La doppia pena delle donne in carcere, isolate dentro quelle celle a misura di uomo di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 marzo 2025 Delle quasi 3mila detenute, solo un quarto si trova nei tre Istituti femminili attivi. Le altre sono sparpagliate nei penitenziari maschili, invisibili e spesso lontane dai propri affetti. Una “minoranza penitenziaria”. È ciò che sono le donne nei nostri istituti di pena, una manciata di dati irrilevanti tra i numeri spaventosi delle carceri. Secondo l’ultimo aggiornamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 gennaio 2025 le donne recluse erano 2.718 su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini. Una percentuale minima, ferma negli anni sotto il 5 per cento. Al momento solo tre carceri, in Italia, sono interamente femminili e si trovano a Trani, Roma e Venezia. Questi istituti ospitano circa un quarto delle donne detenute, tutte le altre si trovano nelle sezioni loro dedicate nei penitenziari maschili. Poi ci sono gli Icam, gli istituti a custodia attenuata che ospitano le detenute madri con figli al seguito. “Il numero di donne detenute è nettamente inferiore a quello degli uomini, con evidenti ricadute per quanto concerne la collocazione sul territorio, i trattamenti previsti e applicati, la vita carceraria in generale, i percorsi rieducativi nel loro complesso applicati e le risorse economiche adoperate; tutti elementi che risultano parzialmente compromessi”, spiega Antigone nel primo rapporto sulle detenute in Italia fermo al 31 gennaio 2023. Le donne delinquono meno e sono considerate meno pericolose. Non rappresentano un “fenomeno” di cui preoccuparsi. E quindi sono sparpagliate sul territorio nazionale dove si può e come si può, lontane dai propri affetti e da quel legame con il mondo di fuori che rende possibile sopravvivere al dentro. Soffrono l’isolamento, dentro i reparti delle carceri maschili. Che sono istituti pensati a misura di uomo anche dal punto di vista architettonico. Per loro, le donne, la pena è doppia. Perché non esistono più di quanto non esistano gli altri detenuti ammassati nelle nostre celle. “Il sistema penale investe la maggior parte delle risorse sul controllo della devianza maschile e sul mantenimento dell’ordine, relegando il sistema detentivo femminile a una spesa residuale. In altre parole le donne hanno spazi più piccoli, minore possibilità di risposta ai bisogni specifici, meno strutture e quindi meno possibilità di scontare la pena vicino al territorio in cui si hanno reti familiari e sociali”, spiega ancora Antigone. Da questo punto di vista è emblematico ciò che è successo la scorsa primavera nel carcere femminile di Pozzuoli, chiuso a maggio 2024 per l’intensificarsi dello sciame sismico nell’area flegrea. Costrette ad evacuare dopo le forti scosse del 20 maggio, le 140 detenute ospitate nell’istituto campano hanno passato insieme alle agenti penitenziarie un’intera notte all’addiaccio, all’esterno del carcere, in attesa di conoscere il proprio destino. Come ha raccontato in quelle ore drammatiche a Radio Vatican News don Fernando Carannante, cappellano del carcere da 24 anni, le recluse sono salite sugli autobus per essere trasferite in altri istituti della Campania e d’Italia, da Perugia a Milano. Smarrite, catapultate d’improvviso lontano dai propri affetti e costrette a lasciare le attività lavorative disponibili sia in carcere che nei contesti vicini alla casa circondariale di Pozzuoli. Una delle poche strutture in Italia dedicate alla detenzione femminile, che prevede programmi di reinserimento al lavoro grazie a una sartoria e alla torrefazione delle Lazzarelle. Anche a Venezia, l’istituto femminile della Giudecca si contraddistingue per le attività volte alla rieducazione e al reinserimento sociale attraverso i laboratori di cosmetica, cucina e sartoria disponibili in carcere. Qui le detenute lavorano all’orto nell’azienda agricola interna all’istituto, imparando mestieri che potranno essere loro utili una volta uscite. Anche se i problemi non mancano. “Il carcere femminile è diverso da quello maschile, è più complesso, comunque le celle sono aperte dalle 8 alle 20, e la zona d’aria è più grande di altre carceri, al contempo, la struttura è vecchia e le celle possono ospitare anche 8-9 persone insieme. La convivenza e la condivisione degli spazi diventano complicate, soprattutto la sera, e lì, dipende tutto dalle persone e da come reagiscono, da che dinamiche si instaurano”, spiegava suor Anna Follador della cappellania penitenziaria di Venezia dopo la visita del Papa nell’aprile 2024. Le cose si complicano quando si ha a che fare con le sezioni femminili, laddove diventa più complicato attivare corsi e laboratori specifici, dal momento che il regolamento penitenziario nega l’accesso alle strutture comuni per evitare la promiscuità. La criticità maggiore riguarda l’offerta scolastica, che secondo i dati raccolti da Antigone si interrompe generalmente nei gradi inferiori di istruzione e decresce man mano che si procede verso i gradi più alti. “Non c’è motivo di supporre che le donne siano meno interessate ai corsi di istruzione di secondo livello - si legge nel documento -. La verità è che questi, negli istituti più piccoli, generalmente non esistono, spesso con la giustificazione che non ci sono abbastanza donne interessate alla loro attivazione”. “La domanda di istruzione dunque c’è - si sottolinea ma non basta per generare una risposta adeguata. Questo, più forse di altri, è il contesto in cui le donne scontano il loro essere esigua minoranza nella comunità penitenziaria”. Un capitolo a parte riguarda il sostegno psicologico e l’accesso alle cure, che per le donne significa anche poter ricevere attenzione rispetto alla propria salute ginecologica, con la possibilità di effettuare degli esami di screening periodici. Tutte criticità che affliggono il mondo penitenziario in generale, e che andrebbero affrontate anche attraverso una prospettiva di genere. Il nodo, in generale, riguarda la mancanza di una regolamentazione della detenzione femminile: l’ultima norma risale al 2015, la legge Gonnella. Dopo la quale c’è stato un regolamento di esecuzione che si limita a dare istruzioni su questioni molto pratiche come l’igiene personale e il vestiario, con indicazioni che poi vengono applicate in ciascun carcere con regolamenti propri. Si tratta di poter avere con sé in cella oggetti personali, simboli della propria affettività, creme depilatorie, smalti, deodoranti, assorbenti. Tutto ciò che non rientra nel vitto e che le detenute non possono permettersi di acquistare allo spaccio. “Dettagli” apparentemente superflui, e che invece hanno a che fare con la dignità della persona e con la specificità della detenzione femminile. Un aspetto che in carcere sparisce del tutto, per la natura stessa dell’istituzione penitenziaria: “Il carcere è, per definizione, sistema limitativo - riassume Antigone -: luogo fisico e simbolico che ha bisogno di regole per dare omogeneità e ordine alla vita. Esso è in sé inadeguato a prendere in conto le differenze”. Affettività negata e Icam chiusi. Un dramma al femminile di Elisabetta Brusa* Il Dubbio, 3 marzo 2025 La privazione dell’affettività e della sessualità in carcere è una punizione invisibile. E per le donne il legame con i figli e con i congiunti e il rapporto affettivo che le stesse vogliono mantenere è ancora più complesso che per i detenuti uomini. In un contesto in cui i fondi destinati al sistema penitenziario italiano sono scarsi, le risorse per le esigenze delle detenute, compreso il diritto alla sessualità, sono estremamente limitate. La pronuncia della Corte Costituzione n. 10/2024 ha dichiarato illegittimo l’art. 18 O.P. nella parte in cui non prevede per la persona detenuta colloqui privati con il proprio partner aprendo la strada ad alcune isolate iniziative positive. La strada da percorrere è ancora lunga e la negazione di questi diritti, che è poi negazione del diritto alla salute, è ancora la prassi nelle carceri italiane. È passato più di un anno dalla pronuncia della Consulta e al momento dal governo non è arrivato nessun provvedimento concreto. Soltanto il carcere “Due Palazzi” di Padova ha preannunciato una sperimentazione per permettere incontri privati tra detenuti e partner. Il progetto ipotizzava l’installazione dei container nel cortile del carcere, dove le persone detenute potessero passare del tempo con i propri familiari - genitori, partner, figli - esercitando il loro diritto all’affettività e alla sessualità. Tuttavia il progetto è stato bloccato perché il Governo ha precisato che “iniziative di questo tipo” spettano al DAP. Per rendere effettivo il diritto alla sessualità, è intervenuta la magistratura di sorveglianza con alcune ordinanze con le quali si è concesso il permesso di avere incontri intimi con le proprie partner, dopo che gli istituti penitenziari glielo avevano negato. Ma per quanto riguarda la detenzione femminile, la sessualità delle donne viene concepita unicamente in relazione alla maternità. Ne è prova l’istituzione dentro il carcere di Rebibbia del M.A.M.A. (Modulo per l’affettività e la maternità), un piccolo appartamento privato utilizzato per gli incontri tra madri e figli. All’estero accanto a tali spazi sono stati affiancati momenti di intimità anche a carattere sessuale, luoghi in cui le detenute possono ricevere privatamente il compagno, la compagna o l’intera famiglia per periodi che vanno alle 6 alle 72 ore e vivere monti di condivisione privata senza il controllo visivo della polizia penitenziaria. Un ulteriore problema si pone in merito ai luoghi in cui il diritto all’affettività viene esercitato tra mamme detenute e figli. È nota la recente chiusura dell’ICAM di Lauro, l’unico istituto a custodia attenuata del centro Sud. Le due donne con figli al seguito che erano ospitati al suo interno sono state trasferite in una sezione speciale degli istituti ordinari di Milano e Venezia, con il conseguente allontanamento dal territorio in cui i figli erano cresciuti, avevano frequentato la scuola e coltivato amicizie. Si è creato così l’ennesimo abuso, quello al diritto all’infanzia. Senza considerare che il ddl Sicurezza in discussione al Senato ha creato o aggravato decine di reati e circostanze aggravanti e punta a rendere facoltativo e non obbligatorio il differimento della pena per le donne incinte o con figli minori di un anno, portando i magistrati a scegliere con maggiore frequenza l’assegnazione ad un ICAM, dal momento che attualmente esistono solo due case famiglia protette per l’accoglienza di madri e bambini. *Responsabile Gruppo detenzione Organismo Congressuale Forense Le donne sono quasi il 7% della popolazione carceraria e provengono da contesti di marginalità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 marzo 2025 Dietro le fredde statistiche delle carceri mondiali si nasconde un enigma che sfida sociologi, criminologi e legislatori: perché le donne rappresentano solo il 6,9% della popolazione carceraria globale? Un dato sorprendentemente basso, che resiste a ogni spiegazione univoca, attraversando indenne confini culturali, religiosi e politici. Dall’Albania conservatrice alla Scandinavia progressista, dall’America iper-carceraria al Giappone punitivo, le cifre raccontano una storia