Suicidi in carcere, fenomeno in aumento. E centra il sovraffollamento di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 5 marzo 2025 L’allarme del Garante dei diritti dei detenuti di Milano, Francesco Maisto: “Le condizioni inammissibili nelle strutture incidono su chi si toglie la vita”. A San Vittore, sul totale dei detenuti, gli stranieri sono al 64,21% e i tossicodipendenti al 50,55%. Il sovraffollamento delle carceri e i suicidi in aumento nelle stesse strutture detentive sono due problemi strettamente legati. Ne è convinto il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune, Francesco Maisto, che cita una frase dell’intervento di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”). In tutta Italia, i suicidi, nei primi 54 giorni del 2025, sono stati già 15, mentre nel 2024 avevano raggiunto la cifra da record (negativo) di 90. L’allarme di Maisto, nella giornata di mobilitazione di tutti i garanti italiani dei detenuti, riguarda anche le carceri milanesi. I numeri fanno una certa impressione. A San Vittore il sovraffollamento è del 144,92% (a fronte di una capienza di 748 posti, i detenuti sono 1.084), a Opera del 142,48% (918 a 1.308), a Bollate del 109,31% (1.267 a 1.385). In totale, il sovraffollamento nelle tre strutture detentive dell’area metropolitana raggiunge il 128,78%. Preoccupante anche il numero di stranieri presenti nelle tre carceri milanesi. In totale, il 42,79% (1.616 stranieri su 3.777 detenuti), così ripartito: a San Vittore il 64,21% (696 stranieri su 1.084 detenuti); a Bollate il 37,91% (525 su 1.385); a Opera il 30,20% (395 su 1.308). Molto alta anche la percentuale di tossicodipendenti presenti nelle tre carceri metropolitane: 40,14% (1.516 su 3.777), che sale fino al 50,55% a San Vittore (548 tossicodipendenti su 1.084 presenti) e scende al 38,30% a Opera (501 su 1.308) e al 33,72% a Bollate (467 su 1.385). Anche al carcere minorile Beccaria il sovraffollamento è fuori controllo: 143,75%, con 69 detenuti su 48 posti disponibili. Che fare? Maisto, come gli altri garanti, chiede alla politica “un provvedimento per svuotare le carceri, almeno 5 mila detenuti in meno, aderendo al progetto di legge Giachetti sulla scarcerazione anticipata” o “anche con un condono come quello del 2006. Allora ci fu un consenso nazionale e ci furono risultati ragguardevoli, con un bassissimo numero di recidive”. Carceri, il modello Nordio sotto accusa: “Luoghi di abbrutimento, non di rieducazione” di Gianluca Ottavio giornalelavoce.it, 5 marzo 2025 “Inquietanti”. Così l’associazione radicale Nessuno tocchi Caino ha definito le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio sulle carceri italiane. Al convegno di Torino, organizzato nell’ambito di un tour nelle strutture piemontesi, il giudizio è stato netto: “Un carcere abbrutente non può che abbrutire. Non è un luogo di rieducazione, ma solo di contenimento”. A ribadire il concetto è stato Cesare Burdese, architetto esperto di edilizia penitenziaria, che ha demolito l’idea di utilizzare caserme come nuove strutture detentive e ha bocciato i nuovi padiglioni, che secondo lui non faranno altro che “riempire edifici di umanità dolente, senza prospettive di recupero”. Le carceri italiane restano prigioni di afflizione, senza evoluzione. Dopo le visite agli istituti di Cuneo, Saluzzo e Fossano, Burdese ha sottolineato le differenze tra le strutture: se Fossano, grazie alla sua origine conventuale, mostra qualche aspetto più “umanizzato”, Cuneo e Saluzzo restano eredità di un sistema costruito negli anni ‘70 e 80, rimasto fermo nel tempo. “Abbiamo sperato in un’evoluzione, ma la realtà è ben diversa”. L’appuntamento torinese ha ricordato anche Maria Teresa Di Lascia, fondatrice di Nessuno Tocchi Caino, e il suo impegno nella battaglia per i diritti dei detenuti, portata avanti nel solco tracciato da Marco Pannella. Le carceri dovrebbero essere strumenti di rieducazione e reinserimento sociale, ma nella realtà italiana restano spesso luoghi di abbrutimento e marginalizzazione. Chi entra in prigione, nella maggior parte dei casi, proviene già da situazioni di disagio, e invece di trovare opportunità per ricostruire la propria vita, si ritrova in un ambiente disumanizzante, sovraffollato e privo di reali percorsi di recupero. Il risultato? Ex detenuti che escono più isolati di prima, stigmatizzati, senza strumenti per reintegrarsi nella società e, in molti casi, spinti di nuovo sulla strada della criminalità. Il carcere, così com’è oggi, non rieduca, non offre alternative, non spezza il ciclo della recidiva, ma alimenta un sistema punitivo che lascia indietro sia i detenuti che gli operatori penitenziari, schiacciati da un sistema inadeguato. Se non si cambia prospettiva, smettendo di considerare la detenzione solo come afflizione e privazione della libertà, il carcere continuerà a essere una fabbrica di reietti, anziché un ponte verso il reinserimento sociale. Case Lavoro, esempio di archeologia criminale di Franco Corleone Il Manifesto, 5 marzo 2025 Il 27 febbraio, nella calda cornice del Teatro Rossetti di Vasto, è stato presentato il volume “Un ossimoro da cancellare: Misure di sicurezza e Case Lavoro”, curato da Giulia Melani con i contributi di Franco Corleone, Katia Poneti e Grazia Zuffa. La scelta di Vasto non è casuale, perché la ricerca su una istituzione totale quasi sconosciuta, partì proprio da quello che era il contenitore più grande per i detenuti che, per la proclamata pericolosità sociale, dopo avere scontato la pena detentiva per i reati commessi, sono sottoposti a una misura di sicurezza che può durate all’infinito. La scelta è legata anche alla presenza assai significativa dell’arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto, Bruno Forte, teologo di grande profondità che già nel 2018 scrisse sul Sole 24 Ore un appello perché si mettesse fine a una realtà istituita dal fascismo sulla base della concezione positivista e lombrosiana del delinquente abituale, professionale e per tendenza. Il Codice penale addirittura definisce queste persone come soggetti di indole malvagia. Così, vengono riclassificati come internati. Bruno Forte ha ammonito che, anche se si tratta di una questione circoscritta nei numeri - non più di trecento persone in Italia, nulla rispetto ai 63.000 ristretti nelle carceri sovraffollate - rappresenta una realtà che dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi della Costituzione. Il libro presenta l’analisi giuridica accompagnata da una ricerca approfondita sul campo. Attraverso sopralluoghi, interviste e l’esame di fascicoli individuali, viene presentato un quadro drammatico delle condizioni all’interno delle nove case di lavoro esistenti in Italia. Il lavoro, finanziato dalla Chiesa Valdese, costituisce un tassello nel progetto di riforma promosso dalla Società della Ragione, che da anni si batte per la cancellazione di queste misure anacronistiche e presentato alla Camera dei deputati (proposta di legge n. 158) da Riccardo Magi. Giulia Melani e Katia Poneti hanno messo in luce il paradosso delle cosiddette case lavoro che sono in realtà carceri e non offrono lavoro funzionale al reinserimento sociale. Ci si è concentrati in particolare sulla analisi qualitativa condotta da Grazia Zuffa a Barcellona Pozzo di Gotto nel dare voce alle vittime e agli operatori, che vivono una realtà incomprensibile nella prassi e nelle finalità. La domanda che tormenta gli internati è il “quando” finirà il supplizio, una incertezza legata alle proroghe della misura di sicurezza che fa dire a molti: “Questo è un ergastolo bianco, noi lo sappiamo”. Questa “pena aggiuntiva”, rappresenta una condizione che fa alzare un grido di protesta: “Internati si chiamavano gli ebrei nei campi, non sarà un caso” e ancora “Preferiamo tre anni di carcere che uno di casa lavoro”. La realtà spesso è che gli anni in casa lavoro superano quelli scontati in galera. Sono intervenuti quattro internati della casa lavoro di Vasto che hanno chiesto che la proposta non rimanga nel limbo delle intenzioni ma trovi una conclusione positiva. Tutti hanno espresso la speranza che la proposta di legge venga approvata, sottolineando il carattere di sostegno sociale in modo che l’uscita dall’istituzione sociale non significhi un abbandono degli ultimi tra gli ultimi. La conclusione dell’arcivescovo Bruno Forte è stata drastica: “Chiudete le case lavoro, strutture barbare”. È stato ricordato che senza la passione di Grazia Zuffa non si sarebbe fatta la ricerca e non si sarebbe stampato il libro. L’impegno non è solo quello della restituzione della ricerca in tutte le case lavoro ma di imporre una discussione pubblica e in Parlamento. Anche di questo parleremo nella assemblea aperta della Società della Ragione che si terrà a Firenze, a San Salvi, sabato 8 marzo, a un mese dalla scomparsa improvvisa di un punto di riferimento per tante e tanti. Oggi l’incontro governo-Anm. Le toghe verso lo strappo definitivo di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 marzo 2025 La premier Meloni incontra i vertici dell’Associazione nazionale magistrati per discutere della riforma sulla separazione delle carriere. Ma le toghe già si sono dette contrarie a ogni forma di “trattativa” e puntano allo scontro totale. Più che un confronto, quello che si terrà oggi pomeriggio a Palazzo Chigi tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati rischia di prendere le forme di un faccia a faccia tra due pugili prima di scendere definitivamente sul ring. L’incontro, auspicato dal neopresidente del sindacato delle toghe Cesare Parodi, e accolto dalla premier Giorgia Meloni, ha infatti tutte le premesse per rivelarsi fallimentare, vista la chiusura totale dell’Anm a ogni forma di reale discussione sulla riforma che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pm e l’istituzione di un’Alta corte disciplinare. Parodi si presenterà all’appuntamento, fissato alle 15.30, insieme a tutti i componenti della nuova giunta dell’Anm, incluso il battagliero segretario generale, Rocco Maruotti. In tutto sono dieci, praticamente una squadra di calcio (peraltro i componenti della giunta diventeranno presto undici, visto che le correnti si sono accordate per modificare lo statuto alla prima occasione pur di assegnare un membro in più alla corrente di sinistra Area; ovviamente sempre in nome della difesa dell’indipendenza della magistratura). La squadra dell’Anm sarà accolta da Meloni, dal Guardasigilli Carlo Nordio e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Lunedì sera Meloni si è detta nuovamente “aperta e disponibile al dialogo” con la magistratura. L’Anm, però, non è affatto propensa al dialogo. In occasione dello sciopero celebrato giovedì scorso, con un’adesione di circa l’80 per cento dei colleghi, il segretario dell’Anm Maruotti ha ribadito quanto già sostenuto da Parodi nei giorni scorsi: “Siamo contrari a una riforma che incide sul principio di separazione dei poteri. Non ci sono margini di trattativa. Autonomia e indipendenza della magistratura non sono negoziabili. Per cui sia chiaro: non ci sono per noi soluzioni di compromesso”. Prima di essere eletto, Parodi aveva dichiarato: “Noi non torniamo indietro su niente. Il discorso della trattativa non lo accetto, perché si tratta se qualcuno ha qualcosa da dare, noi non abbiamo niente da dare in cambio”. Il pm torinese aveva aggiunto: “Sono disponibile a revocare lo sciopero se il governo ritira tutta la riforma”. Con queste premesse, è difficile comprendere come possa svilupparsi un dialogo costruttivo con il governo, che invece sembra offrire degli spiragli - seppur non ampi - di apertura. Nel vertice tenutosi sempre giovedì scorso a Palazzo Chigi, finalizzato a preparare le riunioni in programma oggi, i partiti di governo hanno stabilito la linea da tenere: nessuna modifica al testo di riforma costituzionale, ora in esame al Senato dopo la prima approvazione alla Camera (il tempo stringe), ma la promessa di interventi migliorativi in fase di attuazione con leggi ordinarie della riforma. No, quindi, all’ipotesi di eliminazione dei due Csm, con il mantenimento di un unico Csm, diviso in due sezioni (una per i pm e una per i giudici). Sì, invece, all’eliminazione del sorteggio secco per l’elezione dei consiglieri togati al Csm, che tanto ha fatto arrabbiare i magistrati. Sul punto, infatti, il testo di riforma costituzionale rimanda a una futura legge ordinaria per la disciplina della procedura di elezione. Non si tratta, è evidente, di proposte di modifica radicali. Ma la maggioranza, forte del mandato popolare ricevuto, intende portare a compimento la riforma. L’apertura del governo al confronto e a piccoli ritocchi al testo costituzionale, però, c’è. A differenza di una magistratura che sembra chiusa a riccio, pronta soltanto a sfruttare l’occasione per rilanciare la sua campagna di opposizione all’approvazione della riforma in Parlamento. Nuove iniziative di protesta, dopo lo sciopero di giovedì, potrebbero essere definite già alla riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm che si terrà questo fine settimana. Tra le toghe già circola l’idea di una nuova astensione dal lavoro da realizzare a ridosso dell’approvazione della riforma al Senato, mentre per le prossime settimane potrebbero essere decise forme di protesta meno appariscenti. Questa mattina il governo incontrerà anche i vertici dell’Unione delle camere penali, tra cui il presidente Francesco Petrelli. I penalisti insisteranno affinché il progetto di riforma costituzionale venga portato avanti integro nei suoi elementi fondamentali, senza modifiche e ritardi. Meloni incontra le toghe, ma il dialogo è già chiuso di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 marzo 2025 Oggi a palazzo Chigi. La riforma resta blindata. Maruotti (Anm): “Nessun margine di trattativa”. È l’abc della politica: in una trattativa non si concede mai nulla in cambio di una promessa da mantenere in futuro. Giorgia Meloni, che di politica un po’ se ne intende, lo sa benissimo e quindi è perfettamente consapevole che quando oggi pomeriggio, alle 15 e 30, riceverà i vertici dell’Associazione nazionale magistrati dovrà fare un’offerta impossibile da accettare: disponibilità al dialogo non per modificare la riforma della giustizia ma per accordarsi sui successivi decreti attuativi sul sorteggio “temperato” dei togati del Csm e sulle quote rosa. Pochissimo, quasi niente, e con una parte della sua maggioranza (Forza Italia, lo stesso ministro Carlo Nordio) che non sono nemmeno tanto d’accordo. Ma questo passerà il convento, anche perché in fondo non c’è nessuna reale volontà del governo di riaprire la partita sulla separazione delle carriere e l’unico vero obiettivo è dividere il parlamentino delle toghe. Magistratura indipendente, la corrente conservatrice che tra le altre cose esprime la presidenza dell’Anm con Cesare Parodi, quasi non vede l’ora di poter distendere i rapporti con un esecutivo che ha due suoi ex iscritti in posizioni di assoluto rilievo (oltre a Nordio, il sottosegretario Alfredo Mantovano). E però oggi Parodi sarà pressoché costretto a dire di no a Meloni: la magistratura, del resto, è ancora piuttosto compatta nel suo rifiuto totale della riforma, prova ne sia la riuscita dello sciopero della settimana scorsa, che ha toccato l’80% di adesioni tra le toghe. “Non ci sono margini per una trattativa - dice al manifesto il segretario dell’Anm Rocco Maruotti - autonomia e indipendenza della magistratura, che rischiano concretamente di essere ridimensionate, non sono negoziabili. Questo perché non sono nella disponibilità dei magistrati, in quanto costituiscono una garanzia per tutti i cittadini”. È la base di un discorso chiaro almeno dallo scorso 15 dicembre, quando l’assemblea della magistratura organizzata ha varato la linea dura: sciopero e futura costituzione di comitati per il No quando la riforma uscirà dalle aule parlamentari e comincerà a solcare il mare aperto della campagna referendaria. Calendario alla mano, il momento della consultazione popolare non arriverà prima della primavera del 2026, un orizzonte lontano. Anche troppo lontano per Meloni che - sempre in virtù del fatto di avere una qualche dimestichezza con la politica - sa che per allora i sondaggi sul suo governo potrebbero non essere più buoni come adesso e che il referendum verrà facilmente letto come un quesito su di lei: pro o contro, senza che il merito della vicenda importi granché. È la stessa cosa che successe a Renzi nel 2016. E l’allora premier ci lasciò le penne nonostante partisse da vette di consenso addirittura più alte rispetto all’attuale inquilina di palazzo Chigi. Questo è anche il principale motivo per cui Meloni non può fare un passo indietro sulla riforma: rimangiarsene un pezzo e allungare ulteriormente i tempi porterebbe il referendum sempre più a ridosso delle prossime politiche, aumentando la possibilità che il tutto diventi un giudizio anticipato sul suo operato. Facile dunque che si andrà avanti ciascuno per la sua strada. “Non ci sono possibili soluzioni di compromesso - dice ancora Maruotti - e non potremmo mai accettare accomodamenti al ribasso. E mi pare che, per ragioni opposte, questa sia anche la