Le carceri sono piene al 132,4%. “Usare anche l’Ia per svuotarle” di Marco Birolini Avvenire, 4 marzo 2025 I Garanti regionali per i detenuti protestano per il sovraffollamento dei penitenziari. Sale l’allarme suicidi: da inizio anno già in 13 si sono tolti la vita, per un totale di 361 negli ultimi 5 anni. I Garanti regionali per i diritti dei detenuti alzano la voce: il sovraffollamento ha da tempo superato i livelli di guardia, è ora di trovare soluzioni. I detenuti sono 62.132, a fronte di 46.910 posti disponibili, con un tasso di occupazione pari al 132,4 per cento. I dati, diffusi nell’ambito della mobilitazione nazionale indetta dalla conferenza nazionale dei Garanti, fotografano uno scenario di emergenza cronica. Le regioni dove si registra il maggiore sovraffollamento sono la Lombardia, la Puglia, il Veneto e il Molise. Il carcere più sovraffollato, con un tasso del 214%, è San Vittore a Milano, seguito dalla casa circondariale di Foggia e da quella di Brescia Canton Mombello. Il carcere romano di Regina Coeli ha un tasso del 185%. La mancanza di spazi adeguati esaspera la sofferenza, con conseguenze drammatiche. In Italia sono già deceduti nelle carceri 54 detenuti nel corso del 2025. Lo scorso anno furono 248. I suicidi accertati sono stati 13 nei primi due mesi del 2025, dal 2020 sono stati 361. Un trend che lascia sgomenti. “Da anni si cercano vie d’uscita ma senza risultati. In Emilia-Romagna negli ultimi tre anni la popolazione carceraria è aumentata di 500 unità, come se fosse nato un nuovo carcere di cui non ci siamo accorti, un carcere virtuale, superando così le 3.800 presenze permanenti”, ha spiegato il garante emiliano Roberto Cavalieri. Le condizioni dietro le sbarre sono sempre più difficili, tanto che “un detenuto su tre ha passato l’inverno senza riscaldamento e senza acqua calda”. Ma si tratta di un mal comune a quasi tutti gli istituti italiani. Ieri, per sostenere la protesta e fare pressing sul governo, in diverse città sono scesi in piazza associazioni, legali e semplici cittadini. L’emergenza è certificata da Irma Conti, del collegio del Garante nazionale dei detenuti: “Secondo i nostri dati circa 19mila detenuti hanno pene residue fino a tre anni e sulla base nella normativa potrebbero uscire dal carcere optando per misure alternative. La maggior parte delle volte però la burocrazia crea ostacoli”. I limiti del sistema, insomma, non sono solo fisici: anche le scartoffie complicano parecchio le cose. Un rimedio, però, ci sarebbe. Forse futuristico, ma certamente pragmatico. “Per la semplificazione e la sburocratizzazione degli uffici dell’esecuzione penale, una soluzione potrebbe essere l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella fase ricognitiva sulle istanze per le istruttorie finalizzate alle misure alternative e alla scarcerazione”. Ma c’è chi pensa a rimedi più radicali. “La prima cosa che servirebbe oggi alle carceri è un provvedimento deflattivo che riduca drasticamente la popolazione detenuta. So perfettamente che il governo non vuole sentire parlare di amnistia e indulto - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia -. Penso però che se il governo presta tanta attenzione alle esigenze del personale penitenziario è bene che sappia che è allo stremo”. Sotto accusa anche le ultime scelte normative del governo. “Il minorile di Casal del Marmo - ha evidenziato la garante dei detenuti di Roma Capitale Valentina Calderone - rispecchia la condizione attuale: più o meno tre anni fa i ragazzi e le ragazzi negli istituti penitenziari per minori erano intorno ai 300: siamo arrivati agli ultimi dati in cui in tutta Italia sono 610, un aumento di oltre il 100%, non giustificato dal fatto che siano diventati molto più criminali i ragazzi e le ragazze, ma è anche l’effetto di alcune leggi, come lo spaccio di lieve entità inserito dentro al Decreto Caivano”. Per Calderone “è una situazione che da mesi noi troviamo incastrata su se stessa e non si riesce a trovare il bandolo per risolverla. Questi ragazzi stanno chiusi dentro alle loro stanze per tutto il giorno senza fare niente e questo incrementa la spirale di aggressività e di frustrazione”. La lista dei problemi insomma è lunga. Cercasi soluzioni, possibilmente in tempi brevi. “15mila detenuti fuori subito! Non vergognatevi di chiedere l’amnistia” di Angela Stella L’Unità, 4 marzo 2025 “È prevista dalla Costituzione ed è d’accordo anche il personale penitenziario”, dice il Garante del Lazio Anastasia. Il coordinatore Ciambriello: “Nessuna apertura dalle forze di maggioranza”. L’11 marzo l’incontro con Nordio. Ieri mobilitazione dei garanti territoriali dei detenuti in tutta Italia per fare rumore sul “silenzio assordante della politica e della società civile sul carcere”. Anche sulla scia delle parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno per cui, tra l’altro, “abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”, sono stati organizzati conferenze stampa e incontri pubblici dinanzi ai tribunali e agli istituti di pena per chiedere “soluzioni giuridiche immediate sia alla politica che all’Amministrazione penitenziaria” per far diminuire la popolazione detenuta, scongiurare l’aumento dei suicidi già arrivati a 13 dall’inizio del 2025, garantire l’affettività dei reclusi. A Roma il garante regionale Stefano Anastasia insieme alla garante capitolina Valentina Calderone ha tenuto un incontro con i giornalisti, durante il quale ha spiegato che “contro il sovraffollamento serve un provvedimento deflattivo che potrebbe far uscire immediatamente 15 mila detenuti dalle nostre carceri”. “La soluzione più semplice è l’amnistia e l’indulto - ha proseguito Anastasia - che non bisogna avere vergogna di citare e chiedere, anche perché sono previste dalla Costituzione. Il governo da questo orecchio non ci vuole sentire ma siccome dice di prestare particolare attenzione alle condizioni lavorative del personale penitenziario, se ci parlasse si sentirebbe dire che serve un provvedimento di amnistia e indulto, anche perché il personale possa fare meglio il proprio mestiere”. In particolare “il tasso di affollamento nelle carceri del Lazio è del 145,4%, 13 punti in più rispetto a quelle italiane. Il dato, aggiornato a venerdì scorso, è proveniente dal ministero della Giustizia”. A livello nazionale sono 62.132 i detenuti presenti in Italia a febbraio 2025, a fronte di 46.910 posti disponibili, con un sovraffollamento pari al 132,4 per cento, hanno reso noti i garanti. Le regioni dove si registra il maggiore sovraffollamento sono la Lombardia, la Puglia, il Veneto e il Molise. Le Regioni con il minore sovraffollamento sono la Sardegna, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta. Il carcere più sovraffollato con un tasso del 214% è San Vittore a Milano, seguito dalla casa circondariale di Foggia e da quella di Brescia Canton Mombello. Il carcere romano di Regina Coeli ha un tasso di sovraffollamento del 185%. Tra le proposte dei due, Anastasia e Calderone, per migliorare la vivibilità nelle carceri anche quella di prevedere “un numero chiuso programmato sulla base della capienza regolamentare” e “case di reintegrazione per l’accoglienza e la prevenzione della ‘detenzione sociale’”. Come ci ha spiegato Samuele Ciambriello, presidente nazionale della Conferenza dei Garanti, “l’11 marzo mattina incontreremo il Ministro della Giustizia per sottoporgli le nostre richieste. In queste ultime settimane abbiamo già incontrato la segretaria del Pd, Elly Schlein, il presidente del M5S, Giuseppe Conte, Maurizio Lupi presidente di Noi Moderati e una delegazione di Forza Italia. Abbiamo fatto presenti a tutti che nelle nostre carceri ci sono 8000 detenuti che devono scontare solo un anno di carcere. Perché non prevedere una misura deflattiva per loro?”. Purtroppo ci ha detto sempre Ciambriello “non c’è stata una apertura dalle forze di maggioranza ma noi non smetteremo di far sentire la nostra voce”. “Ho inviato anche una lettera alla terna del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Riccardo Turrini Vita, Irma Conti, Mario Serio, ndr). Mi ha risposto al momento solo Serio dicendomi di aver scritto al presidente del Collegio per manifestare la piena solidarietà alla nostra iniziativa”, ha concluso Ciambriello. Dalla politica ieri sono arrivate, tra le altre, le voci della responsabile giustizia del Partito democratico Debora Serracchiani, della senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi e del Segretario di +Europa Riccardo Magi. La prima ha affidato la sua critica ad un post Facebook: “A fronte di una realtà carceraria drammatica come la nostra, dal Governo ancora nessuna riforma sulle misure alternative alla detenzione, nessun intervento per migliorare le condizioni di vita nelle carceri. Le priorità della destra? Accentramento di potere, autonomia differenziata e propaganda securitaria”. “Oggi (ieri, ndr) cittadine, cittadini, giuristi e associazioni scendono in piazza per chiedere un sistema carcerario più equo e riforme concrete che riducano il sovraffollamento e garantiscano condizioni dignitose per detenuti e personale nelle carceri. E come Pd non possiamo che essere con loro: vogliamo un carcere e una giustizia diversi. Più giusti, più umani, più rispettosi della Costituzione”. Anche per Cucchi “le carceri italiane sono in una situazione drammatica e non più sostenibile per una precisa scelta politica del governo Meloni, che le considera una discarica sociale. La destra racconta che le risorse non ci sono, ma è una bugia. Ci sono ma vengono dirottate su progetti inutili. Le politiche del governo aumentano pene e reati alimentando la propaganda della paura”. “Continuerò a visitare, denunciare e raccontare quello che avviene nei nostri istituti di pena. Il carcere è una questione di giustizia sociale e la giustizia sociale riguarda tutte e tutti”, conclude la senatrice di Avs. “Condividiamo pienamente la strada indicata” dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali dei detenuti, “che abbiamo anche tradotto in proposte di legge”, ha dichiarato Riccardo Magi. “Si dovrebbe iniziare a pensare a misure, previste dalla nostra Costituzione, come amnistia e indulto. Ma sappiamo che questo governo, che di garantista non ha nulla, non ha alcuna intenzione di darvi seguito. Eppure, ci sarebbero altri modi per ridurre la popolazione carceraria”. “Il numero chiuso consentirebbe di rispettare la capienza regolamentare. Inoltre - continua Magi - abbiamo depositato una proposta di legge affinché chi ha meno di un anno di pena da scontare possa farlo in case territoriali di reinserimento sociale, strutture volte alla formazione lavorativa e alla formazione professionale”. La senatrice dem Valeria Valente chiede più Icam “in prospettiva però di un loro superamento con le case famiglia” e la cancellazione di “quella norma crudele e inutile del ddl Sicurezza che apre le porte del carcere alle detenute madri e ai loro figli minori di un anno”. Oltre 30 mila detenuti dovrebbero stare fuori. Le colpe della magistratura sul sovraffollamento di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 marzo 2025 Dietro l’emergenza del sovraffollamento carcerario si cela anche una riluttanza culturale dei giudici ad applicare quanto previsto dal codice penale, concedendo le misure alternative e rendendo effettivo il principio del carcere come extrema ratio. Sovraffollamento carcerario che non accenna a diminuire, già quattordici suicidi tra i detenuti da inizio anno. La situazione degli istituti penitenziari italiani resta critica dopo un 2024 da dimenticare, con il record storico di suicidi (90 detenuti) e più in generale di decessi in carcere (246). È per queste ragioni che ieri la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha celebrato una giornata di protesta in tutta Italia, intitolata “Un silenzio assordante sul carcere”. La Conferenza ha diffuso gli ultimi dati sul sovraffollamento: il numero di detenuti presenti a fine febbraio è di 62.132, contro una disponibilità di posti regolamentari pari a 46.910, con un tasso di sovraffollamento che è arrivato a quota 132,4 per cento. I Garanti territoriali chiedono al governo “l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere, sono 8 mila i detenuti in Italia e non hanno reati ostativi”, e anche “l’accesso alle misure alternative per quei 19 mila detenuti che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni”, insieme ad altri interventi sul numero di telefonate a disposizione dei detenuti e sul diritto all’affettività. Non tutti i Garanti, però, hanno aderito alla protesta. Uno di questi è l’avvocato Giancarlo Giulianelli, Garante dei detenuti delle Marche, che al Foglio spiega: “Non ho aderito alla mobilitazione non perché non penso che il problema del sovraffollamento e dei suicidi in carcere non sia reale, ma perché mi è parsa una forma di protesta nei confronti del governo, che non è responsabile del sovraffollamento. I numeri parlano chiaro. Il problema riguarda la ridotta concessione delle misure alternative al carcere, che non è di competenza del governo ma della magistratura”. In effetti i numeri sono chiari e impressionanti: 19 mila detenuti avrebbero diritto di accedere alle misure alternative al carcere in quanto stanno scontando una pena residua inferiore ai tre anni. A questi vanno aggiunti i detenuti ancora in attesa di giudizio (basti pensare che 9 mila attendono addirittura una sentenza di primo grado). Sui primi, quelli che stanno scontando una pena, la responsabilità è della magistratura di sorveglianza, sui secondi è della magistratura in generale. “Se il 65 per cento dei detenuti, tra condannati non definitivi e condannati con pene residue inferiori a tre anni, potrebbe accedere a una misura alternativa ma resta in carcere mi pare evidente che ci sia un problema con la magistratura”, ribadisce Giulianelli. “In sede di Conferenza ho cercato di dire che noi Garanti dovremmo spendere due parole nei confronti della magistratura, ma nel comunicato sulla giornata di mobilitazione non se ne fa cenno. Questo perché la Conferenza dei garanti ha un orientamento di sinistra. Io ho una posizione da tecnico, da avvocato che da decenni si occupa dei problemi dei detenuti”, attacca Giulianelli. Il Garante dei detenuti delle Marche concorda con chi chiede lo stanziamento di maggiori risorse per il personale penitenziario e la magistratura di sorveglianza. Tuttavia, rintraccia nel ridotto numero di concessione delle misure alternative al carcere una resistenza di tipo culturale da parte delle toghe. “È sufficiente citare un dato. Il codice penale prevede che l’esito positivo del periodo di affidamento in prova ai servizi sociali estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale. Questo è un ostacolo di ordine psicologico prima che giuridico. Al magistrato la ‘pulizia’ totale del passato dei detenuti non piace”, riflette Giulianelli. Insomma, dietro l’emergenza sovraffollamento non si cela soltanto una carenza di risorse economiche e di personale della magistratura, soprattutto di sorveglianza, ma anche una riluttanza culturale dei giudici ad applicare quanto previsto dal codice penale per rendere effettivo il principio del carcere come extrema ratio. Un elemento di cui il Guardasigilli Carlo Nordio dovrebbe tener conto. Ermes Antonucci Fatiscenti e sovraffollate, carceri minorili al collasso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2025 Erano il nostro fiore all’occhiello, ora sono fuori controllo: a Bologna reclusi trasferiti negli istituti per adulti per mancanza di spazio. E a Treviso scoppia il caso dei ragazzini che dormono sui materassi per terra. Fino a pochi anni fa, l’Italia era considerata un esempio virtuoso in Europa per il suo approccio alla giustizia minorile, basato sulla riabilitazione e sul reinserimento sociale. Oggi, però, quel sistema è in frantumi. Le carceri minorili, un tempo fiore all’occhiello del Paese, sono travolte da una crisi senza precedenti: sovraffollamento, condizioni disumane e una deriva punitiva che rischia di compromettere decenni di progressi. A lanciare l’allarme sono associazioni, politici e osservatori indipendenti, che denunciano il collasso di un modello fondato sull’articolo 27 della Costituzione, il quale sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il trasferimento dei giovani adulti alla Dozza - Il campanello d’allarme arriva da Bologna, dove il ministero della Giustizia ha deciso di trasferire 50 giovani adulti - ex minorenni al momento del reato - da istituti penali minorili a sezioni del carcere per adulti della Dozza. La misura, che dovrebbe essere temporanea, ha scatenato un coro di proteste. Una rete di oltre 15 associazioni - tra cui Albero di Cirene, AltroDiritto e la Cappellania del carcere “Rocco D’Amato” - ha pubblicato un appello per chiedere trasparenza e garanzia di continuità nei percorsi educativi. “I trasferimenti non possono basarsi solo su metri quadrati e numeri - si legge nel comunicato -. Questi giovani hanno diritto a non vedere interrotte le relazioni costruite con operatori e volontari, fondamentali per il loro futuro”. Il timore è che il passaggio a strutture per adulti, spesso caratterizzate da logiche meramente contenitive, vanifichi anni di lavoro. “Il carcere è società: restituire una persona formata e consapevole è un vantaggio per tutti”, sottolineano le associazioni, citando le parole del presidente Mattarella (“I detenuti devono respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti al crimine”). Ma la mancanza di dialogo con il territorio e le realtà civili rischia di trasformare i trasferimenti in un boomerang, disumanizzando non solo i detenuti, ma l’intera collettività. Treviso: il simbolo del degrado con un sovraffollamento del 200% - Se Bologna