di marginalità femminile che non si piega alle aspettative. Secondo il rapporto di Antigone, nei 46 paesi del Consiglio d’Europa le donne in carcere sono in media il 5,4%, ma i numeri nascondono realtà diametralmente opposte. L’Italia è al 4-4,5%, mentre all’estremo più basso c’è l’Albania, con appena l’1,2% di detenute, mentre la Repubblica Ceca svetta all’8,5%. Tra le democrazie avanzate, la Germania si ferma al 5,6%, la Svizzera al 6%, e la Spagna al 7,1%. Persino la Scandinavia, modello di parità di genere, non sfugge a uno strano paradosso se confrontato con altri Paesi: in Danimarca le donne sono il 4,8% dei detenuti, in Finlandia il 7,1%, ma i tassi di incarcerazione restano bassi (3,5-4,3 ogni 100.000 donne). A Est, invece, i numeri raccontano un’altra storia. In Polonia, dove ad esempio l’aborto è quasi totalmente vietato, le detenute sono raddoppiate in 20 anni (4,9%), mentre l’Ungheria di Orbán registra un tasso di detenzione femminile di 14,7 ogni 100.000 donne, il doppio della media continentale. In Russia le donne sono quasi il 9% dei reclusi, con un tasso di 27,1, tra i più alti al mondo. Un fenomeno europeo che potrebbe legarsi a un nesso dove meno diritti sulle donne = più carcerazione. Oltreoceano, il quadro si fa drammatico. Con 64,2 detenute ogni 100.000 donne, gli Usa hanno un tasso di incarcerazione femminile 15 volte superiore a quello italiano. Le donne rappresentano il 10,2% della popolazione carceraria, numeri che riflettono un sistema giudiziario iper-repressivo: se fossero uno Stato a parte, le detenute americane formerebbero la 13ª popolazione carceraria al mondo. Eppure, persino qui, il divario di genere persiste: gli uomini hanno tassi 10 volte maggiori. In Asia, i dati sfidano ogni stereotipo. Se in Giappone le detenute sono l’8,6% con un tasso bassissimo (3,2), a Hong Kong, Macao e Qatar si raggiungono picchi del 19,7%, 14,8% e 14,7% rispettivamente. Numeri che cozzano con l’1% di Israele e lo Yemen, accomunati da percentuali irrisorie nonostante opposti contesti religiosi. Cosa unisce Paesi così diversi? Forse il controllo sociale sulle donne, che in alcuni casi previene il crimine, in altri lo criminalizza in modo selettivo. In Africa, i tassi sono ancora più bassi: dall’1% della Mauritania al 10,9% del Sud Sudan. Ma quanto pesa l’opacità dei dati? In Iran o Cina, dove regimi autoritari controllano l’informazione, le statistiche ufficiali (8,6% di donne detenute in Cina) lasciano spazio al dubbio, soprattutto dopo le rivolte del 2022. Perché le donne finiscono in carcere così raramente? Le teorie si sprecano: minore propensione alla violenza, ruoli sociali tradizionali, maggiore utilizzo di misure alternative. Ma nessuna spiegazione regge su scala globale. Neppure l’emancipazione femminile altera la tendenza: in Norvegia come in Arabia Saudita, le detenute restano una minoranza. Forse, suggeriscono alcuni studi, le donne sono più spesso coinvolte in reati non violenti (furti, frodi), puniti con pene non detentive. O forse, come ipotizza l’antropologa Rita Segato, il sistema giudiziario è plasmato su dinamiche maschili, rendendo le donne “invisibili” persino nel crimine. Una cosa è certa: dietro ogni percentuale ci sono storie di marginalità. Come in Romania, dove il 4,4% delle detenute sono Rom, vittime di doppia discriminazione. O in El Salvador, dove gang e povertà spingono il tasso femminile al 41,7, il più alto delle Americhe. Dietro i numeri bassi delle detenute si nasconde un paradosso: non è che le donne delinquono meno, è che il sistema le intercetta di meno. A rivelarlo è l’analisi di Giulia Fabini di Antigone, che invita a guardare oltre le statistiche, verso il “numero oscuro” della criminalità non registrata. Un concetto chiave per decifrare il mistero: tra il reato commesso e la cella si frappongono una serie di filtri sociali, economici e culturali che operano in modo sistematicamente discriminatorio. “Il carcere non misura la criminalità, ma la selettività del sistema”, spiega Fabini nel report. Ogni passaggio della macchina giudiziaria assomiglia a un setaccio che trattiene soprattutto uomini, poveri, migranti e minoranze. Le donne, specie se benestanti o integrate, sfuggono più facilmente alla rete. Basti pensare che in Italia, secondo dati Antigone, il 70% delle detenute proviene da contesti di marginalità estrema, spesso con storie di violenza alle spalle. Numeri che chiedono non solo analisi, ma soluzioni: se le donne sono così “poche” in carcere, perché non ripensare totalmente il sistema punitivo per loro? “Il carcere per le donne è punizione, non recupero” di Simona Musco Il Dubbio, 3 marzo 2025 Dalla mancanza di cure mediche alla solitudine forzata: la storia di Luna Svela e le condizioni disumane delle detenute e la lotta per la dignità. Luna ha trascorso cinque anni in carcere. E il suo racconto non è solo una cronaca di eventi, ma una riflessione profonda sulla solitudine, la sofferenza e la speranza che si può trovare anche nei luoghi più bui. Come il carcere, dove spesso si è sentita invisibile e privata dei propri diritti, ma dove ha imparato tanto sul valore dell’umanità e della solidarietà. Luna, quando sei entrata in carcere per la prima volta? E cosa ti ha spinto a finire in quella situazione? La prima volta che sono entrata in carcere è stato nel 2008, per tre settimane, dei quali 15 giorni in cella da sola, e poi due settimane di arresti domiciliari. Ma ci sono tornata nel 2010 a seguito di un blitz per traffico di stupefacenti. Quando sono entrata in carcere io ero già iscritta al Sert di Ferrara, prendevo 90 ml di metadone. Tuttavia, in realtà non lo bevevo, lo vendevo. In carcere mi hanno dato la stessa dose giornalmente, che per me era eccessiva, così ho cercato di ridurla. Gli infermieri, i medici e gli psicologi, però, erano contrari. Ho insistito finché sono arrivata a 10 ml, ma quando ho cercato di dimettermi dal Sert interno è stato complicato: non volevano che lo facessi, temevano ricadute. Alla fine, ci sono riuscita dopo un anno di riduzione progressiva. Ero tossicodipendente da anni, e la prigione non è un luogo dove affronti davvero il tuo problema con le sostanze. Ti rinchiudono, ma dentro non succede nulla. All’inizio pensavo che potesse essere un’opportunità per fermarmi, per affrontare finalmente la mia dipendenza, ma il sistema non ti offre le risorse necessarie. Qual è stata la tua esperienza con il sistema sanitario dentro il carcere? Hai ricevuto l’assistenza che ti aspettavi? No, assolutamente. L’assistenza sanitaria è una delle cose che mi ha colpito di più in modo negativo. Io, per esempio, in cinque anni non ho mai visto uno psicologo o uno psichiatra. Inoltre, mancano ginecologi per la prevenzione e la diagnosi di patologie come i tumori. Gli screening preventivi non vengono fatti e se una detenuta ha bisogno di una visita specialistica, i tempi di attesa possono superare i sei mesi. A me sarebbe servita una terapia psicologica, eppure non c’era niente. In carcere, sembra che la salute delle donne non sia una priorità. Una volta mi sono dovuta sottoporre a una visita ginecologica che ho dovuto chiedere più volte, non era affatto scontato che me la facessero. Le donne che sono lì hanno bisogno di un’attenzione particolare, ma sono trattate come invisibili. Ti guardano solo come una detenuta, come un numero. E basta. Le altre, che come me avevano dipendenze, erano lasciate completamente da sole, senza supporto. Anche l’igiene è un problema, sia per gli spazi inadeguati sia per i prodotti a disposizione. Per esempio, gli assorbenti forniti gratuitamente sono molto spessi e scomodi. Per avere assorbenti normali bisogna comprarli attraverso il “modello 72”, il sistema di spesa interno al carcere, ma non tutte le detenute hanno i soldi per farlo. Fortunatamente, tra di noi c’era solidarietà: chi poteva, aiutava chi era in difficoltà, condividendo cibo e beni di prima necessità. In che carcere ti trovavi? Ero alla Dozza di Bologna. La struttura era divisa in due sezioni: una per le detenute in attesa di giudizio e una per le condannate in via definitiva. All’inizio le celle ospitavano tre persone, ma dopo la sentenza Torreggiani è stato tolto il terzo letto, anche se, in caso di sovraffollamento, lo avrebbero rimesso. L’unico aspetto positivo era la presenza della doccia in cella, cosa rara nelle carceri italiane. In molte altre strutture, infatti, le detenute devono lavarsi in spazi comuni con orari prestabiliti. Che tipo di rapporto hai avuto con le altre detenute? C’era solidarietà tra di voi? In carcere la solidarietà è l’unica cosa che ci tiene in vita. Se non c’è quella, diventi un animale. La prigione ti porta a un livello di umanità minima, ma spesso, tra noi, abbiamo cercato di darci quel supporto che le autorità non ci offrivano. Spesso c’erano scambi di aiuto reciproco: una prestava un po’ di soldi, l’altra una parola di conforto. Non c’era molto altro. In quel luogo, tra donne, ci siamo strette molto. Ci sono stati momenti di grande affetto e complicità. Ti aiuti a vicenda come puoi, anche con gesti piccoli, che però sono enormi in un posto dove la solitudine è totale. Non ho assistito a suicidi, ma ci sono stati tentativi, spesso legati al dolore per la perdita di una persona cara e all’impossibilità di ottenere un permesso per il funerale. Ricordo una ragazza a cui venne negato il permesso per l’ultimo saluto al padre: tentò di togliersi la vita per la disperazione. C’è stato un momento particolarmente difficile che ricordi? Una situazione che ti ha segnata profondamente? Ci sono stati tanti momenti che mi hanno segnata. Ma uno che ricordo in modo particolare è quando una delle mie compagne di cella ha avuto un malore. In prigione, i malori spesso non vengono presi sul serio, eppure lei stava davvero male. Non si è mai riusciti a darle l’assistenza che le sarebbe servita. Alla fine, è stata trasferita in ospedale, dove le hanno dato una notizia terribile: aveva un tumore in stadio avanzato. Per fortuna è riuscita a curarsi in tempo, ma poteva andare peggio. Questo episodio mi ha fatto capire quanto siamo invisibili lì dentro. Siamo tante donne che, se non riceviamo attenzione, rischiamo di morire senza che nessuno se ne accorga. E riguardo alle guardie penitenziarie, come è stato il tuo rapporto con loro? Ci sono stati episodi di violenza, verbale e fisica. Un giorno, ricordo, una guardia ha picchiato una ragazza senza alcun motivo. Abbiamo solo sentito le urla e quello che la ragazza ci ha raccontato perché ci hanno chiuso tutti gli spioncini dei blindi. Lei era una persona fragile, ma per loro eravamo tutte uguali, come se non avessimo diritti. Non c’era nessun rispetto per la nostra dignità. Un’altra volta eravamo in saletta e tra due detenute c’era stato un problema riguardante la spesa e la situazione era diventata un po’ caotica. Siamo state richiamate dalla sovrintendente io e la mia concellina, ma in ufficio erano presenti anche l’ispettore e fuori dall’ufficio quattro o cinque agenti della squadretta. La mia concellina, che assumeva metadone, è stata insultata dall’ispettore che le ha dato della “bestia”. A quel punto, ho risposto dicendo che la bestia era lui. Poi abbiamo notato che gli agenti si stavano infilando i guanti neri, e ci siamo autoblindate in cella. Dopo quell’episodio, mi hanno dato 