posizione del governo”. il problema, per le toghe, sarà quello di mantenere intatta la compattezza dimostrata fino a questo momento. Qualche indizio al riguardo, dopo l’incontro odierno (preceduto in mattinata da quello tra Meloni e l’Unione delle camere penali, cioè gli avvocati), si avrà sabato, quando in Cassazione si terrà il Comitato direttivo centrale dell’Anm. La prima volta dell’era Parodi. No alla separazione delle carriere, assunzioni e immobili: l’Anm sfida Meloni di Giulia Merlo Il Domani, 5 marzo 2025 Le toghe, sapendo che non c’è margine per incidere sulla separazione delle carriere, si presenta da Meloni con proposte concrete su edilizia e assunzioni. E chiederà un impegno al Governo. Otto proposte sotto il titolo “una giustizia più efficace”. Così l’Associazione nazionale magistrati si presenterà oggi, 5 marzo, al tavolo con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. L’incontro programmato ha al centro la riforma costituzionale della separazione delle carriere, ma le toghe guidate da Cesare Parodi hanno intenzione di allargare il fronte del dibattito, così da uscire dall’angolo. È chiaro, infatti, che margine per ripensare la riforma non ci sia da parte del governo, dunque - è il ragionamento delle toghe - bisogna ribaltare il tavolo, mostrando di non avere come unico orizzonte l’ordinamento giudiziario e costringendo il governo a rispondere ad una serie di proposte concrete che “servirebbero davvero a risolvere i problemi dei cittadini”, spiega una fonte interna alle toghe “e non i problemi della politica”. Se la risposta sarà di chiusura, le toghe avranno un buon argomento per dimostrare la malafede dell’esecutivo. Il documento - A dimostrare che margine di trattativa sulla separazione delle carriere non esista è proprio l’ultimo punto del documento, che contiene una proposta diametralmente contraria alla linea del governo. L’Anm, infatti, chiederà di “promuovere una maggiore interscambiabilità tra le funzioni”, ovvero l’opposto della netta separazione, perché “la limitata possibilità di cumulare esperienze di giudicante e requirente riduce la qualità della giurisdizione” e “l’esperienza in diverse funzioni, raccomandata anche in sede europea, rappresenta per un magistrato una straordinaria opportunità di arricchimento sul piano della comune cultura della prova, che è la caratteristica distintiva del sistema accusatorio”. Un sonoro schiaffo al governo, insomma, che chiude qualsiasi margine di trattativa. Le altre sette proposte, invece, sono quelle che appunto - secondo l’Anm - interverrebbero sulle vere emergenze della giustizia. L’Associazione chiederà l’assunzione di almeno mille nuovi magistrati nei prossimi cinque anni, così da migliorare effettivamente “l’efficienza del sistema” e, per la stessa ragione, di “rivedere le piante organiche degli uffici giudiziari sulla base degli effettivi carichi di lavoro”. Un punto, questo, già in antitesi con la volontà del governo di riaprire alcune piccole sedi di tribunale. L’Anm, infatti, chiede di “chiudere gli uffici con meno di 10 pm e 30 giudici” così da destinare le risorse agli uffici con maggiori sofferenze. Poi un intervento urgente sull’edilizia giudiziaria, un piano straordinario di assunzioni di personale amministrativo, di stabilizzare il personale dell’ufficio del processo, la dotazione di applicativi informatici adeguati e un ripensamento delle tempistiche di utilizzo di App, l’applicativo del processo penale telematico già bloccato per problemi tecnici. Il documento contiene anche proposte di natura ordinamentale, in particolare nel penale “la deflazione e l’accelerazione dei procedimenti, soprattutto davanti al giudice monocratico e nei giudizi di impugnazione” e “l’immediata depenalizzazione dei fatti adeguatamente sanzionabili attraverso interventi di natura non penale”. Infine, l’Anm chiederà un intervento sulle carceri, con “investimenti per risanare le strutture, aumentare il personale civile di custodia e un serio ampliamento delle misure alternative”. Il risultato - Con queste premesse è sostanzialmente impossibile che l’incontro con Meloni e Nordio abbia un finale diverso da quello di certificare le distanze siderali. “Ma il governo deve dialogare anche su temi che non sono la separazione delle carriere, che interessa solo a loro”, è il ragionamento che viene ripetuto soprattutto tra le toghe progressiste, le più rigide nel non voler scendere a compromessi. Così l’Anm punta a ribaltare il piano: dovrà essere il governo a rispondere del perché stia puntando tutto su una riforma ordinamentale, che genera scontro con le toghe ma non velocizza i processi né incide sulla pratica della giustizia quotidiana. E la levata di scudi contro non arriva più solo dall’Anm. Il Comitato intermagistrature (che comprende le associazioni di tutte le magistrature, comprese quelle speciali amministrativa, contabile, tributaria e militare) ha pubblicato una durissima nota congiunta, storica nella misura in cui unisce tutte le magistrature nell’esprimere “forte preoccupazione per i contenuti e le modalità con cui vengono portate avanti riforme destinate a incidere profondamente sull’esercizio della giurisdizione e sull’organizzazione” in primis la riforma della magistratura ordinaria e quella della Corte dei conti - e chiede di “recuperare un metodo che nell’approcciare riforme non obliteri l’ascolto delle ragioni delle magistrature interessate”. Se il governo sperava che l’incontro si riducesse a una presa d’atto delle posizioni inconciliabili sulla separazione delle carriere, addossando all’Anm la responsabilità della chiusura, dovrà invece offrire risposte di più ampio respiro. “Anche i concorsi vanno separati: solo così avremo un giudice terzo” di Simona Musco Il Dubbio, 5 marzo 2025 Parla Nicolò Zanon, ordinario di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano e già giudice della Corte costituzionale. “È necessario un cambiamento profondo della mentalità: bisogna capire che, quando si ha a che fare con un pubblico ministero, quest’ultimo espone la sua tesi accusatoria, ma non è l’unica tesi in gioco”. A dirlo è Nicolò Zanon, ordinario di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano e già giudice della Corte costituzionale. Professore la separazione delle carriere è davvero necessaria? È un passaggio decisivo. Oltre a costruire due Consigli superiori della magistratura separati, servono regole da introdurre tramite legge ordinaria. Nell’articolo 106 della nuova legge non si dice nulla riguardo ai concorsi separati, che sarebbero invece essenziali. Se si vogliono creare due organizzazioni distinte, i loro componenti non dovrebbero mai incontrarsi, e le regole sulla formazione iniziale e permanente dovrebbero essere differenziate per i giudicanti e i requirenti. Se tutto ciò si concretizzasse sarebbe il modo migliore per realizzare l’idea fondamentale della terzietà del giudice. L’obiettivo è allontanare il giudice dalla cultura del pubblico ministero, e non mantenere il pubblico ministero nella cultura “della giurisdizione”, perché la cultura della giurisdizione, se intesa seriamente, deve appartenere solo al giudice. Il verbale di un magistrato che ha aderito allo sciopero reca proprio questa dicitura: “Il pubblico ministero … è il primo giudice che il cittadino incontra”... È proprio questo il punto. C’è una cultura che proviene da un passato autoritario, in cui la giurisdizione era vista come una prerogativa comune sia del giudice che del pubblico ministero. Ci sono anche sentenze della Corte costituzionale degli anni ‘ 70 che sostenevano questa visione. Ma questo approccio dà l’idea di una giurisdizione che inizia con l’azione del pm e trova una risposta “coerente” da parte del giudice, quando invece il processo accusatorio è basato sul contraddittorio tra due parti che si pongono sullo stesso piano di fronte a un giudice terzo. Se il pm è davvero il “primo giudice”, ciò ha delle implicazioni negative. Perché l’atto del pubblico ministero acquisisce una dignità diversa da quello del difensore. E allora essere raggiunti da un atto investigativo o da un’informazione di garanzia è già una sorta di condanna, tant’è che l’informazione si adegua a questo aspetto e considera l’indagato sostanzialmente già colpevole. Il processo accusatorio dovrebbe invece essere il luogo in cui la colpevolezza o l’innocenza vengono determinate dal giudice, in base a ciò che viene detto dalla difesa e dall’accusa. Le regole giuridiche quindi sono solo una parte del lavoro, è necessario un cambiamento profondo della mentalità. C’è la difesa e poi c’è il giudice. Purtroppo, nel sentire comune, questa distinzione non viene più fatta e questo è il vero problema culturale che dobbiamo affrontare. I magistrati inquirenti sottolineano spesso che, rappresentando essi lo Stato, non possono essere messi sullo stesso piano della difesa... I magistrati inquirenti sono una parte pubblica, ma restano comunque una parte. Certo, rappresentano la pretesa punitiva dello Stato, con un potere enorme nel procedimento e nel processo. Tuttavia, questo potere deve essere organizzato e strutturato in modo tale da garantire una posizione di parità tra accusa e difesa, che tutela il diritto fondamentale alla libertà del cittadino, di fronte al giudice terzo. È vero che questa simmetria potrebbe non essere completa e la giurisprudenza costituzionale lo afferma anche chiaramente, riconoscendo una certa asimmetria. Tuttavia, bisogna insistere affinché questa simmetria venga ricercata il più possibile, proprio in nome del giusto processo. L’Anm ha scioperato sostenendo di voler difendere i diritti dei cittadini e la Costituzione, che a loro dire sarebbe intaccata da questa riforma... Mi sembra una posizione strumentale. Nella Costituzione c’è anche l’articolo 138, che consente alle maggioranze parlamentari qualificate, eventualmente tramite un referendum popolare, di apportare modifiche. Inoltre, l’articolo 111 parla di imparzialità e terzietà del giudice. Si possono avere diverse interpretazioni su cosa significhino imparzialità e terzietà, ma non è affatto infondata la tesi di chi sostiene che la terzietà si realizzi con una modifica che tocchi la posizione del pm nell’ordinamento giudiziario, per renderla conforme al suo ruolo di parte nel processo. Il timore è che, con questa modifica, il pm possa essere attratto nella sfera di influenza del potere esecutivo. È un pericolo reale? Non vedo nulla che suggerisca una conseguenza di questo tipo. In teoria, l’obbligatorietà dell’azione penale rappresenta una garanzia forte di indipendenza per il pm, ma spesso resta solo un’affermazione formale, perché in pratica vengono fatte molte scelte discrezionali nelle procure. Un problema serio, quindi, è come gestire questa discrezionalità e a chi il pm debba rispondere. La domanda è: cosa perseguire prima? La risposta non ha a che fare con l’Esecutivo, ma con la volontà del Parlamento. Forse bisognerebbe lavorare su questo, chiarendo che nessuno vuole mettere in discussione l’indipendenza del pm, né tanto meno assoggettarlo al ministro della Giustizia. Non credo che questo sia previsto nei programmi di nessuno, almeno per quanto ne so. Dal punto di vista costituzionale, ritengo che ciò sarebbe comunque impossibile, soprattutto se l’articolo 112 rimane come è attualmente. Questa norma impedisce l’introduzione di direttive o ordini sulle attività delle procure da parte del potere esecutivo. Il tema che suscita maggiore insofferenza all’interno della magistratura associata è quello del sorteggio per l’elezione dei membri del Csm. È una soluzione realmente coerente per un organo costituzionale? Molti magistrati, che conosco, affermano che se siamo arrivati alla previsione del sorteggio, è colpa loro. Non si può accusare la politica di voler punire la vita associativa delle correnti. Negli anni si è capito che nessuna legge elettorale riusciva a impedire che il ruolo dominanti delle correnti nel Csm. Le correnti, nate con altre prospettive, sono diventate luoghi di gestione delle carriere. Certamente non è elegante che un organo costituzionale - o addirittura tre, in questo caso, i due Csm e l’Alta Corte - abbia una composizione in parte determinata dal caso. D’altro canto, un magistrato, che ha la responsabilità di prendere decisioni cruciali riguardanti la vita e la libertà dei cittadini dovrebbe portare nel proprio bagaglio formativo anche la capacità di occuparsi dell’ordinamento giudiziario e dei propri colleghi. Naturalmente, si potrebbe pensare a forme di temperamento, ma credo che sia importante riflettere sulle circostanze che ci hanno portato a questo punto, cosa che i magistrati non mi pare abbiano fatto fino in fondo. Anche l’Alta Corte è un punto dolente per i magistrati. È la soluzione giusta per evitare conflitti di interesse e garantire l’imparzialità? Credo sia una scelta coerente con l’impianto costituzionale. È vero che la giustizia disciplinare di solito è una giustizia tra pari, come accade negli ordini professionali. Tuttavia, nel caso dei magistrati, parliamo di professionisti che gestiscono la vita, i beni e la libertà dei cittadini e sono responsabili non solo nei confronti dell’ordine giudiziario, ma nei confronti dell’intero ordinamento costituzionale, come evidenziato dal fatto che, per Costituzione, il titolare dell’azione disciplinare è il ministro della Giustizia. Inoltre, gli illeciti disciplinari non sono determinati dallo stesso ordine giudiziario, ma stabiliti dalla legge, ossia dal Parlamento. Quindi non spetta al Csm stabilire tali illeciti o esercitare un “magistero disciplinare”. Quindi con questa riforma riusciremo ad arrivare effettivamente a quello che voleva Vassalli? Io me lo auguro. E voglio aggiungere una cosa: vedo i magistrati invocare il discorso di Calamandrei sulla Costituzione sui gradini dei Tribunali, ma dimenticano, forse, che Calamandrei, in qualità di membro della Costituente, aveva proposto l’istituzione del cosiddetto Procuratore generale commissario della Giustizia, nominato dal Presidente della Repubblica, su proposta della Camera dei Deputati, in una terna eletta dalla stessa Camera. Il suo ruolo sarebbe stato quello di garantire l’uniformità dell’azione penale e, secondo Calamandrei, avrebbe anche dovuto prendere parte al Consiglio dei ministri per discutere delle questioni relative alla giustizia. Su questi temi, Calamandrei la pensava in un modo che nemmeno Nordio avrebbe mai osato immaginare. Carofiglio: “I migliori pm sono quelli che pensano come giudici” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 marzo 2025 Proseguite ieri in Commissione Affari Costituzionali del Senato le audizioni in merito alla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Il primo ad intervenire è stato l’ex magistrato e attualmente scrittore Gianrico Carofiglio: “I migliori pubblici ministeri, dal punto di vista della tutela dei diritti dei cittadini ma anche dell’efficacia, sono i pubblici ministeri capaci di pensare come i giudici. Se uno è capace di pensare come un giudice, cioè immaginare la sentenza, è in grado di selezionare le ragioni dell’indagato quando spessissimo ci sono. Appartenere alla stessa cultura delle regole è una premessa per un’azione giudiziaria contemporaneamente garantistica ed efficiente”. Dopo di lui ha preso la parola il procuratore generale di Napoli, Aldo Policastro, chiamato dalle opposizioni, per cui l’intento del legislatore sarebbe quello “di mettere mano all’ordinamento giudiziario così come lo hanno pensato i padri costituenti, ossia per bilanciare gli altri poteri. Invece con questa riforma si vuole depotenziare il potere della magistratura. Il legislatore dovrebbe chiedersi se questa riforma serve alla giustizia, soprattutto in presenza di una riforma costituzionale irreversibile dopo la sua approvazione”. La risposta che si è dato Policastro in audizione è che la modifica voluta dal Governo “non riduce i tempi della giustizia, non facilita l’accesso alla giustizia e non garantisce maggiori tutele per i cittadini. Ha preso poi la parola, su richiesta della Lega, Ludovico Mazzarolli, Ordinario di Diritto costituzionale Università di Udine: “Dal 1948 in poi sono stati modificati 38 articoli della Costituzione su 139. Non c’è alcuna porzione della Costituzione che possa dirsi intoccabile, anche nei principi fondamentali”. Invece, ha proseguito il professore, “il titolo IV, sezione prima, riguardante la magistratura non è stato mai toccato. Non credo però di essere l’unico a credere che dopo l’esplosione del caso Palamara non sia più possibile lasciare le cose come stanno”. Poi un riferimento al Guardasigilli Carlo Nordio: “Il ddl 1353 è stato ideato, pensato e scritto da un ex magistrato che ha vissuto dal di dentro quelle che ha ritenuto essere distorsioni del sistema, non da un nemico giurato della categoria. Il ministro veleggia verso gli 80 anni, e lo dico con il massimo rispetto, per sottolineare che non può aver pensato a una riforma disegnata su sé stesso o per sé stesso”. Ed infine: “Non mi pare che questa riforma si possa dire lesiva di qualche super principio. Lo dimostrano anche le critiche. Non ho letto di critiche puntuali sul dettato della riforma che