rappresenta una preoccupazione per il futuro, Treviso è l’emblema del presente disastroso. Il carcere minorile della città veneta, progettato per 12 detenuti, ne ospita oggi 25: un sovraffollamento del 200%. Durante una visita congiunta, esponenti del Pd e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino hanno descritto una realtà “indegna di un Paese civile”. I ragazzi, alcuni di 15 anni, dormono su materassi a terra in celle promiscue, condividono bagni fatiscenti - “docce su grate sopra i water” - e hanno accesso a un’unica aula scolastica, buia e inadatta. “Qui la rieducazione è un’utopia”, denuncia l’europarlamentare Pd Alessandra Moretti. Il campo da calcio, riaperto dopo un anno e mezzo di chiusura, è condiviso con il carcere per adulti, mentre il turnover elevato rende impossibile programmare percorsi formativi. A peggiorare il quadro, un esposto del 2022 per carenze di sicurezza e mancato rispetto delle norme antincendio, ancora senza risposta. La soluzione - l’apertura del nuovo istituto di Rovigo - è bloccata da ritardi burocratici, mentre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe presto condannare l’Italia per la seconda volta dopo il 2013. L’analisi di Antigone: “Criminalizzare i minori è autodistruttivo” - A confermare la portata sistemica della crisi è Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, da quasi trent’anni impegnata nel monitoraggio carcerario. “Visitare un carcere minorile oggi è un pugno allo stomaco - racconta -. Giovani rinchiusi in celle luride, sedati da psicofarmaci, senza prospettive”. Marietti punta il dito contro la svolta punitiva del governo: “Si è passati da un modello educativo a una logica di mera repressione. Il sottosegretario Ostellari si vanta dell’aumento dei detenuti minorili, ma è una vittoria di Pirro: più carcerazione senza riabilitazione significa più criminalità domani”. L’apertura di sezioni minorili in strutture per adulti, come alla Dozza, è l’ultimo tassello di una deriva. “Trasferire 70 ragazzi senza curare i loro percorsi è inedito e disastroso - aggiunge Marietti -. L’Europa ci guardava come modello, ora assiste al nostro suicidio sociale”. Di fronte a questo scenario, le associazioni chiedono un cambio di rotta. Non basta costruire nuovi istituti o spostare detenuti: serve ripristinare un dialogo con la società civile, investire in formazione, lavoro e salute mentale. Come ricorda Papa Francesco nella lettera citata dall’appello bolognese: “Ciò che viene costruito sulla forza finisce male”. Come osservano vari osservatori dei diritti umani, la strada per risolvere la crisi esiste, e l’Italia l’ha già percorsa: negli anni 80-90, gli Ipm erano luoghi di innovazione, con tassi di recidiva tra i più bassi d’Europa. Come ha sottolineato più volte associazioni come Antigone, il primo passo è recuperare una visione pluriennale, capace di sostituire i decreti “spot” - come il Caivano - con un piano strutturato che riporti al centro la specificità della giustizia minorile. Per sottrarre i ragazzi alla seduzione della criminalità - che offre denaro e riconoscimento sociale immediato - occorre proporre alternative desiderabili. Laboratori professionali, percorsi scolastici stabili, collaborazioni con aziende per inserimenti lavorativi: sono strumenti che costruiscono un orizzonte positivo. Oggi metà dei minori detenuti potrebbe scontare la pena in strutture alternative. Servono case-famiglia, comunità terapeutiche, misure come l’affidamento ai servizi sociali. È paradossale che un Paese con un tessuto associativo vivace come l’Italia non sappia valorizzare le reti territoriali già esistenti, dal volontariato alle cooperative sociali, per accogliere questi ragazzi. È urgente ricostituire un dipartimento autonomo che ripristini l’approccio educativo e psicosociale. La cultura minorile che ci rese un esempio va recuperata. Ciò significa formare operatori e agenti penitenziari in modo congiunto, per comprendere le cause del disagio minorile e sviluppare strategie comunicative efficaci. Molti agenti sono giovani quasi quanto i detenuti: investire su di loro come figure educative, non solo di controllo, può trasformare le dinamiche dentro gli istituti penitenziari per minori. Serve il coraggio di ripartire da lì, riscoprendo l’articolo 27 della Costituzione non come una formula retorica, ma come un impegno concreto. Perché, come scrivono le realtà del volontariato, “il carcere è società”: ciò che accade dietro le sbarre riguarda tutti. Restituire alla collettività un giovane consapevole dei propri errori, ma anche delle proprie potenzialità, non è un atto di buonismo: è l’unico vero antidoto all’illegalità. Il carcere sia l’extrema ratio, usare lo strumento della depenalizzazione di Vincenzo Musacchio huffingtonpost.it, 4 marzo 2025 È necessario poter selezionare i delitti di maggiore allarme sociale limitando la carcerazione solo a simili fattispecie criminose che comprovino anche una pericolosità del reo tale da prevedere la restrizione intramuraria. Il carcere potrebbe essere l’extrema ratio delle conseguenze penali a cui il reo può essere sottoposto. Per far questo, però, occorrerà una seria ed efficace opera di depenalizzazione. È necessario poter selezionare i delitti di maggiore allarme sociale limitando la carcerazione solo a simili fattispecie criminose che comprovino anche una pericolosità del reo tale da prevedere la restrizione intramuraria. Il nostro legislatore dovrebbe avere una buona volta il coraggio necessario per attuare una simile riforma. In galera si deve andare quando c’è una reale pericolosità sociale. Sono anche contrario alla custodia cautelare in carcere e favorevole alle pene alternative e domiciliari in tutti i casi ove sia possibile. Occorrono, tuttavia, nuove carceri, più dignitose e rieducative. I cittadini, però, devono sapere che lo Stato punisce chi va punito. Mafie, terrorismo, corruzione ed evasione fiscale dovrebbero rientrare tra i delitti di maggior allarme sociale. Le tendenze iper-incriminatrici emerse più volte negli ultimi anni, purtroppo, depongono a sfavore di una simile riforma di depenalizzazione. Eliminando una serie di delitti quasi privi di allarme sociale si sfoltirebbe la popolazione carceraria in modo particolare con riferimento a quei soggetti condannati che dovrebbero ancora scontare pene molto brevi. Molte condotte oggi penalmente rilevanti ben potrebbero trovare collocazione nella categoria degli illeciti amministrativi e come tali essere soggetti ad una sanzione amministrativa. Per questo tipo di riforma, tuttavia, occorre una rieducazione politica e culturale della società che vede nella pena la risoluzione di tutti i mali. Credo sia arrivato il momento di bonificare il codice penale da una serie di reati che ormai non destano più alcun allarme sociale. La depenalizzazione avrebbe dovuto essere anche il necessario supporto del nuovo rito penale di matrice accusatoria. In Italia, invece, non abbiamo una adeguata politica criminale da almeno trent’anni. Criminalizzare qualsiasi comportamento antisociale pensando di risolvere il problema con l’uso della sanzione penale si è dimostrato nei fatti essere un percorso errato. L’applicazione della pena va riservata a quelle condotte che ledono realmente beni di rilevanza costituzionale e va affidata a persone realmente competenti e all’interno di un processo penale concretamente funzionante. Il primo vantaggio della depenalizzazione sarebbe l’alleggerimento del carico giudiziale per i magistrati che, in tal modo, si potrebbero dedicare ai processi per reati più gravi, senza perdere tempo in questioni che potrebbero essere risolte tranquillamente dal Prefetto o dal Questore. La depenalizzazione ha in sé numerosi vantaggi sia per lo Stato (processi penali più celeri e carceri meno affollate) sia per la collettività (meno reati e pene più certe). Depenalizzando, infine, sarebbe molto più agevole raggiungere anche gli obiettivi prefissati per ottenere i fondi del Pnrr. Carriere separate: il no “trattabile” dell’Anm a Meloni di Valentina Stella Il Dubbio, 4 marzo 2025 La posizione ufficiale delle toghe è di chiusura. Ma qualcuno apre al sorteggio temperato. Il 5 marzo alle 15.30 la premier Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano incontreranno la giunta esecutiva dell’Associazione nazionale magistrati per discutere di separazione delle carriere. Nella mattinata invece vedranno il presidente e il segretario dell’Unione Camere penali, Francesco Petrelli e Rinaldo Romanelli. Nelle ultime ore, la presidente del Consiglio continua a confermare la sua apertura al dialogo, ma non c’è conferma né smentita circa l’ipotesi che il governo sarebbe disposto a concedere il sorteggio temperato per la designazione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura. Al momento il ddl costituzionale prevede una forma di “sorteggio secco” per le toghe che siederanno sulle poltrone dei due futuri Csm distinti per giudicanti e requirenti. Allo stesso tempo, la norma in discussione al Senato contempla una sorta di sorteggio temperato per i membri laici, che sono destinati ad essere sorteggiati nell’ambito di una rosa compilata mediante elezione dal Parlamento in seduta comune entro sei mesi dal suo insediamento. Una scelta discriminatoria e punitiva per i magistrati, l’unico modo per spezzare il potere delle correnti secondo, invece, la maggioranza politica. La proposta che potrebbe arrivare dalla Meloni, o meglio dal suo fidato consigliere in materia di Giustizia, Alfredo Mantovano, che starebbe seguendo il dossier per lei, è quello di un “sorteggio degli eleggibili”: si voterebbe all’interno di una platea di magistrati inizialmente sorteggiati. Ma l’Anm sarebbe pronta ad accettare questo compromesso? Secondo il giurista Giorgio Spangher, già membro laico di Palazzo Bachelet, “l’Anm dovrebbe considerare persa la battaglia per scongiurare due Csm distinti. Se il governo cedesse su questo punto, sarebbe come dire che non porta avanti più la riforma. Adesso quindi, se verranno confermate le indiscrezioni che vorrebbero l’esecutivo pronto a ripensare il sorteggio, l’Anm si troverebbe dinanzi ad un importante bivio”. Secondo il processual-penalista, “posto che non vanno demonizzate le correnti, bensì le loro degenerazioni, il nocciolo vero è il potere che attualmente hanno nel Consiglio superiore di decidere gli incarichi direttivi. Ricordiamoci che i sistemi elettorali non sono mai neutri, in politica e come in questo caso. Con un sorteggio puro, potrebbe accadere che vengano sorteggiati tutti componenti di Magistratura indipendente o tutti di Area. O che le maggiori correnti non riescano a spartirsi equamente i due membri eletti tra i magistrati di legittimità. O che venga sorteggiato più di qualcuno non iscritto ai gruppi associativi e quindi non controllabile”. Aggiunge il professore: “Non dimentichiamoci, a parte il discorso delle quote rosa, anche del fattore della territorialità. Alcuni correnti hanno dei veri e propri fortini in alcune procure. Non potrebbero lasciare tutto al caso. E comunque sarebbe opportuno che ad esempio venissero sorteggiati solo magistrati dei distretti del sud e nessuno del Nord? Sono tutte questioni che devono essere prese in considerazione e che andranno affrontate sicuramente con la legge ordinaria”. Comunque tutto questo - ribadisce Spangher - “è assolutamente da evitare dal loro punto di vista. E allora potrebbe essere ben accolta la proposta di un sorteggio temperato, perché le correnti potrebbero meglio gestire l’elezione tra la rosa dei sorteggiati. In fondo parliamo di 8.000 magistrati. Però questa previsione potrebbe anche essere usata dal governo per spaccare il fronte della magistratura”. Come vi abbiamo già raccontato sul Dubbio, l’Anm si presenterà all’incontro di Palazzo Chigi avendo detto ripetutamente in questi giorni che non si tratta su nulla, compreso il sorteggio. Certo, poi sarà il “parlamentino” del sindacato delle toghe a doversi esprimere sull’eventuale apertura il prossimo 8 marzo, ma al momento il fronte, almeno a parole, sembra compatto: tutti i gruppi associativi, tranne i CentoUno - che però non sono nella giunta e hanno solo due componenti nel Cdc - si dicono contrari al lancio dei dadi per i togati del governo autonomo della magistratura. “Tuttavia”, fa notare sempre Spangher, “c’è una parte di Magistratura indipendente che sarebbe disposta ad accettare il compromesso del sorteggio temperato pur di non perdere in futuro la maggioranza relativa che mantiene al momento. Mentre una corrente come quella di Area invece, anche pensando alla propria base elettorale, rimarrebbe ferma nella sua netta contrarietà”. Questo quadro delineato da Spangher non è poi così lontano dalle indiscrezioni e dai racconti ufficiali delle ultime settimane, che hanno fatto emergere come il fronte progressista dell’Anm - AreaDg e Magistratura democratica - andrebbe dritto verso il totale rigetto di qualsiasi ipotesi di modifica della riforma, confermando la piena contrarietà a tutto il ddl costituzionale, mentre una parte della corrente conservatrice di Mi potrebbe anche essere disposta ad “ingoiare” con neanche troppa amarezza il sorteggio temperato. “È solo una formalità”: l’Anm incontrerà Meloni, ma pensa già al referendum di Giulia Merlo Il Domani, 4 marzo 2025 Il governo ha già detto che non tornerà indietro sulla separazione delle carriere. Le toghe non accetteranno compromessi. E sono pronte a lavorare per il No. I più drastici, tra le toghe progressiste, sono trancianti: “É tutto un bluff”. I più dialoganti, tra i moderati, si limitano a un prudente: “Ascoltare è correttezza istituzionale”. La sensazione, alla vigilia dell’incontro di mercoledì 5 marzo sulla riforma della separazione delle carriere tra l’Associazione nazionale magistrati e la premier Giorgia Meloni con il guardasigilli Carlo Nordio, è che l’esito sarà un nulla di fatto. O meglio, che si tratti di un passaggio necessario in cui entrambe le parti certificheranno la distanza delle rispettive posizioni. Per guardare poi oltre: il governo all’approvazione della riforma costituzionale così com’è stata già approvata in prima lettura alla Camera; l’Anm alla mobilitazione dell’opinione pubblica in vista del referendum, dopo aver testato la condivisione interna del no grazie allo sciopero con l’80 per cento di partecipazione. Del resto, la posizione di tutta la maggioranza di centrodestra è granitica, come ha certificato anche il ministro Nordio. Il testo costituzionale già approvato non si tocca e la separazione delle carriere è l’obiettivo chiaro e conclamato. Margine di discussione, tuttavia, c’è sulle leggi ordinarie che daranno applicazione alla riforma. Nello specifico, nella parte che riguarda il sorteggio per i membri laici e togati dei due futuri Consigli superiori e dell’Alta corte disciplinare. Si potrà dunque ragionare di “temperare” il sorteggio inserendo dei paletti sui profili tra cui sorteggiare, riducendo così la platea e garantendo se non la rappresentanza almeno un curriculum specchiato e il rispetto del genere. Questa è la linea soprattutto di Fratelli d’Italia, che negli ultimi giorni ha moderato i toni delle dichiarazioni (e anche Nordio, in viaggio in sud America, ha scelto il silenzio stampa sul tema) e Forza Italia sarebbe d’accordo. Tuttavia l’apertura almeno formale nei confronti delle toghe è in gran parte giustificata dalla moral suasion esercitata dal Quirinale, sempre attento al dialogo tra istituzioni e presidente del Csm, cui si è aggiunta la volontà di Meloni di un abbassamento dei toni. Troppi, attualmente, sono i fronti aperti intorno a lei e - dopo l’affondo nei confronti delle toghe dopo le sentenze sui migranti e la condanna al sottosegretario Andrea Delmastro - ora ha preferito una dimostrazione di apertura. Anche perché, viene spiegato, la strategia è quella di isolare le toghe più politicizzate, come del resto fatto in tutti gli interventi pubblici, tentando di far passare il messaggio che la riforma non sia “contro la magistratura”, ma un modo per limitare lo strapotere delle correnti. Dal canto suo l’Anm è in fase di riorganizzazione dopo l’elezione della nuova Giunta ma per ora l’unità interna regge. Tutti i gruppi - dai progressisti di Magistratura democratica ai conservatori di Magistratura indipendente che hanno espresso il presidente Cesare Parodi - sono uniti intorno al no alla riforma, come emerso dal deliberato dell’assemblea straordinaria di dicembre. Nonostante la moderazione del presidente e il suo tentativo di non attaccare in modo frontale il governo, quel che emerge da fonti interne a tutti i gruppi è che un margine di contrattazione non ci sia. “Non è immaginabile nessun baratto tra sorteggio temperato e separazione delle carriere con due Csm”, è il ragionamento interno di Unicost. Lo stesso vale per Area, che si rispecchia nella posizione espressa dal segretario dell’Anm Rocco Maruotti, secondo cui è sostanzialmente impossibile che al comitato direttivo centrale “si formi una maggioranza di possibile apertura di fronte alle proposte del governo”. Maruotti e Parodi, in questo momento, sembrano dividersi i ruoli: il primo con toni duri, il secondo più conciliante. Una dinamica da “poliziotto buono, poliziotto cattivo”, viene descritta scherzosamente all’interno, anche se viene garantita la sinergia tra i due. Per tutti i gruppi esiste un punto fermo comunque, rappresentato dal deliberato dell’assemblea del 15 dicembre, in cui l’unico margine di dialogo con il governo si aprirebbe in caso di sostanziale rivisitazione dell’impianto della riforma nella sua complessità. Senza una disponibilità di questo tipo, l’incontro è solo una formalità in cui la partecipazione è d’obbligo ma l’esito scontato. Del resto le toghe sanno bene che