15 giorni di isolamento. Un’altra volta, eravamo in cella con una compagna e ci abbracciavamo. Un gesto affettuoso, nulla di strano. Ma lo stesso ispettore e la stessa squadra sono intervenuti e l’altra ragazza è stata trasferita in un altro istituto. È stato un momento di rabbia, di frustrazione. Volevo solo difendere una forma di umanità, di affetto. Ma in carcere, anche un gesto innocente diventa motivo di ritorsione. E a proposito di condizioni generali, devo aggiungere che in carcere le celle sono un vero e proprio incubo. C’è sempre la muffa, l’umidità è costante, soprattutto perché le finestre non si chiudono bene e d’inverno entra sempre l’aria gelida. Questo è accaduto sia durante il mio periodo di detenzione, tra il 2010 e il 2015, sia nel 2023, quando ho sentito che a causa della caldaia unica non riuscivano nemmeno a garantire l’acqua calda per tutti. Erano situazioni comuni, che rendevano la vita ancora più difficile, in un posto già di per sé opprimente. Come ti sei sentita rispetto alla mancanza di legami esterni? Hai mantenuto contatti con la tua famiglia durante la detenzione? La mia famiglia mi ha sostenuto, ed è stato fondamentale per me. Ma non tutte le detenute avevano lo stesso privilegio. C’erano donne che non ricevevano nemmeno una lettera. Il fatto che non avessero nessuno fuori le rendeva completamente invisibili, senza nessun appiglio. Questo è un aspetto che mi ha colpito molto. Un’altra donna, che non aveva mai avuto nemmeno una visita, dopo aver ricevuto il rifiuto per poter partecipare al funerale del padre, ha tentato il suicidio. È stato devastante. L’isolamento è stato uno dei fattori più difficili da sopportare. L’idea che, in quel momento, avessi il sostegno della mia famiglia è stata un’ancora di salvezza. Ma è triste pensare che per molte donne non c’è nemmeno quella. Qual è la tua opinione sul sistema carcerario e su come vengono trattate le detenute? Cosa pensi dovrebbe cambiare? Il sistema carcerario, specialmente per le donne, è lontano dalla realtà. Le donne che arrivano in carcere hanno storie difficili, problemi di salute, dipendenze, traumi. Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero, ma la realtà è che diventa solo un luogo di punizione. Le detenute, soprattutto quelle che hanno bisogno di aiuto per la tossicodipendenza o per il disagio psicologico, vengono trattate come numeri, come se il loro recupero fosse una questione secondaria. Eppure, io penso che il cambiamento debba partire proprio da questo: dare spazio a percorsi di recupero veri. Ci sono donne in carcere che hanno bisogno di un supporto concreto, ma spesso questo manca. Dopo tutto quello che hai vissuto, come vedi il futuro? Che cosa ti ha insegnato questa esperienza? Ora sono attivista dell’associazione Yairaiha, che si occupa della tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale. L’esperienza in carcere mi ha segnato, ma mi ha anche fatto conoscere persone con cui ho stretto amicizie profonde, che proseguono ancora oggi. Inoltre mi ha messo davanti alle mie fragilità, ma anche alla mia forza. Mi ha insegnato che, nonostante tutto, la solidarietà è l’unico legame che non può essere spezzato. Siamo persone, e quando ce lo ricordiamo l’una con l’altra, possiamo fare delle cose incredibili. Ho imparato anche che la sofferenza può essere superata, ma solo con l’aiuto reciproco. Il carcere mi ha fatto vedere le cose da una prospettiva diversa e oggi cerco di dare il mio supporto a chi ne ha bisogno, soprattutto a chi vive ancora quella realtà. Mi ha insegnato che, anche quando la vita sembra impossibile, ci può sempre essere qualcuno che ti tende la mano. Cosa speri per le donne che sono ancora in carcere? Spero che finalmente qualcuno capisca che sono donne, non solo detenute. Hanno diritto a essere trattate con dignità, ad avere accesso a cure mediche, a supporto psicologico. Hanno diritto a un percorso di recupero che le aiuti a rientrare nella società. Non devono essere dimenticate. Penso che il cambiamento deve partire dal riconoscimento di questi diritti. Perché dietro le sbarre ci sono delle vite, delle persone che possono ancora trovare un cammino diverso, se solo ricevono l’aiuto giusto. Mariaelena Boschi (Italia Viva): “Donne in carcere, ora serve un cambio di rotta” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 marzo 2025 Quante sono, e come stanno le donne in carcere? Secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati al 31 gennaio 2025, le donne recluse sono 2.718 su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini. Una “minoranza penitenziaria”, isolata e sparpagliata sul territorio nazionale. In Italia, infatti, al momento ci sono soltanto tre penitenziari femminili: Trani, Roma e Venezia Giudecca, che ospitano circa un quarto delle detenute. Tutte le altre si trovano nelle sezioni degli istituti maschili. Con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi. Il primo nodo riguarda la mancanza di una normativa specifica sulla detenzione femminile: l’ultima legge risale al 2015, la legge Gonnella. Bisognerebbe orientare l’amministrazione penitenziaria a una politica di genere? Numeri bassi non devono equivalere a bassa attenzione. C’è un problema di sovraffollamento anche per le detenute e sono spesso trascurate perché tendono a creare meno problemi. Si deve cambiare il paradigma e mettere al centro la persona. E, quindi, anche l’essere donna. Differente è l’impatto psicologico, diverse sono le esigenze personali, relazionali. Anche nella formazione della penitenziaria e del personale dovrebbero esserci dei focus specifici. C’è un’altra minoranza ancora più emarginata e dimenticata, di cui mi sono spesso occupata, che è quella dei transessuali in carcere. Anche l’architettura penitenziaria è pensata a misura di uomo. La politica dovrebbe e potrebbe occuparsene? Vado spesso in carcere e le detenute sono sacrificate negli spazi all’aperto e nelle attività rispetto agli uomini, soprattutto nelle sezioni femminili. Il lavoro è previsto a macchia di leopardo e quasi sempre solo come attività all’interno del carcere. Dove le detenute sono poche paradossalmente è ancora più difficile attivare percorsi di formazione o lavorativi. Impossibile sperare in un cambio di rotta finché di carceri si occuperà un cinico come il sottosegretario Delmastro che si vanta di parlare solo con la polizia penitenziaria e che prova “un intimo piacere” per i detenuti senza respiro. Meloni ha nominato un commissario mesi fa e non ha fatto nulla. Con il governo Renzi attivai dei progetti in carcere sulla violenza sulle donne che portarono alcune detenute a fare un percorso rispetto a precedenti storie di abusi subiti e mai denunciati. Il carcere dovrebbe essere un’occasione per un nuovo inizio. Quando si parla di donne in carcere si parla spesso di madri detenute, al grido di “mai più bimbi dietro le sbarre”. Ma il ddl Sicurezza, in discussione al Senato, elimina il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno... È una delle norme più disumane, ciniche e inutili del Governo Meloni, che non manca mai di ricordarci che è donna, madre e cristiana. Punire i bambini e incidere in modo cosi crudele sul loro sviluppo psico fisico per colpe delle madri è inaccettabile. Solo chi non ha mai incontrato un bambino in carcere può pensare che sia una norma giusta. Noi abbiamo proposto di mettere più risorse su case protette o almeno sugli Icam e invece nulla. Addirittura è stato chiuso l’unico Icam di tutto il Mezzogiorno. Avere pochi Icam significa dover trasferire bambini che vanno a scuola in altre regioni e magari allontanarli da fratelli e sorelle che per ragioni di età non sono dentro le strutture. Mariastella Gelmini (Noi Moderati): “La sfida è aiutare le detenute a costruire nuove vite” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 marzo 2025 Quante sono, e come stanno le donne in carcere? Secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati al 31 gennaio 2025, le donne recluse sono 2.718 su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini. Una “minoranza penitenziaria”, isolata e sparpagliata sul territorio nazionale. In Italia al momento ci sono soltanto tre penitenziari femminili: Trani, Roma e Venezia Giudecca. E la maggior parte delle detenute si trova nelle sezioni degli istituti maschili. Con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con Mariastella Gelmini, senatrice di Noi Moderati-Centro popolare. Il primo nodo riguarda la mancanza di una normativa specifica sulla detenzione femminile: l’ultima legge risale al 2015, la legge Gonnella. Bisognerebbe orientare l’amministrazione penitenziaria a una politica di genere? Le donne di fatti rappresentano una minoranza rispetto al numero complessivo di persone recluse in Italia, ma questo non deve giustificare il fatto che le pari opportunità, purtroppo, non ci siano neppure in carcere. Da un punto di vista normativo, credo che sia utile guardare a quello che prevede l’Europa. Ci sono regole penitenziarie europee che dedicano ampio spazio alla condizione delle donne. Si parla non solo di bisogni fisici, ma anche professionali, sociali e psicologici, delineando così un’identità femminile. Credo che anche l’Italia debba fare uno scatto in avanti. Ci sono esigenze legate al corpo femminile, inclusa l’igiene, l’assistenza medica e la maternità, che richiedono particolare attenzione da parte delle istituzioni carcerarie. Anche l’architettura penitenziaria è pensata a misura di uomo. La politica dovrebbe e potrebbe occuparsene? Purtroppo molte donne sono recluse in “sezioni” progettate e pensate per gli uomini, sia in termini di ambienti che di attività. La sfida per il nostro Paese non è solo costruire nuove carceri per rispondere all’emergenza sovraffollamento, ma anche quella di costruire nuove vite. Questo lo si fa attraverso la formazione e il lavoro. Mediante iniziative anche sportive e culturali che bisogna portare sempre più nelle carceri. Il vero tema non è far fare alle detenute un corso di uncinetto per tenerle impegnate, ma insegnare un mestiere che una volta fuori possa consentire loro di rifarsi una vita. A riguardo conosco diverse realtà che operano in questa direzione, penso per esempio alla Cooperativa Alice di Caterina Micolano che da anni, attraverso laboratori di sartoria, offre una seconda vita alle detenute di diverse strutture penitenziarie italiane. Quando si parla di donne in carcere si parla spesso di madri detenute, al grido di “mai più bimbi dietro le sbarre”. Ma il ddl Sicurezza, in discussione al Senato, elimina il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno... Personalmente avrei preferito che la norma sul differimento obbligatorio della pena non fosse stata modificata. Credo sia un fatto di civiltà. Quello che ha mosso il governo però è stata l’evidenza di casi in cui questa misura anziché provocare un rinsavimento, un ritorno sulla retta via, l’astensione da comportamenti devianti, anche per rispetto appunto alla maternità, porta alla reiterazione di alcune tipologie di reati. E questo non va bene. Rispetto alle polemiche scatenate su questo argomento, credo che sia corretto ricordare che la valutazione sarà fatta caso per caso. E sarà un magistrato a farla. Non il governo. Ad ogni modo, il provvedimento non è ancora chiuso e penso che sul tema