concernono questo o quell’aspetto della riforma”. Le audizioni si sono concluse con l’intervento dell’ex procuratore e già membro del Csm, Armando Spataro, chiamato sempre da Pd, M5S, Avs e Iv: “Non c’è un solo pezzo della riforma che sia secondo me accettabile e nei confronti di tutta la riforma esprimo un parere fortemente contrario, anche perché non serve a nulla, non serve a risolvere neppure uno dei problemi marginali dell’amministrazione della giustizia”. Ha poi replicato a Mazzarolli: “è vero che la Costituzione è stata più volte mutata ma in questo caso ci troviamo dinanzi ad una riforma inutile che intende spaccare un ordinamento e dei principi che dovrebbero invece far sentire l’Italia orgoglioso”. Ha poi concluso: “Il sorteggio è una offesa per la magistratura e una vergogna per l’intero Paese. Non si può lasciare tutto alla cecità del caso e il sorteggio non garantisce che non vengano eletti i peggiori. Sull’Alta corte disciplinare dico soltanto che, al di là della competenza limitata e delle modalità di formazione della Corte stessa, ancora una volta con il sorteggio, è assurdo pensare a un organismo che giudichi eventuali illeciti dei magistrati senza essere parte del Csm. Contrariamente a quanto si dice, non è affatto vero che abbiamo a che fare con una giurisprudenza disciplinare benevola È tra i sistemi più severi”. Le audizioni riprenderanno giovedì pomeriggio. Elmasry e Paragon, per Mantovano il governo “ha già detto tutto” di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 marzo 2025 I servizi presentano la relazione annuale: aumentano le minacce di jihadisti ed estrema destra. L’Italia è il paese del G7 dove il crollo demografico sarà più forte. Una conferenza stampa dei servizi segreti può sembrare una contraddizione in termini. E infatti i giornalisti tornano a casa quasi senza risposte alle informazioni richieste. Il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano replica alle domande: “Su Paragon abbiamo già detto tutto quello che si poteva dire e continuano le audizioni al Copasir”; idem su Elmasry “su cui ci sono state relazioni al parlamento, il tribunale dei ministri sta conducendo approfondimenti ed è in corso un’interlocuzione con la Corte penale internazionale”. Di Alberto Trentini, cooperante italiano arrestato in Venezuela il 15 novembre scorso, Mantovano si limita ad affermare che “la situazione è estremamente complessa e di difficile soluzione, ma tutti i canali sono attivati”. Sul resto “serve riservatezza”. Ai cronisti, comunque, in tasca resta l’interessante Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza. L’edizione 2025 è stata presentata ieri per omaggiare Nicola Calipari, agente del Sismi ucciso il 4 marzo di vent’anni prima da proiettili statunitensi in Iraq, mentre portava a termine il salvataggio della giornalista del manifesto Giuliana Sgrena a un mese dal rapimento. Il centinaio di pagine della pubblicazione, arricchita da tante mappe e da un inserto sull’intelligenza artificiale, oltre a un bilancio dell’anno precedente rappresenta un “quadro di lettura” che la “comunità dell’intelligence” proietta verso il futuro, afferma il presidente del Copasir Lorenzo Guerini (Pd). In prima fila siedono i fratelli d’Italia Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro, accanto il leghista Claudio Borghi. Marco Minniti, attuale presidente della fondazione Med-Or appartenente all’azienda di armi Leonardo, è giusto dietro ma all’ingresso riceve i saluti più calorosi. Tra i relatori ci sono i direttori dei servizi esterni e interni, Giovanni Caravelli e Bruno Valensise, e quello del Dis Vittorio Rizzi. All’ultimo, nominato a inizio gennaio da palazzo Chigi al posto di Elisabetta Belloni, spetta la corposa introduzione in cui cita gli elementi più significativi della relazione. Su tutti le minacce terroristiche e le prospettive demografiche. La situazione a Gaza ha rivitalizzato la propaganda jiadhista di Daesh e Al Qaida e fatto aumentare gli attentati in Europa, “raddoppiati tra il 2023 e il 2024”. Rizzi spiega che oggi la radicalizzazione tende a definirsi nei “non luoghi” dei social network e va soprattutto per slogan, senza forti basi culturali. La metà degli autori di attacchi sono under 30 e buona parte minori. Potrebbe risultare sorprendente, almeno per qualcuno, che “anche in Italia, come in altri Paesi europei, sono stati rilevati punti di contatto tra la sfera della destra suprematista e “accelerazionista” e quella jiadhista”. Così dice la relazione che rileva come lo scorso anno confermi “il trend di progressivo innalzamento del rischio derivante dall’estrema destra” le cui “incitazioni alla violenza nichilista, indiscriminata e d’impronta politica e razziale” stanno transitando dall’online all’offline. L’altro elemento centrale tende ad avere minore rilevanza mediatica ai tempi delle campagne planetarie contro l’immigrazione, ma dovrebbe suonare più inquietante del primo. L’Italia è il paese del G7 dove il calo, o meglio il crollo, demografico sarà più marcato. In appena 70 anni la popolazione tra i 15 e i 64 anni si dimezzerà: da 37,7 milioni a 18,9 milioni di individui. Nel 2100 in età lavorativa si troverà il 51% degli italiani, nel 1992 era il 69%. Se l’Italia aumentasse i flussi migratori in entrata concentrandosi sull’immigrazione regolare e qualificata - come Stati Uniti, almeno fino all’anno scorso, Regno Unito e Canada - il declino demografico potrebbe rallentare ma certo non fermarsi. Ancora più stretta l’ipotesi dell’aumento dei tassi di natalità: “Anche Paesi autoritari […] si stanno rendendo conto che indurre la propria popolazione a fare più figli è molto più difficile che costringerla a farne di meno”. Teramo. Detenuto di 42 anni morto in cella, eseguita l’autopsia di Enrico Cipolletti Il Centro, 5 marzo 2025 È morto stroncato da un malore, forse conseguenza di patologie cardiache: così ha stabilito l’autopsia eseguita su Michele Venda, 42 anni, detenuto nel carcere di Castrogno dove era arrivato circa 9 mesi fa dal penitenziario di Rebibbia, deceduto nel tardo pomeriggio di venerdì. Tra le prime ipotesi circolate quella che l’uomo potesse essere stato soffocato da un boccone di cibo andato di traverso. L’autopsia è stata eseguita ieri dall’anatomopatologo Giuseppe Sciarra su incarico del sostituto procuratore di turno Monia Di Marco. All’esame ha preso parte anche l’anatomopatologo Ildo Polidoro nominato come consulente dei familiari dell’uomo. L’autopsia, così come già accertato da una prima ispezione cadaverica, ha escluso la presenza di segni di violenza. Il dramma si è consumato in pochi attimi nella serata di venerdì, durante l’ora della cena. Poco dopo le 18 i due stavano consumando il pasto appena distribuito quando improvvisamente, così ha raccontato l’altro detenuto, Venda avrebbe iniziato a sentirsi male, cadendo dalla sedia, accasciandosi a terra e mostrando difficoltà a respirare. In pochi attimi, dopo la richiesta di aiuto dell’altro recluso, nella cella sono arrivati gli agenti di polizia e gli operatori sanitari che hanno subito soccorso il 42enne. Ma ogni tentativo di rianimare l’uomo si è rivelato vano: l’uomo è morto in pochi attimi. Venda, che risulta essere nato in Ucraina da papà italiano e mamma ucraina e residente nel Lazio, era arrivato nel carcere teramano circa nove mesi fa per scontare una condanna definitiva a circa dieci anni di carcere per vari reati tra cui alcuni di natura sessuale. Concesso il nulla osta per la sepoltura. Ferrara. Suicidio in carcere, agente sotto accusa. Spunta un nuovo atto di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 5 marzo 2025 Spunta un documento che scagionerebbe l’agente imputato per il suicidio di un 29enne trovato impiccato con un lenzuolo nella propria cella a poche ore dall’arresto. Un atto che testimonierebbe come, al momento dell’entrata in servizio quel maledetto giorno, non fosse attiva la cosiddetta ‘grande sorveglianza’ nei confronti del giovane che poi si è tolto la vita all’Arginone. Non solo. Il poliziotto avrebbe appreso del provvedimento nei confronti del detenuto soltanto quanto ormai era troppo tardi. Alla luce di ciò, l’agente di polizia penitenziaria G.P. (difeso dall’avvocato Alberto Bova) ha chiesto di essere processato in rito abbreviato, condizionato però all’acquisizione di quell’atto e all’esame dello stesso poliziotto. È quanto stabilito ieri mattina nel corso dell’udienza preliminare per la tragedia avvenuta il primo settembre del 2021 tra le mura del carcere. Per quel fatto, al termine delle indagini è rimasto sotto accusa soltanto l’agente Palermo, dopo che il gip ha disposto l’archiviazione per altri tre indagati (la stessa comandante della polizia penitenziaria, un medico del carcere e una ispettrice). Secondo la ricostruzione della procura il 34enne imputato, il giorno del suicidio in servizio di sorveglianza dalle 8 alle 16, avrebbe violato gli ordini del comandante Annalisa Gadaleta di svolgere accurati controlli nella cella del ragazzo, accertamenti che avrebbero dovuto tenersi a cadenza di non oltre venti minuti. Passaggi necessari in quanto il 29enne detenuto era stato ritenuto ad alto rischio suicidario dal medico di turno, che ne aveva infatti disposto la cosiddetta ‘grande sorveglianza’ fino alla rivalutazione del quadro psicologico. Stando all’impianto accusatorio, dunque, pur essendo a conoscenza del pericolo di suicidio da parte del ragazzo, l’imputato avrebbe omesso di vigilarlo adeguatamente nel periodo che va dalle 11.31 alle 14.50, ora in cui è stato trovato senza vita. Impostazione che la difesa ha invece contestato, ritenendo il poliziotto estraneo alle accuse che gli sono state mosse. Persone offese nel procedimento sono i genitori del 29enne, assistiti dall’avvocato Antonio De Rensis. I familiari del ragazzo si sono battuti sin da subito per avere verità su quanto accaduto tra le mura della casa circondariale quella maledetta mattina di settembre. Sin dai primi passi delle indagini, inquirenti e familiari hanno dunque cercato di capire cosa sia andato storto nella catena di gestione e assistenza del detenuto, dal momento in cui è stato arrestato a quello in cui è stato trovato impiccato. Domande che ora - al termine di un lungo e complesso iter investigativo - potranno trovare risposta davanti a un giudice. Napoli. Don Franco Esposito: “Nelle carceri dignità umana calpestata ogni giorno” ansa.it, 5 marzo 2025 “Le carceri sono sempre più non solo sovraffollate, ma luoghi dove la dignità umana continua ad essere messa sotto i piedi. E noi come Chiesa non possiamo fare silenzio”. A dirlo, don Franco Esposito, direttore della Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli e cappellano del carcere di Poggioreale a margine della maratona per accendere i riflettori sull’emergenza carceri che ha fatto tappa anche a Napoli, ieri nel pomeriggio, a piazzale Cenni, tra il Palazzo di Giustizia e il carcere di Poggioreale, con l’iniziativa Carcere: liberare la speranza! “Ogni giorno - ha proseguito - stiamo con i detenuti, all’interno delle carceri per condividere con loro questa vita che è vita solo di reclusione e di pena. Con loro facciamo un cammino che poi continua anche all’esterno delle carceri incontrando le famiglie, facendo andare avanti un Centro di Pastorale carceraria dove attualmente ci sono 80 detenuti in affidamento ai servizi sociali e abbiamo 15 detenuti in detenzione domiciliare. Questo per dire allo Stato ‘Guarda, è possibile fare diversamente dal carcere”. Don Franco Esposito ha concluso: “Il carcere deve servire a fermare un atto violenza ma subito dopo c’è bisogno di altro per rispondere davvero alla giusta domanda di sicurezza della società. Altrimenti si continua a ingannare la società attraverso questo carcere”. Sul sovraffollamento e i suicidi nelle carceri è intervenuto anche l’avvocato Domenico Ciruzzi, già presidente della Camera Penale di Napoli. “Vorrei che anche in questo campo la tutela dei diritti dei cittadini, soprattutto di quelli più poveri e indifesi, non fosse solo prerogativa dell’Unione delle Camere Penali Italiane ma che vedesse in prima battuta anche l’Associazione Nazionale Magistrati. E lo dico senza alcuna polemica. Ma è un dato di fatto”. Cagliari. La Procura si attivi sulla situazione sanitaria al collasso al carcere di Uta di Irene Testa* laprovinciadelsulcisiglesiente.com, 5 marzo 2025 La situazione all’interno della struttura purtroppo si conferma di estremo disagio determinato dagli innumerevoli problemi legati al sovraffollamento. Sussiste una condizione di estrema povertà per diversi detenuti; c’è chi, straniero, non ha vestiti e scarpe. I numerosi detenuti con patologie psichiatriche molto spesso sono confinati in celle lisce, senza materasso e senza cuscino. Questo è il percorso loro riservato, piuttosto che da un’assistenza sanitaria, dal sistema penale: costretti a dormire in una branda in ferro anziché poter essere curati nelle strutture idonee a trattare il disagio. Non si può in questo tralasciare di ricordare la condizione in cui sono costretti a lavorare gli agenti in queste sezioni. Ieri un agente aveva il viso pieno di lividi perché un detenuto in escandescenza gli ha scagliato contro un tavolo; un detenuto malato con disturbi psichiatrici gravi che non dovrebbe trovarsi in carcere. In un tale clima di abbandono generale da parte delle Istituzioni si acuiscono ancor più i gravi problemi legati alle dimissioni della dirigente sanitaria, ormai di alcune settimane addietro. È una situazione che paralizza l’intero istituto con oltre 750 detenuti. Non possono essere chiuse le relazioni sanitarie, vi sono detenuti che attendono visite urgenti e non ricevono risposte, non possono essere verificate le istanze di incompatibilità con il carcere, sono bloccate le richieste di osservazione psichiatrica. Una tale condizione rappresenta un’emergenza inaccettabile che deve essere risolta nell’immediato. Se la ASL 8 di Cagliari, a cui ho già scritto, non è in grado di dare risposte, chiedo alla Procura Generale di intervenire su quella che si configura come una grave violazione dei diritti umani e di privazione del diritto alle cure che deve essere garantito a tutti, anche a chi è privato della libertà personale. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sardegna Livorno. Il Garante dei detenuti: “Celle piene di muffa. Promiscuità imbarazzante” di Cinzia Gorla corrieretoscano.it, 5 marzo 2025 Garante Marco Solimano con sindaco Luca Salvetti: “Situazione di degrado ambientale dove le persone vivono, private della dignità personale e del decoro, per noi inaccettabile”. Punto della situazione sul carcere di Livorno del garante dei detenuti del Comune di Livorno Marco Solimano. Con il sindaco Luca Salvetti l’assessore al sociale Andrea Raspanti, l’avvocata Guia Tani in rappresentanza delle Camere penali, Giampaolo Dotto, security manager del Comune di Livorno, rappresentanti di Caritas, Arci, enti del Terzo Settore che svolgono attività socio culturali all’interno della casa circondariale ‘Le Sughere’ di Livorno. L’appuntamento, si legge in un comunicato del Comune di Livorno, rientra nell’ambito di una mobilitazione nazionale dei garanti delle persone private delle libertà personali, che lanciano un appello contro il silenzio assordante della politica e della società civile sulla situazione carceraria. Marco Solimano: “Il carcere di Livorno, soprattutto per quello che riguarda la sezione di media sicurezza, sta ancora accentuando le criticità che l’attraversano da moltissimo tempo. Celle piene di muffa, di condense, finestre non più utilizzabili per l’erosione del cemento e del ferro, promiscuità decisamente imbarazzante che vede tre persone in 12 metri quadrati senza alcuna separazione tra spazio vita e spazio servizi. Questa situazione va superata immediatamente, non è più procrastinabile. L’unica soluzione possibile è che i nuovi padiglioni, ristrutturati dopo l’apertura del 2011, vengano consegnati alla direzione dell’istituto; c’è stato un contenzioso tra la ditta appaltatrice e la ditta che ha realizzato i lavori, non conosciamo fino in fondo i motivi di questo contenzioso, ma la richiesta che viene forte, ulteriormente espressa anche dal sindaco, è che ci venga comunicata la natura dei problemi e del tempo che ci vuole per risolverli. Solamente la consegna il prima possibile dei nuovi padiglioni potrà sanare una situazione di degrado ambientale dove le persone vivono, private della dignità personale e del decoro, una situazione, ripeto, per noi inaccettabile. Questa grave situazione dal punto di vista igienico ambientale mina e limita fortemente il lavoro importante della Polizia penitenziaria e del personale civile costretti ad operare in continua situazione di emergenza”. Il sindaco Salvetti e l’assessore Raspanti sottolineano come sia interesse dell’amministrazione comunale avere sul nostro territorio un carcere che funzioni secondo quello che la Costituzione richiede. “In questo senso il sindaco solleciterà quello che ha scritto già molte volte alla direzione dell’amministrazione penitenziaria, rivendicando l’interesse per il carcere come di un pezzo di territorio, di un pezzo di città”. Reggio Calabria. “Condizione