una riapertura del testo costituzionale è impensabile perché una modifica anche minima costringerebbe al ritorno alla Camera che, politicamente, significherebbe una sconfessione di Nordio e, praticamente, il rischio di non approvare il testo entro la fine della legislatura. Per questo tutti i gruppi stanno iniziando a ragionare all’altro pezzo del deliberato del 15 dicembre, che contiene la costituzione del comitato per il no (per ora congelato, in attesa dell’approvazione in Senato del testo) alla riforma, in vista del referendum costituzionale. Un referendum senza quorum, su cui peseranno due fattori: il livello di popolarità del governo nella fase politica in cui si svolgerà e la certezza che diventerà un quesito soprattutto su Meloni agli sgoccioli del suo mandato. L’obiettivo dei gruppi è quello di costituire un comitato con nomi di spessore anche esterni alla magistratura, che possa fare da traino popolare per il voto contrario senza lasciare che il tema diventi solo un argomento politico in mano ai partiti di opposizione in ottica anti-meloniana. La sensazione, emersa anche durante le assemblee tenute nella giornata dello sciopero del 27 febbraio, è che l’Anm debba fare un salto di qualità anche comunicativo per coinvolgere la cittadinanza e non solo gli addetti ai lavori. Operazione non facile in una fase in cui le toghe - secondo il sondaggio di Demos per Repubblica - è considerata “politicizzata” dal 54 per cento degli intervistati. Il percorso è ancora lungo, tuttavia, e molte sono le variabili anche intorno al consenso del governo Meloni. Intanto mercoledì 5 marzo la premier e il guardasigilli incontreranno alle 11 del mattino l’Unione camere penali, promotori da sempre e in prima linea anche ora nella battaglia per la separazione delle carriere tra giudici e pm. Solo dopo, alle 15.30, toccherà all’Anm. Penalisti prima e magistrati poi: un segnale eloquente soprattutto peri secondi. La metamorfosi del pubblico ministero di Fabio Pinelli* Il Foglio, 4 marzo 2025 Dagli anni Novanta, il pubblico ministero ha conosciuto una profonda trasformazione. L’equivoco dell’essere parte imparziale nel processo e la riforma della separazione delle carriere. L’analisi del vicepresidente del Csm. Viviamo un’epoca di grandi trasformazioni della società, dal punto di vista sociale, culturale, demografico, economico e, non da ultimo, degli stessi meccanismi di formazione del consenso e del modo di fare politica. Anche il diritto - che nella società si radica - è stato interessato da profondi mutamenti che, dagli anni Novanta del secolo scorso fino a oggi, hanno toccato in modo radicale il processo penale e il ruolo degli attori di questo processo. Ventuno magistrati uccisi da terrorismo e mafia, le conseguenze politiche delle inchieste sulle corruzioni nei primi anni Novanta, l’interesse nel mondo politico a utilizzare le inchieste penali per la lotta politica e del mondo giornalistico nel darne un connotato scandalistico, hanno consegnato a una parte della magistratura il convincimento di potersi costituire come protettrice permanente della Repubblica e di dover conseguentemente svolgere una missione di pulizia morale del Paese. A partire da quegli anni, si manifestò una sorta di entusiasmo punitivo di massa, sollecitato dagli spiriti animali dell’antipolitica: demagogie, populismi, sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che fosse pubblico, beatificazione delle procure, il processo e la pena come lavacri per l’intera società. La comunicazione tv, specie quella delle reti commerciali, attivava l’entusiasmo punitivo mostrando gabbie, manette e cortei plaudenti ai pubblici ministeri e alla giustizia penale. Questo convincimento fece ritenere a taluni magistrati che non dovessero limitarsi ad accertare eventuali responsabilità individuali, ma semmai essere titolari di un controllo diffuso di legalità, inteso come verifica preventiva che la legalità non fosse stata in ipotesi violata. Ma attribuire al magistrato il controllo di legalità significa trasferire al potere giudiziario la sovranità propria del potere politico. Il controllo della legalità è, secondo i casi, compito della politica, della pubblica amministrazione e della polizia; compito del magistrato invece è, come abbiamo detto, l’accertamento delle responsabilità individuali. Tutte le indagini penali, anche quelle meno rilevanti, hanno un carattere totalizzante per la loro gravità simbolica: la superiorità infinita dell’inquirente rispetto all’inquisito, un nucleo etico, risalente all’antica confusione tra reato e peccato, il potere di stabilire il confine tra libertà e prigionia, la sacralizzazione delle vittime che chiedono, a volte in modo spettacolare, una giustizia modellata sulle proprie aspettative. Nella parte della magistratura meno avvertita dei limiti costituzionali delle proprie funzioni, il clima di consenso dell’opinione pubblica e di annichilimento della politica generò l’idea di poter svolgere una funzione salvifica, sotto il grande ombrello (così grande da perderne i limiti e i confini) del codice penale. Nella società cominciò a farsi strada l’idea che il magistrato potesse davvero sostituire il politico nel governo del paese. I mezzi di comunicazione sfruttarono la popolarità delle inchieste, per farne argomento principe delle prime pagine e dei talk show. Nel mondo politico le inchieste cominciarono a essere utilizzate nella lotta contro l’avversario. Attorno alla magistratura e alle sue indagini cominciò ad aggregarsi, verso la metà degli anni Novanta, una domanda di incidenza politica, che smascherasse le malefatte, vere o presunte, delle classi dirigenti. Questa domanda si radicò in parte della società, parte dei mezzi di comunicazione e parte dello stesso mondo politico. Quello che accade dopo è frutto del radicamento di quella domanda. La figura processuale che a seguito di tutto ciò si è modificata in questi anni è proprio quella del pubblico ministero. Il pubblico ministero è diventato infatti un polo di attrazione. Alle contingenze storiche, si è poi accompagnato un mutamento del modello strutturale del processo penale avvenuto con la riforma Vassalli. Questa riforma, infatti, ha avuto certamente il pregio - almeno nell’intento del legislatore - di mettere al centro del processo penale il contraddittorio nella formazione della prova e la parità delle armi tra accusa e difesa, principi che sarebbero poi stati costituzionalizzati nel 1999 con la legge costituzionale sul “giusto processo” che ha riscritto l’articolo 111 della Costituzione. Tuttavia, essa ha portato con sé anche l’idea di una metamorfosi del pm. Una sorta di mutamento di specie del magistrato della pubblica accusa, con una visione del processo tendenzialmente come confronto di parti avversarie, che deve inevitabilmente sfociare in un risultato della contesa: la vittoria o la sconfitta. Nel processo come contesa vince il più bravo, non necessariamente chi ha ragione, e la verità storica degli accadimenti resta un attore non partecipante, la sussumibilità della condotta nella fattispecie tipica, una sfumatura interpretativa. A questo progressivo mutamento di ruolo nel processo del pubblico ministero si è poi ulteriormente accompagnata la convergente crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale, divenuta una vera e propria ipocrisia costituzionale, impraticabile nella concreta vita giudiziaria, che ha finito per nascondere le scelte discrezionali compiute dalla pubblica accusa su an e quando della persecuzione penale. Il pubblico ministero ha iniziato a essere avvertito come dominus incontrollato delle stesse politiche criminali del paese e dall’esterno si è cominciato a guardare con maggiore preoccupazione e diffidenza il potere assunto dalla sua figura. La crisi reputazionale della politica ha iniziato a interessare anche la magistratura. Troppe volte, in certa magistratura è emersa la prevalenza della dimensione del potere, sulla dimensione del servizio e questo i cittadini lo hanno percepito. Non è quindi un caso che oggi il pubblico ministero sia divenuto il vero e proprio punto di attrazione del dibattito sulla giustizia penale. È inevitabile, per certi aspetti fisiologico, che su riforme della portata di quella in discussione, che impattano sulla stessa architettura costituzionale, si sviluppi una dialettica di opinioni contrapposte. Essa è assai utile per non deflettere dai fondamentali princìpi di autonomia e di indipendenza della magistratura, nella doverosa e contestuale comprensione, però, delle esigenze che la riforma intende perseguire: l’idea che la distinzione funzionale tra pubblico ministero e giudice debba trovare un corrispettivo anche sul piano di una distinzione ordinamentale, al fine di una più compiuta attuazione dei princìpi costituzionali di parità delle armi tra accusa e difesa e di terzietà del giudice. Le ragioni storiche che ho sommariamente tratteggiato, e che possono al più essere un contributo per ricostruire l’evolversi di certe dinamiche sociali, non devono però mai divenire motore di istanze rivendicative incarnate dai cittadini nei confronti della magistratura, in un clima che non dà merito del giusto riconoscimento morale e sociale, dell’enorme lavoro compiuto quotidianamente dai magistrati al servizio del paese. La delegittimazione della magistratura mina alla radice la salute della nostra democrazia. Tutti noi abbiamo avuto consapevolezza nel tempo, di quale disastro sociale abbia comportato la demolizione della politica, una sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che fosse pubblico e contenesse la parola “politica”. L’invocazione alla necessità di aprire “il Parlamento come una scatoletta di tonno”. La polverizzazione dei partiti politici come luoghi di crescita, di condivisione di valori, di ideali, di prospettiva del mondo, di confronto per i giovani, è stato un enorme danno per la democrazia. Ha comportato una carenza di partecipazione dei cittadini alla vita delle comunità, ha aumentato il senso di sfiducia nelle istituzioni, ha favorito una democrazia per delega e incentivato i leaderismi. Il sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Roma ha non solo puntualizzato che è in discussione una riforma della giustizia per i cittadini e non contro la magistratura, ma ha aperto al dialogo e invitato la magistratura a non perdere l’opportunità di un confronto ancorché critico sui contenuti. La magistratura - mi permetto - accolga questo invito. Ne va della salute della nostra democrazia, che ciascuno di noi ha il dovere di proteggere. Oggi il 60 per cento della popolazione mondiale è guidata da governi non democratici. La democrazia non è scontata e non si trova in natura. E non esiste democrazia senza una magistratura libera, competente, autorevole, autonoma e indipendente. L’”equilibrio” deve essere ricercato non solo nei contenuti delle soluzioni riformiste, ma anche nella forma del dibattito su queste, nei limiti delle attribuzioni di ciascuno. E’ fondamentale che ogni sforzo riformatore e ogni contributo di scienza giuridica e di competenza professionale sia volto a costruire un sistema che, a fronte della congenita asimmetria strutturale del processo penale, attribuisca ad accusa e difesa equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale. Ciò può avvenire solo riconoscendo all’accusato diritti per recuperare lo svantaggio iniziale nella formazione della prova, nella consapevolezza che il pubblico ministero, a un certo punto del procedimento, è divenuto irrimediabilmente “parte”. Non si può infatti concentrare l’attenzione solamente sulla pubblica accusa, perché è dagli atteggiamenti interpretativi e valutativi del giudicante che dipendono le più importanti criticità in materia di misure cautelari, rispetto alle quali non pare naturale che faccia notizia, come accaduto anche recentemente, quando il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta del pubblico ministero. Allo stesso modo è opportuno metabolizzare che proprio dagli atteggiamenti interpretativi e valutativi del giudice dipenderà la sorte dei rimedi che la riforma Cartabia ha approntato sui passati difetti di filtro dell’udienza preliminare. Condividiamo tutti insieme, politica, magistratura e avvocatura, la riflessione di una giustizia per i cittadini, di un diritto penale per i cittadini. Come dice Massimo Donini, “poteri divisi ma saperi condivisi”. L’obiettivo è chiaro e riguarda ciascuno di noi: come diceva Seneca, non esiste alcun vento favorevole per chi non sa a quale porto vuole approdare. *Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Riforma Nordio: anche i magistrati onorari in guerra di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2025 Coprono il 90% dei dibattimenti penali e il 50% come giudici nei tribunali. “Intervenga Mattarella”. Di fatto sono un terzo della magistratura: 4500, che si aggiungono ai poco meno di 10 mila magistrati togati. Pochi lo sanno, ma buona parte del lavoro dei palazzi di giustizia è svolto dai magistrati onorari. Per avere un’idea, portano avanti fino al 90% dei dibattimenti penali per conto delle Procure, e circa il 50% come giudici. In ambito civile si occupano delle cause sotto ai 50 mila euro, circa la metà del contenzioso. Per anni sono stati i precari della giustizia, pagati a cottimo, senza contribuzione o malattia, non reclutati attraverso concorsi. Erano stati pensati come un rimedio temporaneo, che nella più classica delle situazioni all’italiana è diventato nel tempo definitivo, senza però una vera e propria formalizzazione. Fino a diventare un problema. Non potendo essere aggregati alla magistratura ordinaria, che viene selezionata attraverso un concorso, di proroga in proroga quell’incarico temporaneo si è trasformato in un lavoro a tutti gli effetti, molti magistrati onorari sono stati responsabili di ruoli giudiziari. Ma senza un riconoscimento contrattuale. Ecco perché a un certo punto sono cominciate le prime cause di lavoro che hanno portato all’apertura una procedura d’infrazione aperta dall’Unione europea. Per sanare la situazione il governo Draghi aveva definitivamente varato dei concorsi ad hoc, ma ora un ddl voluto dal ministro Carlo Nordio, in discussione al Senato, ha rimesso in discussione i compensi previsti e rischia di riportare i giudici onorari sul piede di guerra. I concorsi, indetti per assorbire il bacino di precari, tenevano inizialmente in considerazione il criterio di anzianità: erano previste retribuzioni fino a 33 mila euro lordi per coloro che erano da più tempo magistrati onorari. “In qualche modo era una forma di riconoscimento di un indennizzo, anche perché l’accettazione dell’incarico implicava la rinuncia al contenzioso - spiega Maria Giovanna Miceli, viceprocuratore onorario a Lecce e membro del direttivo Amne, associazione magistrati onorari non esclusivisti -. In quel modo, previsto dalla legge Cartabia, si andava anche incontro a quanto richiesto dall’Europa”. Il governo Meloni decide però di rimettere mano alla disciplina dei magistrati onorari. E di introdurre due categorie: gli esclusivisti e i non esclusivisti. I primi sarebbero i magistrati onorari che rinunciano a svolgere altre professioni, a cui viene riconosciuta una retribuzione di 58 mila euro lordi annui (quasi il doppio di quanto previsto originariamente). Gli altri (che sono 2400, cioè più della metà del totale) sono coloro che continuano a esercitare altre professioni, tipicamente l’avvocato in altri distretti, l’insegnamento o compiti in altre amministrazioni pubbliche: questa categoria, assimilata a un part time, viene penalizzata nel trattamento, con un tetto di retribuzione abbassato a 25 mila euro. “È un sopruso inaccettabile - dice ancora Miceli - Praticamente prima viene indetto un concorso, poi, una volta concluso, e una volta che le persone che vi hanno partecipato rinunciano al contenzioso legale, vengono cambiate le condizioni in peggio. Senza contare che se si tiene in considerazione il costo del lavoro orario, c’è una chiara discriminazione per chi sceglie il tempo parziale. Molti di noi non sono in condizioni di lasciare l’altra professione che svolgono perché magari hanno versato contributi per anni, che in questo modo andrebbero perduti. Lo Stato italiano rischia una nuova ondata di cause sul lavoro. Abbiamo mosso questi rilievi in tutte le sedi, ma nessuno ci ha ascoltato. Nei prossimi giorni invieremo una lettera anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella” Scoperture e app in tilt: ecco il vero caos giustizia di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2025 Altro che separazione delle carriere: manca il 30% del personale amministrativo. L’arretrato nel civile è cresciuto del 3,5%. Scoperture negli organici dei magistrati. Carenze croniche del personale amministrativo, in parte rimpiazzato in varie città d’Italia da volontari. Procure e tribunali che soffocano sotto migliaia di fascicoli. Gli sforzi nell’abbattimento dell’arretrato, penale e civile, hanno prodotto anche risultati significativi. Ma, avvertono le toghe, senza cambiamenti strutturali rischiano di non influire davvero sulla durata dei processi. L’arretrato civile, ad esempio, nel 2024 è tornato (sebbene di poco, del 3,5%) a crescere, un segnale poco confortante. E alcuni obiettivi del Pnrr si allontanano, mettendo a nudo progetti flop, come le assunzioni precarie destinate all’ufficio del processo, voluto dall’ex ministra Marta Cartabia, e la famigerata “App”, applicativo che avrebbe dovuto digitalizzare il processo penale, ma che invece non funziona. I problemi reali della giustizia, segnalati un po’ in tutte le Corti d’Appello d’Italia, sembrano molto simili. Ma il governo sembra pensare ad altro. Da ultimo alla separazione delle carriere, che ha portato a