specifico ci possa essere un ripensamento operoso: daremmo un contributo a svelenire il dibattito intorno ad un tema, quello delle carceri, che dovrebbe essere affrontato con maggiore equilibrio. Susanna Campione (Fratelli d’Italia): “La norma sulle madri? Parliamone. Ma si badi anche a tutte le altre” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 marzo 2025 Quante sono, e come stanno le donne in carcere? Secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati al 31 gennaio 2025, le donne recluse sono 2.718 su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini. Una “minoranza penitenziaria”, isolata e sparpagliata sul territorio nazionale. In Italia, infatti, al momento ci sono soltanto tre penitenziari femminili: Trani, Roma e Venezia Giudecca, che ospitano circa un quarto delle detenute. Tutte le altre si trovano nelle sezioni degli istituti maschili. Con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con la senatrice di Fratelli d’Italia Susanna Donatella Campione. Il primo nodo riguarda la mancanza di una normativa specifica sulla detenzione femminile: l’ultima legge risale al 2015, la legge Gonnella. Bisognerebbe orientare l’amministrazione penitenziaria a una politica di genere? La situazione nelle carceri è molto critica da tempo. Ereditiamo problemi che derivano da molti anni di noncuranza. Sicuramente gli istituti di pena vanno ripensati e riorganizzati e in questa ristrutturazione occorre disciplinare in modo specifico la detenzione femminile. Si tratta di tenere conto delle differenze. Negare la diversità tra detenuti uomini e detenute donne non aiuta ma acuisce le criticità. Le donne evadono meno e molto raramente commettono atti di violenza, hanno inoltre necessità specifiche che un sistema incentrato sul rispetto dei diritti della persona, anche quando reclusa, non può ignorare. Anche l’architettura penitenziaria è pensata a misura di uomo. La politica dovrebbe e potrebbe occuparsene? Certamente la politica ha il dovere di proporre soluzioni per adattare gli istituti di pena ai detenuti e alle detenute anche dal punto di vista dell’architettura stessa del carcere, che è fondamentale per il percorso riabilitativo e che deve essere intesa come scienza dell’organizzazione razionale degli spazi della detenzione. Sappiamo ad esempio che la riduzione della distanza oltre certi limiti produce forti situazioni di stress, soprattutto nei penitenziari dove si trovano insieme individui di età e cultura diverse e molte rivolte nelle carceri sono causate proprio dal sovraffollamento. Le norme possono svolgere una funzione importante in questo senso. Le European Prison Rules del Consiglio d’Europa prescrivono un’attenzione particolare alle esigenze fisiche e psicologiche di chi si trova in un penitenziario che dovranno essere recepite nel nostro ordinamento. Quando si parla di donne in carcere si parla spesso di madri detenute, al grido di “mai più bimbi dietro le sbarre”. Ma il ddl Sicurezza, in discussione al Senato, elimina il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno... Non bisogna cadere nell’errore di identificare la donna con la madre detenuta, si farebbe un torto alle donne ristrette in carcere che non sono madri. Il ddl sicurezza affida al magistrato la valutazione sul differimento della pena per le donne in gravidanza e con figli di età inferiore a un anno. Sul tema c’è stata ampia discussione e in seguito al lavoro svolto in commissione si stanno facendo riflessioni sul punto per arrivare a contemperare il problema dello sfruttamento dello stato di gravidanza per commettere reati con l’esigenza di tutelare i minori. L’auspicio è che il confronto parlamentare, che a ciò è deputato, possa contribuire a comporre la questione. Debora Serracchiani (Partito Democratico): “Ma io dico: mettere i bimbi in cella è inciviltà” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 marzo 2025 Quante sono, e come stanno le donne in carcere? Secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati al 31 gennaio 2025, le donne recluse sono 2.718 su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini. Una “minoranza penitenziaria”, isolata e sparpagliata sul territorio nazionale. In Italia, infatti, al momento ci sono soltanto tre penitenziari femminili: Trani, Roma e Venezia Giudecca, che ospitano circa un quarto delle detenute. Tutte le altre si trovano nelle sezioni degli istituti maschili. Con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con la deputata del Pd Debora Serracchiani. Il primo nodo riguarda la mancanza di una normativa specifica sulla detenzione femminile: l’ultima legge risale al 2015, la legge Gonnella. Bisognerebbe orientare l’amministrazione penitenziaria a una politica di genere? Certo. Al fine di abbattere il sovraffollamento, la legge 47 del 2015 si è occupata delle misure cautelari personali, limitando l’uso della custodia cautelare in carcere e promuovendo misure alternative. E proprio riguardo alle donne detenute, ha ampliato il ventaglio delle modalità di esecuzione della pena. Vorrei ricordare che una legge precedente, la n. 62 del 2011, ha introdotto gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM), strutture pensate per garantire un ambiente più adatto alla crescita dei minori. In realtà il loro numero sul territorio nazionale è estremamente limitato ed è notizia di questi giorni la chiusura dell’Icam di Lauro in Campania, l’unico Icam del Sud. Nemmeno gli Icam sono luoghi adatti ai bambini ma sempre meglio del carcere. Anche l’architettura penitenziaria è pensata a misura di uomo. La politica dovrebbe e potrebbe occuparsene? L’architettura penitenziaria in genere non ha molto a che fare con l’umanità. Si tratta spesso di strutture fatiscenti, di solito prive di manutenzione ordinaria e straordinaria, o costruite in zone rivelatesi inadeguate (Solliciano, Livorno, Reggio Emilia ad es.) o in siti non adatti ad ospitare istituti penitenziari (come Canton Mombello a Brescia o Pordenone). A maggior ragione queste strutture, pensate solo per gli uomini, mancano degli spazi necessari ad ospitare donne detenute. Quando si parla di donne in carcere si parla spesso di madri detenute, al grido di “mai più bimbi dietro le sbarre”. Ma il ddl Sicurezza, in discussione al Senato, elimina il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno... Una norma di inciviltà che abbiamo combattuto in tutti i modi. Ricordo che nella scorsa legislatura a prima firma del collega Paolo Siani avevamo presentato una Pdl che, in direzione opposta, prevedeva che le donne incinte e i bambini piccoli non entrassero mai in carcere ma che venissero ospitati in case famiglia che, ferma la pena, consentissero ai bambini di vivere in condizioni adeguate e compatibili. La PdL a mia prima firma è stata ridepositata alla Camera ed era stata anche portata in aula ma talmente stravolta dagli emendamenti della destra che abbiamo dovuto ritirarla. Una vergogna. Inutile dire, infine, che tutte le richieste di finanziamento di case famiglia sono state respinte dal governo. Il lavoro aiuta a rompere la trappola del carcere di Rosaria Amato La Repubblica, 3 marzo 2025 L’inserimento professionale abbatte dal 62 al 2 per cento la recidiva dei detenuti, contribuendo a combattere il sovraffollamento. Gli esempi virtuosi ci sono, ma tutti al Nord. Quasi una media impresa, con oltre 200 dipendenti, la Cooperativa Bee4 si occupa di servizi che vanno dal call center alla rigenerazione e revisione dei distributori automatici delle macchine da caffè. Ha una caratteristica che però la differenzia da altre imprese simili: l’80 per cento dei suoi dipendenti sono detenuti del carcere di Bollate e di Vigevano. Il suo stesso fondatore, Pino Cantatore, è stato condannato all’ergastolo nel 1993. Nelle lunghe giornate nel carcere di San Vittore, racconta, “ho ripreso i miei studi informatici che avevo lasciato moltissimi anni fa: la materia mi ha sempre affascinato e non mi è parso vero poter approfondire e allargare le mie conoscenze in questo specifico campo”. Grazie alle sue competenze informatiche, Cantatore nel 2014 fonda la Cooperativa Bee4, che dalle prime commesse dei call center, a cominciare da quelle di Telecom, passa poi a collaborazioni su diversi tipi di servizi con aziende come Ambrosetti, Pirelli, Elmec, Mapei, Ceva Logistic, Vivigas. Avere la possibilità di formarsi e di lavorare in carcere, ha spiegato qualche giorno fa Valerio De Molli, ceo di Teha Group, in occasione del terzo incontro dell’Osservatorio sulle partnership pubblico- private nel mondo delle carceri di Teha Club, riduce in modo esponenziale il rischio di recidiva. Se è vero infatti che “il 62 per cento dei detenuti in Italia ha già subito almeno una carcerazione precedente”, dai dati emerge come “questa percentuale si riduce al 2 per cento per chi ha avuto accesso a un percorso lavorativo strutturato”. Non si tratta solo quindi di avere una fonte di reddito per se stessi, e per le proprie famiglie, ma anche di ritrovare motivazione e coraggio per un percorso di vita diverso. Ma le opportunità di formazione e lavoro in carcere sono poche, e mal distribuite geograficamente: il Mezzogiorno è fortemente svantaggiato. Solo il 33% dei detenuti è impiegato attualmente in attività lavorative, e tra loro solo l’1% è assunto da imprese private. La formazione professionale coinvolge solo il 6,2% dei detenuti. Esistono carceri modello come quelli di Bollate o di Vigevano, ma anche carceri ultra-sovraffollate dove i pochi spazi vuoti che potrebbero essere adibiti a spazi d’incontro e di lavoro rimangono inutilizzati. L’Osservatorio Teha stima che nei 164 istituti carcerari ci siano 627 locali che potrebbero essere adibiti ad attività lavorative e formative, ma il 42 per cento, pur essendo spesso in condizioni ottime o discrete, non è utilizzato. E d’altra parte non è facile pensare a organizzare attività di questo tipo quando il tasso di affollamento supera persino la media nazionale già alta, del 119,3 per cento, e magari arriva al 148,9% del Lazio, o al 171% della Puglia. Guardare alle esperienze di altri Paesi dimostra però che è questa la strada, anche per ridurre il tasso di sovraffollamento nelle carceri, oltre che per rendere la pena detentiva una forma di recupero delle persone, e non solo di punizione e deterrenza dei condannati. La Norvegia prima delle riforme carcerarie degli anni Novanta aveva un tasso di recidiva del 60-70 per cento, non troppo lontano da quello italiano. Il sistema carcerario si è quindi concentrato sulle competenze lavorative, a tal punto che i detenuti che prima di andare in carcere erano disoccupati, una volta usciti vedono un aumento del 40 per cento del tasso di occupazione. Un dato che a questo punto potrebbe anche favorire un mercato del lavoro sempre più esangue come quello italiano, con un tasso di mismatch tra domanda e offerta che per alcune specializzazioni supera anche il 50 per cento. L’Italia ci sta provando. Il Ddl Carceri dell’agosto 2024 prevede una nuova modalità di esecuzione della pena, in strutture esterne al carcere che offrono al detenuto un domicilio oltre che un percorso di formazione lavorativa. Ci sono poi altre norme che favoriscono il lavoro in carcere, a cominciare dalle consistenti agevolazioni per le imprese che assumono detenuti: c’è uno sgravio contributivo del 95 