carceraria inaccettabile, allontana da ogni possibilità di riscatto” reggiotoday.it, 5 marzo 2025 Michele Conia, avvocato, sindaco di Cinquefrondi e consigliere metropolitano della Città metropolitana di Reggio Calabria, delegato ai beni confiscati, periferie, politiche giovanili e immigrazione e politiche di pace, da esperto di diritto si esprime sulla giornata di protesta nazionale indetta dai Garanti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “Condivido le motivazioni dei garanti che in un documento congiunto denunciano il ‹silenzio assordante della politica e della società civile›. Al 31 gennaio scorso erano 61.852 i detenuti nelle carceri italiane, a fronte di 46.839 posti disponibili, con un divario di 4.473 posti rispetto alla capienza regolamentare di 51.312 e a una disponibilità effettiva di circa 47mila posti. Ci sono, dunque, di fatto, quasi 15mila persone in più nelle strutture destinate alla detenzione. Il carcere di San Vittore ha il triste primato per numero di presenze di detenuti rispetto alla capienza consentita, con l’indice di sovraffollamento al 218,3%”. “Dopo i due suicidi in due carceri della Toscana dello scorso febbraio - aggiunge Conia - sono 15 le persone ristrette in carcere che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, più un operatore, per un totale di ben 16 morti nelle strutture detentive. Nel 2024 sono stati 89 i suicidi in carcere contro i 61 del 2023 e a ciò si aggiungono i suicidi di 7 agenti di polizia penitenziaria, ulteriore segnale del disagio e della disperazione che si respirano all’interno delle strutture. I suicidi rappresentano la tragica punta dell’iceberg di un disagio profondo e diffuso. Sovraffollamento, carenza di personale della polizia penitenziaria, insufficienti operatori sanitari, altissima densità di presenza nelle singole celle, molte delle quali sono da sanificare visto che le pareti presentano muffa, docce con acqua fredda, assenza di palestre o campo sportivo, cibo di scarsa qualità”. “Esiste poi la grave e diffusa emergenza rappresentata dai detenuti cosiddetti psichiatrici, cioè di coloro che sono affetti da patologie mentali tali da renderli incompatibili con lo stato di detenzione. Dai dati finora disponibili risulta che il 40% dei reclusi è sottoposto a cure psichiatriche ma migliaia di casi non sono accertati ufficialmente per mancanza di personale sanitario”. “Al gesto simbolico di Papa Francesco dell’apertura della Porta Santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia, si aggiungono le parole del Presidente della Repubblica che, nel messaggio di fine anno, ricorda che “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. La detenzione delle persone che hanno commesso dei reati “deve tendere alla rieducazione del condannato” come recita l’art. 27 della Costituzione e, per scongiurare la recidiva, è necessario che il percorso di cambiamento attivi percorsi di istruzione e laboratoriali in modo che le competenze acquisite durante la detenzione possano trasformarsi in opportunità reali di lavoro una volta fuori. Concordo con le proposte suggerite dai garanti: aumentare le telefonate e le videochiamate, approvare urgentemente misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere, accesso alle misure alternative per quei 19mila detenuti che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni, diritto alla privacy per incontri riservati, valido per coniugi, conviventi e unioni civili, così come sancito da una sentenza della Corte Costituzionale del 26 gennaio 2024”. “Questa giornata di protesta - prosegue il delegato Conia - si intreccia, a mio avviso, con il Ddl Sicurezza approvato il 18 settembre alla Camera dei deputati e attualmente in discussione al Senato, che introduce una serie numerosa di nuove fattispecie di reato, o di circostanze aggravanti, che inevitabilmente si tradurranno, nel futuro immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge, in un ampliamento ulteriore dell’esecuzione penale, più carcere e una stretta verso una svolta securitaria. Dei 38 articoli mi soffermo su alcuni che reputo particolarmente afflittivi: l’attribuzione di rilevanza penale alla resistenza passiva (ad esempio come può essere uno sciopero della fame); il divieto di acquistare schede telefoniche per i cittadini extraeuropei sprovvisti di permesso di soggiorno, che non potranno comunicare con i familiari e con gli avvocati; l’art. 15 che apre le porte del carcere anche a chi prima ne era esclusa: infatti non sarà più automatica l’esclusione della detenzione per donne incinte e madri e in questi casi i neonati resteranno in carcere con le loro mamme, nonostante gli appelli dell’Unicef”. “Per questa giornata di protesta, il mio ultimo pensiero va a Carol e Alice (nomi di fantasia) le due bambine di 7 e 8 anni, che a causa della chiusura dell’Istituto a Custodia Attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro in Campania (unica struttura nel Mezzogiorno a garantire alle detenute madri di poter convivere in una realtà penitenziaria con i bambini senza ambienti direttamente riconducibili ad un carcere per detenute madri), saranno trasferite, a metà anno scolastico, in una sezione speciale di carceri ordinarie di Milano e Venezia: la sconfitta del superiore interesse del minore così come sancito dall’ art. 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza”. Avellino. Cna e Sant’Egidio insieme per il reinserimento lavorativo dei giovani ex detenuti di Stefano Carluccio corriereirpinia.it, 5 marzo 2025 Oggi un passo significativo è stato compiuto verso il reinserimento sociale e lavorativo dei giovani ex detenuti, grazie alla firma di un protocollo d’intesa tra la CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola Impresa) e la Comunità di Sant’Egidio. Il protocollo ha l’obiettivo di offrire nuove opportunità di lavoro ai giovani che hanno terminato il loro percorso nelle carceri minorili e adulte, mettendo in contatto questi ragazzi con le migliaia di aziende artigiane italiane che, al contempo, stanno cercando personale qualificato. La firma dell’accordo è avvenuta questa mattina nella sede della CNA, alla presenza di Dario Costantini, presidente della CNA, e Cesare Giacomo Zucconi, segretario generale di Sant’Egidio-Acap, insieme ad altri rappresentanti delle due organizzazioni. Questa collaborazione intende rispondere a due problematiche cruciali: da un lato, la difficoltà di numerose imprese artigiane di trovare nuovi lavoratori, e dall’altro, il bisogno di reintegrare nel tessuto sociale giovani che, dopo aver completato il percorso detentivo, affrontano enormi difficoltà nel trovare un impiego stabile e dignitoso. Un’opportunità per le imprese artigiane e per i giovani - Il presidente della CNA, Dario Costantini, ha illustrato gli obiettivi del protocollo, enfatizzando l’importanza di creare opportunità lavorative per i giovani che hanno avuto problemi con la giustizia. “Con il nostro accordo e con l’aiuto delle oltre mille sedi della CNA presenti in tutta Italia, potremo avvicinare questi ragazzi alle aziende che stanno cercando dipendenti”, ha dichiarato Costantini. Secondo il presidente della CNA, questo protocollo è particolarmente significativo per il settore artigianale, che sta affrontando una grave carenza di personale qualificato. In particolare, nelle prossime previsioni, il settore artigiano italiano avrà bisogno di circa 400.000 nuovi lavoratori nei prossimi cinque anni. Il mondo dell’artigianato, infatti, è alla ricerca di giovani che possiedano le competenze necessarie per portare avanti tradizioni e professionalità, ed è qui che il protocollo CNA-Sant’Egidio può giocare un ruolo fondamentale. La CNA ha già una lunga esperienza nel settore della formazione, con milioni di ore di corsi erogati ogni anno per qualificare i nuovi arrivati al mondo del lavoro. Oltre all’accordo con Sant’Egidio, la CNA ha sottoscritto protocolli anche con altre realtà, come la Comunità di San Patrignano, per sostenere i giovani che stanno affrontando un percorso di recupero e reintegrazione. Sant’Egidio: Un impegno a lungo termine per i giovani ex detenuti - La Comunità di Sant’Egidio, attiva da anni nel sostegno ai più vulnerabili, ha accolto con entusiasmo questa nuova collaborazione, riconoscendo l’importanza di unire le forze per il reinserimento sociale dei giovani ex detenuti. Cesare Giacomo Zucconi, segretario generale di Sant’Egidio-Acap, ha sottolineato che l’obiettivo del protocollo è fornire a questi ragazzi un’opportunità per iniziare un nuovo percorso nella loro vita. “Speriamo che grazie a questo accordo molti giovani possano trovare una svolta nella loro vita, ottenendo un lavoro che garantisca loro una dignità e una possibilità di reintegrazione duratura”, ha affermato Zucconi. Sant’Egidio è da sempre attiva nel sostegno alle persone in difficoltà, e tra le sue numerose iniziative spiccano quelle rivolte alla popolazione detenuta. L’associazione si occupa di supportare i detenuti durante e dopo la detenzione, cercando di evitare che questi giovani ricadano in percorsi di devianza. L’iniziativa con la CNA si inserisce perfettamente in questa visione, poiché consente a Sant’Egidio di offrire ai giovani una concreta opportunità di reintegrazione nel mondo del lavoro, evitando così il rischio di recidiva. Il progetto dei “corridoi professionali” e l’inverno demografico - Oltre al reinserimento dei giovani ex detenuti, la CNA sta lavorando anche su altre importanti iniziative che riguardano l’integrazione nel mondo del lavoro. Una delle principali è il progetto dei corridoi professionali, ideato dalla CNA per rispondere alla crescente domanda di lavoratori qualificati nelle piccole e medie imprese italiane. Con il progetto dei corridoi professionali, la CNA sta cercando di attrarre giovani da Paesi come l’Egitto, offrendo loro una formazione professionale specifica, che permetterà loro di integrarsi nel mercato del lavoro italiano. Costantini ha spiegato che il progetto è indirizzato principalmente a giovani provenienti da realtà svantaggiate e che spesso, seppur desiderosi di lavorare, non hanno le competenze necessarie per inserirsi nel mercato del lavoro. “Vogliamo formare questi ragazzi, insegnare loro la lingua italiana e le regole del nostro Paese, affinché possano integrarsi e dare il loro contributo all’economia italiana”, ha aggiunto il presidente della CNA. Il progetto mira, quindi, non solo a colmare la carenza di lavoratori nelle piccole imprese, ma anche a contrastare l’inverno demografico, un fenomeno che sta colpendo duramente l’Italia e il resto d’Europa. Un accordo “win-win” per il futuro delle imprese e dei giovani - Il protocollo d’intesa firmato tra CNA e Sant’Egidio rappresenta una risposta concreta a due sfide urgenti: la carenza di manodopera qualificata nel settore artigianale e il reinserimento sociale di giovani ex detenuti. La cooperazione tra le due realtà ha il potenziale di migliorare significativamente la vita di numerosi giovani, dando loro una seconda opportunità e garantendo al contempo un supporto vitale per le imprese italiane, che sono sempre più bisognose di nuova forza lavoro. Questo accordo si configura come un vero e proprio modello di inclusione sociale e lavorativa, che dimostra come, attraverso la collaborazione tra enti sociali e realtà imprenditoriali, sia possibile costruire una società più equa e sostenibile. Se da un lato, le piccole imprese italiane si trovano a dover affrontare sfide strutturali legate alla mancanza di personale, dall’altro, i giovani ex detenuti hanno l’opportunità di riscattarsi attraverso un lavoro che possa restituire loro dignità e un futuro stabile. Zucconi ha concluso sottolineando l’importanza di questo progetto: “Quello che stiamo facendo oggi è un passo fondamentale per aiutare questi ragazzi a trovare il loro posto nella società, e grazie alla CNA, potremo offrire loro una concreta opportunità di lavorare, crescere e, soprattutto, non tornare indietro”. Questo accordo tra la CNA e Sant’Egidio non è solo un’opportunità per i giovani ex detenuti, ma un segnale di speranza per il futuro delle piccole imprese italiane e della società nel suo complesso. Con il supporto di entrambe le organizzazioni, il reinserimento di questi giovani nel mondo del lavoro rappresenta una vittoria per tutti. Aversa (Ce). Partnership tra “Andreozzi” e “Saporito”: un corso di studi tecnologici per i detenuti di Nicola Rosselli Il Mattino, 5 marzo 2025 Un corso di studi nel settore tecnologico alla casa circondariale di Aversa. È lo scopo del progetto avviato dall’istituto “Carlo Andreozzi” per l’istruzione per detenuti. A tale scopo, a partire dal prossimo anno scolastico, il carcere “Filippo Saporito” di Aversa ospiterà infatti un nuovo corso di studi specifico. L’iniziativa, realizzata in collaborazione con il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) di Caserta, vedrà l’istituto tecnico Statale “Carlo Andreozzi” impegnato nell’offrire formazione professionale ai detenuti, con particolare attenzione all’inclusione e alla cittadinanza attiva. Il corso, indirizzato a Costruzioni, ambiente e territorio, si articolerà in tre periodi didattici e si concentrerà, in particolare, sulla tecnologia del legno nelle costruzioni. Questo permetterà ai detenuti di acquisire una certificazione necessaria per l’accesso al secondo biennio degli istituti tecnici, fornendo loro competenze concrete in un settore in continua evoluzione. Il legno, materiale antico ma sempre più utilizzato nell’edilizia moderna, sarà al centro del percorso formativo, offrendo agli studenti la possibilità di diventare figure professionali qualificate nella realizzazione, conservazione e trasformazione di opere civili in legno. Secondo la dirigente scolastica Anna Lisa Marinelli, questo progetto rappresenta una vera occasione di riscatto per i giovani detenuti tra i 18 e i 25 anni: “Per molti, studiare in maniera organizzata potrebbe dare un senso - dice - a un’esperienza difficile come la privazione della libertà. Lo studio può diventare un’opportunità di trasformazione, di riflessione, la possibilità di riprendere in mano la propria vita e guardare al futuro con una nuova prospettiva”. L’insegnamento sarà basato su metodologie didattiche innovative e adattabili alla particolare realtà carceraria. Le lezioni seguiranno un approccio modulare, con strategie di apprendimento flessibili che possano rispondere alla variabilità della popolazione detenuta. Tra le attività previste: alfabetizzazione informatica e linguistica, laboratori di disegno assistito al computer (Cad), attività Stem, making, debate e coding, lettura di testi e confronto di esperienze di vita. “Queste metodologie - affermano gli organizzatori - non solo forniranno competenze tecniche, ma aiuteranno anche i partecipanti a sviluppare capacità di riflessione critica e orientamento esistenziale. L’istruzione in carcere non è solo un’opportunità di apprendimento, ma un vero e proprio strumento di cambiamento personale e sociale. Offrire ai detenuti un’educazione di qualità significa dare loro una possibilità concreta di reinserirsi nella società con nuove competenze e una rinnovata autostima”. L’iniziativa dell’istituto “Andreozzi” si pone dunque come un progetto ambizioso, che mira non solo alla formazione professionale, ma anche alla costruzione di una nuova immagine per i detenuti. Firenze. A scuola in carcere, intervista a Claudio Pedron insegnante di Sollicciano di Maria Gloria Roselli perunaltracitta.org, 5 marzo 2025 Continuiamo a parlare di scuola e percorsi formativi all’interno del carcere con Claudio Pedron, insegnante di Lingua Italiana, referente per il CPIA1 di Firenze all’interno del carcere di Sollicciano. Per capire cosa significa insegnare in carcere e quali criticità è necessario affrontare, Pedron comincia raccontando le specificità professionali e relazionali che guidano i percorsi formativi. Un cambiamento forte è avvenuto da quando è stata equiparata la scuola interna a quella esterna, cioè con gli stessi percorsi, gli stessi orari. “Questo può funzionare, io credo però che sia importante anche una formazione specifica, legata al mondo carcerario. Alcuni di noi hanno frequentato corsi specifici di preparazione all’insegnamento in carcere e nel tempo abbiamo seguito corsi di formazione, a volte organizzati anche da noi, specifiche per i nostri bisogni, per cercare di affrontare problematiche particolari. Ad esempio per quando riguarda gli studenti stranieri, è importante individuare i vari tipi di problematiche, linguistiche, culturali e psicologiche per prepararci al confronto anche sul loro modo di affrontare la vita detentiva. Va benissimo che arrivi l’insegnante da fuori, in particolare per le scuole superiori, che entra in classe, fa lezione e se ne va, questo però non basta nel creare il percorso verso l’uscita. Gli insegnanti devono sviluppare la capacità di coinvolgere e di predisporsi all’ascolto dei bisogni e delle difficoltà individuali. Poi conta molto l’apporto dello psicologo, dello psichiatra. A volte ci dicono: voi siete missionari; per niente, io sono un professionista che ha fatto una scelta, perché io ho fatto la scelta di insegnare in