rodolfo Mich che a 64 anni, obbligato a stare lontano dall’ex moglie perché incapace di tenere a freno gli sfoghi d’ira e di violenza, è costretto prima a dormire per strada in auto e poi è rinchiuso a Udine tra 136 carcerati ammucchiati l’uno sull’altro e assistiti da una sola psicologa un solo giorno a settimana finché, oppresso dalla solitudine e angosciato dallo spettro di una finestrella dove un detenuto tunisino infilò la testa tra le sbarre senza più riuscire a tirarla fuori fino a morire strozzato, non ne può più e si impicca coi calzini intrecciati e annodati alla spalliera del letto a castello. Scrive Trocino d’essersi posto un problema: “I morti non devono subire un altro oltraggio, oltre a quello dell’oblio: non devono diventare materia per un esercizio di stile o per un racconto morboso, patetico. La scrittura dovrebbe avere la stessa forza lineare e geometrica delle celle, dei penitenziari. La stessa brutalità essenziale di un lenzuolo annodato in un cappio, di un letto spoglio e popolato da cimici, di un referto medico, di un certificato di morte”. Risultato: storie che fermano il fiato. Come quella di Ben Sassi Fedi, un giovane tunisino che, prima di abbandonare ogni speranza e impiccarsi, denunciò il degrado della Casa circondariale di Sollicciano, Firenze, catturando a mani nude, con tutti i rischi d’infezione, un ratto grigio spinto a forza dentro la bottiglia come “allegato” d’un esposto alla magistratura in cui chiedeva se le condizioni di detenzione, tra cimici, topi e piccioni, non fossero “in contrasto con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e se non si configuri il reato di tortura”. Macché... Per dirla con l’ex ministro Roberto Castelli: “Il carcere non è un hotel”. Sarà... Colpisce, però, che un Paese duro con i suoi carcerati come gli Stati Uniti si sia posto fin dal 1988 il problema istituendo un ufficio per la prevenzione dei suicidi in carcere “con uno staff di 500 persone” per formare il personale penitenziario riducendo le morti in 25 anni del 70%. O che nei momenti più angosciosi della pandemia del Covid “l’Iran rilascia 70 mila detenuti, la Turchia 90 mila. Il governo italiano non libera nessuno. Chiude le porte ai familiari, blinda i reclusi in un isolamento totale”. Finché l’8 marzo 2020, giorno del primo e indimenticabile lockdown, scoppiano le prime rivolte in 79 dei 190 istituti penitenziari nostrani. Che porteranno, in un’Italia distratta dall’incubo dei contagi, a un totale di 13 morti. Come al Sant’Anna di Modena, dove sono ammassati 571 detenuti su 361 posti e nel caos della sommossa “un gruppo di reclusi entra nell’infermeria e la devasta. I sacchi neri dell’immondizia vengono riempiti di farmaci. Scoppiano risse. Molti prendono il metadone e lo bevono a canna, dai flaconi da un litro e mezzo”. Uno di questi, Hafedh Chouchane, muore la sera stessa. Un altro, Sasà Piscitelli, trasferito ad Ascoli e bollato da una sbrigativa visita medica come in “apparente buona salute”, il giorno successivo. Mesi dopo arriverà un esposto di cinque detenuti: “Sasà è stato picchiato prima, durante e dopo il viaggio. Stava malissimo ed era debole, non riusciva a reggersi in piedi”. Risultati dell’inchiesta? Boh... Del resto, spiega Morire di pena, i defunti in galera non sembrano interessare più di tanto. Dice tutto il caso di Stefano Dal Corso, un giovane misteriosamente morto per “impiccamento” nel carcere di Oristano e al centro di un giallo intricatissimo finito anche nel mirino delle Iene. Per sette volte la fidanzata, la sorella, gli avvocati chiesero l’autopsia. Per sette volte fu negata. Finché, quando il magistrato si convinse che si poteva trattare davvero di un omicidio volontario perché l’uomo aveva visto qualcosa che non doveva vedere, era ormai troppo tardi. Migranti. Naufragio, omissioni, bugie: è iniziato il processo su Cutro di Vincenzo Montalcini