per cento, mentre il credito d’imposta è pari a 520 euro per i detenuti e 300 euro per i condannati in semilibertà. A fruire dei vantaggi fiscali e contributivi previsti dalla legge 22 giugno 2000, n. 193 (legge Smuraglia) sono per quest’anno 441 imprese e cooperative sociali, concentrate però nella stragrande maggioranza tra Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna. La strada perché i detenuti possano “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”, come ha auspicato nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è ancora lunga. Misure alternative, oltre 95mila persone sono sotto controllo fuori dal carcere di Valentina Maglione e Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2025 La platea è aumentata del 57,9% in cinque anni. A questi numeri si sommano i 62mila detenuti e le 100mila persone che aspettano la decisione dei magistrati sull’ammissione all’esecuzione esterna. Cresce l’esecuzione penale esterna: al 15 febbraio scorso erano 95.315 le persone che scontavano misure alternative odi comunità, 1157,9% in più rispetto al 2019. A questi numeri si devono sommare i 62mila detenuti e 100mila condannati che aspettano la decisione sull’ammissione ai percorsi. Tutti dati che segnalano un incremento dell’area penale, sia dentro sia fuori dal carcere. Continua a crescere l’area penale, sia dentro sia fuori dal carcere. I penitenziari, al 31 gennaio scorso, sono arrivati a contenere 61.916 detenuti, rispetto ai 51.300 posti di capienza regolamentare. Ancora più elevati sono i numeri dell’esecuzione penale esterna, vale a dire l’ambito delle sanzioni e delle misure eseguite fuori dal carcere. Al 15 febbraio scorso, in base ai dati del ministero della Giustizia, erano 95.3151e persone condannate o sottoposte a un processo che stavano scontando misure alternative alla detenzione odi comunità: 10mila in più rispetto a un anno fa e il 57,9% in più rispetto ai circa 61mila del 2019. A chi è sottoposto all’esecuzione si aggiungono i “liberi sospesi”, stimati in oltre 100mila: sono i condannati a pene fino a quattro anni di detenzione che hanno chiesto di “convertirle” in misure esterne e aspettano - a volte per anni - la decisione dei magistrati. Nei fatti, quindi, come ha rilevato il ministero nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, “la giustizia di comunità è oggi la risposta prevalente alla commissione di un reato”. Una situazione a cui Monica Amirante, presidente del Tribunale di sorveglianza di Salerno e coordinatrice nazionale dei magistrati di sorveglianza, dà una lettura positiva: “Che siano aumentate - dice - le misure alternative mi pare una buona notizia, segno che i Tribunali di Sorveglianza e tutto il circuito della esecuzione penale esterna ha lavorato bene”. Certo “ci vogliono - aggiunge- - investimenti strutturali più consistenti che arriveranno solo se e quando tutti avranno veramente compreso e oserei dire “digerito” l’art.27 della Costituzione. La pena non è vendetta ma giusta sanzione e deve tendere alla rieducazione del condannato”. Ma com’è composto l’universo dell’esecuzione fuori dal carcere? In primo luogo ci sono le misure alternative alla detenzione: l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà, che radunano la metà (47.285) delle persone in carico agli uffici, in base all’ultimo monitoraggio. Poi, il lavoro di pubblica utilità per la violazione del Codice della strada o della legge sugli stupefacenti (in tutto, 9.417 persone) e la libertà vigilata (5.036). Ci sono inoltre le pene sostitutive delle pene detentive brevi: la detenzione domiciliare sostitutiva, la semilibertà sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo. Introdotte dalla riforma Cartabia (Dlgs 150/2022), hanno contribuito a far lievitare i numeri negli ultimi anni: oggi coinvolgono 5.742 persone. La riforma ha anche allargato il ventaglio dei reati che permettono di domandare la sospensione del processo con la messa alla prova. Sono 26.518 le persone in carico agli uffici: indagati o imputati che hanno chiesto, appunto, di sospendere il processo per seguire un programma con contenuti rieducativi e riparativi che porta, se va a buon fine, all’estinzione del reato. È stata invece introdotta dalla legge che ha riformato il Codice rosso (legge 168/2023) la sanzione della sospensione condizionale della pena subordinata a un programma di trattamento, per chi ha commesso reati di violenza domestica o di genere: le persone coinvolte sono 1.309. Le ragioni del boom Non ci sono solo le riforme alla base dell’aumento del ricorso alle misure. Amirante, ad esempio, individuala causa di questi numeri in quella che definisce come “una smania di panpenalismo che alimenta anche l’idea, del tutto sbagliata, che la pena detentiva e il carcere siano la soluzione di tutti i mali”. Mentre “la storia ci insegna e ce lo confermano eminenti studiosi - aggiunge - che per alcune fattispecie sono molto più utili strade alternative che agevolano il percorso risocializzante e sono spesso più idonee a evitare la recidiva per i reati non gravi. Peraltro il nostro Paese non è in grado di tenere un numero troppo elevato di soggetti in carcere. Lo dicono le condizioni dei nostri istituti penitenziari, l’impressionante numero dei suicidi”. Sui numeri dell’esecuzione penale esterna pesano pure, secondo Marco Viglino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, “l’aumento dei procedimenti definiti, grazie ai riti più rapidi”, combinato con il sovraffollamento delle carceri: “I penitenziari scoppiano, le misure esterne vanno privilegiate”. La mancanza di risorse A determinare la fragilità del sistema., ad esempio, “per quanto riguarda - prosegue Amirante - l’arretrato dei procedimenti dei cosiddetti Liberi sospesi è anche la cronica carenza di personale, il continuo turnover, che significa spesso mancanza di adeguata formazione”. E dire che un’opportunità c’è stata ma non è stata colta: “I tribunali di sorveglianza - dice- per una questione, secondo me, di mancata conoscenza della funzione e del ruolo che svolgono non hanno beneficiato degli addetti all’ufficio per il processo, cioè di tutto quel personale aggiuntivo previsto per il Pnrr. Personale che non è stato destinato ai tribunali di sorveglianza e che invece ci avrebbero aiutato moltissimo”. Mette l’accento sulla carenza degli organici anche Viglino: “Visti i numeri, sarebbe necessario rivedere le piante organiche. Ma la realtà con cui facciamo i conti è che neanche quelle attuali sono rispettate: in Piemonte non c’è un ufficio al completo. Il problema si ripercuote sugli uffici per l’esecuzione penale esterna e alimenta il problema dei liberi sospesi. In Piemonte abbiamo finora lavorato bene, in quanto stiamo giudicando le richieste dello scorso anno, ma i liberi sospesi sono comunque oltre mille. Ora con i vuoti di organico la situazione rischia di peggiorare, con ricadute sulla sicurezza, oltre che sulla vita delle persone coinvolte”. “Liberi sospesi”, quando la pena è l’attesa di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2025 I tempi troppo lunghi mettono a rischio l’effettiva esecuzione delle condanne e la risocializzazione. La fase dell’esecuzione penale rappresenta un vero “collo di bottiglia” che sconta tempi eccessivamente lunghi nella messa in esecuzione dei titoli di condanna. Tanto da causare il fenomeno dei “liberi sospesi” cioè delle persone condannate a pene fino a quattro anni per reati non gravi e che beneficiano della sospensione dell’ordine di carcerazione in attesa che il giudice di sorveglianza si pronunci sulla possibilità di eseguire la pena in forma di misura alternativa alla detenzione. Una situazione che non solo mina il principio di effettività delle pene ma riduce anche la possibilità che da esse si producano gli effetti di risocializzazione auspicati dall’articolo 27 della Costituzione. L’esecuzione di una pena a molti anni di distanza dalla commissione del reato rischia, infatti, non solo di vanificare ogni effetto sul piano della prevenzione speciale (come ogni “punizione” applicata a troppa distanza dalla violazione commessa) ma addirittura di sortire effetti deleteri su quanti, nel frattempo, abbiano costruito un’esistenza lontana dal mondo della devianza, formando una famiglia e trovando un lavoro regolare. In base ai risultati del workshop promosso dall’Università Statale di Milano lo scorso settembre, la causa principale dell’attuale crisi risiede soprattutto nell’ormai ingestibile divario tra l’esponenziale aumento del numero delle condanne da eseguire - il numero dei “liberi sospesi” supera ormai le 100mila persone - e le sempre più scarse risorse materiali e di personale disponibili nei tribunali di sorveglianza e negli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe), che soffrono, entrambi, di altissime percentuali di scopertura negli organici del personale di cancelleria (in molti casi attorno al 50%) e degli assistenti sociali, nei tribunali e uffici di sorveglianza. L’attuale situazione, che ha assunto ormai natura sistemica, espone a possibili violazioni sul piano costituzionale e di fronte alle Corti europee, poiché l’esecuzione di pena che arrivi oltre un tempo ragionevole è suscettibile di integrare i caratteri di un’illecita interferenza dello Stato nella vita privata e familiare, il cui rispetto è tutelato dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e. in questa prospettiva, non è escluso che si possa configurare il diritto a un equo indennizzo per l’irragionevole durata dell’esecuzione del titolo di condanna, quale corollario del presidio già posto dall’ordinamento per il pregiudizio da irragionevole durata del processo. Va quindi ribadita la necessità di maggiori investimenti sul personale e sulle dotazioni materiali negli uffici più impegnati sul versante dell’esecuzione penale. Inoltre, occorre interrogarsi sulle soluzioni organizzative e sulle modifiche normative necessarie e riflettere sulla stretta interconnessione tra la problematica dei “liberi sospesi” e l’altra grave criticità dell’esecuzione, costituita dalla condizione di degrado e sovraffollamento degli istituti penitenziari, impietosamente certificata dalla Corte di Strasburgo a partire dalla sentenza Torreggiani: ogni anno lo Stato soccombe in migliaia di ricorsi per violazione dell’articolo 3 della Cedu, azionati in base all’articolo 35-ter della legge 354/1975, nei quali vengono corrisposti indennizzi anche di natura economica. Se, infatti, per ipotesi, si risolvesse la patologia dei “liberi sospesi”, il sistema dell’esecuzione penitenziaria collasserebbe, travolto dalle decine di migliaia di condannati in esecuzione di misura alternativa o sottoposti a detenzione ordinaria. Non essendo attuale la prospettiva di un provvedimento di natura demenziale (che peraltro avrebbe un senso soltanto in concomitanza con una radicale riforma dell’esecuzione penale) e a fronte alla progressiva contrazione delle risorse disponibili, non resta che puntare su puntuali modifiche normative che possano condurre a una graduale razionalizzazione del sistema, consentendo di risparmiare risorse e velocizzare le scansioni procedimentali, così da migliorare la capacità di gestione e i tempi di definizione delle sopravvenienze. La riforma non placherà la tempesta della giustizia di Giovanni Maria Flick Il Dubbio, 3 