carcere e anche alcune delle mie colleghe hanno fatto lo stesso, coscienti di questo ma non missionari, altrimenti passa questa inutile idea del buonismo totale. No, a volte siamo anche duri, quando serve essere duri, c’è un confronto continuo, una dialettica, perché comunque abbiamo a che fare con degli adulti, che devono confermarsi. Si, perché si deve tener conto che il carcere infantilizza. In primo luogo, anche se le cose stanno un po’ cambiando, la maggioranza di coloro che si occupano di tenere l’ordine, la sicurezza interna, cioè gli agenti, diciamo al 95%, sono maschi, mentre la maggioranza di chi gestisce la parte trattamentale e quindi gli FGP, i Funzionari Giuridico Pedagogici, sono donne, e succede che, in alcuni casi, il detenuto ne semplifichi il ruolo e le veda come fossero la zia o la mamma, la persona che può risolvere ogni loro problema e questo non può funzionare bene. Poi la detenzione, per sua natura, disabitua ad autogestirsi”. Un problema, questo, che talvolta è alla base delle paure che colpiscono alcuni nell’imminenza della fine della detenzione, portando in casi estremi perfino al suicidio nel periodo verso l’uscita. Pedron racconta di aver vissuto situazioni spiacevoli con detenuti che, col sacco nero di plastica in mano, gli confidavano la paura di dover affrontare il mondo fuori senza sapere dove andare e cosa fare. Oppure racconta di un ex allievo incontrato per strada che, alla domanda: come va? Ha risposto che stava pensando di tornare in carcere perché fuori non riusciva a trovare nulla. “Sentire una frase del genere è una sconfitta enorme, non per me ma per noi come società!”, conclude Pedron. Gli chiedo poi la sua opinione su come migliorare le criticità, palesi ed evidenti, relative alla struttura del carcere, che poi ricadono sui detenuti, sui loro percorsi di reintegrazione nella società. “Ho avuto modo di interloquire con alcuni politici o funzionari che dicevano “bisogna chiudere questo carcere, buttarlo giù”. Ok, va bene, se è quella l’idea, però realisticamente non si può fare subito; è come dire che non facciamo niente, perché sarebbe un’operazione troppo complicata. Io proporrei intanto di trasferire altri 300 detenuti, e rimanere così in 250. Ristrutturare. Facciamo che le celle siano singole, facciamo che tutti abbiano la possibilità perciò di lavorare e di studiare, creiamo delle sezioni scolastiche, cioè quelli che vengono a scuola stanno in una sezione a parte così avranno anche un lavoro, se vengono a scuola di mattina, possono lavorare nel pomeriggio e viceversa. Nella mia memoria conto che coloro che ce l’hanno fatta sono quelli che studiavano di mattina e riuscivano a lavorare, poi sono andati alla scuola superiore e lavoravano di mattina, con un lavoro fisso: perciò avevano occupato dalle 8 di mattina fino alle 6 e un quarto di sera. Erano talmente stanchi che dormivano e ricominciavano il giorno dopo, poi magari si sono anche iscritti all’università e quando sono usciti hanno trovato un lavoro, duro, perché uno fa il marmista, di quelli che adesso mi vengono in mente, uno il fabbro, un altro lavora alla raccolta rifiuti, cioè non lavori leggeri, ma in carcere avevano imparato un percorso, interiorizzato una volontà forte e acquisito anche una preparazione culturale. In questo percorso sono importanti le uscite per le visite che organizziamo nei musei, grazie, oggi al gruppo dei musei di Welcome Firenze e in passato alla fondazione Strozzi e all’Opera del Duomo. Molti di coloro che escono in permesso collettivo non sanno neanche cos’è un museo, lo scoprono così. Poi un altro progetto a cui tengo tantissimo che funziona da più 10 anni, anche se prima era saltuario e l’avevo già cominciato a Volterra, è quello di andare a parlare nelle scuole superiori cittadine e poi portare i ragazzi all’interno del carcere. Funziona per tutte e due le parti; per i ragazzi che fanno educazione civica e scoprono realmente cos’è il carcere, che non è quella cosa che vedono in tv, nei film e nelle serie, scoprono il lato umano e continuano a vedere però anche la parte del reato; dall’altra parte i miei allievi che si trovano a confrontarsi con studenti esterni, in qualche modo a rivedersi in quei ragazzi, e a doversi anche interrogare. Non vale per tutti, però ho visto persone recluse emozionarsi, andarsene e poi ritornare, non riuscire a parlare di fronte ai ragazzi. Con questo progetto sono entrati 1.500 studenti all’interno del carcere. Altre due cose che noi facciamo, e in Italia forse siamo stati tra i primi, è mescolare i detenuti protetti e dell’ATSM, con i comuni, a scuola perciò vanno tutti assieme e non sanno riconoscere il reato dell’altro se non se lo dicono tra loro, e inoltre abbiamo una classe mista sperimentale di scuola media, maschile e femminile. Anche questo serve tantissimo nel percorso di socializzazione e di confronto. La cosa più importante per un detenuto è il rapporto con la famiglia, con i parenti, con la moglie; non esiste ancora quella che chiamano la stanza dell’affettività o stanza dell’amore, se ne parla ma per il momento non è in realizzazione. Al femminile funziona, grazie alla capacità di due colleghe di attirare quella parte di recluse che non viene a scuola, magari di lingua italiana che hanno già frequentato la scuola, l’istituzione di corsi manuali di book-art, uncinetto o serigrafia, e lì abbiamo a volte 25-30 persone che frequentano. Poi proiettiamo anche dei film con le attività correlate, grazie alla mediateca e agli Amici del Cabiria. Sia al femminile che al maschile c’è la biblioteca però i lettori non sono tantissimi e per questo facciamo il corso di lettura ad alta voce in collaborazione con l’ARCI”. Parlando delle condizioni strutturali del carcere di Sollicciano, chiedo a Pedron se corrisponde al vero la percezione diffusa dai media, dalla quale risulta uno stato di forte degrado. “Lo è, cade l’intonaco, ci sono infiltrazioni d’acqua ovunque, è vero, e so che nelle sezioni è anche peggio. Forse il problema è alla base, chi ha fatto il carcere poi è stato inquisito e condannato per l’uso di materiali scadenti però lo Stato ha messo milioni per ristrutturare il carcere, nella parte della scuola in cui sono finiti non ci sono più infiltrazioni. Al femminile per esempio sono state messe le docce all’interno delle celle perché prima non c’erano in tutte ma poi si sono ripresentati i problemi. Anche noi abbiamo avuto spesso negli anni passati problemi nelle classi al punto di dover portare delle stufette o di dover chiudere la scuola”. Chiedo allora quale, secondo le sue valutazioni, possa essere l’impatto del degrado strutturale sulla qualità della vita dei detenuti, sul loro rendimento scolastico e sul percorso di recupero, che è poi lo scopo della pena detentiva. “Il problema è che ci si abitua a tutto, certo con delle conseguenze. Il degrado influisce tantissimo. Il carcere di Sollicciano era nato con una struttura ben progettata, con i corridoi lunghi per avere la prospettiva, la scuola, gli spazi esterni grandi, la palestra, e poi doveva essere costruito un altro edificio mai realizzato per le attività lavorative e di formazione. Periodicamente il Ministero della Giustizia indica un carcere che sta funzionando bene. Mai Sollicciano. Certamente nel frattempo ci sono delle ristrutturazioni e, ripeto, la soluzione migliore sarebbe di spostare una certa quantità di detenuti, in modo che gli altri abbiano una vita e un controllo sociale accettabile. Se un FGP deve seguire la vita di 50-60 persone (in passato anche 120) che gli si affidano convinti che sia l’interlocutore che può sistemare tutto, e dunque chiedono di incontrarlo per ogni problema, sarebbe più semplice se i numeri dei detenuti fossero minori, perciò servono molti più funzionari giuridico pedagogici. Poi il disagio all’interno del carcere c’è, sono aumentati gli episodi di autolesionismo grave e il numero dei suicidi, dovuti allo stato detentivo, la ASL parla del 70-80% di persone con problemi psicologici. Una cosa che tengo a dire è che dentro il carcere c’è una forte ed importante presenza della ASL, che dipende dal Ministero della Salute e dalla Regione, che si occupa dell’attività sanitaria. Noi ci occupiamo di percorsi formativi, per detenuti che per la maggior parte frequentano la scuola per far passare il tempo. L’HACCP è molto richiesto. Li aiutiamo in un percorso che è dettato da una scelta personale oppure da una scelta che è il risultato di altri tipi di percorsi intrapresi con lo psicologo. C’è ad esempio anche un gruppo di uomini maltrattanti che discutono fra loro su quello che è successo e sulla violenza di genere. Che dire, il giudice Margara diceva che per sapere esattamente come si comporterà una persona non è dentro il carcere che si fa la valutazione, è all’esterno che avviene la vera messa alla prova. Le statistiche vecchie o nuove dicono che chi si fa la pena fuori al 70% non ritorna a commettere reato, chi si fa la pena dentro, cioè non usufruisce delle pene alternative, al 70% torna in carcere. La Costituzione non parla di carcere, parla di pene e di come gestirle. Poi è chiaro che c’è anche il carcere. Victor Hugo diceva che ogni scuola aperta è un carcere chiuso; da questo punto di vista una scuola dentro il carcere è un mezzo fallimento ma è anche vero che molti detenuti la scuola non l’hanno mai vista. Però il problema vero è il passaggio all’esterno. Un detenuto sconta la sua condanna dentro il carcere. Se l’idea è quella di togliere dalla società per tre anni o trent’anni delle persone per non farle delinquere all’esterno, il carcere certamente funziona. Però passerà degli anni in cella a parlare di droga o di rapine e alla fine quando esce non sappiamo cosa farà. Ma se seguiamo l’idea dell’educazione e dell’accesso ai percorsi alternativi, magari con riduzioni di pena se uno si comporta bene, le probabilità di delinquere potrebbero scendere. Poi però bisogna che la società investa su di loro. Lo so che è difficile parlare di spendere soldi per dare lavoro a ex detenuti, però sarebbe una scelta volta alla sicurezza di tutti. Molti detenuti hanno questo spirito di cambiamento, poi è chiaro che c’è chi sceglie di vivere e di commettere comunque reati, cosciente del rischio di prendersi anni di carcere. Consideriamo poi che Sollicciano ha il 70% di detenuti stranieri, contro la media italiana del 30-35%, perché è un circondariale, e tutti gli stranieri che non hanno parenti e non vanno in un carcere vicino alla famiglia, si ritrovano qui. È chiaro che un italiano che fuori ha la casa, i parenti, il lavoro, avrà un percorso più semplice di un senza dimora. Esistono delle statistiche precise su chi tra gli stranieri commette più reati, dal clandestino, al richiedente asilo, al migrante che ha la residenza. La clandestinità porta a commettere reati non solo verso gli italiani ma più verso i connazionali o altri migranti. Il percorso vizioso è viziato già dalla situazione, il percorso virtuoso dipende dagli aiuti, dalle persone che danno lavoro”. Chiedo allora quale tipo di atteggiamento sociale dovremmo adottare per sviluppare una politica verso la detenzione rivolta al reintegro dei detenuti in uscita. “Ci sono tante componenti complesse. Io, conoscendo il carcere, sono contro il carcere. Ovviamente non sono per l’abolizione totale del carcere perché alcuni reati secondo me meritano un percorso di condanna. I governi decidono anche che tipo di pene comminare, cioè per quali reati condannare. Adesso tutti pensano che la paura di finire in carcere sia un deterrente ma abbiamo visto che il numero di minori è quasi raddoppiato da quando hanno ampliato i reati da perseguire. C’è poi l’idea diffusa della certezza della pena. In realtà il carcere è migliorato tantissimo quando si è cominciato ad applicare uno sconto di pena a coloro che si comportano bene. Forse dovremmo ragionare anche su questo, cioè dare premi a chi, oltre a comportarsi bene, non far male a nessuno e non fare reati all’interno, studia e legge libri, e magari frequenta corsi di formazione, che però dovrebbero essere istituiti”. Chiedo infine a Pedron che riscontro ha dell’impegno e della partecipazione della città rispetto alla realtà carceraria. Mi risponde che “l’errore più grande, che mi fa arrabbiare sempre, è quando qualcuno viene a scuola in carcere e dice di essere stato in carcere. No, è stato a scuola in carcere. È diverso, il carcere è un altro mondo. Si, è vero, è il carcere ma quello spazio lì è uno spazio a parte dedicato alla scuola. La realtà della vita all’interno delle sezioni è molto diversa e molto dura. Per quanto riguarda la partecipazione attiva della cittadinanza, non vedo numeri alti, vedo una partecipazione singola molto attenta, cioè chi si interessa del carcere lo fa veramente con una passione straordinaria. Quando sono arrivato da Volterra a Firenze, sono rimasto sorpreso che ci fosse una sola associazione di volontariato, e un’altra stava nascendo ma molto piccola. Ero sorpreso dalla tanta buona volontà concentrata in poche persone. Venivo dalla conoscenza del mondo del volontariato di Padova, che era massiccio e pervasivo. C’erano anche imprenditori che organizzavano corsi di formazione, attività verso l’esterno, attività varie come la redazione del giornale, ecc. Quindi decisi di andare io a cercare le collaborazioni con i musei, con Amnesty International per portarli a svolgere attività dentro il carcere. Ora ci sono tre associazioni di volontariato, l’AVP, Pantagruel e l’Altro Diritto che sono cresciute tantissimo, con persone attente e interessate, che hanno passione e sentono questa cosa di fare le attività. Poi ci sono molte altre associazioni che svolgono attività varie, come ad esempio i corsi di scrittura. La curiosità sociale verso il carcere c’è, in una città come Firenze che ha una forte cultura della solidarietà. Manca un po’ chi fa parlare i detenuti, cioè incontri pubblici dove gli venga data la possibilità di parlare, raccontare, condividere idee”. Roma. Matrimonio saltato, Micaela e Ion sposi a Rebibbia di Angiola Petronio Corriere di Verona, 5 marzo 2025 Alla fine sono riusciti a sposarsi, Micaela Tosato e Nicolae Ion. Ieri le nozze sono state celebrate nel carcere di Rebibbia dove Nico è detenuto. “Venne la dispensa, venne l’assolutoria, venne quel benedetto giorno...”. Quello del matrimonio di Renzo e Lucia. E, mutuando Alessandro Manzoni, venne anche “quel benedetto giorno” per Micaela e Nico. È stato ieri, quel momento, per i promessi sposi di un sistema carcerario che quell’unione l’aveva già fatta saltare una volta. E se Micaela Tosato e Nicolae Ion quelle nozze non le hanno potute celebrare, come previsto, lo scorso 24 febbraio a Bovolone, il loro “sì” lo hanno pronunciato ieri mattina verso le 11,30 nel carcere romano di Rebibbia. Lì dove Nico, 51 anni e una pena da scontare di meno di due anni per rapina, è stato trasferito dal giorno alla mattina lo scorso dicembre. “Trattamento di kafkiana memoria”, lo avevano definito, nel ricorso, i suoi avvocati Francesco Spanò e Simone Giuseppe Bragantini. Con quello spostamento dalla casa circondariale di Montorio motivato da una richiesta di trasferimento nel suo Paese d’origine, la Romania. Trasferimento - motivato dal fatto che Nico non avrebbe “radici” o legami affettivi in Italia - di cui si sarebbe dovuto discutere a dicembre e che invece è ancora avvolto nell’oblio. Come kafkiana è stata la vicenda del suo matrimonio con Micaela. Micaela Tosato, veronese, una delle fondatrici dell’associazione “Sbarre di Zucchero”, nata dopo il suicidio, nel carcere di Montorio, di Donatela Hodo morta a 27 anni nell’agosto del 2022. Era tutto pronto, per quello sposalizio il 24 febbraio. Le carte, il Comune, il rinfresco, anche una piccola “luna di miele”, ospiti due giorni a Salizzole dell’associazione Angeli della Speranza. Ma a decidere - 48 ore prima della cerimonia che “questo matrimonio non s’ha da fare” era stato il giudice di sorveglianza di Roma. Il permesso per celebrare le nozze a Bovolone era stato chiesto “per necessità”. Formula che viene utilizzata in casi particolari per giustificare il permesso di lasciare il carcere. Per Nico - che durante la sua detenzione si è diplomato all’istituto alberghiero, ha seguito corsi di reinserimento e ha avuto tutte relazioni positive dagli operatori del carcere di Montorio - quel “permesso di necessità” era stato chiesto per la situazione psicologica che sta vivendo nel penitenziario romano. Ha tentato il suicidio ingerendo delle pile, Nico. E ogni giorno di detenzione è un’ulcera che si apre nella sua mente. Ma il giudice ha deciso che no, perché quel permesso “viene concesso in caso di imminente pericolo di vita di familiari o per eventi familiari di particolare gravità”. Tant’è. Micaela e Nico si sono sposati ieri. Nessun vestito bianco, per Micaela. Nessun bouquet di fiori. “Perché - dice - di sposarci così non è stata una nostra scelta”. E anche ieri sembrava che Kafka o Manzoni volessero scrivere la trama. Con Micaela e Nico i loro testimoni: Ornella Favero coordinatrice di Ristretti Orizzonti e presidente della conferenza nazionale volontariato e giustizia, il cappellano di Regina Coeli padre Vittorio Trani, Carlo