scioperare l’80% dei magistrati italiani, preoccupati che il provvedimento si traduca in una perdita di autonomia e un assoggettamento all’esecutivo. Alla vigilia dell’incontro fra l’Associazione nazionale magistrati il ministro Carlo Nordio, fissato domani, le posizioni fra le due parti rimangono lontane e le criticità nei Palazzi di giustizia quelle di sempre. In molte Procure medie e piccole, come si evince dall’ultimo bando ministeriale, si toccano picchi di scoperture che mettono a serio rischio la tenuta degli uffici: Trapani 64%, Varese 50%, Bolzano e Pesaro 40%, Trieste 36%. In uffici più grandi come Milano (18%) o Napoli (15,4%), percentuali più ridotte devono fare i conti con numeri assoluti più impattanti. Non sono scoperture “fisiologiche”, ha ricordato il procuratore generale di Napoli Aldo Policastro nel corso della relazione redatta in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario: “Fisiologiche a cosa? Se un ufficio è stato parametrato per un numero determinato di magistrati vorrà pur dire qualcosa, e francamente per me vuol dire che per lavorare adeguatamente quell’ufficio ha bisogno di quel numero di magistrati, altrimenti questo incide sulla qualità e quantità del lavoro”. Quanto ai tribunali, Lanusei (in provincia di Nuoro) viaggia su una scopertura media del 40%, Prato 35%, Palmi e Civitavecchia 24%. A Palermo nell’organico delle quattro sezioni penali dibattimentali è attualmente vacante un posto di giudice sui cinque previsti nella pianta organica, con una scopertura pari al 20%. In Sicilia manca inoltre il 71,6% dei giudici di pace, ovvero solo 48 a fronte dei 169 previsti in pianta organica. A Corleone, per dire, dovrebbero essercene tre. Non ce n’è neanche uno. Un’altra fotografia interessante è quella dei fascicoli pro capite. Nel Tribunale di Vallo della Lucania i giudici hanno in media 1.262 pendenze, a Nocera Inferiore 1130, a Caltagirone 1078, a Tempio Pausania 1073. Questi i numeri di processi civili lunghi e processi penali, che spesso terminano con la prescrizione dei reati. Allargando lo sguardo alle Procure, si trovano invece uffici dove i numeri rendono molte indagini impossibili. La maglia nera spetta a Ivrea, dove si viaggia a una media di 1.619 pendenze pro capite, a fronte di una media nazionale di 500; Busto Arsizio detiene invece il record di sopravvenienze, il flusso di fascicoli in entrata per magistrato, 973. Altra Procura da bollino rosso è Reggio Emilia, con una scopertura del 50% dei magistrati e singoli pm con ruoli da 2 mila fascicoli, ai limiti dell’ingestibilità. I dati ufficiali parlano di una scopertura media nazionale del 30%, più di 12 mila unità su una pianta organica di oltre 43 mila. In alcuni tribunali si toccano picchi del 50%. Accade ad esempio a Ivrea, Tivoli, Reggio Emilia. È un dato endemico, favorito da storture sistemiche: in altri Ministeri il personale di pari livello guadagna di più, così ogni anno dai tribunali se ne vanno impiegati che passano altri concorsi, come l’Agenzia delle Entrate e le Dogane, dove il trattamento economico è migliore. A Napoli la sofferenza sale a meno 22,3%, con punte del meno 33,7% di cancellieri, meno 71,3 % di ausiliari e meno 41,9% di conducenti. Sofferenze che si estendono a tutti gli uffici giudiziari e se ce n’è uno che è costretto a lavorare alacremente è quello che si occupa del delicatissimo compito delle esecuzioni penali, il più grande d’Italia: nel 2024 ha definito 5.102 procedure per esecuzione di pene detentive e accessorie. “È prioritario che le sentenze definitive siano eseguite in un tempo ragionevole - ricorda ancora il procuratore generale Policastro -. Stiamo provvedendo a individuare quelle sentenze che infliggono pene molto alte per dar loro la assoluta priorità, ancora tanti destinatari sono irreperibili ed è necessario fare uno sforzo eccezionale per giungere alla cattura in tempi rapidi”. Un altro grande flop è l’ufficio del processo, l’immissione di giovani a tempo determinato che nei piani dell’ex ministra Marta Cartabia avrebbero dovuto abbattere l’arretrato. Un tasto dolente, secondo la relazione sullo stato della giustizia redatta dal ministero: dei 12.103 laureati reclutati, ben 3.299, più di uno su quattro, si sono dimessi in anticipo rispetto alla scadenza del contratto, lasciando l’incarico per un impiego a tempo indeterminato, quasi sempre nella stessa Pubblica amministrazione. In servizio ne restano dunque 8.804, la metà dei 16.500 previsti dal governo. Digitalizzazione, Pnrr e il flop clamoroso di “App” - Doveva essere lo strumento tecnologico che avrebbe dovuto digitalizzare l’intero processo penale. Con questa promessa l’Italia ha ottenuto lo sblocco di parte dei fondi del Pnrr. Ma App, così si chiama l’applicativo, è stato un vero flop. Lo specchio del fallimento è in un numero contenuto in una relazione della Settima commissione del Csm: 87 tribunali ne hanno sospeso immediatamente il funzionamento, che sarebbe dovuto partire il primo gennaio del 2025. In altre parole, la digitalizzazione era stata presentata all’Europa come la panacea di molti mali della giustizia penale, ma per evitare di paralizzarla, la maggior parte dei tribunali sono rimasti al cartaceo. I primi ad aprire la strada sono stati i grandi tribunali - Milano, Napoli, Roma - che in poco tempo sono stati seguiti da quasi tutti gli altri. “Allo stato attuale - scrivono gli autori della relazione, i consiglieri Marco Bisogni e Maria Vittoria Marchianò - è di fatto impossibile lo svolgimento dei giudizi secondo la modalità telematica in assenza di un’idonea infrastruttura tecnologica”. L’allarme era già stato lanciato dal Csm a dicembre. Il software ministeriale veniva definito in un report “inidoneo”, la sua estensione al resto dell’attività penale non ancora coinvolta nelle prime sperimentazioni “impensabile”. Senza un nuovo rinvio, ammoniva il Csm, il rischio sarebbe stato di avere “gravissimi problemi nel funzionamento della giurisdizione”. Incurante del parere dell’organo di autogoverno della magistratura e di migliaia di giudici e pm che lavorano sul campo, Nordio è andato avanti come se nulla fosse. E con un decreto approvato fra Natale e Capodanno, si è mandato avanti il progetto. Un modo per dire a Bruxelles che l’Italia sta rispettando le promesse, in questo caso rimaste solo sulla carta. Le continue modifiche, tutte a costo zero - Occorrerebbe in definitiva rimpolpare gli organici, modificare in alcuni casi la geografia giudiziaria, immettere risorse. Invece i governi, non solo quello attuale, hanno continuato a cambiare le regole. E questo è un altro annoso problema, le riforme che cambiano le regole in corsa prima di valutare gli effetti di quelle precedenti, denunciato da molti e ricordato nella sua ultima relazione dal presidente della Corte d’Appello di Roma, Giuseppe Meliadò: “Nessuna strategia di miglioramento organizzativo può essere realizzata a costo zero così come nessuna riforma processuale è in grado di migliorare la produttività degli uffici in un contesto povero di risorse umane e professionali”. “I genitori di Ramy sono stati dei giganti. Inasprire le pene non serve” di Valeria Di Terlizzi milanotoday.it, 4 marzo 2025 Intervista a Franco Gabrielli, ex capo della Polizia: “L’integrazione è possibile, non serve inasprire le pene”. E sulla pericolosità di Milano: “Se guardiamo l’indice di delittuosità del 2010, l’ultimo anno della giunta di destra, sono riportati 153mila reati. Nel 2024 sono 140mila”. E sui reati “pesa l’aumento del turismo”. “O si accetta l’idea che questa città è cambiata e che quindi applicare alcuni schemi di vent’anni fa è complicato, oppure si viene travolti dalla non comprensione di quello che ci circonda”. Franco Gabrielli, ex capo della Polizia di Stato e delegato alla Sicurezza del Comune di Milano, racconta a Milano Racconta, il podcast di Milano Today un tema tanto attuale quanto controverso: la sicurezza a Milano. Su cui non ha dubbi: “È inutile differenziare tra dati reali e percezione. La percezione dei cittadini conta, è reale e come tale non va ignorata”. Le zone rosse, soluzione miope - Sulle zone rosse - il provvedimento che vieta ai soggetti aggressivi e che abbiano precedenti di stazionare in alcune zone di Milano - Gabrielli ha le idee chiare: “C’è un aspetto che ho sottolineato anche in altre circostanze, ossia la filosofia che a volte sottende dietro alcune decisioni. È come se ci fosse un tentativo di affrontare il tema della sicurezza solamente inasprendo le pene. Lo trovo un approccio un po’ miope”. Il sistema giustizia al collasso e le carceri sovraffollate - Il vero tema da cui partire, secondo il funzionario già prefetto di Roma, sono il sistema giustizia e il sistema di esecuzione della pena, entrambi ormai al collasso. Pensate che in questo momento ci sono circa 62mila detenuti in carcere a fronte di una disponibilità di circa 50mila. Abbiamo poi 90 mila persone in pene alternative e altre 90 mila ancora in attesa di avere una pena alternativa: si trovano, insomma, in una condizione limbica. Credo che questa sia un’ulteriore dimostrazione di come, nel nostro Paese, non si dia giustizia. I cittadini non ricevono giustizia”. Calano gli omicidi, ma aumentano le rapine in strada - Sulla pericolosità di Milano, Gabrielli rimarca: “O si accetta l’idea che Milano è cambiata, oppure rischiamo di essere travolti dalla non comprensione di quello che ci circonda. Se guardiamo l’indice di delittuosità del 2010, l’ultimo anno della giunta di destra, sono riportati 153mila reati. Nel 2024 sono 140mila”. Come mai, allora, i cittadini si sentono più insicuri? “Perché è vero che sono diminuiti i furti e gli omicidi, ma sono aumentate le rapine in strada e i borseggi. Se ci pensiamo, sono i reati più pervasivi, che per una persona rappresentano un vero trauma. Milano è maglia nera della sicurezza perché queste statistiche si riferiscono ai reati denunciati, rapportati alla popolazione residente. Da noi, per senso civico, si denuncia di più che in altre città, ed è giusto”. Non solo. Secondo Gabrielli, Milano ha subito due cambiamenti importanti, se non epocali: da una parte la cosiddetta gentrificazione e dall’altra una sorta di “turistificazione”. Sì, perché anche i turisti rappresentano una platea di potenziali vittime di reati predatori. “La vicenda Ramy? Onore ai suoi genitori” - Sulla vicenda di Ramy, l’incidente avvenuto pochi mesi fa a Corvetto, costato la vita al giovane Ramy Elgam, Gabrielli pensa subito ai genitori. “In questa vicenda sono stati dei giganti” racconta. Ma non solo: “In questo senso io nutro un po’ di speranza, perché non so quanti altri nostri connazionali abbiano avuto un ruolo di calmiere di istanze, anche strumentali, per creare caos. Questo ci insegna che l’integrazione è possibile. Ricordiamo che si tratta di ragazzi, italiani di seconda generazione, che vivono un malessere, una lacerazione profonda tra due culture. Dobbiamo aiutarli a trovare una prospettiva di inserimento che permetta loro di sentirsi parte della comunità. Noi italiani siamo stati un popolo di migranti, non dimentichiamolo”. “Ai boss in carcere duro non si vieta la musica”: la Cassazione respinge il ricorso del ministero La Stampa, 4 marzo 2025 Confermata la decisione del Tribunale di sorveglianza di Torino: un detenuto aveva chiesto di acquistare un apparecchio con relative cuffie per ascoltare dei cd anche per studio e lavoro. Il boss al 41 bis può acquistare un lettore cd e ascoltare la musica che preferisce. La Corte di Cassazione ha dato ragione a un uomo detenuto in regime di “carcere duro”, confermando una decisione del tribunale di sorveglianza di Torino e dichiarando “inammissibile” il ricorso presentato dal ministero della Giustizia. Il lettore “piombato”. Il caso riguarda Domenico Laurendi, 56 anni, originario di Sant’Eufemia di Aspromonte, conosciuto con il soprannome di “Rocchellina”, che nel 2024 è stato condannato in appello a 19 anni di reclusione nell’ambito del processo di ‘ndrangheta originato dall’operazione Eyphemos della Dda di Reggio Calabria (diretta all’epoca dal magistrato Giovanni Bombardieri). Il detenuto aveva chiesto di acquistare un apparecchio, con le relative cuffie, per ascoltare dei cd (alla musica aveva affiancato ragioni di studio e di lavoro). Il tribunale ha osservato che se il lettore è adeguatamente ‘piombato’, e se i dischi sono regolarmente marchiati Siae e sigillati al momento della vendita, l’operazione - di cui si deve occupare l’impresa di mantenimento - è fattibile in quanto non ci sono rischi di manipolazione esterna. Controlli - Come precauzione ulteriore i giudici subalpini avevano ordinato anche controlli costanti sul dispositivo durante gli orari di consegna. Una vicenda analoga, in un carcere piemontese, ma con un altro detenuto al 41 bis, si era verificata nel 2022. Emilia Romagna. “500 detenuti in più in tre anni, come se fosse nato un nuovo carcere” ansa.it, 4 marzo 2025 Il problema del sovraffollamento nelle carceri è pressoché ingovernabile, da anni si cercano vie d’uscita ma senza risultati. In Emilia-Romagna negli ultimi tre anni la popolazione carceraria è aumentata di 500 unità, come se fosse nato un nuovo carcere di cui non ci siamo accorti, un carcere virtuale, superando così le 3.800 presenze permanenti. Una situazione insostenibile, la gestione dei detenuti è sempre più complicata, così come l’attuazione dei percorsi a loro dedicati”. Lo ha detto il garante per i detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, sottolineando anche come “secondo i miei calcoli, un detenuto su tre ha passato l’inverno senza riscaldamento e senza acqua calda”. Serve cambiare passo, il sistema carcerario regionale non funziona: ancora irrisolto il problema del sovraffollamento, spazi inadatti per il recupero del detenuto, carenza di personale, fabbricati da rivedere. Lungo la via Emilia negli ultimi tre anni i detenuti sono aumentati di 500 unità: è come se fosse nato un nuovo carcere, peccato che personale della polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, siano rimasti gli stessi. Compreso le occasioni di reinserimento lavorativo. A chiedere una svolta, nel corso di una conferenza stampa organizzata nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, sono stati i garanti dei detenuti che operano in regione guidati dal garante regionale Roberto Cavalieri. Presente anche il presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, Maurizio Fabbri. “Il problema del sovraffollamento nelle carceri - spiega il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri - è pressoché ingovernabile, da anni si cercano vie d’uscita ma senza risultati: in regione sono quasi 1.000 i detenuti in più rispetto ai posti regolamentari, negli ultimi tre anni la popolazione carceraria è aumentata di 500 unità (come se fosse nato in regione un nuovo carcere), superando così le 3.800 presenze permanenti. Una situazione insostenibile, la gestione dei detenuti è sempre più complicata, così come l’attuazione dei percorsi a loro dedicati”. Sul tema sovraffollamento entra nello specifico sul caso del Pratello: “Il problema sovraffollamento non si affronta trasferendo dei detenuti da un minorile a un carcere per adulti, siamo pessimisti su questa operazione, temiamo che i tre mesi programmati si allungheranno in attesa dei 90 nuovi posti che dovrebbero arrivare da Rovigo, l’Aquila e Lecce. Già dall’Abruzzo i feedback non sono buoni, risulta che i lavori di recupero della struttura aquilana non siano ancora iniziati”. Il Garante affronta poi il tema della salute in carcere: “Problemi evidenti riguardano anche il tema della salute, sono sempre più le persone detenute con dipendenze o con disturbi psichici gravi, il personale dedicato a trattare questi casi è insufficiente. Questa situazione inevitabilmente non può essere discostata, assieme ad altri fattori, dal tema dei suicidi e dei comportamenti autolesivi in carcere, in costante aumento negli ultimi anni”. Prosegue sugli spazi in carcere: “A questo scenario si aggiungono la scarsità di percorsi dedicati al recupero del carcerato, gli spazi riservati a queste attività spesso risultano inadeguati, più in generale nelle strutture carcerarie della regione si riscontrano problemi infrastrutturali, fabbricati fatiscenti che andrebbero completamente rivisti”. Le conclusioni di Cavalieri: “La situazione è emergenziale, bisogna cambiare rotta, il carcere, che piaccia o no, rappresenta una componente della nostra società, se non si dà una possibilità di recupero al detenuto si violano diritti fondamentali, serve, quindi, rilanciare il sistema carcere, a partire dalla sua organizzazione”. Interviene poi il presidente dell’Assemblea legislativa, Maurizio Fabbri, che assieme al garante ha voluto questa conferenza stampa: “Vogliamo dare un segnale forte alla comunità detenuta, parliamo di quasi 4.000 reclusi in Emilia-Romagna, sappiamo che nelle strutture carcerarie non sempre sono garantite tutele adeguate a queste persone”. Fabbri entra nello specifico: “Questione cruciale, e ancora irrisolta, è quella del sovraffollamento carcerario, causa di tensioni che inevitabilmente condizionano anche la riuscita dei percorsi di recupero del detenuto. Si possono innescare situazioni di disagio, anche psichico, che possono portare a eventi drammatici, penso, purtroppo, ai diversi casi di suicidio tra i detenuti presenti nelle strutture carcerarie della nostra regione”. Quindi, la proposta del presidente Fabbri: “In quanto presidente dell’Assemblea legislativa promuovo una nuova modalità di intervento che veda l’unione di tutte le forze in campo, partendo dagli stimoli che arrivano dal lavoro di osservazione e monitoraggio portato avanti dai garanti a tutela dei diritti dei detenuti”. Conclude il presidente: “È