marzo 2025 L’intervento svolto dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick al seminario “L’Alta Corte disciplinare. Pro e contro di una proposta che fa discutere”. Il pianeta giustizia mi sembra - nel contesto della polemica - una “rosa dei venti”. I suoi quattro punti cardinali sono rappresentati dalla riserva di legge; dal “giusto processo” con tutte le sue implicazioni e interferenze sostanziali e processuali; dal principio cardine della responsabilità personale in forza di una legge anteriore al fatto compiuto da una persona; dalla pena che non deve essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Quella della Rosa dei Venti è una realtà tempestosa verso nuove prospettive auspicate da tutti, ma fra loro assai diverse. È segnata da venti impetuosi che investono l’uno e poi l’altro settore di essa senza più alcuna distinzione fra questi ultimi. È caratterizzato non solo da rapidità, con il suo corteo di suggestioni, trascinamenti, coinvolgimento, fascino; ma da una pretesa di velocità (intesa come un valore misurabile) che finisce per annullarsi nell’indifferenza e nell’inerzia. Quella realtà è segnata da burrasche improvvisate, alternate a una bonaccia sonnacchiosa; da slanci riformisti contrapposti a paure ea inquietudini di fronte al nuovo. Cerca di svolgersi nel timore di cambiamenti del modo di vivere, nell’inquietudine e nell’angoscia, senza avvertire il cambiamento culturale e tecnologico che stiamo vivendo e la sua turbolenza. Non tiene sufficientemente conto della necessità di coniugare rapidità e lentezza; finisce per risolversi in egoismo, solitudine e rassegnazione, anziché germogliare frutti positivi. È una realtà che rischia di non evitare il naufragio sugli scogli del soggettivismo disordinato dei protagonisti o sulle secche del sincretismo superficiale e del populismo; per evitare le inquietudini del nostro tempo attuale finisce per risolversi in un quieto vivere soltanto apparente, destinato al fallimento. Ossessionata dalla tempesta, la navigazione rischia di sottovalutare le “novità” e le difficoltà della riva verso cui si dirige; non è in grado di sviluppare, con la memoria del passato e dei suoi errori, l’intuito per governare la direzione verso il futuro. Al di là dell’apparenza sembrano mancare la consapevolezza dei valori in gioco; la capacità di un dialogo sincero e costruttivo su di essi; il coraggio di aprirsi reciprocamente alla fiducia e alla ricerca di un percorso comune. Vi è quanto basta - negli spunti numerosi e in parte fondati che emergono dal dibattito culturale - per raccogliere indicazioni che consentono di aprirsi a qualche fiducia su una “giustizia semplice”, libera dai condizionamenti, dagli alibi e dagli eccessi del tecnicismo e della politica per raccogliere e attuare le indicazioni costituzionali su di essa. Per superare ad esempio il disagio di fronte all’inutilità sostanziale di un dibattito sulla “separazione” delle carriere di fatto da tempo “risolto” mentre premono richieste quotidiane e ben più pressanti di giustizia in concreto. Per liberarsi dalla lite - incomprensibile per i cittadini e per gli utenti - fra magistrati e avvocati, superando i tecnicismi e ritornando alla realtà e alla sostanza dei problemi più urgenti; ma al tempo stesso evitando il fascino perverso e seducente di una giustizia soltanto robotica. Tanto più stupisce, questo lasciarsi imprigionare dalla polemica, se si pensa al paradosso della riforma: separare i “giudicanti” dai “requirenti” per poi riunificarne l’assetto disciplinare in quell’inedita Alta Corte. È il segno che i conflitti non hanno un senso, se non quello di lasciare la giustizia squassata dai venti. Se uno Stato è lo specchio della sua magistratura di Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 3 marzo 2025 C’è un problema di “radicalismo verbale” quando si fa un uso massiccio di slogan propagandistici, ripetendoli ossessivamente in modo che le “bufale” finiscono per sembrare vere. I percorsi di legalità subiscono queste “verità rovesciate”, usate strumentalmente contro i magistrati che danno fastidio perché indipendenti rispetto ai potentati culturali, economici o politici. Gli attacchi contro questi magistrati scomodi, per delegittimarli, formano ormai un vasto catalogo. Eccone alcuni esempi nel tempo: giustizialisti, forcaioli, toghe rosse, cancro da estirpare, golpisti, eversori, pazzi, maledetti nel Vangelo. La crisi di credibilità che oggi affligge la magistratura deriva anche da questo stillicidio organizzato di menzogne e insulti. Una crisi che induce a perseverare nel loro atteggiamento tutti coloro che mal sopportano i controlli di legalità, fino ai sempre verdi strateghi della difesa “dal” invece che “nel” processo, che aborrono il controllo di legalità, in una sorta di impropria riedizione del “processo di rottura” utilizzato da antitesi dello Stato come le Br. Il Governo mostra i muscoli moltiplicando gli attacchi alla magistratura, sebbene preferisca parlare di “scontro” tra poteri dello Stato, per nascondere la sua idiosincrasia ai controlli. L’insofferenza verso l’indipendente esercizio della giurisdizione registra una curva in ascesa. Nei due anni del Governo Meloni se ne registrano diversi esempi. Primo. Questo Governo, appena insediato, ha soppresso per le opere del Pnrr il “controllo concomitante”, con cui la Corte dei Conti, già durante la realizzazione di un’opera, poteva verificarne lo sviluppo e il corretto impiego delle risorse pubbliche. Privata di questo controllo, la Corte dei Conti può intervenire solo ad opera conclusa, quando ormai il danno è fatto. Certo, senza il “controllo concomitante” l’opera pubblica potrà essere realizzata più in fretta. Ma ciò non andava ottenuto a scapito delle garanzie di legalità. Secondo. La Corte dei Conti può condannare i funzionari pubblici a risarcire all’Erario i danni causati alla pubblica amministrazione con colpa grave o dolo. Durante il Covid una legge ha escluso per le condotte commissive la responsabilità per colpa grave, limitandola ai casi di dolo, posto che l’emergenza imponeva di agire in fretta anche a costo di qualche irregolarità. Lo stato di emergenza per il Covid è cessato il 21 marzo 2022. Ma il Governo ha prorogato per ben tre volte l’esclusione della responsabilità per colpa grave, portandola fino al 30 aprile 2025. Poi si vedrà… Per intanto vi è un chiaro indebolimento del sistema risarcitorio e delle garanzie amministrative. Terzo. L’articolo 323 del codice penale sanzionava principalmente il pubblico ufficiale che, nello svolgimento delle sue funzioni, si procurava un vantaggio patrimoniale ingiusto. Nel 2024 il Governo Meloni ha abrogato questa norma, togliendo ai giudici penali un altro strumento importante per la correttezza amministrativa. E ciò sebbene l’Unione Europea avesse ripetutamente richiesto agli Stati membri di rafforzare le norme a tutela della legalità. Quarto. Per certe controversie sui migranti vari Tribunali hanno dato torto al Governo. Questo ha reagito trasferendo la competenza alle Corti d’Appello, sperando che queste gli fossero più favorevoli. In tal modo ha offeso sia i Tribunali, accusandoli di non essere imparziali, sia le Corti d’Appello, facendole sembrare più acquiescenti al Governo. E ha seppellito la regola, fondamentale in ogni Stato di diritto, per cui il giudice non può essere scelto da una parte in causa. Quinto. Il Governo Meloni insiste sulla separazione delle carriere. Con buona pace del ministro Nordio si tratta di un’iniziativa inutile per quanto riguarda la giustizia e, in realtà, destinata a portare inevitabilmente i PM sotto il controllo politico del potere esecutivo, minando fortemente la loro indipendenza. Uno Stato è lo specchio della sua magistratura. Se si avvilisce la magistratura, si avvilisce lo Stato. Con lo sciopero di giovedì per la Costituzione i giudici hanno inteso opporsi a tale avvilimento. Ora tocca al Governo. Ma con onestà d’intenti. Il declino del processo tradizionale e la progressiva erosione dello Stato di diritto di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 3 marzo 2025 Dal massiccio ricorso ai sequestri e alle confische come misure di prevenzione, fino al nuovo pacchetto sicurezza in discussione al Senato: queste procedure parallele hanno in comune l’indebolimento della funzione di controllo di legalità da parte della magistratura, chiamata semplicemente a ratificare decisioni prese da altri enti. Lo sciopero dei magistrati della scorsa settimana ha inaugurato ufficialmente la lunga stagione politico-giudiziaria che porterà, nel 2026, al referendum sulla riforma Nordio. Per l’occasione, magistratura e avvocatura hanno dato sfogo alle loro ostilità, contraddistinte da reciproci scambi di bordate tra l’Associazione nazionale magistrati (Anm) e l’Unione delle camere penali. Per quest’ultima, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri (Pm) è un indubbio successo: la norma è modellata su un progetto dell’associazione degli avvocati - lanciata dall’allora presidente, Beniamino Migliucci, e portata avanti dai successori Giandomenico Caiazza e Francesco Petrelli - che propose un’iniziativa di legge popolare in grado di portare i penalisti in strada a raccogliere le firme. È una vicenda che viene da lontano e che oggi sembra giungere al suo termine. Una fine che, però, è giunta fuori tempo massimo, in un sistema giudiziario ormai stravolto da vicissitudini storiche che - dalla pandemia al populismo al governo - hanno cambiato totalmente scenario. Avvocati e magistrati sembrano due pugili sfiancati, costretti a tenere la scena di un duello che passa ormai sopra le loro teste, e ha come assoluto protagonista un governo che è la massima espressione dell’ondata populista che ha cambiato il volto della politica (ben oltre i confini italiani). Per certi versi è come vedere un film muto ai tempi della scoperta del sonoro: il mondo va da un’altra parte. Sicuramente di un’altra epoca è la protesta dei magistrati con i richiami a Piero Calamandrei, la copertina della Costituzione sventolata come i libretti rossi in un’assemblea del Sessantotto e la scalinata della Cassazione come quella di Odessa nella Corazzata Potëmkin di cento anni fa (ma Meloni non ha mandato i carabinieri a sparare contro). C’è un po’ di stanchezza, nonostante le cifre snocciolate sulle adesioni. Un po’ perché, dalla riforma Mastella a oggi, i passaggi di funzione da una carriera all’altra sono stati azzerati; un po’ per via di una certa rassegnazione strisciante. In fin dei conti è difficile negare che la separazione delle carriere sia una scelta giusta, e continuare a ripetere le solite giaculatorie sulla presunta perdita della cultura della giurisdizione e sul rischio di ingerenze politiche nelle procure appare ormai sterile. Sono successe molte cose, nel frattempo: dal caso Palamara alla vicenda Nigergate, con i Pm che nascondono prove decisive e poi, di fronte allo scetticismo del tribunale, tentano di ricusarlo insinuando intese tra il presidente e i difensori. Altro che “cultura della giurisdizione”. A Milano, i giudici del tribunale sono insorti sdegnati contro ciò che è sembrato un atto di prevaricazione contro l’autonomia dei magistrati. Difficile negare che, per certi processi, il mancato accoglimento delle tesi dell’accusa equivalga a un torto, a una