Il Domani, 6 marzo 2025 L’udienza è stata subito rinviata al prossimo 12 maggio, sia per l’assenza di due legali degli imputati sia perché alcuni familiari delle vittime, che avevano depositato le nomine nel fascicolo quando il procedimento era ancora a carico di ignoti, non hanno ricevuto i relativi avvisi. Un buco di quasi sei ore: dalle 22:23 del 25 febbraio 2023, momento in cui l’aereo Eagle 1 di Frontex avvista il caicco “Summer Love” a circa 40 miglia dalle coste calabresi, fino alle 4:12 del giorno successivo, quando l’imbarcazione si schianta contro la secca a 80 metri dalla riva della spiaggia di Steccato di Cutro, andando in frantumi. Email, segnalazioni, mezzi usciti e rientrati subito dopo a causa delle condizioni proibitive del mare, ma nessun caso Sar attivato per salvare quelle 200 persone partite cinque giorni prima dalla Turchia. È iniziata, davanti al gup del Tribunale di Crotone, Elisa Marchetto, l’udienza preliminare a carico di sei militari (quattro della guardia di finanza e due della guardia costiera), per i quali la procura di Crotone ha chiesto il rinvio a giudizio per i reati di naufragio colposo e omicidio plurimo colposo, in relazione a una serie di presunte omissioni legate alle attività di soccorso in mare, che di fatto non sono mai partite, costando la vita a 94 migranti (di cui 35 minori), e un numero imprecisato di dispersi. I militari a processo - Gli imputati sono Giuseppe Grillo, 56 anni, capo turno della sala operativa del Reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Vibo Valentia; Alberto Lippolis, 50 anni, comandante del Roan; Antonino Lopresti, 51 anni, ufficiale in comando tattico; Nicolino Vardaro, 52 anni, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto; Francesca Perfido, 40 anni, ufficiale di ispezione dell’Imrcc (Italian Maritime Rescue Coordination Center) di Roma, e Nicola Nania, 51 anni, in servizio al V Mrsc di Reggio Calabria la notte del naufragio. Presenti, insieme al sostituto procuratore Pasquale Festa, già titolare dell’altro filone d’inchiesta relativa ai presunti scafisti, anche il neo procuratore della Repubblica di Crotone, Domenico Guarascio. Il rinvio - L’udienza è stata subito rinviata al prossimo 12 maggio, sia per l’assenza di due legali degli imputati, Sergio Rotundo e Giuseppe Di Renzo, difensori rispettivamente di Vardaro e Grillo, sia perché alcuni familiari delle vittime, che avevano depositato le nomine nel fascicolo quando il procedimento era ancora a carico di ignoti, non hanno ricevuto i relativi avvisi. Durante i prossimi due mesi i parenti potranno quindi ricevere la notifica e, di conseguenza, chiedere di costituirsi parte civile nella successiva udienza fissata per il 26 maggio. In mattinata sono state annunciate numerose richieste di costituzione di parte civile, tra cui quelle del sindacato dei finanzieri democratici e del sindacato dei militari per danno d’immagine arrecato, oltre a quelle del Codacons e dell’Associazione delle ong italiane. Tra gli imputati erano presenti solo Perfido e Lippolis. Come ha sottolineato l’avvocato Francesco Verri, che assiste numerose famiglie delle vittime, “non tutti i familiari, che hanno diritto a partecipare al processo, hanno ricevuto la notifica. Bisogna considerare che sono sparsi in tutto il mondo, ma devono comunque avere la possibilità di prendere parte al procedimento relativo ad un evento che ha sconvolto le loro vite”. Per questo motivo, in alcuni casi sarà necessario un permesso di soggiorno ad hoc, che ne garantisca la permanenza almeno per tutta la durata del processo che, secondo Verri, non sarà “né facile né breve”. A tal proposito, è stata presentata una richiesta specifica alla Procura di Crotone, in quanto in Paesi come Iran e Afghanistan non è possibile sottoscrivere la procura speciale che consente ai familiari di essere rappresentati direttamente