oramai inevitabile che la politica faccia proprie queste istanze e ricerchi rapidamente soluzioni sia a livello statale che regionale, con anche il coinvolgimento degli enti locali”. Un focus, poi, sulla situazione delle case circondariali presenti sul territorio regionale, con un’analisi a cura, assieme allo stesso Cavalieri, dei garanti locali. “Nella casa circondariale bolognese, ad esempio, rimane il problema, ormai cronico, del sovraffollamento, così come ci sono carenze rispetto agli spazi, a partire da quelli dedicati alle attività rivolte al detenuto”, rimarca il garante Antonio Ianniello, che, sul Pratello, aggiunge “anche nel minorile il numero di presenze è decisamente fuori limite, gli ospiti sono quasi sessanta mentre la struttura ne potrebbe ospitare una quarantina, inoltre permangono perplessità sulla scelta, seppur temporanea, di spostare una parte del minorile alla Dozza”. A Piacenza, interviene quindi la garante Maria Rosa Ponginebbi, “la criticità più marcata riguarda la presenza eccessiva di detenuti con problemi di tossicodipendenza (circa l’80 per cento della popolazione carceraria ha problemi di dipendenza), a seguire queste persone c’è un solo sanitario che entra nella struttura un solo giorno alla settima, anche qui, poi, si necessitano lavori di ristrutturazione, in particolare, nel vecchio padiglione”. La garante Francesca Bertolini su Reggio Emilia: “Anche la struttura che ospita il carcere reggiano richiederebbe interventi di recupero, inoltre le caratteristiche dell’edificio rendono particolarmente complessa la gestione delle diverse categorie di detenuti presenti, che a Reggio sono sei (come, ad esempio, detenuti con problemi di salute mentale, donne, transgender e persone in alta sicurezza)”. A Rimini, rimarca invece il garante Giorgio Galavotti, “più volte sono state denunciate condizioni di degrado rispetto a una specifica sezione, che andrebbe completamente ricostruita (c’è un progetto approvato dal ministero ma tutto è ancora fermo), evidente poi il problema della carenza di personale, tra sanitari e agenti”. A Parma, prosegue la garante Veronica Valenti, “sono presenti 250 detenuti con problemi sanitari (provenienti da tutta Italia) nonostante i posti letto della sezione sanitaria siano solo 25, c’è poi il tema dell’alto numero di carcerati anziani, in 80 hanno più di 65 anni, è anche aumentata anche la presenza di persone con disturbi psichiatrici gravi”. A Modena, evidenzia la garante Laura De Fazio, “pur essendo un carcere concepito per accogliere principalmente imputati e indagati in attesa di giudizio e condannati definitivi a pene non superiori a cinque anni, sono presenti quasi 400 detenuti con anche condanne lunghe (in molti con problemi di dipendenze), l’offerta trattamentale risulta inadeguata, anche il personale, a partire dagli educatori e sanitari, è insufficiente”. A Ferrara, interviene la garante Manuela Macario, “la struttura necessita urgentemente di interventi di ristrutturazione, gli spazi comuni non sono adeguati ad accogliere le attività educative e ricreative, ci sono poi problemi organizzatici, pacchi, per fare un esempio, che non vengono consegnati o vengono consegnati dopo molto tempo con cibi che nel frattempo si sono deteriorati”. Conclude lo stesso Cavalieri sui casi di Castelfranco, Forlì e Ravenna: “A Castelfranco Emilia, nel modenese, per mane il problema delle misure di sicurezza prolungate nei confronti della categoria degli internati. A Ravenna e Forlì i due fabbricati sono da riqualificare”. Mantova. Shock in carcere, detenuta di 57 anni muore suicida di Igor Cipollina Gazzetta di Mantova, 4 marzo 2025 Elena Scaini stava scontando una pena di 18 anni per l’omicidio del marito. La direttrice della Casa circondariale: “Presto avrebbe cominciato a lavorare fuori”. La garante dei diritti dei detenuti: “Un gesto che ci interroga”. La notizia filtra attraverso le inferriate e i muri del carcere, pesante come un macigno: Elena Scaini, detenuta per l’omicidio del marito Stefano Giaron, si è uccisa nella notte tra domenica 2 e lunedì 3 marzo. È questa circostanza - l’eco pubblica della tragedia e il cono d’ombra della prigione, nelle pieghe della città - a legittimare la pubblicazione del nome, che in altre situazioni si sarebbe omesso. Nessun accanimento su un’esistenza irrequieta e scheggiata, solo tanto sconforto. Lo smarrimento che riverbera da via Poma, incrinando la voce di chi conferma s’interroga e ricorda. Scaini stava scontando una pena definitiva a 18 anni: in carcere era entrata nel 2020, dopo una fuga disperata e la confessione al telefono. Matrimonio tormentato, quello con Giaron, ucciso da una coltellata nell’appartamento della mamma, in via Mozart, dove la coppia era stata costretta a trasferirsi dopo la perdita del lavoro. Quando la convivenza era deragliata in una sequenza feroce di litigi. Lo smarrimento - “Il suo gesto ha sorpreso tutti quanti - confessa la direttrice della casa circondariale di Mantova, Metella Romana Pasquini Peruzzi - Era molto seguita da educatori, sanitari, psicologi e aveva la possibilità d’immaginare un futuro diverso da quello del carcere”. Un domani prossimo: presto avrebbe cominciato a lavorare all’esterno. Era stata Elena Scaini a insistere per rimanere nel carcere di Mantova, nonostante sia strutturato per accogliere detenuti con pene fino a cinque anni. “Qui aveva la sua famiglia e si sentiva protetta, di ritorno dalle udienze diceva “torno a casa” - racconta la direttrice - anche il suo cane era ammesso ai colloqui. Aveva un talento artistico, ha partecipato a diversi laboratori. Nessuno poteva immaginarselo. È molto doloroso anche per le sue compagne di sezione”. Una sezione piccola, raccolta, che non conta mai più di sette detenute. Frastornata lo è anche la garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Graziella Bonomi: “Sono molto addolorata, come ho visto addolorate le altre persone in carcere, la sua educatrice di riferimento e le altre detenute con le quali ho trascorso il pomeriggio - scandisce - Si sente profondamente, il vuoto. Credo che ogni suicidio debba interrogare tutti, in particolar modo il contesto”. Insomma, per Bonomi è giusto che il carcere s’interroghi, anche se Elena Scaini “ha avuto diverse opportunità di percorsi e di costruzione di una prospettiva”. Piccola, la sezione femminile di Mantova, tanto raccolta quanto marginale secondo l’esperienza della garante: “Oggi, dopo il suicidio, si contano cinque donne, e non si arriva mai a più di sette. Una minoranza che, come tutte le minoranze, sa di essere tale, e questo in carcere significa non avere centrata su di sé tutta l’attenzione”. Per Scaini, 57 anni, così affamata di relazioni, significava anche dover interrompere la consuetudine con le sue compagne. Neanche il tempo di conoscersi e affezionarsi, che le altre andavano via. Dentro e fuori, dentro e fuori. Lei sempre dentro. “Era sensibile e preziosa - aggiunge Bonomi - nel riportarmi il suo punto di vista sulla detenzione, si preoccupava anche dei bisogni delle sue compagne”. Come un gabbiano - Marzia Benazzi, volontaria dell’associazione Centro solidarietà carcere, si commuove ricordando di un laboratorio dedicato alla poesia: “Elena aveva portato i testi del suo cantante preferito, Mango, in particolare amava le parole di “Come l’acqua”. Ci scambiavamo osservazioni su quello che leggevamo e, alla fine, abbiamo raccolto versi, pensieri e poesie in un libretto. È stata lei a dare un nome a quel nostro momento, due ore ogni martedì mattina. Quale? Gabbia-no. L’aveva anche disegnato sulla copertina. Un disegno splendido. Elena ti guardava dentro, era dolce e attenta alle persone”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto morto: per la perizia non fu suicidio di Biagio Salvati Il Mattino, 4 marzo 2025 Un evento accidentale, provocato da un’interazione fatale tra i medicinali. Un dettaglio apparentemente secondario, ma che si è rivelato cruciale: cinque pillole ritrovate nella cella dell’algerino Hakimi Lamine, mai ingerite, rimaste lì mentre un mix letale di psicofarmaci e oppiacei ne spegneva la vita. È quanto emerge dalla scena del crimine - con relativo sopralluogo eseguito nella cella del detenuto straniero - contenuta nella relazione medica acquisita ieri dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere al maxi-processo che vede imputati 105 agenti, accusati dei pestaggi sui reclusi avvenuti il 6 aprile del 2020. I dettagli della relazione - eseguita esternamente sul cadavere di Hakimi - parlano di una morte avvenuta nella notte fra il 3 e 4 maggio, secondo la dottoressa che ha stilato il verbale a seguito del sopralluogo. Secondo il primo esame visivo, il corpo giaceva sul letto con residui di vomito accanto, segno di un possibile malore. Ma a destare attenzione furono proprio quelle pillole: se Hakimi avesse avuto un intento suicida, non le avrebbe forse assunte tutte in un’unica dose? Invece, lì erano rimaste, quasi dimenticate. Questa scoperta ha assunto un ruolo chiave nelle valutazioni successive. La difesa ha infatti evidenziato come l’ipotesi di un suicidio con l’ingestione massiccia di farmaci non trovi riscontro nei fatti. Piuttosto, gli elementi raccolti - e in particolare la testimonianza del dottor Luca Lepore - suggeriscono un’altra spiegazione: un evento accidentale, provocato da un’interazione fatale tra i medicinali che Hakimi assumeva regolarmente e una sostanza oppiacea, la buprenorfina (oppioide usato per trattare il dolore acuto e cronico), probabilmente procuratagli da un altro detenuto. E quindi neanche i pestaggi come da risultanze della successiva autopsia. La morte di Hakimi, dunque, non sarebbe stata il risultato di un gesto deliberato, ma di una tragica combinazione di sostanze. Un drammatico caso di overdose non intenzionale. A ciò va aggiunto che già il 10 maggio del 2020, ovvero alcuni giorni dopo il decesso del detenuto algerino Hakimi Lamine, il consulente dell’accusa non riscontra ecchimosi o segni di violenza che possano aver provocato il decesso in seguito alle percosse. L’udienza riprenderà domani con alcuni testi chiamati a deporre su un blocco di intercettazioni telefoniche. Intanto, ieri ha lasciato il carcere di Santa Maria Capua Vetere il detenuto siciliano C. C., 37 anni, arrestato per associazione mafiosa, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nel novembre del 2024, dalla polizia nell’ambito dell’operazione. Il gip di Catania, Stefano Montoneri, accogliendo la richiesta dell’avvocato Giuseppe Lipera, ha disposto la scarcerazione, per gravi motivi di salute. L’uomo, il 20 gennaio, aveva tentato il suicidio nel carcere sammaritano, dove è detenuto, e la moglie, 36 anni, aveva inviato una “implorazione” al gip e al procuratore generale di Catania chiedendo loro di “intervenire” per “il gravissimo stato di salute” del marito che “sta lentamente morendo”. Il gip ha disposto per il 37enne l’obbligo di dimora nel suo paese d’origine, Biancavilla, e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Il provvedimento del gip di Catania arriva dopo la presentazione di numerose e reiterate richieste da parte del legale dell’indagato, l’avvocato Giuseppe Lipera, con cui sottolineava il grave stato di salute dell’uomo che lo rende incompatibile con la detenzione in carcere. “Il mio assistito - spiegava il penalista - presenta una condizione psicologica gravissima. Anche dal punto di vista fisico aveva subito un aggravamento della sua condizione, avendo perso, infatti, circa 15 chili”. Piacenza. L’allarme dei Garanti: “L’80% dei detenuti è tossicodipendente” liberta.it, 4 marzo 2025 “La criticità più marcata del carcere delle Novate di Piacenza riguarda la presenza eccessiva di detenuti con problemi di tossicodipendenza (circa l’80 per cento della popolazione carceraria ha problemi di dipendenza); a seguire queste persone c’è un solo sanitario che entra nella struttura un solo giorno alla settimana. Servono poi lavori di ristrutturazione, in particolare, nel vecchio padiglione”. È la garante dei detenuti del carcere di Piacenza, Maria Rosa Ponginebbi, a dichiararlo durante l’incontro a Bologna di tutti i garanti della regione per fare il punto sulla situazione carceraria. “Serve cambiare passo - si legge nel comunicato della Regione -, il sistema carcerario regionale non funziona: ancora irrisolto il problema del sovraffollamento, spazi inadatti per il recupero del detenuto, carenza di personale, fabbricati da rivedere. Lungo la via Emilia negli ultimi tre anni i detenuti sono aumentati di 500 unità: è come se fosse nato un nuovo carcere, peccato che personale della polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, siano rimasti gli stessi. Compreso le occasioni di reinserimento lavorativo”. A chiedere una svolta, nel corso di una conferenza stampa organizzata nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, sono stati i garanti dei detenuti che operano in regione guidati dal garante regionale Roberto Cavalieri. Presente anche il presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, Maurizio Fabbri. Napoli. Il Garante dei detenuti: “Sì al numero chiuso” di Marzia Siano Il Roma, 4 marzo 2025 Ciambriello: “Sono 7.524 i carcerati presenti a fronte di 5.584 posti disponibili”. La maratona per accendere i riflettori sull’emergenza carceri ha fatto tappa anche a Napoli, nel pomeriggio, a piazzale Cenni, tra il Palazzo di Giustizia e il carcere di Poggioreale, con l’iniziativa “Carcere: liberare la speranza!”. In Campania - secondo dati aggiornati al 21 febbraio - sono 7.524 i detenuti presenti a fronte di 5.584 posti disponibili, con un indice di sovraffollamento del 134%. “Abbiamo bisogno di una misura deflattiva subito per coloro che devono scontare un anno di carcere e che non hanno reati ostativi. In Italia sono ottomila, in Campania 907”, ha affermato Samuele Ciambriello, garante campano e portavoce della Conferenza dei garanti territoriali parlando nel piazzale che offre la vista ad alcuni padiglioni del carcere di Poggioreale. Gli stessi detenuti, dalle finestre, hanno salutato i partecipanti all’iniziativa, scandendo il nome del garante. Da una delle finestre i detenuti hanno mostrato un lenzuolo con la scritta “Misure alternative al carcere”. “Abbiamo bisogno di figure di accoglienza: psicologi, psichiatri, assistenti sociali. In tutta Italia ogni 16 detenuti c’è un volontario. La presenza di questa figura di ascolto è fondamentale”. Sul sovraffollamento ha parlato di un numero chiuso “nel senso che se sono X i posti a Poggioreale, non bisogna portare altri detenuti. E così in altre carceri. E questa è la nostra vera provocazione per dire: utilizzate di più braccialetti e arresti domiciliari, ma il carcere deve essere una extrema ratio. Abbiamo bisogno di non incarcerare per piccoli reati e quando le persone vi entrano, abbiamo bisogno di misure alternative al carcere. Questo è un appello anche per la magistratura di sorveglianza”. All’iniziativa, molto partecipata, hanno preso parte il mondo dell’associazionismo e del volontariato campano che fa parte della Conferenza nazionale Volontariato e carceri, avvocati, cittadini, esponenti della politica, il responsabile della pastorale della Diocesi di Napoli don Franco Esposito, il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Napoli, don Tonino Palmese. Benevento. Le Garanti di Provincia e Comune chiedono misure per la dignità dei ristretti di Diego De Lucia anteprima24.it, 4 marzo 2025 Mobilitazione dei garanti dei diritti dei detenuti della Provincia e del Comune di Benevento contro il sovraffollamento nelle carceri, una delle cause che portano anche ai suicidi delle persone private della libertà. Ma le garanti Patrizia Sannino e Maria Giovanna Pagliarulo hanno posto oggi nella sala consiliare della Provincia nuovamente la questione della necessità urgente di adottare misure concrete per garantire dignità alla persona ristretta e rispettare le norme costituzionali finalizzate al recupero sociale di chi ha commesso reati. In particolare, in coerenza con gli appelli lanciati ormai da tempo dai garanti di tutta Italia e dallo stesso garante regionale Samuele Ciambriello, le garanti Sannino e Pagliarulo hanno riproposto il tema sulle misure alternative alla detenzione. A Benevento i detenuti sono circa 600, che non trova riscontro, secondo le norme vigenti, rispetto alla dotazione organica della Polizia Penitenziaria. Per quanto riguarda l’istituto per i minori di Airola, le maggiori criticità secondo Sannino e Pagliarulo si riscontrano nella logistica, cioè in strutture non adeguate, nè funzionali, e questo nonostante il lodevole impegno riconosciuto alla direzione carceraria per il miglioramento della situazione. Del resto che l’emergenza carceri sia nazionale e non solo locale lo dicono i numeri: 61.852 detenuti in 192 istituti, con un surplus di 15mila persone rispetto alla capienza regolamentare. Sono 57 i suicidi in carcere registrati nel 2023. Presente questa mattina anche l’assessore comunale di Benevento con delega ai Servizi Sociali, Carmen Coppola. Il dato che emerge è quello allarmante di un sistema penitenziario italiano al collasso. La garante provinciale Patrizia Sannino ha sottolineato ricordando le parole del Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Samuele Ciambriello: “Ci sono celle progettate per ospitare due individui ne accolgono quattro, in spazi dove l’aria è satura di tensioni, violenza e disperazione”. La Sannino ha ricordato come tutti i garanti dei detenuti hanno stipulato un documento congiunto che accusa la politica di immobilismo e la società civile di indifferenza: “Vogliamo rompere il “silenzio assordante” su carceri sovraffollati e diritti calpestati.” Delineare quindi una roadmap di interventi urgenti per evitare