ferita che indebolisce l’intera corporazione. Le cronache riportano i pubblici rimbrotti di un prestigioso Procuratore Capo contro il tribunale che gli aveva frantumato il sogno di cambiare, a suon di sentenze, la struttura del reato di associazione mafiosa. Al dunque siamo colleghi, amici, compagni di banco e di iniziative politiche: come si può dimenticare l’amicizia e regalare brutte figure quando in ballo ci sono il prestigio e il buon nome di tutta la categoria? È umano, troppo umano. Se il giudice non solo deve essere imparziale, ma anche apparirlo, come può un imputato fidarsi di accusa e giudizio maturati nello stesso brodo di coltura? Chi ha difeso i magistrati sa perfettamente che sono proprio loro a nutrire una sfiducia assoluta verso i colleghi, salvo che non li conoscano, appunto. Ma fuori tempo massimo è anche l’avvocatura che vince una lunga battaglia per realizzare il giusto processo penale, ormai diventato marginale nello scenario della giustizia. Paolo Ferrua, uno dei massimi studiosi del processo accusatorio, ripete che è inutile un Pm separato senza un processo “fair”. Ha ragione, perché il diritto penale del processo è ormai diventato il diritto penale della prevenzione. A fronte del declino del processo tradizionale, ormai bucherellato da troppe modifiche, correzioni e strappi in nome di situazioni eccezionali, negli ultimi anni si sono sviluppate procedure parallele che godono di maggiore rapidità, non dovendo rispettare tempi e pastoie del codice processuale ordinario. Ecco, dunque, il ricorso sempre più frequente a confische e sequestri come misure di prevenzione: il vantaggio è l’apprensione di vasti patrimoni senza necessità di preventiva condanna, ma sulla base dei precedenti o dell’appartenenza dei presunti titolari dei beni a categorie “a rischio”. Su questo giornale, nei giorni scorsi Marco Taradash ha illustrato i contenuti del pacchetto sicurezza - in corso di esame al Senato - che prevede l’espansione delle attività di spionaggio e delle operazioni sotto copertura da parte della polizia e dei servizi segreti. In più, la norma punta a introdurre l’uso quasi incontrollato delle intercettazioni preventive, attivate su semplice richiesta dei servizi, con l’obiettivo di prevenire atti di terrorismo e criminalità organizzata, sotto la supervisione della presidenza del Consiglio. In realtà, il software Graphite è stato usato per spiare giornalisti, sacerdoti e attivisti di Ong, violando i protocolli della casa produttrice. Inoltre, è necessario ricordare la procedura “accelerata” di espulsione delle persone migranti provenienti da “Paesi sicuri” scelti dal governo. Tutte queste procedure parallele hanno in comune l’indebolimento della funzione di controllo di legalità da parte della magistratura, chiamata semplicemente a ratificare decisioni assunte dai servizi segreti e dalle forze di sicurezza. Sembra così realizzarsi la distopia di un vecchio film, “Total recall”, che immaginava l’uso di strumenti di lettura del pensiero capaci di prevenire il compimento di crimini. Si tratta di una vera e propria erosione dello Stato di diritto che non sembra interessare nessuno: né la magistratura tesa a preservare i vecchi assetti, né le associazioni degli avvocati che tacciono per non disturbare il manovratore che dovrà regalargli la coccarda di una ininfluente separazione delle carriere (mentre si termina lo smantellamento del giusto processo). Una tendenza che non preoccupa l’opposizione, condotta da un soggetto chiaramente inadeguato, incapace perfino di parlare a braccio, e privo di consulenti giuridici degni del nome. La democrazia muore dell’ignavia di chi la dovrebbe difendere. I gruppi dell’Anm rinviano all’8 marzo la vera resa dei conti di Valentina Stella Il Dubbio, 3 marzo 2025 Nel prossimo parlamentino la moderata “Miagistratura indipendente” può rompere con le progressiste “Area” e “Magistratura democratica”. Il redde rationem ci sarà solo l’8 marzo, ossia quando il “parlamentino” dell’Anm si riunirà, trascorsi tre giorni dall’incontro che il sindacato delle toghe avrà avuto con la premier Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e il sottosegretario Alfredo Mantovano in merito alla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Questo perché la Giunta esecutiva che si recherà il 5 marzo a Palazzo Chigi non ha alcun mandato a trattare con il governo. Sarà poi il Comitato direttivo centrale, il parlamentino dell’Anm appunto, a valutare la linea da intraprendere, dopo aver ascoltato quello che l’Esecutivo Meloni avrà eventualmente da proporre all’Anm. È dunque solo sabato della prossima settimana che ufficializzeranno fuori i possibili distinguo tra le varie correnti, qualora davvero da parte della presidente del Consiglio arrivi una apertura a possibili modifiche al testo, come ad esempio il sorteggio “temperato” e non più “secco” per la scelta dei membri togati dei due futuri Csm. Per adesso, certo con toni diversi, il messaggio che la quasi totalità dei magistrati dà è uno: non si tratta su niente. Lo ha ribadito due giorni fa il segretario generale Rocco Maruotti , espressione della progressista AreaDg : “Voglio dire ancora una volta, chiaramente: di fronte a una riforma così non ci sono margini per una trattativa, in quanto autonomia e indipendenza della magistratura non sono abilitabili, semplicemente perché sono beni negozi comuni e non sono nella disponibilità dei magistrati, per cui, sia chiaro, che non ci sono per noi soluzioni di compromesso o possibili accomodamenti al ribasso “ . Nessun margine di trattativa e da parte di Magistratura democratica che ha due componenti in Giunta. Concetto espresso anche dalla presidente di Unicost, Rossella Marro : “Non siamo affatto disponibili a questo tipo di trattative, anche perché stiamo parlando di una riforma costituzionale”. Ci sarebbe in gioco la reputazione della stessa Anm che, con un mandato assembleare, ha deliberato un “anatema” sull’intera riforma. È vero che il gruppo dei CentoUno , rappresentato nel “parlamentino” ma non nella Giunta esecutiva dell’Anm, sarebbe favorevole al sorteggio. Ma si tratta di una componente dal peso davvero marginale, negli attuali organismi associativi. Non si può poi nascondere che anche una parte di Magistratura Indipendente, benché non ufficialmente, non si mostrerebbe contraria al “lancio dei dadi” (copyright di Ciccio Zaccaro, segretario di AreaDg) per la selezione dei rappresentanti nei due futuri Consigli superiori. Addirittura si sussurra tra le toghe che l’incontro richiesto da Cesare Parodi a Meloni, appena eletto al vertice dell’Anm lo scorso 8 febbraio, in realtà non sia stata una sua iniziativa estemporanea ma una scelta ben precisa frutto di colloqui informali già avuti dalla sua corrente, Mi, con Palazzo Chigi. Un modo per riaprire subito il dialogo, per mostrare un volto meno severo rispetto alla precedente Giunta guidata dal più intransigente Giuseppe Santalucia. “Non sarà sfuggito a voi giornalisti che Meloni ha accettato la richiesta di incontro di Parodi dopo pochissimo tempo, la sera della sua nomina. Era già tutto concordato”, ci ha fatto notare in particolare un magistrato al termine dell’assemblea al Cinema Adriano di Roma, in occasione dello sciopero di giovedì. Se si tratti di pura dietrologia, non lo sapremo mai. Sta di fatto che durante la manifestazione capitolina del 27 febbraio il presidente Parodi ha usato parole diverse rispetto a quelle di Maruotti: “Noi abbiamo dei contraddittori molto forti, molto abili, determinati che hanno degli interessi che non collimano non dico con i nostri ma con quelli dei cittadini. E non mi riferisco necessariamente al governo”. Molti in sala hanno pensato che si riferisse all’avvocatura, come se appunto se il vero avversario non fosse la politica, con la quale invece il buon Parodi vorrebbe parlare serenamente come ripetuto ieri alla trasmissione di Rai3 “Agorà”: “Ci aspettiamo di fare paradossalmente al presidente Meloni lo stesso discorso che in modo diverso cerchiamo di fare a tutti i cittadini: spiegare le ragioni specifiche e non ideologiche e di pregiudizio per cui contrastiamo questa riforma punto per punto. Su sorteggio, separazione delle carriere, Alta corte, daremo delle giustificazioni tecniche e delle ragioni giuridiche per le quali riteniamo queste scelte eccentriche rispetto a quelle generali, e che dunque non ci convincono”. Ma poi davvero, si chiedono alcuni magistrati, l’interlocutore vero è il governo? Perché, ci dicono alcuni, “siamo in presenza di un disegno di legge in discussione in Parlamento. Probabilmente sarebbe più opportuno parlare con i gruppi parlamentari”, a meno che “l’Esecutivo non voglia ritirare il ddl Nordio e sostituirlo con uno nuovo”. Anche in ossequio ad analisi del genere, evidentemente, l’Anm ha già chiesto un incontro con tutti i partiti. I più attenti osservatori però fanno notare che, nelle indiscrezioni fatte filtrare da Chigi a seguito dell’incontro, per fare il punto in vista del 5 marzo, ha avuto lo stesso giorno dello sciopero, si è parlato di “riunione di maggioranza”, a cui hanno partecipato, oltre a Meloni, Nordio e Mantovano, anche Salvini, Tajani e Lupi. Un modo per dire: a giocare la partita non è tanto l’Esecutivo ma i suoi azionisti, i partiti di maggioranza appunto. Giudizio abbreviato, intercettazioni utilizzabili anche se la motivazione è secretata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2025 Lo ha chiarito la Cassazione, sentenza n. 7647/2025, aggiungendo che la possibilità di eccepire la compressione del diritto di difesa esiste a fronte di un interesse processuale meritevole di tutela. In tema di indagini preliminari, la Cassazione (sentenza 7647/2025) ha affermato che la possibilità di secretare singoli atti attribuita al pubblico ministero (dall’art. 329, co. 1, Cpp) a tutela della segretezza dell’attività investigativa in corso di svolgimento, esclude che la formazione di atti probatori in parte secretati ne comporti l’inutilizzabilità in sede di giudizio abbreviato, ferma restando la facoltà dell’imputato di eccepire la compressione del diritto di difesa derivante dalla mancata piena conoscenza degli atti secretati, ove deduca un interesse processuale meritevole di tutela. La causa riguardava diversi imputati coinvolti in un procedimento per traffico di droga. L’eccezione comune sollevata da tre degli imputati riguardava l’inutilizzabilità e/o nullità delle intercettazioni disposte in altri procedimenti ed utilizzate ex art. 270 Cpp come prove a carico degli imputati. La doglianza, in particolare, verteva sul fatto che i decreti di autorizzazione erano privi di motivazione perché omissata ai sensi dell’art. 329, comma 3, Cpp, ragion per cui le difese degli imputati nel corso del primo grado, svoltosi con il rito abbreviato, non erano state messe in grado di valutare la legittimità dei decreti autorizzativi, divenuti del tutto ostensibili (anche con i motivi in precedenza soggetti ad omissis) solo nel giudizio di appello a seguito della produzione dalla Procura generale presso la Corte di appello di Roma. In altre parole, le difese hanno lamentato, sotto diversi profili, la compressione del diritto di difesa, quantomeno nel giudizio abbreviato, in relazione alle prove acquisite da altri procedimenti penali che sarebbero state decisive ai