Testini dirigente nazionale dell’Arci ed Elisabetta Dusi del direttivo dell’associazione Angeli della Speranza che ha sostituito Bruno Monzoni, redattore di Ristretti Orizzonti al quale, 24 ore prima delle nozze, è stato negato il permesso di entrare in carcere. Ingresso con gli altri parenti dei detenuti, cerimonia da venti minuti senza alcun fronzolo celebrata da tre funzionari del Comune di Roma, Micaela e Nico. Con un ritardo di oltre un’ora e mezza, “dovuto “alle mille difficoltà che ci hanno fatto all’ingresso, con gli agenti della polizia penitenziaria che, a differenza della direzione del carcere, non sono stati diciamo “accoglienti” e ospitali, facendo togliere anche gli orecchini. In fin dei conti entravamo per un matrimonio e come testimoni sono state scelte persone note proprio per evitare che succedesse quello che è successo”. Il “regalo di nozze” per Micaela e Nico sono state due ore all’aria aperta, trascorse nell’area verde di Rebibbia. “Abbiamo parlato di cosa si farà dopo”, racconta Micaela. E la prima cosa sarà portare quel certificato di matrimonio alla procura di Verona. Quella carta che potrebbe essere un salvacondotto per far restare Nico in Italia. “Ha un contratto di lavoro e adesso ha una casa e una famiglia, cosa serva di più per dimostrare che qui è integrato non so... Da quando era stato scritto che qui non ha radici sono passati 4 anni. E adesso quelle radici ci sono. Comunque il nostro obiettivo era sposarci, perché visto com’è andata l’altra volta non eravamo sicuri di farcela”, dice Micaela. Di quel matrimonio che non si è fatto a febbraio qualcosa però rimane. Quella piccola “luna di miele” a Salizzole. “Micaela potrà venire quando vuole - le parole di Elisabetta Dusi -. E poi li aspettiamo, lei e Nico, quando lui sarà libero. E allora faremo festa alla Casa della Speranza”. Torino. Rigoletto apre le porte del carcere al teatro di Paolo Morelli Corriere di Torino, 5 marzo 2025 Il Rigoletto va in carcere grazie al Teatro Regio. È la prima volta che l’ente lirico, guidato da Mathieu Jouvin, varca la soglia della Casa circondariale Lorusso e Cutugno, ma si tratta di un ulteriore tassello aggiunto al più ampio progetto di allargamento del teatro sul territorio cittadino. Lo spettacolo, ridotto grazie al lavoro di Vittorio Sabadin, andrà in scena il 10 marzo alle 16.30 per 80 detenuti selezionati dalla direzione (su 1.400 totali). “Questo genere di spettacoli - ha spiegato Sabadin - negli anni ha coinvolto 25 mila ragazzi. Ho pensato che quel tipo di formula avrebbe funzionato anche in carcere per un pubblico non preparato alla lirica, che deve essere raggiunto”. Ed è l’intento del Regio, con queste iniziative. “Il progetto - ha affermato Cristiano Sandri, direttore artistico del Regio - vede la partecipazione fattiva dei detenuti. Esiste già una collaborazione delle istituzioni con il carcere attraverso il Teatro Stabile”. Che ha coinvolto i detenuti nella realizzazione delle scenografie, insieme all’associazione Teatro e Società già attiva da tempo presso la Casa circondariale. L’intero progetto si realizza grazie alla collaborazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo, nell’ambito del programma nazionale “Per Aspera ad Astra”. La versione ridotta dell’opera vedrà protagonisti gli artisti del Regio Ensemble: Janusz Nosek (Rigoletto), Albina Tonkikh (Gilda), Daniel Umbelino (Il Duca di Mantova), Siphokazi Molteno (Maddalena) e Tyler Zimmerman (Sparafucile e Conte di Monterone). “Avere artisti qui - ha commentato Jouvin - consente di realizzare progetti con più agilità”. In scena anche l’attrice Chiara Buratti, già coinvolta nella programmazione per le scuole. La direzione musicale e l’accompagnamento al pianoforte sono affidati a Giulio Laguzzi, la regia a Riccardo Fracchia, le scene a Susi Ricauda Aimonino e i costumi a Laura Viglione. “Mi commuove vedere questo coinvolgimento - ha aggiunto Elena Lombardi Vallauri, direttrice della Casa circondariale Lorusso e Cutugno - ed è bello pensare alla musica che si allunga tra i corridoi dell’istituto. Così si porta una dimensione di bellezza che toccherà i cuori dei presenti”. Uno stimolo anche per i dipendenti del carcere stesso. “Lavoriamo per qualcosa che non finisce lì”, ha concluso Luca Morali, comandante del reparto di Polizia penitenziaria. Arco (Tn). “Storie di donne e di carcere” alla rassegna Cantiere Teatro comune.arco.tn.it, 5 marzo 2025 “Il colloquio”, sottotitolo “Storie di donne e di carcere”, è la proposta (l’ultima di questa edizione) della rassegna Cantiere Teatro per sabato 8 marzo, Giornata internazionale della donna: uno spettacolo poetico e vero firmato dal collettivo napoletano LunAzione e nato da una ricerca sul campo condotta dagli artisti tra le donne in attesa fuori dal carcere napoletano di Poggioreale. Al Centro giovani intercomunale Cantiere 26 con inizio alle 20.45. Tre donne (interpretate da attori uomini) attendono stancamente, tra tanti altri in coda, l’inizio degli incontri con i detenuti. Portano oggetti da recapitare, una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. La vita quotidiana della città non si è ancora risvegliata e dalla sospensione onirica della situazione, dagli scontri e dagli avvicinamenti reciproci emerge la visione brutale di una realtà ribaltata. La galera, un luogo alieno, in larga parte ignoto e oscuro, si rivela un riferimento quasi naturale, oggetto intermittente di desiderio e, paradossalmente, sede di libertà surrogata. In qualche modo la reclusione viene condivisa all’esterno dai condannati e per le tre donne, che se ne fanno carico, coincide con la stessa esistenza: i ruoli maschili si sovrappongono alle vite di ciascuna, ripercuotendosi fisicamente sul corpo, sui comportamenti, sulle attività, sulla psiche. Nella loro realtà la detenzione è una fatalità vicina -come la morte- che deturpa l’animo di chi resta. Pare assodato che la pena sia inutile o ingiusta. “Nella liminalità di un’attesa che è condivisione di un tempo sospeso -recita la motivazione della giuria del premio Scenario Periferie 2019, vinto dalla compagnia LunAzione con questo spettacolo- tre donne si contendono un territorio ristretto, dove i legami spezzati dal carcere si riflettono inesorabilmente in una reclusione altra, introiettata eppure reale. Fra legami negati e solidarietà imposta, Il Colloquio è la fotografia spiazzata e spiazzante di un’antropologia indagata nelle sue ragioni sociali e culturali profonde e apparentemente immodificabili, dove il femminile è restituzione di un maschile assente e quindi fatto proprio, con efficace scelta registica, da tre attori capaci di aggiungere poesia all’inesorabilità di storie già scritte e aprire spiragli onirici imprevisti”. La mattina dello spettacolo gli artisti incontreranno gli studenti del liceo Maffei, a chiudere l’iniziativa “Professionisti dello spettacolo dal vivo”, ideata e condotta da Riccardo Tabilio e sostenuta da Piano B, il Piano giovani di zona dell’Alto Garda e Ledro: un ciclo di incontri che hanno permesso agli studenti del liceo, di Gardascuola e dell’istituto Floriani, all’alba delle proprie scelte professionali ed esistenziali, di farsi un’idea delle sfide e delle opportunità di affrontare una carriera nel mondo della cultura e dello spettacolo. Biglietteria online: https://bento.me/cantiere26. Contatto biglietteria: teatrocantiere@cooperativasmart.it. Il Centro giovani intercomunale Cantiere 26 si trova ad Arco in via Paolina Caproni Maini 26, sito https://bento.me/cantiere26 Le baby gang sono l’ultimo nemico costruito per i consensi: così si manipola la realtà di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2025 Le baby gang e i ragazzini criminali e pericolosi sono oggi l’ultima frontiera del nemico costruito, imposto, sbattuto in faccia. Sarebbero loro - vogliono farci credere - il problema dell’Italia, il problema di noi tutti, il motivo per il quale non dovremmo dormire tranquilli e dovremmo avere paura a uscire per strada. Il meccanismo è sempre lo stesso: incuranti di ogni statistica, si comincia a raccontare a gran voce quanto pericolosa sia quella certa categoria di persone (sono stati a volte gli immigrati o i tossicodipendenti o addirittura gli organizzatori di rave party). Anche se l’evidenza dice il contrario, anche se i reati sono in calo, anche se non è vero nulla. L’importante è che in tutti noi venga ben rinforzata la paura: è questa emozione a costituire la chiave del trucco. Dopodiché si procede a promettere che verremo protetti da tali pericoli immaginari, liberati dai sentimenti spaventosi che hanno prodotto in noi. E come accadrà la liberazione? Naturalmente con l’unico strumento che si può promettere a costo zero (e che si sa bene che non serve a niente): carcere su carcere, aumento delle pene, pugno di ferro e tolleranza zero. Nonostante l’unica ricerca promossa dal Ministero dell’Interno su questo argomento (ottobre 2022) ci spieghi che i fattori che spingono i giovani ad aderire a una gang sono “rapporti problematici con le famiglie, con i pari o con il sistema scolastico, difficoltà relazionali o di inclusione nel tessuto sociale e un contesto di disagio sociale o economico. Influente è anche l’uso dei social network come strumento per rafforzare le identità di gruppo e generare processi di emulazione o autoassolvimento”, investire sull’educazione, sulla prevenzione, sul sostegno è ben più impegnativo e costoso che scrivere un decreto-legge per promettere più galera per i minorenni. E, soprattutto, porta meno consensi sul breve periodo. I media non aiutano, contribuendo anche loro alla costruzione di allarmi senza riflessione: la stessa ricerca ci racconta come nell’anno 2017 siano stati identificati nella stampa italiana 612 articoli che parlavano di gang giovanili, mentre nei soli quattro mesi iniziali del 2022 essi siano stati 1.909. Eppure nell’anno precedente, il 2021, i servizi sociali della giustizia minorile avevano in carico solamente 186 ragazzi appartenenti a gang, su un totale di oltre 13.500 giovani complessivamente in loro carico. Qualche giorno fa è stato pubblicato il dossier del Ministero dell’Interno sugli omicidi volontari. Siamo uno dei paesi più sicuri al mondo. Ma questo è bene non raccontarlo: come si potrebbe, infatti, continuare a promettere penalità e prigione? Tra il 2023 e il 2024 gli omicidi volontari in Italia sono passati da 340 a 319. Un numero già basso, se paragonato agli altri paesi europei e del mondo, si è ulteriormente ridotto. All’interno di questa cifra, sono aumentati di 21 unità gli omicidi commessi da minorenni. Qualcosa su cui senz’altro tutti noi come società dobbiamo interrogarci. Ma certamente non come è accaduto nei giorni scorsi. Non sapendo infatti su quale dramma titolare, essendo il dossier sostanzialmente rassicurante, tante testate hanno puntato sul solo dato capace di rinforzare la paura di turno: boom di omicidi tra i minori, aumentano i baby killer. Nessuno dice che nel 2017, ad esempio, il numero è stato di poco superiore a quello del 2024. Dunque un andamento oscillante, come sempre accade a ogni fenomeno sociale, ma comunque contenuto. Con spettacolare linearità, meno di quarantott’ore dopo altri titoli occupavano le testate: retate tra le baby gang, arrestati 73 giovani in tutta la penisola. Per arrivare a questi arresti, la polizia ha dovuto controllare 13.000 ragazzi e ragazze, con grande dispiegamento di forze. Nel frattempo i ragazzi nelle carceri minorili, dopo il Decreto Caivano sempre di più e sempre più soli, sono mandati al macero. La retorica del pugno di ferro colpisce anche qui: se sono così cattivi, se sono loro la fonte di tutte le nostre angosce, delle nostre insicurezze, delle nostre paure, allora che marciscano in galera, certo non ci impegneremo a cercare di recuperarli e di offrire loro una vita migliore di quella che hanno avuto fin qui. Noi che nelle carceri minorili ci andiamo in continuazione ben sappiamo che ad abitarle sono troppo spesso ragazzi fragili, con un passato drammatico alle spalle, che avrebbero bisogno di sostegno e attenzione invece di ricevere solamente abbandono e punizione. Tanti sono i minori stranieri non accompagnati (la già citata ricerca ministeriale ci racconta come “nella maggior parte dei casi i membri delle gang sono italiani, mentre gruppi formati in maggioranza da stranieri o senza una nazionalità prevalente sono meno frequenti”). Capisco bene che i numeri sono più noiosi di “Mare fuori” o del racconto di una maxi retata che avrebbe sgominato chissà quale pericolosa mala giovanile. Ma la conoscenza del dato di realtà ci aiuta a pensare con la nostra testa. E a non farci manipolare da chi ha bisogno della nostra ignoranza. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Educazione alle relazioni, “il Governo la renda obbligatoria nelle scuole” di Luca Fazio Il Manifesto, 5 marzo 2025 La campagna sociale di Coop “Dire, fare, amare”. Nomisma: per nove italiani su dieci può prevenire fenomeni di odio e violenza di genere. Stiamo male, a cominciare dai bambini o dai “nostri ragazzi”, come dicono gli adulti che almeno provano a mettersi una mano sulla coscienza. Molte maestre (e maestri) e tante mamme e papà disorientati che procedono a tentoni. La consapevolezza si sta facendo largo anche nel discorso pubblico e non solo tra i professionisti che si occupano di disagio psichico: oggi l’ansia è un sentimento così diffuso che sta facendo collassare i legami sociali. È questa l’atmosfera di un sistema che crea soggetti ansiosi, soli, rassegnati o aggressivi. Su questo terreno complicato da attraversare si muove l’ultima campagna sociale di Coop “Dire, fare, amare”. Obiettivo dichiarato: “La necessità che l’educazione alle relazioni diventi una materia scolastica obbligatoria nel nostro Paese, come è già nella maggioranza dei paesi europei. Dibattito aperto, con il rischio di buttare la palla in tribuna perdendo tempo in dispute di tipo ideologico (destra/sinistra). Di notevole c’è che la campagna di Coop mette sul tavolo una corposa indagine che ha testato il “sentire” degli italiani sul tema dell’istruzione come forma di prevenzione. La ricerca è stata condotta in collaborazione con Nomisma che ha interrogato duemila persone tra i 18 e i 64 anni su questioni che coinvolgono la sfera degli affetti e della sessualità. I dati emersi, spiegano gli autori del lavoro, sono molto netti: “Il 70% del campione e 9 italiani su 10 ritengono che proprio l’insegnamento scolastico possa contribuire alla prevenzione di fenomeni di odio, emarginazione, finanche di violenza di genere. A partire anche dalla tenera età, considerato che un genitore su due immagina che il percorso dell’educazione alle relazioni possa iniziare già dalla scuola elementare”. La materia complessa è indagata con nude cifre che se non altro aiutano a percepire alcuni “pezzi” di vita vissuta. Il ruolo della madre educativamente ancora preponderante a proposito di relazioni, mentre il ruolo del padre sarebbe addirittura “superato” dagli amici e dai coetanei. E poi il tema della sessualità che in famiglia è ancora tabù, anche perché alcuni genitori temono di suscitare ansia nel figlio/figlia. Quasi tutti concordano però nel ruolo che dovrebbero avere gli esperti (psicologi) tra le mura scolastiche, che dopo la pandemia sono però state invase più da supporti tecnologici che da professionisti votati all’ascolto. Insomma, il desiderio condiviso degli italiani è che anche la scuola si rimbocchi le maniche per educare ai sentimenti. L’esigenza è evidente e comunque bisognerebbe parlarne senza trascurare quella minoranza statistica che esprime ancora dubbi, alcuni tutt’altro che irrilevanti. “Noi crediamo che il tema non sia più procrastinabile e che ci sia urgenza di affrontarlo in modo serio, senza infingimenti ideologici proprio come strumento irrinunciabile di maggiore consapevolezza e di prevenzione”, commenta Maura Latini, presidente di Coop Italia. La campagna “Dire, fare, amare” verrà “venduta” in tutti i negozi dove “la base sociale” dei consumatori si incrocia quotidianamente almeno per fare la spesa. Sono milioni ogni settimana. Gli italiani vogliono l’educazione all’affettività nelle scuole, ma nessuno sa bene come di Massimo Taddei Il Domani, 5 marzo 2025 Una nuova indagine Coop mostra che ben nove italiani su dieci sarebbero d’accordo con l’insegnamento nelle scuole, ma non è chiaro chi e come dovrebbe occuparsene. Nel quinto anno di Close the gap, un’iniziativa per favorire la parità di genere in azienda e nella società, Coop ha presentato il 4 marzo a Milano un rapporto che sintetizza i principali risultati raggiunti nell’ultimo anno. Il report riporta i molti successi a livello aziendale: oltre il 70 per cento delle persone che lavorano per Coop sono donne. È donna una responsabile di negozio su tre, così come il 40 per cento dei membri del consiglio di amministrazione. C’è poi una parte relativa ai molti risultati raggiunti, dall’ottenimento della certificazione per la parità di genere (prima azienda della grande distribuzione organizzata a ottenerla), al lancio di vari progetti di formazione e inserimento nel mondo del lavoro per le donne. Uno dei risultati più interessanti, però, è