dai loro legali. Oltre alle udienze del 12 e del 26 maggio, ne è stata fissata un’ulteriore per il 9 giugno, data entro la quale il gup dovrebbe pronunciarsi sulle richieste di rinvio a giudizio per i sei militari. I dubbi da sciogliere - Restano però ancora diversi interrogativi: perché, nonostante la segnalazione di quell’imbarcazione da parte di Frontex - pur in condizioni di buona galleggiabilità, ma con un’elevata risposta termica a bordo, segno della probabile presenza di persone ammassate nella stiva e senza salvagenti a bordo, indicato come “probabile imbarcazione di migranti” - non è stato attivato immediatamente un caso Sar, ma solo un’operazione di law and enforcement? Perché i mezzi della Guardia di Finanza, una volta arrivati ??nei pressi di Capocolonna, non molto distanti dal target, sono tornati indietro a causa delle condizioni proibitive del mare senza però avvisare la Capitaneria di Porto, che si era dichiarata disponibile a uscire con un proprio mezzo? Perché, in sintesi, più di cento persone, intercettate molte ore prima, sono morte senza che nessuno muovesse un dito? Migranti. Marjan è innocente: liberatela! di Angela Nocioni L’Unità, 6 marzo 2025 Al Tribunale di Locri due testimoni hanno detto di essere stati invitati dalla polizia a farsi i fatti propri quando, in tanti, sono andati ad avvisare che era stata arrestata la persona sbagliata. Chissà perché il Tribunale di Locri è così sordo alle ragioni della difesa di Marjan Jamali, 30 anni, iraniana, scappata nell’ottobre del 2023 da Teheran con il figlio Faraz, di otto anni, e sbattuta in cella in Italia con l’accusa di essere una scafista. Contro ogni logica e senza uno straccio di prova. Anche la settimana scorsa il Tribunale di Locri - presidente Rosario Sobbrio e giudici a latere Mario Boccuto e Raffaele Lico - ha respinto la richiesta di revoca degli arresti domiciliari, decisi a maggio dal Tribunale del riesame dopo che la richiesta di sostituzione della detenzione in cella con i domiciliari era stata respinta dal Tribunale di Locri con una mezza paginetta in cui la si liquidava con la frase “non è emerso alcun novum”. A mostrare l’inconsistenza dell’accusa non c’è solo la logica: come si può credere che una ragazza iraniana con un bambino possa governare una barca di maschi iracheni sunniti? C’è la prova del pagamento del viaggio: la ricevuta dell’agenzia in un centro commerciale in Ferdosi Street a Teheran dei 14mila dollari dati dal padre della ragazza perché i trafficanti facessero partire Marjan e il bambino. Ci sono le solide testimonianze di migranti a bordo della stessa barca. Confermano che ad additare Marjan alla polizia allo sbarco sono stati tre uomini che le avevano messo le mani addosso in barca mentre lei dormiva e che avevano minacciato di vendicarsi per il suo rifiuto. In collegamento dalla Germania una testimone, Arezoo Abassi, ha detto il 24 febbraio al Tribunale che Marjan le aveva confidato subito d’essersi svegliata con le mani di uomini che la palpeggiavano e di aver urlato. Un secondo testimone, Morteza Abassi, ha dichiarato di aver sentito Marjan gridare: “Non mi toccare, allontanati”. Entrambi hanno dichiarato al tribunale di aver saputo da altre persone a bordo dell’intenzione dei molestatori di vendicarsi contro Marjan non appena sbarcati a terra (teste Arezoo Abassi: “il ragazzo ha detto stanno minacciando Marjan, che faranno qualche cosa contro di lei”). Entrambi hanno detto che, non appena appresa la notizia dell’arresto della ragazza, poche ore dopo lo sbarco, insieme ad altri passeggeri sono andati nell’ufficio dove erano già stati identificati per avere notizie e chiedere il motivo dell’arresto e di aver detto che lei era una passeggera, una migrante come loro. Hanno raccontato d’essersi sentiti rispondere dagli agenti che non era affar loro. I giudici, a queste parole, non hanno fatto una