che le carceri italiane sprofondino in una crisi umanitaria senza ritorno. Il manifesto, articolato in cinque punti cardine, chiede al governo e alle istituzioni di agire immediatamente. Inoltre la Sannio si è soffermata sull’istituto minorile di Airola: “L’istituto ha vissuto situazioni allarmanti dovuti all’edilizia fatiscente. Una direzione che oggi sta investendo sulla rieducazione giovanile. Ha poche risorse ma lo sta facendo”. La garante ha quindi portato all’attenzione la richiesta di ampliare l’accesso alle misure alternative, come l’affidamento in prova o i lavori socialmente utili, per i 19mila detenuti che stanno scontando pene residue sotto i tre anni. Altro obiettivo dei garanti è chiudere le sezioni ordinarie, dove i detenuti restano rinchiusi fino a 20 ore al giorno, e sostituire quelle ore di isolamento con attività concrete - laboratori, progetti culturali, percorsi di reinserimento lavorativo - per restituire un senso alla funzione rieducativa della pena. Altro elemento definito prioritario è anche il diritto all’affettività. I garanti chiedono di far ottenere più telefonate, videochiamate e permessi premio, oggi concessi con criteri restrittivi. L’assessore comunale Coppola si è soffermato soprattutto sulla dignità umana di ogni detenuto: “Tutelare i diritti umani. Occorre un forte richiamo del rispetto e della persona”. La garante cittadina Pagliarulo ha sottolineato: “La situazione di Benevento è allineata con gli istituti di pena nel resto d’Italia. Qui abbiamo un ottimo rapporto con la direzione del carcere, è molto disponibile e ci si possono creare progetti”. Sul problema suicidi in carcere la Pagliarulo ha spiegato: “Avviene ad inizio percorso ed è comprensibile ma anche alla fine. Questo ci fa capire che durante la detenzione si è fatto veramente poco”. Avellino. Il Garante dei detenuti: “Necessario individuare misure alternative” corriereirpinia.it, 4 marzo 2025 È un appello alla politica quello che lancia il Garante regionale dei detenuti Carlo Mele, nel corso di un incontro, nella sede della Camera Penale Irpina “Nelle carceri italiane, dal Nord al Sud, paghiamo il prezzo di condizioni di sovraffollamento e incuria. L’articolo 27 della Costituzione viene quotidianamente violato. Se parliamo di carcere trattamentale, dobbiamo garantire che le persone, dietro le sbarre, portino avanti un percorso riabilitativo per poi essere reinseriti nella società., Di qui la scelta di un luogo simbolico come la Camera Penale Irpina per lanciare il nostro appello. Insieme al Presidente della Camera Penale Irpinia e al presidente dell’Ordine abbiamo chiesto che questo appello sia letto nelle aule, così da rendere i giudici consapevoli delle conseguenze delle loro scelte. Devono comprendere che una condanna comporta un percorso, un impegno da parte dello Stato per garantire un processo di riabilitazione. Ecco perché il Tribunale diventa fulcro da cui far partire la nostra battaglia, perché siano assunte scelte diverse”. Ricorda come sono “62.000 i detenuti nelle carceri, ed è chiaro che chi sconta la pena al di là delle sbarre, vede ridursi le possibilità di recidiva”. Dobbiamo chiederci, dunque, se il Carcere serve a qualcosa. È chiaro che si tratta di individuare soluzioni alternative”. E sulla chiusura dell’Icam di Lauro “Avevamo chiesto che i bambini non entrassero più nelle carceri, di qui la necessità di trovare una soluzione alternativa, una comunità che potesse accogliere madri e bambini. Oggi, al Sud non c’è nessun Icam, e se una detenuta madre deve andare in carcere, sarà costretta a trasferirsi al nord con forti ripercussioni negative, a partire dalla lontananza dalla famiglia. L’obiettivo può essere oggi quello di individuare per le detenute madri una struttura che abbia le caratteristiche di una casa famiglia”. E sul destino dell’Icam di Lauro “Quel che è certo è che saranno necessari ulteriori spese per riadattare la struttura, trasformandola in carceri a bassa soglia o in istituti per per pazienti con disagio psichico. Vedremo cosa sarà deciso” E’ quindi l’avvocato Gaetano Aufiero, presidente della Camera Penale Irpina, a soffermarsi sulle condizioni di disumanità che caratterizzano le carceri “Dal gennaio 2024 sono stati 100 i suicidi, 15 dall’inizio dell’anno, abbiamo oltre 20.000 detenuti in attesa di giudizio, 10.000 dei quali destinati ad essere assolti. Abbiamo provato in tutti i modi a sensibilizzare la politica con astensioni, scioperi e incontri, dobbiamo fare i conti con un senso di impotenza”. E sulla realtà drammatica del Carcere di Bellizzi “Alla carenza di organico della polizia, si affianca il numero inadeguato di personale sanitario. Il carcere si è trasformato in una piazza di spaccio con numerosi episodi di violenza. Senza dimenticare gli effetti del razionamento dell’acqua per i detenuti. Tutto questo accade nell’indifferenza da parte di politica e istituzioni”. Il presidente dell’Ordine degli avvocati Fabio Benigni parla di “una violazione continua delle norme costituzionali, con una pena che non tende alla rieducazione del condannato. Di qui i danni anche sotto il profilo psichico Siamo convinti della necessità di mantenere alta l’attenzione su questa emergenza”. L’avvocato Giovanna Perna, responsabile Osservatorio Carcere Campania, sottolinea la scelta di condividere un appello che arriva dall’Osservatorio del Carcere che ha sempre portato avanti battaglie in difesa dei diritti. “Abbiamo formulato proposte che saranno portate dal presidente delle Camere Penali all’attenzione del ministro. Ai problemi legati a sovraffollamento e disagio psichico si affianca la difficoltà di fare i conti con strutture che non possono garantire l’affettività. Da circa un anno portiamo avanti laboratori di giustizia riparativa, se si investe sulla rieducazione, si riducono anche le possibilità di recidiva” Bologna. Il Governo e il trasloco dei giovani detenuti: “Sarà temporaneo” di Chiara Marchetti Corriere di Bologna, 4 marzo 2025 “È una decisione scellerata”. È così che il Garante dai detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, commenta il trasferimento di oltre cinquanta giovani dagli istituti minorili del Nord Italia al carcere della Dozza. “Sono tutti neomaggiorenni stranieri non accompagnati con problemi di tipo disciplinare - spiega Cavalieri in un incontro in Regione insieme ai garanti delle carceri emiliano-romagnole e al presidente dell’Assemblea legislativa, Maurizio Fabbri - e c’è il rischio che inserirli tutti in un unico contesto, tra l’altro un carcere per adulti, possa aumentare le criticità”. L’amministrazione penitenziaria ha assicurato che il trasferimento durerà solo tre mesi in attesa che gli istituti minorili di Rovigo, Lecce e L’Aquila - che in totale avranno una capienza di 90 posti - vengano riaperti dopo i lavori di ristrutturazione. “Se si supera noi 90 giorni - puntualizza Cavalieri - lo considererò alto tradimento. Domenica ho telefonato alla garante dell’Abruzzo che mi ha detto che i lavori nella struttura de L’Aquila non sono nemmeno iniziati”. La spiegazione del trasferimento è legata al sovraffollamento degli Ipm. “Un problema oggettivo - secondo il garante di Bologna, Antonio Ianniello - visto che ad agosto 2023 negli istituti minorili italiani c’erano 436 ragazzi, mentre nell’ultimo mese sono diventati 610”. Secondo Ianniello “per i ragazzi sarà devastante, perché si troveranno in un contesto sconosciuto senza capirne il motivo e c’è il rischio che vengano influenzati negativamente dai detenuti adulti”. I garanti temono, infine, la mancanza di offerta educativa e formativa. Sempre ieri c’è stato un incontro tra il sindaco Matteo Lepore, il governatore Michele De Pascale e il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. Le parti hanno condiviso l’impegno del Governo di non aumentare, sia durante la permanenza dei minori che dopo, i numeri attuali di detenuti alla Dozza. Regione e Palazzo d’Accursio si sono detti “disponibili a collaborare, a patto che il trasferimento sia temporaneo e con scadenze chiare e definite”, mentre Ostellari ha chiarito che i giovani detenuti “saranno gestiti solo dal personale in carico alla Giustizia minorile” e “verrà garantita piena continuità trattamentale”. Tornando al confronto di ieri mattina con i garanti dei detenuti, tutti hanno ribadito i medesimi problemi nelle carceri dell’Emilia-Romagna: sovraffollamento, suicidi, edifici fatiscenti e mancanza di educatori e progetti di reinserimento lavorativo. “Negli ultimi tre anni-conclude Cavalieri-la popolazione carceraria dell’Emilia Romagna è aumentata di 500 unità e la situazione è diventata insostenibile. Secondo i miei calcoli, un detenuto su tre ha passato l’inverno senza riscaldamento e senza acqua calda. La politica deve fare qualcosa”. Bologna. Carcere della Dozza, una cosa è certa: staranno tutti peggio zic.it, 4 marzo 2025 Il trasferimento dei settanta ragazzi “problematici” dagli Istituti minorili di tutta Italia ha sollevato tantissime proteste. Il Governo, però, va avanti a marce forzate, incurante di tutti problemi che aggraveranno la situazione della Casa circondariale bolognese. Prendono parola le/i detenute/i: “Vessazione frutto di una politica miope e giustizialista”. Tutta l’attenzione mediatica che si è vista in queste settimane attorno alla situazione del carcere della Dozza è sicuramente qualcosa di inusuale. Fino a poco tempo fa, quando sui giornali passava qualche notizia sul mondo che si vive dietro le sbarre in via del Gomito, questo avveniva attraverso il filtro dei comunicati dei vari sindacati della Polizia penitenziaria ed era una descrizione delle “violenze dei detenuti”, delle “condizioni di lavoro invivibile per gli agenti”, della “bravura degli stessi a far fronte ad episodi di autolesionismo” o ad “essere arrivati in ritardo a scongiurare un suicidio”. I numeri del sovraffollamento delle/i detenute/i finivano sempre in una sorta di equazione con le carenze di organico del personale di custodia. Ogni tanto le agenzie battevano i resoconti periodici dei Garanti delle/i detenute/i (comunale e regionale) e i giornali facevano un “copia e incolla” di quei lanci. Nei pressi del carcere erano solo i collettivi anarchici ad organizzare presidi, tanto rumorosi perché all’interno della Dozza le/i detenute/i potessero sentire i loro slogan e i loro appelli. Da parte di associazioni, spazi autogestiti e singolarità interessate alle problematiche carcerarie, più di una volta, c’erano stati tentativi di creare coordinamenti stabili, per denunciare la gravissima situazione delle galere italiane, per affrontare questioni come il sovraffollamento, la salute in carcere, le misure alternative, o per discutere ipotesi teoriche “abolizioniste” o percorsi e pratiche per “liberarsi della necessità del carcere”. Tanta buona volontà e tanto impegno concreto per costruire qualcosa di diverso, molti incontri interessanti (parlare di carcere in un clima politico/culturale “manettaro” e giustizialista è stato comunque importante), ma una difficoltà oggettiva a costruire qualcosa di continuativo che andasse ad incidere sulla tragica situazione delle prigioni della nostra città e del nostro Paese. Dei politici “istituzionali”, quasi sempre nessuna traccia. Di tutti coloro (parlamentari, consigliere/i regionali, parlamentari europee/i) che, nel loro mandato, hanno l’autorizzazione ad entrare in carcere per effettuare “visite ispettive”, in quanti hanno usufruito di questo loro “diritto”? Negli ultimi dieci anni molto pochi, soprattutto quelle/i di “sinistra” non si sono certamente affaticate/i nel varcare i cancelli di via del Gomito. Quelli dell’altra parte, quando ci sono andate/i, lo hanno fatto per sentire le lagnanze del personale addetto alla custodia. Se la situazione del carcere della Dozza è arrivata a uno stato di degradazione così preoccupante la responsabilità è di una classe politica che, a tutto tondo, ha sempre preferito lo slogan del “buttiamo via la chiave” piuttosto che affrontare i problemi della vivibilità durante l’espiazione della pena di tante persone costrette a vivere in condizioni che di umano hanno ben poco. Quanti sono stati i sindaci che si sono succeduti negli ultimi vent’anni a Palazzo d’Accursio che hanno fatto qualcosa per rendere effettivo slogan sdolcinati come “il carcere deve essere trasparente come una casa di vetro” o “il carcere della Dozza dev’essere il settimo quartiere della città”? Non facciamo fatica a rispondere: nessuno! E qual è il primo cittadino che, nei confronti della situazione igienico-sanitaria della casa circondariale di via del Gomito, ha utilizzato il potere di “massima autorità sanitaria cittadina” di cui è investito? Anche qui come sopra. Poi è arrivata, come un fulmine a ciel sereno, la notizia dell’apertura dentro il carcere bolognese di una sezione speciale per “giovani adulti problematici”, col trasferimento dagli Istituti penali minorili di una settantina di ragazzi (ne abbiamo parlato qualche giorno fa in un altro articolo). A quel punto le carte si sono scombinate in un “mischione” difficile da comprendere. I sindacati di polizia (da sempre “meloniani” e/o “salviniani”) si sono rivolti alle/i parlamentari del Pd affinché presentassero interpellanze contro il “pericoloso” progetto del ministero di Giustizia e dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria; hanno chiesto a tutto il centro-sinistra, ai vari livelli (nazionale, regionale, comunale), di darsi da fare per bloccare quella che non era solo un’idea balzana. A quel punto è stata una gara alla presa di posizione, anche i Garanti dei detenuti si sono finalmente svegliati e fatti sentire, i giornali, i tg e i siti di informazione hanno messo la Dozza, quotidianamente, tra le notizie ai primi posti. I gruppi consiliari del centro-sinistra di Comune e Regione hanno indetto una manifestazione/presidio nei pressi del carcere contro la “provocazione” alla città di Bologna da parte del Governo nazionale. Hanno partecipato un po’ tutti, sindacati di polizia, consiglieri e consigliere, assessori e assessore, parlamentari, volontari e volontarie, avvocate/i e camere penali, qualche artista, giornaliste/i, cameramen e fotografe/i. In più di duecento si sono ritrovati in una fredda sera di febbraio (e la cosa non è certo qualcosa di negativo). Molti di quelli che si battono per “liberarsi della necessità del carcere” non ci sono andati e, forse, hanno fatto bene… Era abbastanza complicato essere fianco a fianco con delle/i sindacaliste/i della polizia penitenziaria che, nello stesso giorno, avevano chiesto, in un loro comunicato, di avere in dotazione caschi e scudi per intervenire all’interno del carcere in situazioni problematiche, auspicando un rapido arrivo di quei “gruppi speciali” previsti in uno dei tanti decreti governativi. La manifestazione dei “duecento” ha avuto qualche esito? Può sembrare una barzelletta (ma rappresenta tutta l’arroganza di questo Governo): la data dell’avvio della sezione per “giovani adulti” che era prevista per metà aprile è stata anticipata al 15 marzo. Nei giorni immediatamente successivi al presidio è stato avviato velocemente il trasferimento di tutti i detenuti della sezione di “Alta sicurezza” al carcere di Fossombrone. Così potranno iniziare gli spostamenti dei detenuti del Penale nella sezione svuotata, con tutto quello che si produrrà a livello di limitazioni oggettive alle attività di studio, sportive e culturali per quei carcerati (che hanno pene lunghe e definitive). In questo scenario assurdo una sola cosa è certa: tutte/i andranno a stare peggio in un contesto che era già un bel po’ problematico per le persone recluse. Da tutto ciò, se vogliamo recuperare qualcosa di positivo, è importante sottolineare la presa di posizione chiara e determinata delle/i detenute/i che, sulla vicenda, hanno fatto uscire un comunicato: “Vogliamo esprimere il nostro dissenso verso questa vessazione che è il frutto di una politica miope e giustizialista, vedi decreto Caivano e il futuro ddl sicurezza, che influenzerà perniciosamente l’intero sistema penitenziario… Chiediamo quindi un’inversione di tendenza, ricordando che il fine della pena è la riabilitazione e tale decisione non risponde a nessuna logica rieducativa ma soltanto a quella securitaria che però in realtà, non produce nessuna sicurezza”. Le parole delle/i detenute/i della Dozza sono state molto importanti: “Anche noi abbiamo voluto alzare la voce contro il prossimo trasferimento dei ragazzi dal Minorile ed esprimere una opinione, che peraltro non ci è mai stata richiesta, riguardo l’ennesima brutale decisione da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria… Si va profilando un’ennesima dimostrazione del totale disprezzo da parte dell’Amministrazione nei confronti della popolazione detenuta, considerata non come un gruppo di individui pensanti, con affetti e sentimenti, ma come dei pacchi postali. Pacchi postali i quali sono però in grado di ricordavi che il carcere della Dozza è soggetto ad uno strutturale sovraffollamento e a una generale privazione dei diritti, causa di suicidi e traumi psicologi, che portano il dato della recidiva ad un fallimentare 70%”. La lettera/comunicato è maturata all’interno della redazione di “Ne vale la pena” (giornale periodico redatto all’interno della Dozza), le/i volontarie/i del Centro Poggeschi che l’hanno fatta uscire hanno ritenuto che “non ci sia voce che vada ascoltata più di quella di chi sta vivendo questa situazione sulla sua pelle”. Questa presa di parola delle/i detenuti è un fatto importante, non se ne ricordano tante altre negli anni passati. Vedremo cosa produrrà. Intanto, resteremo vigili e attenti/e su quello che avverrà nelle prossime settimane. Livorno. Il Garante Solimano: “La consegna dei nuovi padiglioni