la pubblicazione di un’indagine statistica in collaborazione con Nomisma. La ricerca riguarda le opinioni degli italiani sull’educazione all’affettività e si è deciso di concentrarsi su questo tema proprio perché gli aspetti culturali e sociali intorno al sesso e all’affettività sono uno dei fattori più importanti nella discriminazione. La netta divisione dei ruoli tra maschi e femmine, per esempio, spesso nasce nella coppia e finisce per definire il ruolo delle donne anche nella società. Partire dalla sfera sessuale e affettiva è quindi un passo importante non solo per ridurre l’ansia e lo stress degli adolescenti, non solo per evitare gravidanze indesiderate o altri incidenti dovuti alla scarsa educazione, ma anche per frenare le disuguaglianze economiche e sociali. I dati - L’indagine Coop mostra che c’è grande bisogno di informazione sessuale: il 35 per cento dei genitori di minorenni, infatti, non parla mai di questi temi con i figli o lo fa raramente. Solo 1 su 5, invece, dichiara di discuterne spesso. Anche tra chi ne parla, comunque, la discussione rimane fonte di disagio: l’80 per cento dei genitori ha avuto difficoltà a parlare con i figli di almeno uno dei temi trattati dall’indagine (relazioni sociali, relazioni sessuali e affettive e informazione sessuale). Questo potrebbe spiegare la forte domanda di educazione sessuale nelle scuole. Nonostante il tema resti ancora piuttosto tabù, sono moltissimi gli italiani che ritengono che questa materia debba essere trattata in momenti dedicati a scuola. Il 70 per cento degli intervistati ritiene che debba essere obbligatoria, mentre il 21 per cento pensa che la frequenza dovrebbe essere facoltativa. Solo il 9 per cento è contrario, meno di uno su dieci. Allora perché non abbiamo una normativa chiara per l’educazione sessuale e affettiva? Ci abbiamo provato con ben 16 proposte di legge negli ultimi 50 anni, ma il risultato non è ancora stato raggiunto. Un tema politico - I dati dell’indagine Coop e Nomisma sembrano suggerire un’Italia piuttosto aperta sui temi sessuali: quasi tutti sono a favore dell’educazione sessuale, due genitori su tre parlano spesso o abbastanza spesso con i figli di questi temi e i parenti stretti sono la prima fonte di informazione su sesso e affettività. Eppure, queste conclusioni non ci convincono più di tanto: davvero non abbiamo un problema? In realtà, almeno alcuni dati dell’indagine mostrano che le opinioni sono più divise rispetto a quanto risulterebbe da una prima occhiata. Per esempio, il 59 per cento degli adulti ritiene che sia molto importante parlare di educazione alla sessualità e alle relazioni sociali (non sessuali), ma “solo” il 51 per cento pensa la stessa cosa della necessità di parlare di relazioni con il partner e i ruoli di coppia. Questa differenza, seppur relativamente piccola, ci fa pensare che sul tema la questione sia più divisiva: in molti sono d’accordo sul fatto che bisogna insegnare ai giovani ad utilizzare i contraccettivi, ma non tutti sono d’accordo sul fatto che sia necessario mettere in discussione la struttura della coppia e della famiglia. Il fatto è che il primo problema non si può risolvere senza cambiare la mentalità intorno alla sessualità e alle relazioni di coppia in generale. Come accade spesso con le questioni che riguardano le disuguaglianze di genere, anche sull’educazione sessuale sembra esserci un enorme consenso sulla necessità di fare qualcosa. Si troveranno, però, molte idee diverse sulle cause e sulle possibili soluzioni, che dipendono dalle diverse posizioni politiche di chi partecipa alla discussione. Oggi a livello politico si parla molto poco di educazione sessuale o, perlomeno, non lo si fa con proposte concrete. Quest’indagine mostra però che il tema è caldo e che interessa tutti gli italiani, non solo quelli più progressisti accusati di voler “indottrinare” il resto della popolazione. I partiti dovrebbero cogliere quest’occasione e presentare delle proposte serie, in linea con le aspettative e le idee dei loro elettori, per dare finalmente una visione condivisa sull’educazione sessuale nel nostro paese. Migranti. Al Cpr di Trapani il timore di un nuovo caso Sylla: “Liberate quel ragazzo prima che si suicidi” di Angela Gennaro Il Domani, 5 marzo 2025 Benzid è poco più che maggiorenne ed è rinchiuso da novembre nel centro siciliano. “Ha più volte manifestato intenti suicidari e attualmente risulta fortemente debilitato e risultano evidenti sul suo corpo gli esiti degli atti di autolesionismo”, spiega l’avvocato Gaetano Pasqualino. Un nuovo caso Sylla. È questo il timore che ha per Benzid il suo avvocato, Gaetano Pasqualino, già difensore del fratello di Ousmane Sylla, il ragazzo guineano che si è tolto la vita un anno fa nel centro per i rimpatri di Ponte Galeria, alle porte di Roma. Benzid - il nome è di fantasia - viene dalla Tunisia ed è ancora più giovane di Ousmane: non ha neppure 19 anni e già ha tentato molte volte di farsi del male e togliersi la vita. Arriva in Italia subito dopo Natale, nel 2023, ancora minorenne. Viene sistemato in una struttura per minori non accompagnati a Castelvetrano, ma dopo un po’ si allontana. Secondo il suo avvocato, anche per “assenza di adeguata assistenza legale”: agli atti non risulta che sia mai stata avanzata istanza di permesso di soggiorno per minore età, cui pure il ragazzo aveva diritto ancor più in qualità di minorenne in viaggio da solo, senza famiglia. “Disorientato e depresso”, Benzid fa perdere le sue tracce per essere poi trovato dalle forze dell’ordine durante una di quelle operazioni che qui appaiono come veri e propri “rastrellamenti”. Lavora in nero nei campi siciliani e nel frattempo ha compiuto 18 anni. L’età “giusta” per essere portato nel Cpr di Trapani-Milo: è senza documenti ed è pure tunisino - paese con cui l’Italia ha accordi per i rimpatri. L’allarme dello psicologo - Benzid è rinchiuso da novembre. Dopo neanche un mese è lo psicologo del Cpr a decretare il “deterioramento” delle sue condizioni fisiche e psicologiche. “Inizia ad assumere una condotta autolesiva ingerendo più volte dello shampoo”, si legge in una relazione di gennaio. È “confuso e disorientato”, parla continuamente, quasi senza respirare, dicendo cose apparentemente senza senso. Non sembra ascoltare. È agitato e non riesce a dormire “nonostante la terapia medica assunta”. “Data la sua giovane età e la fragilità che lo caratterizza, ritengo che il soggetto non disponga delle risorse e della forza emotiva per reggere situazioni stressogene e al contesto di reclusione presso il Cpr di Milo”. Qui non può stare, insomma, dice lo psicologo del centro. Qui il rischio che si ammazzi c’è, ed è molto alto. Il centro per i rimpatri di Trapani “è un non luogo, uno spazio angusto e inumano”, denuncia la deputata siciliana del Partito Democratico Giovanna Iacono. A gennaio 2024 è stato chiuso per i danni provocati da un incendio appiccato durante una rivolta, per poi aprire a ottobre. “Se il sistema della detenzione amministrativa è già di per sé orrore, a Milo questo orrore appare in tutta la sua drammaticità”, dice ancora Iacono. È “idoneo” Benzid a stare lì dentro? Un posto che, come tutti i Cpr, viene descritto come “peggiore del carcere”, dove si entra non perché si è commesso un reato ma perché non si hanno i documenti giusti. L’unica idoneità contemplata - qui come in altri Cpr - è sancita da un foglio che attesta che il giovane non ha malattie infettive: niente Covid-19, insomma, dunque può essere rinchiuso qui fino al rimpatrio, e comunque fino a un massimo di un anno e mezzo. L’idoneità psicologica non entra in gioco. Il colloquio - È la Corte di Appello di Palermo, in seguito all’istanza di revoca della misura del trattenimento, a chiedere al Centro di Salute Mentale dell’Asp di Trapani di verificare le condizioni psichiche del neomaggiorenne. Detto, fatto: con un “brevissimo colloquio video” il medico attesta “l’assenza di una patologia psichiatrica”. Per ora. Certo, dice il medico che televisita, a questo ragazzo andrebbe trovata una collocazione più idonea per “limitare il disagio”. E il ragazzo resta dentro, mentre all’autolesionismo si aggiunge la violenza altrui: a inizio gennaio finisce al Pronto Soccorso a Trapani per un trauma cranico per aggressioni subite. Una settimana dopo ci ritorna per aver ingoiato viti e bulloni. Non dorme, ha paura di vedere altri trattenuti “fare la corda”, fare del male a se stessi o aggredire lui. Si fa la pipì addosso. “Ha più volte manifestato intenti suicidari e attualmente risulta fortemente debilitato e risultano evidenti sul suo corpo gli esiti degli atti di autolesionismo”, spiega l’avvocato Pasqualino. “L’applicazione della misura del trattenimento presso il Cpr, del quale si chiede la revoca o la modifica, si palesa incompatibile con l’attuale stato di salute”, scrive il legale nell’ennesima richiesta di liberazione del ragazzo: la nuova decisione è prevista per il 6 marzo. I precedenti - Facendo i nomi di chi, prima di Benzid, è “morto di Cpr”. A cominciare da Moussa Balde, un ragazzo di 23 anni che, dopo essere stato vittima di un pestaggio a Ventimiglia da parte di persone italiane, è finito al Cpr di Torino perché trovato senza documenti e qui si è impiccato. O Abdel Latif, tunisino anche lui, di 26 anni: è morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma, portato lì dal Cpr di Ponte Galeria. E poi Ousmane Sylla: anche lui era passato dal Cpr di Trapani. In un altro Cpr, ancora Ponte Galeria, ha poi deciso di impiccarsi poco più di un anno fa. Nessuno di loro era pazzo, secondo le carte e probabilmente neanche nella realtà, scrive Gaetano Pasqualino. Nessuno aveva “patologia psichica strictu sensu”, come scrive la Asp di Trapani per Benzid. “In tutti i casi sopra citati, i migranti detenuti presso il Cpr non mostravano in maniera evidente segni di una patologia psichica strictu sensu, tuttavia la permanenza nel Cpr ha determinato in loro il desiderio di fuggire nell’unico modo possibile”. Togliendosi la vita. “Strutture fatiscenti e nessuna assistenza”. Indagine sull’accoglienza dei migranti a Viterbo di Gaetano De Monte Il Domani, 5 marzo 2025 L’indagine nata da un esposto della deputata Rachele Scarpa e dell’associazione Lasciatecientrare. Dopo la visita in alcune strutture sono state rilevate gravi carenze nell’assistenza sanitaria e nell’erogazione di beni di prima necessità, la totale mancanza del servizio di mediazione linguistica e culturale e l’assenza di qualsiasi forma di tutela dei bambini presenti che vivono in promiscuità con gli adulti. In provincia di Viterbo esistono dodici centri di accoglienza straordinari per richiedenti asilo, quasi tutti gestiti da una unica società di Milano, la Ospita Srl, che per fornire questo servizio di tutela a più di 500 beneficiari ha attrezzato ex strutture religiose, spazi fiera abbandonati, ex alberghi e anche appartamenti di campagna che si trovano a decine di chilometri dal centro abitato. L’azienda gestisce, per conto del ministero dell’interno e delle locali prefetture, anche diversi altri Cas che si trovano in varie province della Toscana. Ospita Srl, grazie a questo volume di affari, negli ultimi quattro anni ha visto moltiplicare il proprio fatturato, che è passato così - secondo i dati della camera di Commercio di Milano - dai 2 milioni del 2020 ai quasi 17 milioni e mezzo del 2023, con l’ultimo utile pari a 2 milioni e mezzo di euro. Con l’aumento del fatturato, però, non sembra migliorare proporzionalmente la qualità dei servizi forniti da Ospita Srl. Almeno stando all’articolato esposto che la deputata del partito democratico, Rachele Scarpa, ha presentato qualche giorno fa, insieme all’attivista di Lasciatecientrare, Yasmine Accardo, alla procura di Viterbo, e di cui Domani è in possesso. Quando la deputata del Pd ha visitato agli inizi di febbraio il centro che si trova nel comune di Canino, a sette chilometri di distanza dal primo luogo abitato, la prima scena che ha visto, all’interno dell’area esterna di pertinenza della struttura di accoglienza, è stata quella di un giovane uomo in evidente stato di disordine psichico, sprovvisto di indumenti, fatta eccezione per un boxer, che vagava alla ricerca di foglie. “L’uomo è un ex ospite del centro - ha raccontato l’unica operatrice presente nella struttura - è in Italia dal 2016, si ripara qui nelle vicinanze all’interno di un container sprovvisto di servizi igienici dedicati senza alcun tipo di tutela se non l’aiuto di altri richiedenti asilo presenti nella struttura”. Si sa che vive da quasi tre anni in queste condizioni e, nonostante le evidenti fragilità psichiche e in passato anche episodi violenti contro alcune operatrici del centro di accoglienza, gli assistenti sociali non hanno attivato nessuna procedura per una eventuale presa in carico; una questione - sottolinea la deputata - “che interroga altresì su quali siano le condizioni di effettiva sicurezza sul luogo di lavoro cui vengono esposti i dipendenti impiegati nel centro”. Ma questo è soltanto il primo rilievo che è ora è all’attenzione dei magistrati della procura di Viterbo. È un fatto che per tutelare gli 81 ospiti, tutti adulti, al momento della visita era presente un’unica operatrice mentre era in procinto di alimentare con gusci di nocciola l’unica caldaia che si trova in un casolare separato dal centro. E secondo la denuncia, “l’impianto è completamente privo di controllo, dovrebbe fornire sia il riscaldamento che l’acqua calda, per uso personale e per i condizionatori presenti all’interno dei moduli abitativi che si estendono intorno alla struttura centrale, ma l’acqua calda non è presente in tutte le ore della giornata”. Il centro del comune di Canino è strutturato da piccoli appartamenti al piano terreno e da altre tre strutture su due piani. Racconta Rachele Scarpa a Domani: “All’interno, gli appartamenti risultano del tutto insufficienti in termini di spazio rispetto alle presenze: vi sono 4 persone per ogni modulo abitativo che dormono su letti a castello; sono presenti bagni molto piccoli dove sono evidenti l’odore penetrante e la muffa di lunga data sulle pareti; in alcuni di questi, le mattonelle sono rotte e gli scarichi non funzionano”, aggiunge. Carenze strutturali degli edifici e nell’assistenza igienico sanitaria per le persone ospitate, le quali hanno raccontato anche di disporre di un unico lenzuolo ed unica coperta, e di non avere a sufficienza scarpe e indumenti personali, dunque, queste sono solo alcune delle problematiche riscontrate che lasciano ipotizzare violazioni rispetto a quanto previsto dai capitolati d’appalto, e su cui la procura di Viterbo, ma anche la locale prefettura, vogliono vederci chiaro. Perché nella denuncia non è finito solo il centro di accoglienza di Canino, ma anche un’altra struttura gestite da Ospita Srl nella zona, quella di Grotte di Castro, un centro in cui quando arrivano Accardo e Scarpa non trovano alcun operatore, ma gli stessi soffitti e le pareti pieni di muffa. Soltanto che qui riscontrano anche la presenza di nuclei familiari con bambini e bambine piccoli, rilevando che “in riferimento a questi ultimi non abbiamo avuto modo di avere informazioni relative all’iscrizione scolastica nonché alle eventuali modalità di tutela degli stessi in luoghi a così alta promiscuità”. E, da qui, è partita la denuncia alla procura di Viterbo, che si somma così al procedimento aperto dai magistrati nel novembre del 2023, e tuttora in corso, che vede tra gli indagati alcuni operatori di Ospita Srl in seguito all’incendio di una palazzina gestita dalla società come centro di accoglienza per minori avvenuto a San Lorenzo Nuovo, sempre nel viterbese. L’Europa e la pezza peggiore del buco di Serena Sileoni La Stampa, 5 marzo 2025 Trump è la realtà che ha sfondato la porta, dopo aver smesso di bussare perché nessuno apriva. Vale per l’agenda politica dei democratici, in lunga fase di de-pensiero woke, vale per l’illusione della pace perpetua nel nostro angolo di mondo, della tenuta del multilateralismo, della forza intrinseca dell’Unione europea. In particolare, dare addosso a quest’ultima per la sua inconsistenza, burocrazia e retorica è lo sport del momento, ma l’iperrealismo sulle cause conduce poco lontano nella gestione delle conseguenze. È vero, l’Ue arranca da quindici anni di emergenza in emergenza ed è probabile che viva solo grazie ad esse. In fondo, il motto che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi è un modo più elegante di dirlo. Ma una volta riconosciuto tutto ciò, che si fa ora che Trump ha sfondato la porta e ci ha sorpresi, come il famoso re, nudi in casa nostra? L’effetto spiazzante agisce su due livelli. C’è un primo livello, più superficiale, che riguarda il riassestamento delle competenze, delle risorse e dei posizionamenti in diritto e in politica internazionale. Riguarda il cosa fare per organizzare una difesa europea, come assicurarci la pace nel nostro continente anche senza il sostegno americano, come reagire ai dazi. C’è poi il secondo livello più profondo, che regge il primo. Riguarda non il cosa fare, ma il perché. Con iperralismo, si potrebbe ritenere che è meglio non far nulla che far danni. L’Ue, sempre