piega. Non una domanda, una richiesta di approfondimento, nulla. Come se non l’avessero sentiti. Eppure sono dei testimoni che nel corso di un processo hanno detto al tribunale di essere andati in tanti da agenti delle forze dell’ordine a spiegare che la persona arrestata è innocente e che sono stati dai poliziotti ignorati ed invitati a non impicciarsi. Possibile che i giudici non abbiano una domanda da fare al riguardo? Un chiarimento, dei dettagli? Marjan e suo figlio nella notte tra il 22 e il 23 di ottobre 2023 salgono a bordo di una barca a vela di quindici metri insieme a un centinaio di persone. Il cibo scarseggia, quasi subito finisce l’acqua. Tensioni. Liti sottocoperta per accaparrarsi un posto dove circoli un po’ d’aria. Un giorno durante la traversata, Marjan - con il bambino accanto - si sveglia di soprassalto sentendosi mani che le si infilano sotto i vestiti, la palpano. Lei strilla. Chiede aiuto alle persone stipate insieme a lei lì sotto. Solo un ragazzo la difende. Iraniano, come lei. Si chiama Amir Babai e la pagherà carissima. Dice ai quattro di smettere, di lasciarla in pace. Parte un litigio. Il bambino guarda immobile, terrorizzato. I quattro sono furibondi. Marjan ha detto subito dopo essere stata arrestata, appena ha potuto parlare con l’avvocato, che ad averle messe le mani addosso in barca sono stati Rahen Khalid Rasul, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish. Tutti e quattro iracheni. L’ultimo, Ali Bishwan Darwish, dice Marjan, era uno dei capitani. Il più violento, dice lei, era Rahen Khalid Rasul. Bishwan Darwish l’haminacciata subito in barca dopo le sue resistenze: te la faccio pagare. Quando la barca viene intercettata e i migranti nel porto di Roccella identificati, alla solita domanda che gli agenti di polizia fanno agli sbarcati “chi sono gli scafisti?” i tre a rispondere sono proprio, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish, ossia tre degli aggressori della ragazza. Indicano come scafisti lei e Amir Babai, l’iraniano che l’ha difesa. Non solo la detenuta in attesa di giudizio non è stata sentita per mesi dalla pm Luisa D’Elia nonostante le richieste della difesa (e Marjan ne aveva di informazioni da riferire). Non solo i suoi accusatori sono stati presi per oracolo dagli inquirenti nonostante si siano dileguati e resi irreperibili appena firmata la dichiarazione d’accusa. Non solo lei è stata trasferita di punto in bianco, appena depositata la denuncia per violenza, al reparto psichiatrico dell’ex manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto senza che fosse avvisato il suo difensore, senza che fosse possibile farle incontrare suo figlio. Al momento non è dato sapere se qualcuno al Tribunale di Locri si sia chiesto quanto siano attendibili le accuse di tre iracheni, maschi, sunniti contro due iraniani sciiti. Quel che è certo è che nessuno si è assicurato di avere gli accusatori a disposizione per un incidente probatorio comandato dalla legge. Gli accusatori, ovviamente, arrivederci e grazie e sono spariti. Questo succede tutti i santi giorni. Chi arriva e viene identificato come “clandestino” ha subito notificato il reato commesso (ex articolo 10 bis Testo Unico Immigrazione) e non si ferma lì cortesemente ad aspettare di passare altri guai. Si allontana prima possibile. Per mesi la pubblica accusa non ha ascoltato la ragazza indicata come scafista nonostante le richieste di interrogatorio avanzate dal difensore. Eppure è strano che in una barca gremita di 100 persone comandi una ragazza. Nel verbale di identificazione c’è scritto che Marjan parla e capisce l’arabo. Non è vero. L’interprete è un iracheno, maschio, sunnita che forse non capisce bene il persiano che lei parla ma al verbale di tutto ciò niente risulta. Il difensore di fiducia di Marjan, l’avvocato Giancarlo Liberati ricorrerà al Riesame per ottenere la