del carcere si è bloccata” di Luca Balestri Il Tirreno, 4 marzo 2025 L’appello al ministero: “La ditta se n’è andata e si è aperto un contenzioso”. L’avvocata Guia Tani: “Alle Sughere manca il basilare rispetto dei diritti umani”. Chiediamo un cronoprogramma per sapere quali saranno i tempi di consegna dei nuovi padiglioni del carcere di Livorno. Le persone detenute hanno diritto a una situazione di dignità e decoro che è per noi un elemento irrinunciabile”. Richiama al loro dovere gli organi che amministrano il carcere delle Sughere il garante dei detenuti del comune di Livorno, Marco Solimano. Solimano si appella al provveditorato regionale del ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “La ditta che ha fatto i lavori per i padiglioni nuovi se n’è andata nove mesi fa, ma ancora i nuovi spazi non ci sono stati consegnati - dice - e non sappiamo neanche di cosa tratti il contenzioso tra la ditta che ha fatto i lavori in carcere e l’amministrazione penitenziaria. Quindi la consegna dei padiglioni è bloccata, ma noi siamo all’oscuro del perché”. Sebbene il Comune di Livorno sia sempre stato attento al tema delle carceri, la sola volontà dell’amministrazione municipale di tutelare la popolazione reclusa in via delle Macchie - 248 detenuti secondo i dati aggiornati pochi giorni fa dal sito del ministero della Giustizia, su un totale di 391 posti, di cui però 212 non disponibili, mentre gli agenti penitenziari sono 244 su una previsione di 268 - non è sufficiente per una dignitosa vita di chi vive in cattività. “La situazione del carcere di Livorno negli ultimi mesi è peggiorata. Il reparto di media sicurezza è quello che ha maggior danni - continua il garante -. Le muffe e le condense attentano alla salute delle persone, e mezzo reparto è transennato, quindi ci sono meno spazi per la riabilitazione dei detenuti. Senza i nuovi padiglioni non c’è nessun margine di miglioramento per il nostro carcere”. Sono 248, come anticipato, i detenuti alle Sughere, di cui 130 all’interno della media sicurezza. Gli spazi di detenzione, sempre secondo i dati ministeriali, sono 296, 180 dei quali però non disponibili. “Sono anni che denunciamo questo stato di cose. Si deve sottolineare anche la scarsezza dell’igiene. In alcune celle il wc è accanto alla cucina. Non vi è il basilare rispetto dei diritti umani, le condizioni sono insalubri e sconcertanti”, le dure parole di Guia Tani, avvocata e referente per la situazione del carcere della Camera penale labronica, presieduta da Vinicio Vannucci. E a sottolineare la mancata collaborazione tra istituzioni, o meglio la mancata risposta del Provveditorato regionale e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è il sindaco Luca Salvetti. “All’interno del carcere c’è un mondo di grande criticità e di grande sofferenza nei confronti del quale non possiamo far finta di niente - specifica il primo cittadino -. Abbiamo fatto vari richiami verso i centri decisionali, che non sono qui, ma a Firenze e Roma. Ai nostri solleciti le risposte sono state deludenti”. L’appello del garante viene lanciato all’interno di un momento di mobilitazione nazionale dei garanti per le carceri di tutta Italia. L’appello è contro “il silenzio assordante da parte della politica e della società civile sul carcere”. Attraverso l’appello collettivo, quello che i garanti chiedono sono misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere, così come l’accesso a misure alternative per i detenuti, in particolar modo per chi sta scontando una pena o un residuo di pena inferiore a tre anni. Alle autorità competenti, i garanti chiedono anche l’attuazione della circolare sul riordino del circuito di media sicurezza per quanto riguarda la chiusura delle sezioni ordinarie, dato che la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. All’ordine del giorno delle richieste dei garanti non manca la garanzia dell’affettività in carcere, cioè il diritto dei carcerati a colloqui riservati ed intimi. Presenti alla conferenza anche l’assessore comunale alla casa e al sociale, Andrea Raspanti, il presidente di Arci Alessio Simoncini, Nicola Patti della Fondazione Caritas e il security manager nominato dall’amministrazione, il poliziotto della Digos in pensione Giampaolo Dotto. Vibo Valentia. Sinergia tra Mulinum e carcere, i detenuti diventano pasticceri ansa.it, 4 marzo 2025 Iniziativa unisce formazione, inclusione sociale e lavoro. Farina integrale di grani antichi, uova, burro, poco zucchero e tanta voglia di riscatto: sono gli ingredienti del progetto di pasticceria artigianale nato all’interno della Casa Circondariale di Vibo Valentia e che unisce formazione, inclusione sociale e lavoro. L’iniziativa è stata realizzata grazie alla collaborazione tra Mulinum, azienda agricola catanzarese specializzata nella produzione di farine da grani antichi, e la Caritas diocesana di Mileto, con il supporto della direzione del carcere. Venti detenuti del circuito di Media Sicurezza hanno così avuto la possibilità di apprendere l’arte della pasticceria e produrre biscotti di alta qualità. Il progetto rientra nell’ambito di “Seconda Chance”, un’iniziativa ideata dalla giornalista Flavia Filippi per creare ponti tra imprenditori e detenuti, offrendo opportunità di reinserimento lavorativo. “È un passaggio importante nel percorso di riabilitazione - afferma la direttrice del carcere Angela Marcello, affiancata dalla capo area educativa Barbara Laganà e dalla referente del progetto Caterina Maletta - che consentirà ai detenuti più talentuosi di essere selezionati per un’eventuale assunzione da parte di Mulinum. La sinergia tra le realtà coinvolte vede la Casa Circondariale che fornisce gli spazi. Mulinum che mette a disposizione le competenze e la Caritas di Mileto, rappresentata da don Antonio Pileggi e Raffaele Cuppari che contribuisce all’acquisto delle materie prime e delle attrezzature necessarie. Un ruolo chiave è svolto anche da Valeria Votano, referente dell’associazione Seconda Chance per la Calabria. “Ogni giorno, sotto la guida di un’esperta pasticcera dell’azienda agricola e delle educatrici del carcere - è detto in una nota - i detenuti migliorano le proprie abilità e producono biscotti Mulinum, che vengono poi distribuiti alle famiglie in difficoltà attraverso la Caritas. Un gesto che unisce gusto e solidarietà, dando un nuovo significato alla pasticceria: non solo una professione, ma anche uno strumento di riscatto sociale”. “Costruire futuro laddove spesso si immagina che niente sia più possibile - sottolinea Stefano Caccavari, fondatore di Mulinum - è la vera essenza di questo progetto”. Napoli. Per i giovani detenuti di Nisida il lavoro è speranza nel presente di Giorgio Paolucci Avvenire, 4 marzo 2025 L’aumento dei reati contro la persona rispetto a quelli contro il patrimonio delinea un passaggio generazionale. Il percorso educativo di Alessandro e Yasser, alla scoperta del proprio valore. È una meraviglia il panorama che si spalanca davanti agli occhi percorrendo la strada che sale verso il carcere minorile di Nisida. Il mare di Napoli, l’azzurro del cielo, il volo teso dei gabbiani, la vegetazione fiorente e selvaggia. Un inno alla bellezza, quasi un assaggio di paradiso, anche se i ragazzi che vivono qui hanno conosciuto l’inferno, camminando su una cattiva strada che li ha portati alla detenzione. Alessandro (nome di fantasia), napoletano verace, è arrivato tre anni fa, a dicembre dovrebbe rientrare a casa. In carcere ha ritrovato la stima di sé, ha preso il diploma di pizzaiolo, l’attestato di primo soccorso e ora frequenta l’istituto alberghiero. “Quando uscirò voglio fare una vita migliore. Qua dentro ho imparato a rubare - sorride -. Rubo la parte buona di quelli che stanno qui, soprattutto della mia educatrice che mi ha tanto aiutato. E se metti insieme il buono di tutti diventi migliore, non credi? Dopo tante cose illecite, desidero un lavoro pulito. Nella vita ci vogliono tre cose: la volontà, la furbizia e la fortuna, le prime due ce le metto io, la terza non dipende da me ma spero che arrivi... Se mi piacerebbe fare famiglia? Certo che sì, voglio avere quattro o cinque figli. Un figlio ti cambia la vita, oggi la gente fa pochi figli perché ha poca speranza. Se perdi la speranza, sei un fallimento”. Non male come orizzonte per cambiare strada, anche se lui per primo riconosce di non sapere se è pronto per il grande salto. Se Alessandro ha qualcuno che l’aspetta a casa, Yasser a casa non ci vuole proprio tornare. È uno dei 12 stranieri ospitati a Nisida (trasferiti qui a causa dell’overbooking che da tempo si registra negli istituti penali per minorenni del Nord) che convivono con 55 italiani, quasi tutti provenienti da Napoli e hinterland. A 14 anni è partito dal Marocco promettendo alla mamma che avrebbe fatto fortuna, è arrivato in Spagna aggrappandosi al pianale di un camion, ha girato per l’Europa campando di espedienti. Una vita grama, lontanissima dai suoi sogni, “ma almeno ho imparato le lingue. Sono andato con gente cattiva che mi ha insegnato cose cattive, ora basta. Se continuavo così restavo sempre a zero, ho capito che si può fare un’altra vita. Qui ho preso la terza media, ora faccio l’alberghiero, sto andando a scuola di ceramica, dicono che a calcio sono molto bravo, chissà... No, indietro non torno, al mio Paese lavoravo per tre euro al giorno. Solo che non ho i documenti, come farò a mettermi in regola?”. torte e destini diversi convivono fianco a fianco in un caleidoscopio di umanità difficile da governare, dove le tensioni non mancano e dove ogni giorno ci si deve misurare con le sfide dell’integrazione e della contaminazione tra culture, con la possibilità di imparare qualcosa dal rapporto con l’altro e di potergli offrire qualcosa di sé. In questi anni, insieme alla composizione della popolazione carceraria, è cambiata anche la natura dei reati. “Fino a tre anni fa facevamo i conti quasi esclusivamente con persone che avevano commesso crimini contro il patrimonio, ora più di un terzo degli ospiti ha compiuto reati contro la persona - omicidi, lesioni, violenze di natura sessuale -, per i quali sono previste condanne più pesanti e quindi tempi di permanenza più lunghi - spiega Gianluca Guida, storico direttore dell’Ipm di Nisida. È un fenomeno che accomuna italiani e stranieri, i ragazzi spesso non sanno neppure spiegare le ragioni dei loro gesti, c’è una banalizzazione del reato che riconduce a ragioni di fondo: la violenza trova origine in storie di sofferenza, nella rabbia compressa, nella mancanza di riferimenti adulti credibili a partire dalla scuola e dalla famiglia, soprattutto dai padri. Da questi giovani arriva un campanello d’allarme che rimanda alla mancanza di proposte educative efficaci da parte degli adulti. Noi qui facciamo quello che possiamo, ma è necessaria un’alleanza forte tra istituzioni, società civile, terzo settore, parrocchie, come ha esortato a fare l’arcivescovo Domenico Battaglia che ha lanciato l’idea di un patto educativo. Certi reati provocano molto allarme nell’opinione pubblica, ma le misure contenitive come il carcere - pur necessarie - sono una risposta inadeguata alla posta in gioco”. a tempo a Nisida si è cementato un forte spirito di squadra che si esprime in una collaborazione efficace tra direzione, educatori, personale di sorveglianza e in un’offerta trattamentale su vari livelli: alfabetizzazione linguistica, laboratori (pasticceria, pizzeria, friggitoria, ceramica, restauro edile, manutenzione del verde), sport, teatro, musica, contrasto alle dipendenze e alla violenza come modalità normale di comportamento. L’architetto Felice Iovinella da 13 anni dirige il laboratorio di restauro edile: “Questi ragazzi sono carichi di passato perché coincide con il motivo per cui stanno qui, identificano il futuro con il giorno della scarcerazione ma faticano a vivere il presente. Il lavoro per loro può diventare l’occasione per guardare il presente come una grande opportunità di riscatto e per prendere consapevolezza di ciò che valgono. Ricordo un episodio: un giovane non voleva più continuare l’attività, un giorno un suo compagno gli ha preso la mano e insieme alla sua ha impugnato la cazzuola e l’ha intinta nel secchio. Fu l’inizio della sua ripartenza, aveva incontrato qualcuno che l’aveva rimotivato”. “La nostra bussola è la cura della persona nella sua integralità - ragiona Guida. Accompagniamo i giovani a scoprire e valorizzare i loro talenti e nello stesso tempo a riconoscere le fragilità che li hanno portati a commettere il reato, e questo può diventare una leva per il cambiamento. Non sogniamo ragazzi perfetti, piuttosto cerchiamo di andare alla radice delle motivazioni che hanno generato la devianza e proviamo a creare delle alternative. La pena deve attivare una dinamica di responsabilizzazione e favorire il mutamento degli stili di vita. Ma solo se noi li ascoltiamo e se loro imparano a conoscersi, possono cominciare a cambiare”. Silvia Vigilante lavora a Nisida da 15 anni come educatrice, un ruolo fondamentale per rilanciare le persone. “Siamo una realtà comunitaria che ha la fortuna di operare in un luogo circondato dalla bellezza, e questo certamente aiuta. Non abbiamo la presunzione di salvare nessuno, solo Dio può farlo. Ma possiamo tendere la mano, accompagnare, incoraggiare. I risultati? A volte si vedono subito, a volte arrivano dopo tanto tempo. E bisogna mettere in conto pure le sconfitte. Ogni ragazzo ha una storia sua, dobbiamo essere flessibili, disponibili a modificare le strategie che mettiamo in campo, avendo ben presente che lavoriamo con persone che vivono la sofferenza più grande - la privazione della libertà - ma che coltivano sogni”. Nei giardini di Nisida un murale raccontai sentimenti che abitano il cuore di questi giovani. È nato dalla collaborazione di alcuni di loro con Maupal, lo street artist romano che da anni opera nelle carceri italiane, all’interno del progetto di avviamento al lavoro ‘Sole in mezzo’: Un giovane di spalle cammina in direzione del futuro: nella mano sinistra tiene lo zaino simbolo di un passato incancellabile, con la destra regge una palla incatenata, icona della condizione delle persone detenute, che ha una metà nera che fa memoria del passato mentre l’altra metà ha i colori del globo terrestre per testimoniare la volontà di cambiamento. Dalla palla pende una catena spezzata, annuncio di una vita nuova che attende il protagonista. A fianco una scritta: “Ero, ora sono”. A Nisida si coltiva la buona pianta della speranza. Brescia. Fragili legami, l’arte in carcere. Il progetto anche per i malati di Federica Pacella Il Giorno, 4 marzo 2025 Arti performative come risorsa per la salute, anche in contesti difficilissimi come il carcere. L’esperienza bresciana del progetto Fragili legami, che il Dams dell’Università Cattolica di Brescia realizza da dieci anni nelle case di reclusione di Verziano e Canton Mombello, dimostra che si può fare. “In quelle due ore - è la testimonianza di un recluso - non ci sentiamo detenuti ma ci ritagliamo uno spazio in cui siamo noi stessi, dove possiamo dimostrare che, se ci viene data l’opportunità, possiamo dare qualcosa anche noi”. Particolarità del progetto è il coinvolgimento non solo dei detenuti, ma anche delle famiglie, con l’obiettivo di mantenere le relazioni affettive, fondamentali al reinserimento dopo la pena. Se ne è parlato nel convegno “Arti performative in carcere. Una risorsa di salute”, organizzato ieri in Cattolica, con uno sguardo, però, più ampio: partendo dal caso dell’arte in carcere a Brescia, ma anche dagli ottimi risultati del Gemelli di Roma, dove le arti sono state messe a servizio della salute nei pazienti oncologici (ne ha parlato Vincenzo Valentini, Ospedale Isola Tiberina - Gemelli Isola Roma), si è fatto il punto su come rendere più strutturale il legame tra arte e salute. “È crescente il riconoscimento scientifico delle potenzialità delle arti per la salute - commenta Carla Bino, responsabile del progetto Arti per la cura, Università Cattolica del Sacro Cuore - come riportato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, che ha raccolto oltre tremila studi scientifici pubblicati sul tema negli ultimi due decenni”. Ora l’obiettivo è raccogliere i dati scientifici che attestano la validità dei progetti già esistenti, per arrivare alla prescrizione e al finanziamento, da parte del servizio sanitario nazionale, della partecipazione ad esperienze sociali e artistiche, come già avviene in altri paesi del contesto anglosassone. Cremona. “Con gli occhi sbarrati”, un viaggio all’interno della realtà carceraria di Maria Grazia Leporati Il Giorno, 4 marzo 2025 Oltre le mura: riflessioni sulla triste realtà dei penitenziari italiani, dalla disinformazione e dai pregiudizi alla consapevolezza. “Con gli occhi sbarrati” è il progetto al quale la scuola secondaria di primo grado “Virgilio” ha aderito con le classi terza C e terza A. Si tratta di sensibilizzare e informare riguardo alla situazione delle carceri, che nel nostro Paese è molto grave e nonostante questo se ne sa poco e spesso se ne parla in modo inappropriato. Questo progetto si è sviluppato grazie all’aiuto di esperti, tra cui il regista del film: “11 Giorni Tra Le Mura Del Carcere “, Nicola Sartori, suor Franca e suor Anna, portatrici delle loro diverse esperienze di volontariato. L’obiettivo degli incontri con questi esperti è stato appunto informarci su ciò che in effetti accade nelle carceri, in particolare sui problemi di quelle italiane: il sovraffollamento e la particolare concentrazione di immigrati. Dialogare con loro ci ha permesso di guardare ai carcerati come a delle persone, mentre la diffusa disinformazione li presenta come mostri, rozzi e crudeli. In particolare dagli interventi delle suore