che abbia gambe forti per correre, non avrebbe il tempo di organizzare una difesa utile all’Ucraina e ai suoi stessi confini. La possibile risposta del più debito, ieri esposta da Von der Leyen in una lettera inviata agli Stati, sarà una pezza peggio del buco. Infine, sui dazi nel breve termine sarebbe più conveniente negoziare accordi economici bilaterali con gli Usa, specie per l’Italia il cui capo di governo ha un rapporto diretto e amichevole con Trump. Perché, quindi, gli Stati dell’Ue dovrebbero fare qualcosa, dati i costi e l’incerto risultato? È su questa domanda che agisce l’effetto spiazzante di Trump, in maniera complicata e penosa, perché sgretola categorie di pensiero in cui eravamo accomodati e ci lascia sorpresi nel trovarci in disaccordo con chi pensavamo la pensasse come noi, o viceversa. Il riassestamento dell’asse Salvini-Conte e una certa somiglianza tra le difficoltà di scelta di Meloni e di Schlein sono solo il riflesso di ciò che resta in tante nostre comuni, private conversazioni. Nei giorni della recita del de profundis dell’Ue, non dovremmo confondere la difficoltà del momento con un fallimento strutturale, né l’orientamento attuale dell’Unione con il percorso storico che ha avuto. Solo per stare a esempi di cui abbiamo ricordo diretto, il rigetto verso l’Unione della cd. austerity (ammesso che significhi qualcosa) ha accomunato pochi anni fa le estreme destre nazionaliste e le sinistre eredi dei movimenti no global. Eppure il sistema europeo, euro compreso, ha consentito agli Stati con più alto debito di salvare i conti pubblici. Se una colpa va attribuita, è a carico di alcuni di loro, Italia per prima, che non hanno fatto tesoro del minor costo del debito e del sostegno ricevuto. Anche alzando lo sguardo rispetto agli interessi di casa nostra, non possiamo trascurare che l’Europa non è stata solo e soltanto un mostruoso ordinamento di lacci e laccioli. È anche uno spazio di mercato comune (ancorché incompleto) e di rule of law, che ha garantito non meno bene di quanto sarebbero state in grado di assicurare comunità politiche più ridotte. Essere critici nei confronti dell’Europa della Commissione Von der Leyen - quindi dell’Europa dei Pnrr, del Green Deal e del debito comune - non deve portarci a buttare, con l’acqua sporca, un bambino che ha ormai 70 anni di integrazione. C’è poi un secondo argomento, che riguarda in particolare difesa e Ucraina. Si può essere consapevoli che gli affari tra Stati sono affari, non agende politiche basate su valori comuni, e riconoscere al tempo stesso che il sistema giuridico e economico che ha fatto il benessere dell’Europa e della sua gemmazione americana poggia non solo sul senso della convenienza, ma sul riconoscimento della libertà di fare affari in un contesto stabile in cui i diritti e le libertà contano. Il principio di non aggressione è il presupposto più basilare di pacifica convivenza, tra le persone e tra gli Stati. Ed è anche la base minima di quel sistema di diritti, a partire dalla proprietà e dalla libertà personale, che l’Atlantico non ha ancora diviso. Per questo, la conta dei danni non è uguale da una trincea all’altra, né lo sono le responsabilità, né le condizioni di cessate il fuoco, né le modalità con cui ci si propone come negoziatori. Per questo, non è indifferente quanto avvenuto e detto dallo Studio Ovale fino a ieri, quando Zelensky ha riconvenuto sull’accordo sulle terre rare a fronte della sospensione degli aiuti militari. Per quanto realistici o cinici in questo momento si possa essere (non possiamo difenderci da soli, non nell’immediato, né possiamo senza gli Usa aiutare l’Ucraina a trovare una pace con la Russia), è difficile non vedere come la posta in gioco è il mantenimento di quel presupposto minimo del nostro modo di convivere con gli altri, amici o nemici che siano. Ed è quello che l’Europa dovrebbe continuare a difendere. Auspicabilmente con gli Stati Uniti, ma senza abdicare ai principi più elementari. Stati Uniti. Il giro di vite di Trump: in galera chi protesta di Monica Maggioni La Stampa, 5 marzo 2025 Deve essersi svegliato nel mood del capo supremo. Alle 7,30 del mattino di Washington di martedì Donald Trump posta sui social il suo ultimo ordine. Sembra di vederlo con il dito alzato mentre intima la sospensione di tutti i fondi federali verso i college, le scuole, le università che ospitano proteste illegali. Peccato che non definisca con chiarezza quali siano le proteste che lui ritiene illegali. Si sa, invece, che ha in programma di sanzionare le università come la Columbia o la Chicago University che hanno ospitato le manifestazioni pro Palestina. Ma non basta. Si capisce che non si fermerà qui. È pronto ad allargare l’orizzonte. L’affermazione contenuta nel post è molto grave ma il tono è persino peggio. Chiude in cinque righe un lungo e doloroso dibattito sulla libertà di espressione, sul diritto a manifestare (che negli Stati Uniti ha caratteristiche molto particolari e diverse dalle nostre). Per mesi ci siamo divisi su quanto stava accadendo nei college dove quella stessa idea libertà di espressione ha portato a orribili ed esecrabili episodi di antisemitismo. Oggi però Trump con il suo “stop” digitato in maiuscolo e il suo “no masks!”, niente mascherine, sempre in stampatello e punto esclamativo, dice qualcosa di diverso. Che ha deciso lui, per tutti. Che ha interrotto il dibattito, il confronto, persino lo scontro tra pensieri diversi. Non spiega quali sono le violazioni cui si riferisce, si guarda bene dal dire a quale testo di legge fa riferimento o quale dovrebbe essere l’organismo federale incaricato della repressione. Niente di tutto ciò. Lancia minacce col dito puntato. Prosegue nello stile che da un paio di settimane sconvolge il mondo. Dice: “Avete manifestato per la Palestina, vi stiamo avvisando, vi troveremo e vi deporteremo”, e se non siete stranieri ma cittadini americani, finirete in galera. Il 30 gennaio infatti ha firmato l’ennesimo ordine esecutivo per deportare gli studenti stranieri ritenuti simpatizzanti di Hamas e manifestanti definiti pro jihadisti e ha incaricato le università stesse di monitorare gli studenti. Poi lunedì sera annuncia che cinque università saranno messe sotto inchiesta dal Dipartimento dell’Educazione per “casi di antisemitismo durante la Israel-Gaza war”. Di nuovo. Contano il tono e il contesto. Sgombriamo il campo da ogni dubbio. Non si tratta qui in alcun modo di lasciare spazio a chi nei campus, la primavera scorsa, si è macchiato di atteggiamenti violenti e aggressivi nei confronti degli studenti ebrei. Non di tollerare, nemmeno per un istante, le manifestazioni di antisemitismo. Sarebbe troppo facile qui dividersi tra chi crede, a buon diritto, che certe manifestazioni pro Palestina siano state uno scempio che ha incoraggiato l’antisemitismo, e chi invece le ha giustificate. Vale la pena piuttosto di fermarsi a riflettere sul metodo usato dall’Amministrazione e sull’obiettivo finale. Il problema è che oggi sono gli studenti pro Palestina (che comunque Trump non nomina), e domani chissà chi. Non basta dire che è solo una reazione, la risposta furibonda agli anni della cultura woke e della dittatura del politicamente corretto, perché quello che sta accadendo davanti ai nostri occhi trascende di molto qualsiasi idea di nuova dialettica nel discorso pubblico, ove se ne fosse sentito il bisogno. È in corso un tentativo sistematico di implementare la conformità ideologica al trumpismo e punire ogni forma di dissenso in un Paese dove invece le manifestazioni più disgustose (dalle passeggiate con le svastiche nei centri urbani ai saluti al grido di Heil Hitler) vengono tollerate proprio in nome del Primo Emendamento. La American Civil Liberties Union infatti spiega bene che il First Amendment proibisce la restrizione delle diverse forme di protesta basata sul contenuto del discorso. In pratica, i limiti da rispettare, per non essere fuorilegge, riguardano solo le modalità operative della protesta, mai il contenuto. Sono i principi in nome dei quali il vicepresidente Usa JD Vance è venuto in Europa, un paio di settimane fa, a tenerci una lezioncina sulla libertà di parola e di espressione. Ma questa volta, almeno da ieri mattina alle 7,30, il free speech non vale più. A chi dice delle cose che non vanno bene all’Amministrazione verranno tolti i fondi. Dalla mattina alla sera. E la modalità di queste “energiche” decisioni è sempre la stessa. Nelle ultime settimane lo abbiamo visto con i fondi di Usaid tagliati, le minacce a Zelensky. La comunità scientifica sotto scacco. Lo schema si ripete identico: non mi vai bene, ti taglio i viveri. È quello che, alcuni giorni fa, il professor Cassese, uno dei maggiori giuristi italiani, ha definito il “metodo imperiale” di Donald Trump. I suoi executive orders “somigliano più a proclami e editti che a provvedimenti di alta amministrazione”. Lui e i suoi Presidenti-ombra hanno deciso di riscrivere il mondo in un contesto in cui non valgono più le vecchie regole e le nuove sono solo quello che decidono loro. In mezzo non ci sono i passaggi istituzionali (le istituzioni democratiche per molti di loro sono solo un fastidioso ostacolo sul cammino della libertà assoluta), non c’è confronto. C’è la legge del più forte e di chi, oggi ha il potere. Vale in Ucraina, vale nei Campus. L’America che conoscevamo non c’è più. In questi anni abbiamo sempre detto che gli Stati Uniti erano attraversati da una frattura profonda. Se è vero, qualcuno inizierà a ribellarsi. Purché non sia troppo tardi. Loro corrono veloci. E noi aspettiamo di leggere il prossimo proclama via truth. Domattina alle 7: 30. Venezuela. Un giorno di digiuno, inizia la staffetta per la liberazione di Alberto Trentini di Laura Berlinghieri La Stampa, 5 marzo 2025 Il cooperante italiano è detenuto da oltre 100 giorni in Venezuela con generiche accuse di terrorismo. La madre: “Un dolore enorme”. Il sottosegretario Mantovano: “Stiamo facendo tutto il possibile”. Oggi siamo impegnati a riportare Alberto Trentini tra le braccia dei suoi familiari e della sua comunità. La situazione è complessa, la soluzione difficile, ma abbiamo attivato ogni possibile canale e posso garantire ai suoi genitori che stiamo facendo ogni sforzo per assicurare il suo ritorno”. Le parole sono quelle di Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro della premier Giorgia Meloni, pronunciate ieri, in occasione della presentazione della relazione 2024 dell’intelligence. Parole per affermare l’interessamento del governo sul caso di Alberto Trentini, il cooperante 45enne del Lido di Venezia, detenuto da oltre 100 giorni in carcere a Caracas, senza alcuna possibilità di comunicare con l’esterno. L’unica notizia arrivata alla sua famiglia risale a inizio febbraio: un generico “Sta bene”, fatto arrivare ai genitori di Trentini dalle autorità venezuelane. Per il resto, assolutamente nulla. Soltanto una mai precisata accusa di “terrorismo”, che, nell’impossibilità di conoscere alcunché sulle condizioni di detenzione del cooperante veneziano, non può che fare paura. “Queste sono giornate molto difficili per la nostra famiglia, di continua angoscia”, dice intanto Armanda Colusso, la mamma di Trentini, che non riesce a contenere le lacrime. Ha scritto una lettera, indirizzata alla premier Meloni, pregandola perché il governo si attivi velocemente, percorrendo tutte le strade possibili, per riportare a casa il figlio. “Ho detto tutto in quella lettera - spiega - e non saprei che cos’altro aggiungere. Ogni volta che nomino Alberto, è un dolore enorme e non riesco nemmeno a parlare”. Intanto, oggi, Mercoledì delle Ceneri, inizierà il digiuno a staffetta per Alberto. “Per fargli sapere che non è solo” dice Alessandra Ballerini, l’avvocata della famiglia Trentini, che si occupa anche del caso di Giulio Regeni. Per partecipare, è sufficiente compilare con i propri dati il modulo sul sito bit.ly/digiuno-alberto-trentini, selezionando il giorno di marzo in cui si vuole digiunare. E, accanto all’interessamento della Farnesina, sono tante le iniziative organizzate in tutta Italia, a sostegno del cooperante arrestato a metà novembre. Striscioni per chiederne la liberazione sono stati esposti sulla facciata di Palazzo D’Accursio a Bologna, del Consiglio Regionale del Veneto e, ieri, persino sul fronte del municipio di Alberobello. È stato attivato il “muro virtuale di speranza”, sul sito Miro.com, che ha raccolto oltre 400 mila selfie da tutto il mondo, per chiedere che Alberto possa tornare a casa. E lo stesso vogliono gli oltre 78 mila che, con le loro firme su change.org, cercano di sollecitare il governo, perché si muova nella maniera più rapida ed efficace possibile. “Ci tengo a ringraziare tutti per la grande disponibilità dimostrata, per il grande aiuto” dice intanto la mamma Armanda, “Li ringrazio di cuore. Però io resto qui, sperando per il mio Alberto. In silenzio, perché non riesco nemmeno a parlare”. Turchia. La lotta, la fuga e l’infinita prigionia, l’odissea di Öcalan che coinvolse l’Italia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 marzo 2025 Terrorista per i turchi, gli Stati Uniti e l’Unione Europea il leader del Pkk è in cella da 26 anni ma non ha mai perso consensi. Ömerli, il villaggio in cui è nato nel Sudest della Turchia, è ancora oggi un luogo di pellegrinaggio, il giorno del suo compleanno, il 4 aprile 1948, è considerato alla stregua di una festa sacra, eppure per la maggior parte dei cittadini turchi Abdullah Öcalan è il peggiore dei terroristi, un “assassino di bambini” come viene spesso definito sui media. D’altra parte il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), da lui fondato nel 1978 per inseguire il sogno di una patria curda, è in guerra con Ankara da 40 anni lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue che conta più di 40 mila morti. Nonostante sia in prigione da 26 anni, “Apo” (zio in curdo), come lo chiama affettuosamente la sua gente, è riuscito a non perdere consensi. Condannato nel 1999 alla pena di morte per tradimento e attentato alla sovranità dello Stato, pena commutata nel 2002 in ergastolo, il leader curdo è stato dal 1999 al 2009 l’unico detenuto sull’isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara, a sud di Istanbul. Dal 2015 il suo totale isolamento per 23 ore al giorno è stato denunciato in molte occasioni dalle organizzazioni per i diritti umani, rendendo la sua liberazione una causa che è una sola cosa con quella del popolo curdo. Da allora sono state pochissime le sue foto in circolazione, tranne quelle in cui è seduto dentro una gabbia di vetro antiproiettile nel tribunale costruito appositamente per lui a due passi dal carcere. Così, anche per noi italiani, Öcalan è ancora quell’uomo con i baffi e i capelli neri, in tenuta da combattimento, le braccia conserte. Erano i tempi in cui dalla Siria guidava la lotta armata per uno stato indipendente del Kurdistan dopo aver abbandonato la facoltà di scienze politiche dell’Università di Ankara. Damasco agli inizi gli aveva addirittura concesso una base di addestramento per i suoi militanti ma nel 1998 gli intimò di lasciare il Paese e quello fu per lui l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di un asilo politico. Trovò rifugio in Russia e poi arrivò a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione comunista. Fu una grana diplomatica di proporzioni gigantesche per il neoformato governo D’Alema, con la Turchia che minacciava il boicottaggio delle aziende italiane. Il 16 gennaio 1999, dopo 65 giorni, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi, in Kenya, dove fu catturato dagli agenti dei servizi segreti turchi. Poteva essere la sua fine, invece è stato un nuovo inizio: dal carcere è riuscito a cambiare il paradigma della lotta curda, passando dall’indipendenza e dai postulati marxisti-leninisti a una visione confederale per i popoli del Medio Oriente basata sulla democrazia diretta, sul femminismo e sull’ambientalismo, che oggi è condiviso da gran parte delle organizzazioni curde. I suoi appelli per la pace dall’isola di Imrali non sono, è bene ricordarlo, una novità. Il 28 settembre 2006 Öcalan, tramite il suo legale, Ibrahim Bilmez, chiedeva al Pkk di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia: “È molto importante costruire un’unione democratica tra i turchi e i curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta” aveva scritto. Stesso annuncio nel marzo 2013 quando il leader curdo raggiunse il suo picco di popolarità. Allora Erdogan era primo ministro e, proprio come oggi, considerava Öcalan la chiave per porre fine ai combattimenti. “Questa lotta del nostro movimento quarantenne, che è stata piena di dolore, non è andata sprecata, ma allo stesso tempo è diventata insostenibile”, erano le parole di Apo in un messaggio letto davanti a una folla immensa durante le celebrazioni del capodanno curdo nel marzo 2015. Quattro mesi dopo, il 25 luglio, il cessate il fuoco saltò e il conflitto entrò nella sua fase più sanguinosa: tante città turche del Sudest a maggioranza curda, da Diyarbak?r a Yüksekova, furono distrutte dall’esercito turco. La speranza è che questa volta il sogno si possa avverare.