liberazione di Marjan in attesa della sentenza di assoluzione. “Le testimonianze di altri due migranti che hanno viaggiato con Marjan hanno confermato quanto lei sostiene dal primo giorno - dice Liberati - fin dalla prima udienza abbiamo prodotto la prova del pagamento del viaggio di Marjan e la stessa Procura ha depositato le registrazioni delle conversazioni telefoniche intercettate in carcere con lo zio al quale lei aveva subito raccontato del tentativo di violenza sessuale subito in barca. Ed ancora le prove schiaccianti dell’innocenza di Marjan sono state rinvenute nel suo telefono e non lasciano spazio a dubbi. Non mi spiego il mantenimento della misura e per questo ricorrerò ancora al Tribunale del Riesame”. Il dibattimento del processo proseguirà il prossimo 24 marzo con l’esame di altri testimoni della difesa e con l’esame dei due imputati. Quei fili tagliati, democrazia in affanno di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 6 marzo 2025 Donald Trump non ha inventato nulla di nuovo. Ha solo offerto un grande ombrello alle tante forze nazionaliste, e quindi centrifughe, che già stavano tagliando i fili della coesistenza democratica. L’ha appena annunciato al Congresso degli ormai suoi Stati Uniti. Un vasto programma, quello di Donald Trump al giorno 44 del suo secondo mandato: ci riprenderemo il Canale di Panama e anche la Groenlandia, “in un modo o nell’altro”; Zelensky ci deve aver ripensato e ora è pronto a risarcirci di quel che ci spetta e a mettere fine a un “conflitto insensato”; andremo su Marte; cancelleremo l’ideologia del politicamente corretto; regaleremo all’America un’età dell’oro che è appena cominciata. Il mandato del presidente Usa dura 1461 giorni. Ma già questo inizio prefigura svolte neanche immaginate nelle più ardite previsioni. Avendo la Storia spazio soltanto per un mondo alla volta, per costruire un mondo nuovo bisogna necessariamente demolire quello esistente, comprese le radici, perché non gli sia concesso di resistere sottotraccia e un domani riprendersi la scena. È quello che è successo nel 1945 a Jalta, dove i vincitori della Seconda Guerra, Roosevelt-Churchill-Stalin, si riunirono per una settimana in Crimea allo scopo di resettare e spartirsi in “sfere d’influenza” il teatro principale del conflitto, cioè l’Europa, disarmare la Germania che il conflitto l’aveva generato e gettare le basi per la nascita delle democrazie occidentali e degli organismi internazionali che vigilassero sul rispetto delle nuove regole di convivenza. Tutto questo, bene o male, con pagine anche nefaste ma altre più in linea con lo sviluppo di uno spirito di pacifica vicinanza e collaborazione (la nascita dell’Euro, per esempio), è stato l’ambiente che per 80 anni abbiamo conosciuto, sperimentato, e della cui libertà, anche di contestarlo, abbiamo goduto. Con l’avvento del 2025, e il rapido cambio di passo imposto proprio da Trump, ci troviamo davanti a uno scenario che promette di spazzare via il precedente, usando tutte le armi a disposizione del comandante in capo del Paese egemone e dei suoi sempre più numerosi e solerti alleati. Armi civili, come la legittimazione della caccia al migrante non in regola, la negazione di diritti a ogni sfumatura di sesso tra maschio e femmina, i licenziamenti di massa in gangli variamente amministrati dal governo, l’evidente ridimensionamento fino a cancellazione degli organismi di cooperazione internazionale, dalla sanità all’ambiente. Armi commerciali, come i dazi che stanno già facendo vacillare le Borse europee (367 miliardi di perdite in un giorno) ma anche Wall Street. Armi diplomatiche, come la fine del sostegno alla causa di Kiev e l’inizio di un asse con Mosca. Armi politiche, come il palese tentativo di dividere gli alleati storici per ricomporre un quadro globale a immagine e somiglianza delle logiche più da impero che da repubblica