abbiamo compreso che un carcerato, tanto quanto un uomo libero, è una persona con una famiglia, con delle persone che ama. Le due religiose ci hanno raccontato che spesso chiedevano i numeri di telefono delle madri ai ragazzi più giovani per favorire un contatto tra loro e per rassicurarle. Grazie a questi interventi abbiamo davvero capito il significato del termine “Ora d’aria”: i carcerati hanno letteralmente un’ora in cui possono stare all’aperto o quantomeno in alcune stanze più grandi di pochi metri quadrati. La condizione attuale delle carceri italiane è veramente spaventosa: ci sono troppe persone e non c’è abbastanza spazio per tutti. Perciò non ci si deve meravigliare degli atti di violenza provocati dalla pressione continua che li opprime e non li fa vivere. Un altro spunto sul quale siamo riusciti a ragionare grazie all’aiuto delle suore è stata la realtà del carcere femminile e le domande che abbiamo rivolto sono state: un carcere maschile è diverso da un carcere femminile? Cosa succede alle donne incinte che vanno in carcere? A questi quesiti abbiamo avuto varie risposte, ad esempio abbiamo appreso che le carceri femminili devono per forza essere sorvegliate da donne e, viceversa, per quelle maschili e ciò è stato stabilito per minimizzare il più possibile il rischio che si verifichi qualsiasi tipo di problema. Invece, con la risposta al quesito riguardante le donne in gravidanza, abbiamo scoperto che in tal caso il bambino viene lasciato alla madre per poco tempo, per poi essere successivamente affidato al parente più prossimo, o, in casi estremi dato in adozione. L’esperienza di questo progetto ha consentito alle classi di affrontare con serietà e rigore una tematica tanto complessa e urgente quanto delicata, inoltre è molto importante diffondere la conoscenza di questo problema sociale, a partire dai ragazzi giovanissimi. Firenze. Istituti penali minorili, le emozioni e i sogni dei ragazzi in 66 scatti di Ilaria Dioguardi vita.it, 4 marzo 2025 Al Museo degli Innocenti di Firenze la mostra “Dalla mia prospettiva” raccoglie gli scatti realizzati da 22 ragazze e ragazzi di cinque carceri per minori attraverso un progetto dell’Autorità Garante per l’Infanzia. Il fotoreporter Valerio Bispuri: “Il focus era portare a galla le emozioni dei ragazzi. Auspico che si possa ripetere in altri istituti”. Cinque istituti penali per minorenni, ventidue ragazze e ragazzi ristretti, sessantasei scatti. Sono i numeri della mostra Dalla mia prospettiva, visitabile gratuitamente al Museo degli Innocenti di Firenze fino al 22 marzo. Le foto esposte sono il frutto di laboratori fotografici realizzati dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e dal fotoreporter Valerio Bispuri, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti. Sono stati coinvolti gli Ipm “Silvio Paternostro” di Catanzaro, di Quartucciu (Cagliari), “Casal del Marmo” di Roma, “Ferrante Aporti” di Torino e il femminile di Pontremoli (Massa Carrara). “Questo progetto nasce da una brillante idea dell’ex garante dell’Infanzia e dell’adolescenza Carla Garlatti, con l’obiettivo di provare a dare una nuova visione o una nuova possibilità ai minori che si trovano in carcere”, dice Valerio Bispuri. “Hanno chiamato me perché ho esperienza di altri lavori nelle carceri e insegno. Il focus del progetto era quello di far uscire le emozioni dei ragazzi. Non abbiamo puntato tanto sulla tecnica fotografica, ma sul fatto di cercare di proporre a questi giovani, attraverso tre domande, un’idea di come l’emozione possa essere trasmessa attraverso un’immagine”. Le foto in risposta a tre domande - Nel progetto i ragazzi hanno risposto alle domande: “Racconti, con una foto, il tuo quotidiano? Quali sono i tuoi sogni, una volta uscito dal carcere? La persona o la cosa a cui pensi di più, qui dentro?”. “Le risposte a queste tre domande dovevano essere sviluppate attraverso le emozioni, non si potevano fotografare chiaramente i volti, né degli altri compagni né i propri, quindi attraverso gli oggetti, le forme, tutto quello che veniva loro in mente. Io facevo un po’ da tramite, cercavo di far capire che noi possiamo trasmettere le nostre emozioni anche con l’immagine, che la fotografia non è soltanto il selfie o il racconto della giornata, ma è anche il racconto di quello che abbiamo dentro. Questo è stato un po’ il processo, per cui abbiamo parlato tanto con i ragazzi prima di iniziare”, continua Bispuri. Per ogni istituto sono stati scelti cinque ragazzi che hanno partecipato al corso. Una motivazione per il “dopo” - “L’idea finale è quella di vedere se qualcuno, una volta uscito, possa avere interesse all’immagine, alla fotografia. Le situazioni di questi ragazzi sono molto difficili, sono spesso persone che non hanno famiglia o sono migranti venuti a vivere Italia. L’idea di proporre qualcosa di nuovo, secondo me, è stata molto interessante. Abbiamo lavorato circa un anno a questo progetto”. All’inizio del laboratorio “lo prendevano un po’ come un gioco, poi piano piano hanno capito che non si trattava soltanto di fare le foto, ma di raccontare chi erano loro. Che poi è anche quello che io faccio normalmente quando insegno fotografia ai miei allievi: oltre alla tecnica fotografica e a tutto quello che ci vuole per scattare, è importante tirare fuori se stessi. Questa è stata per loro una cosa importante, nuova, che in molti casi li ha proprio emozionati, li ha coinvolti”. È stata “una bellissima idea”, continua Bispuri, “questa di portare la fotografia anche in luoghi dove normalmente non c’è”. Terminato il progetto, “ho lasciato ai ragazzi i miei contatti, così che se qualcuno vuole dei consigli, io sono a loro disposizione”. Il laboratorio - “Quando andavo a fare il laboratorio negli Ipm, entravo con due macchine fotografiche, mi accompagnava una persona dell’Istituto degli Innocenti. Poi arrivavano i ragazzi, la prima ora noi spiegavamo che cosa volevamo fare e poi li lasciavamo liberi di raccontarsi. Dopodiché iniziavamo a sviluppare le loro risposte, a provare a vedere come rappresentarle. Ognuno faceva tre scatti: una foto per ognuna delle risposte alle tre domande”. Negli scatti di Dalla mia prospettiva, “si cerca, attraverso la simbologia del racconto fotografico, di tratteggiare un racconto, di rappresentare quello che i ragazzi sentivano e volevano. È stato un lavoro che mi ha lasciato tanto e che ho fatto, oltre che con grande professionalità, mettendoci il cuore”, dice il fotoreporter. Un progetto che si potrà estendere? Le foto esposte saranno raccolte in una pubblicazione. “Auspico che il progetto possa continuare, abbiamo potuto realizzarlo solo in cinque istituti penitenziari, si potrebbe allargare ad altri: è importante dare uno stimolo a questi ragazzi. Anche se solo uno o due di loro continuassero con la fotografia, una volta usciti, sarebbe già una bella soddisfazione”. Questo progetto “è stato una sfida da parte mia, perché io solitamente racconto attraverso i volti. Ad esempio, sto terminando un lavoro sugli orfani del mondo. Ho una grande esperienza del carcere per adulti: ho fatto un lavoro su 74 carceri in Sud America, un altro su 10 carceri in Italia. Ho alle spalle anni di lavoro negli istituti di pena, ma con questi ragazzi è diverso: stanno cercando una loro identità, un loro modo di essere, di formarsi. È stato molto emozionante avere a che fare con loro, hanno una tipologia diversa di espressione, di emozione. Però proprio per questo, secondo me, è anche più possibile lavorarci, proprio perché ancora non sono formati completamente”. Giovedì 6 marzo alle ore 11,30 la mostra sarà presentata presso il Salone Pocetti dell’Istituto degli Innocenti. In programma interventi di Maria Grazia Giuffrida, presidente Istituto degli Innocenti; Marina Terragni, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza; Antonio Sangermano, capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia; Carla Garlatti, già Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e Valerio Bispuri, fotoreporter. Modera Raffaella Pregliasco, ricercatrice, responsabile del servizio documentazione dell’Istituto degli Innocenti. L’eredità di Claudia Fiaschi: il valore del Terzo settore e la disponibilità all’ascolto di Ivano Maiorella* Corriere della Sera, 4 marzo 2025 A un anno dalla sua scomparsa resta l’insegnamento del grande rispetto che aveva per gli altri: persone che aveva messo al centro della sua idea di Terzo settore. Essere terzi non significa sentirsi terzi. L’identità del “Terzo” è molto forte perché c’è un “eroismo sostanziale nel rendersi disponibili a condividere ogni giorno l’inferno degli altri”. Nel suo formidabile saggio, scritto su impulso di Elisabetta Soglio ed altri amici, Claudia Fiaschi parte proprio dalla nobiltà del numero tre. Dimenticando di elencare marzo, il terzo mese dell’anno, quello che dà inizio alla primavera e che, ironia della sorte, ce l’ha portata via lo scorso anno. Ricordo Claudia per il grande rispetto che aveva per le persone, che metteva al centro della sua idea alta di Terzo settore. E citava I giusti di J.L. Borges, da chi accarezza un animale addormentato ai due impiegati al bar. Sapeva riconoscerli e rivolgere a loro ogni sua attenzione: “Tali persone che si ignorano, stanno salvando il mondo”. Aveva scelto il Terzo settore perché era popolato da loro. E aveva compreso la prima regola della comunicazione: disponibilità ad ascoltare. Da portavoce del Forum del terzo settore (2017-2021), editore del Giornale Radio Sociale, ha seguito con interesse la redazione, insieme a Maurizio Mumolo, senza mai interferire. Dava molta importanza alla comunicazione sociale e ai progetti in cui la coinvolgevamo, come i corsi con Odg e Fondazione Con il Sud, su linguaggio e territorio. Che fecero da spunto nel 2019 a un anno di storie del Terzo settore raccontate da tutte le Tgr Rai, grazie alla collaborazione di Roberto Natale, allora Rai per il sociale, e al lavoro redazionale di Anna Monterubbianesi, insieme ai Forum regionali. Il mondo di Claudia parla a ognuno di noi, ha bisogno dei contadini esperti che citava, che conoscono la terra e la sua capacità di ospitare nuovi semi. Ti siamo grati Claudia, per aver preparato quella terra, che ora ti ospita. *Direttore Giornale Radio Sociale e Uispress La politica non è una partita di calcio di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 marzo 2025 La ragazza iraniana che si toglie il velo rischiando la prigione pensate che sia attratta dai valori occidentali? Ma no! La sua è voglia di libertà e indipendenza e questo è un valore universale. Un valore che esiste in tutti i popoli e in tutte le persone, ma nei Paesi totalitari e repressivi viene soffocato. Possibile che la politica stia diventando come una partita di calcio? Appena la squadra perde, si comincia a inveire contro allenatore e giocatori, si inventano teorie di tutti i generi per spiegare il crollo della squadra. C’è chi chiede il cambio dell’allenatore che viene sbertucciato e inveito dai tifosi. Ma veramente si pensa che la politica sia una partita di calcio? E si ritiene che i vincitori siano i più bravi, i più coraggiosi, i più intelligenti? E che gli allenatori vittoriosi, ovvero i politici al potere, siano i più adatti a governare? Eppure è quello che sta succedendo con la politica europea. Se una maggioranza, incalzata da paure profonde e obnubilata dalla cattiva informazione, decide di premiare i più ricchi e autoritari, si decide che questa è la volontà popolare e quindi va accettata come la migliore. Se una forza politica aggressiva occupa velocemente tutti i posti di potere e di prestigio, ci si adegua perché questo è il volere della maggioranza. E se coloro che sono all’opposizione, difendendo (con scarsa energia per via di litigi e personalismi) la libertà e l’autonomia delle istituzioni come la magistratura, i media, la scuola, i sindacati, la sanità pubblica, la ricerca, senza trovare consenso, si stabilisce che la democrazia è in crisi, che l’Europa è morta, che l’Occidente non ha più credibilità tagliando le gambe alla voglia di reagire. Ma i valori che difendiamo non sono occidentali, bensì universali. La ragazza iraniana che si toglie il velo rischiando la prigione pensate che sia attratta dai valori occidentali? Ma no! La sua è voglia di libertà e indipendenza e questo è un valore universale. Un valore che esiste in tutti i popoli e in tutte le persone, ma nei Paesi totalitari e repressivi viene soffocato. Il relativismo ci porta a un atteggiamento di timidezza culturale. E invece di difendere l’Europa, che è la nostra risorsa più preziosa, la si dà per defunta e ci si accinge a farle il funerale, scoraggiando penosamente i giovani. La soluzione? Certo se ne possono proporre diverse, ma come dice Draghi, non possiamo restare a guardare quello che succede. Se non troviamo una comune energia etica faremo solo il gioco di chi pretende di trattare il mondo come una propria azienda dove si fanno profitti comandando, licenziando, schiacciando i diritti dei deboli. E non si tratta di una etica che si costruisce da soli, in nome della purezza delle proprie scelte, ma insieme in nome della democrazia, a cui per il momento non si vedono alternative valide. Migranti. San Ferdinando, “il ghetto di stato” deve essere chiuso di Silvio Messinetti Il Manifesto, 4 marzo 2025 L’eurodeputato Mimmo Lucano: “Depositeremo a Strasburgo una legge per l’inserimento abitativo diffuso”. Quindici anni fa, all’indomani della rivolta di Rosarno, nacque la tendo-baraccopoli per migranti di San Ferdinando. Da allora la musica è sempre la stessa. È come stare davanti a una lavatrice e vedere il cestello che gira. Prima si forma una favela, poi arriva lo sgombero, allora si crea una tendopoli. Le tendopoli si trasformano in baraccopoli poi ancora ruspe e sgomberi. A 15 anni dalla rivolta la situazione resta incendiaria. E la bomba San Ferdinando è pronta a riesplodere. L’ultimo apprendista stregone era stato Matteo Salvini. A bordo della sua ruspa attraversò la distesa della zona industriale e rase al suolo la tendopoli. Ma in pochi credevano che non fosse il solito spot elettorale. L’ex ministro degli Interni andò via e in breve tempo i migranti tornarono a occupare gli spazi. Era il 2019. Ora intorno alle tende installate 6 anni fa da Viminale e Protezione civile come funghi sono spuntate baracche ovunque. Ma “il ghetto di Stato” va chiuso prima che una nuova tragedia lo riporti nella cronaca nera. Lo sostiene Emergency che nella Piana di Gioia Tauro opera da tempo. Ma anche l’associazione Medici per i diritti umani che in questa landa, abbandonata da tutto e da tutti, ha un encomiabile presidio sanitario. Lo denuncia il sindacato Usb, che a queste latitudini è radicato nel conflitto e nella vertenzialità diffusa, e chiede l’apertura immediata delle palazzine di Contrada Serricella, recentemente ristrutturate dal comune di Rosarno. Anche gli studiosi dell’Università della Calabria ritengono la situazione ormai insostenibile. Secondo Mariafrancesca D’Agostino, docente di Sociologia politica e autrice di Paesaggi dell’accoglienza - La governance dei rifugiati vista da sud (Pellegrini editore), “gli incidenti verificatisi a San Ferdinando in questi anni hanno riproposto sempre la stessa parabola: prima si istituzionalizza un campo, poi quando le contraddizioni giungono al culmine (perché si esauriscono i fondi, perché i posti si rivelano insufficienti, perché si acutizzano le tensioni fra gli ospiti) arrivano lo sgombero e i fondi per installare una nuova tendopoli destinata, a sua volta, a tramutarsi col passare del tempo in un nuovo insediamento informale. Confinare i braccianti in dormitori sovraffollati significa sperperare denaro, accrescere il malcontento fra gli autoctoni, spingere i migranti all’autoghettizzazione, inibirne l’accesso a tutti quei diritti che li integrano nella società”. Per provare a dare una risposta istituzionale al disagio ieri mattina una delegazione di personalità della sinistra sociale e politica ha organizzato una visita-presidio nell’area di San Ferdinando. Tra loro il sindaco di Riace ed eurodeputato di Avs Mimmo Lucano, accompagnato da padre Zanotelli e dall’ex parlamentare e sindaco di Rosarno, Peppino Lavorato. E poi esponenti dell’Anpi, di Rifondazione, Avs, Libera e il magistrato Emilio Sirianni, presente a titolo personale. “Bisogna chiudere questa baraccopoli perché non possiamo più accettare queste condizioni di vita aberranti. Quel che succede qui (le baracche di plastica e cartoni, il cibo cucinato per terra, la vita quotidiana senza servizi essenziali) non è degno di un Paese civile. Ma non basta chiederne la chiusura, è necessario anche avanzare una proposta, Riace rappresenta una speranza. Occorre trasformare il dolore in speranza” ha affermato Lucano. La soluzione, dicono i promotori, sarebbe l’inserimento abitativo diffuso nelle centinaia di case sfitte attraverso l’apertura di incentivi per i proprietari che intendono concedere le case in affitto. Depositeranno nei prossimi giorni a Strasburgo un progetto di legge europea. Aprire, dunque, le porte dei paesi deserti, presenti nelle aree interne, a chi viene in Europa in cerca di un futuro migliore. Padre Zanotelli ha iniziato ieri il suo “digiuno di giustizia”: “Da sette anni, ogni mese, facciamo una giornata di digiuno in solidarietà con i migranti in fuga. Questo mese la faremo qui”. Il giudice Sirianni: “Sei milioni di persone continuano a rischiare la vita nella traversata in mare per raggiungere l’Europa, unico lembo di terra in cui sono riconosciuti i diritti. Questo è il senso della bandiera dell’Europa, non certo i carri armati. Dopo 32 anni in magistratura non so cos’è la giustizia, ma so di certo cos’è l’ingiustizia. E alberga in posti come questo”.