ormai dettate giorno per giorno da Washington. E c’è chi già prevede una diversa forma di pace imposta dagli accordi tra Trump, Putin e Xi Jinping, con la sponda di Netanyahu nel Medio Oriente. Sul percorso della costruzione di un altro tipo di ordine mondiale, con altri protagonisti e altri princìpi destinati a sostituire quelli ancora in vigore, resterebbe l’ingombro dell’Europa, declassata dal rango di fratellanza a quello di Unione da disunire per meglio trattare con ogni singolo Stato invece che con un fronte, almeno formale, di 27. Dopo un primo e comprensibile disorientamento, il tentativo di risposta forte di Ursula von der Leyen è stato l’annuncio di un riarmo da 800 miliardi di euro per la difesa Ue. “Viviamo tempi pericolosi. La nostra sicurezza è minacciata”. Il riferimento è all’inversione di marcia degli Stati Uniti nei confronti della Russia e quindi al rischio, oltre a quello di perdere la faccia sull’Ucraina fin qui difesa anche con ingenti investimenti, di ritrovarsi un Putin minaccioso dentro il perimetro continentale. Ma forse il vero tema non è tanto o soltanto la sicurezza, quanto la perdita del collante che proprio dal 1945 ha unito l’Europa al di là della diversità di culture, di lingue, di storia: un puzzle di nazioni riunite sotto una bandiera blu e un cerchio con 12 stelle dorate gialle, a rappresentare gli ideali di unità, solidarietà, armonia tra gli aderenti. Quel collante, la sintesi di quelle stelle, si chiama democrazia e mai come oggi qualche pericolo lo corre davvero. L’obiezione che Trump sia stato democraticamente eletto (come del resto Putin o Xi Jinping o Orbán o Erdogan, sorvolando sull’affidabilità di certe votazioni) non sposta di un millimetro il rischio che la forma di governo che ha consentito quasi un secolo di diritto alla dignità della persona, e impedito che tante guerre fredde diventassero calde, sia entrata in una fase clinica delicatissima. La cultura del rispetto dei trattati, delle Carte fondamentali, dell’autodeterminazione dei popoli e anche dei singoli, è al momento in prognosi riservata. Prendere più voti dell’avversario non significherebbe prendere tutti i voti ma questa è la piega che sta orientando l’azione dell’Esecutivo, e non soltanto negli Usa. Chi vince dovrebbe governare nell’interesse collettivo, che prevede anche i bisogni e le istanze di chi ha perso, e non soltanto la tutela della parte che rappresenta; rispettare i contrappesi garantiti dalle varie Costituzioni; adoperarsi per rafforzare l’azione diplomatica ovunque si manifestino spinte alla sopraffazione di Stati o entità più deboli. L’ha ricordato Mario Draghi nel suo rapporto del settembre scorso sulla competitività della Ue: “I valori fondamentali dell’Europa sono prosperità, equità, libertà, pace e democrazia, in un ambiente sostenibile. Se l’Unione non sarà più in grado di garantire questi diritti avrà perso la sua ragione d’essere”. È quello che sta molto rapidamente accadendo, senza però la percezione della gravità della crisi di sistema in corso. E non sarà un più di arsenale bellico a scongiurarla, e neppure a limitarla. Donald Trump non ha inventato nulla di nuovo. Ha solo offerto un grande ombrello alle tante forze nazionaliste, e quindi centrifughe, che già stavano tagliando i fili della coesistenza democratica. Ha tolto il velo, con una neolingua cruda e all’occasione brutale, alle prudenze di chi non osava dire apertamente quello che covava. Ha legittimato il potere della forza nuda a dispetto di ogni argine alzato contro le oppressioni e gli oppressori. La sintesi perfetta l’ha offerta il suo vice, James David Vance: “Il modo migliore per impedire un’altra invasione russa è consentire agli americani di guadagnare soldi in Ucraina”. Si chiama post-democrazia, dove la seconda parola è già sul punto di staccarsi per finire archiviata nel capitolo precedente della Storia.