fini della sentenza di condanna, a nulla valendo la successiva produzione in appello in quanto tardiva rispetto ai termini per la produzione di atti nel giudizio abbreviato. Per la II Sezione penale, correttamente i giudici sia di primo che di secondo grado hanno rigettato le diverse eccezioni richiamando il principio secondo cui: “L’obbligo di deposito, a pena di inutilizzabilità, contestualmente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, degli atti relativi alle intercettazioni telefoniche effettuate nel corso delle indagini a carico dell’imputato trova espresso riconoscimento normativo nell’art. 268, co, 4, 5 e 6, Cpp, incontrando un limite nell’esercizio legittimo del potere di secretazione degli atti attribuito all’organo inquirente dall’art. 329, comma 3, cod. proc. pen., nei casi in cui l’ostensione al difensore dell’indagato dei risultati dell’attività captativa sia idonea a pregiudicare le indagini ancora in corso nei confronti di altri soggetti o dello stesso imputato, ma per altri reati, in relazione ai quali le investigazioni non siano ancora concluse e risultino tuttora soggette all’obbligo del segreto” (n. 22164/2017). La possibilità di secretare singoli atti, attribuita espressamente all’organo inquirente dall’art. 329, comma 3, cod. proc. pen. a tutela della segretezza delle indagini in corso, argomenta la Cassazione, “esclude in radice che si sia in presenza di prove assunte in violazione di legge, risultando perciò infondata sotto questo profilo l’eccezione di inutilizzabilità del contenuto delle intercettazioni indicate dai ricorrenti, che, senza dubbio, furono autorizzate legittimamente nei diversi procedimenti penali in cui furono disposte”. Del resto, osserva la sentenza, le difese non hanno mai eccepito che si trattasse di intercettazioni illegali, perché non autorizzate o effettuate fuori dai casi previsti dalla legge. Quanto alla possibile sussistenza di profili di nullità ex art. 178, lett. c), cod. proc. pen., per la Corte “va sottolineato che nel giudizio di appello le difese hanno potuto vagliare integralmente i decreti autorizzativi in precedenza omissati, senza però eccepire in quella sede alcuna violazione delle norme processuali in materia di intercettazioni”. Le deduzioni poste dalle difese, conclude sul punto, sono, perciò, infondate anche in ragione del fatto che la pienezza del diritto di difesa si era, per così dire, “riespanso” nel giudizio di appello. Mentre la riproposizione della questione in sede di ricorso per cassazione non può essere accolta perché i ricorrenti non hanno dedotto un interesse processuale meritevole di tutela. Se anche i difensori, aggiunge la Corte, avessero potuto accedere, già nel corso del giudizio abbreviato, ai decreti autorizzativi senza gli omissis, non avrebbero potuto sollevare alcuna eccezione relativamente alla legittimità delle intercettazioni, “poiché esse erano state autorizzate nei limiti fissati dal codice di rito ed acquisite nel rispetto dell’art. 270 cod. proc. pen. Non a caso, all’esito della “pur tardiva discovery, nessuna doglianza è stata in proposito formulata”. Le odierne eccezioni, conclude la Cassazione, risultano, pertanto, sollevate in assenza di un effettivo interesse processuale, “come ricostruito dalla Suprema Corte in termini di concreto interesse volto a rimuovere una situazione di pregressa illegalità processuale”. Lo spacciatore risponde della morte del cliente solo se ha agito colpevolmente senza cautele di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2025 Oltre alla responsabilità per il reato doloso di spaccio il giudice dovrà provare se la condotta ipotizzata di un agente modello adeguata alla normale diligenza coincida o meno con il comportamento tenuto dall’agente reale. Lo spacciatore risponde non solo dell’illecita attività di vendita della droga, ma anche delle conseguenze letali che derivino all’acquirente dall’assunzione della sostanza stupefacente se colpevolmente ha ignorato l’evento che - al momento della commissione del reato doloso “presupposto” - fosse in concreto prevedibile. Le conseguenze della morte o delle lesioni personali a seguito della commissione di un reato doloso - sono contestabili a titolo di colpa in quanto prevedibili, ma non volute dall’agente, che ha violato perciò le regole di cautela nella sua condotta volontaria, affinché non si determinassero le ulteriori conseguenze. Ma una volta accertata la responsabilità penale per il reato doloso non è da tale accertamento che si possa dire provata la colpa per le conseguenze ulteriori, quali la morte o le lesioni personali, senza appurare appunto l’elemento psicologico per il reato previsto dall’articolo 586 del Codice penale intitolato “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”. Si tratta quindi di due reati distinti dove il primo deve essere sostenuto dal dolo mentre del secondo si risponde a titolo di colpa. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 8356/2025 - ha respinto il ricorso dell’imputato che aveva ceduto più pasticche di extasy a una donna che era poi morta la stessa serata della cessione e con un livello ematico di Mdma (principio attivo della nota droga) elevatissimo e sicura causa del decesso della giovane. Il ricorso lamentava la mancata prova della responsabilità dell’imputato per le conseguenze letali realizzatesi la stessa notte della vendita dello stupefacente. Come detto il reato ex articolo 586 del Cp che sanziona le conseguenze del delitto doloso è imputabile non in maniera automatica e va provata la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa. Il rigetto del ricorso respinge la tesi difensiva secondo cui i giudici di merito avrebbero attribuito la responsabilità penale de plano per l’evento morte senza aver appurato la condotta colposa tenuta dal ricorrente al momento di commettere il reato doloso di spaccio. Al contrario la Cassazione, pur ribadendo che non è prevista alcuna responsabilità oggettiva per le conseguenze derivate dalla commissione del reato doloso, rileva che nella sentenza impugnata era stato, invece, dato giusto rilievo a delle circostanze di fatto che provavano la colpa del ricorrente ex articolo 586 del Codice penale: la conoscenza del comportamento sovraeccitato della vittima al momento dell’acquisto, della sua tendenza a utilizzare la droga in dosi massicce e la ripetizione delle cessioni nella medesima serata. Ciò che poteva far prevedere anche l’esito mortale. Infine, la Suprema Corte, precisa che la norma incriminatrice contro lo spaccio di droga non assorbe tutte le conseguenze personali che derivano ai clienti del mercato degli stupefacenti. Cioè il bene dell’integrità fisica dell’assuntore non è l’oggetto tutelato dalle norme di contrasto alla vendita illecita di stupefacenti per cui non vi è duplicazione della risposta punitiva - come sostenuto dal ricorrente - in caso si verifichino le lesioni o la morte dell’acquirente. A riprova di ciò la Cassazione punta l’attenzione sul fatto che l’uso personale non sia sanzionato penalmente. Dlgs 231, la proporzionalità limita il sequestro dei beni di Sandro Guerra Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2025 Per la Cassazione il giudice deve modulare attentamente il vincolo preventivo. Proprietà e libera iniziativa non possono essere compressi oltre il necessario. Nel sequestro preventivo il principio di proporzionalità - sancito anche in riferimento alle misure cautelari reali dall’articolo 275 del Codice di procedura penale - impone al giudice di modulare il vincolo in modo che esso non determini un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziative economica dell’ente attinto dalla misura reale, eccedendo quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito, ossia impedire l’aggravamento del reato, la protrazione delle sue conseguenze o l’agevolazione di altri reati. E questa valutazione non deve riguardare solo il momento in cui il sequestro viene imposto ma anche il periodo in cui sarà efficace. Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza 2836 del 23 gennaio 2025, annullando la decisione del tribunale del riesame che aveva applicato il sequestro preventivo impeditivo su una società semplice agricola nonché sui conti correnti ad essa intestata, sui beni aziendali, sulle quote di partecipazione e su “ogni altra componente patrimoniale ad essa riconducibile”. L’articolo 45 del Dlgs 231/2001 consente al giudice di disporre, su richiesta del pubblico ministero, “l’applicazione quale misura cautelare di una delle sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2” quando: sussistono gravi indizi per ritenere l’esistenza della responsabilità dell’ente per un illecito amministrativo dipendente da reato; vi siano fondati e specifici elementi che facciano ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede. Al ricorrere del duplice presupposto l’ente può essere sottoposto ancor prima della sentenza definitiva all’interdizione dell’esercizio dell’attività, alla sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, all’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi o all’eventuale revoca di quelli già concessi, ovvero al divieto di pubblicizzare beni o servizi. Peraltro, in virtù dell’articolo 34 Dlgs 231/2001 - secondo cui nel procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano, in quanto compatibili, le disposizioni del Codice di procedura penale - anche il patrimonio dell’ente, al pari di quello della persona fisica, può essere oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo quando vi sia pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati. Questo perché, secondo la giurisprudenza di legittimità, “il sequestro impeditivo ha una finalità che la misura interdittiva non ha: impedire l’utilizzo di singoli beni ed evitare, sottraendoli alla disponibilità dell’ente, che possano continuare - nonostante la misura interdittiva - quantomeno ad agevolare la commissione di altri reati con conseguente pericolo per la collettività” (Cassazione, sentenza 34293/2018). Il principio di proporzionalità Le conseguenze, persino irreversibili, cui l’ente potrebbe andare in contro impongono al giudice il rispetto del principio di proporzionalità, declinato dalla giurisprudenza più autorevole in termini di ricerca di un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 36072/2018). Il principio di proporzionalità non costituisce un limite alla discrezionalità del giudice solo nella fase genetica della misura cautelare ma, chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 2836 del 23 gennaio 2025, “lungo tutta la fase della sua efficacia”, tenendo quindi in considerazione anche gli elementi positivi di reddito previsti o prevedibili (ad esempio entrate per operazioni straordinarie già programmate o cessioni di asset). L’obiettivo è infatti “graduare e modellare il vincolo imposto, anche in relazione alle sopravvenienze che possono intervenire, affinché lo stesso non comporti restrizioni più incisive dei diritti fondamentali rispetto a quelli strettamente funzionali a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso di specie”. Piemonte. Quel silenzio assordante della politica e della società civile sul carcere di Bruno Mellano* La Stampa, 3 marzo 2025 Il sovraffollamento in continua crescita, il numero dei suicidi, le tensioni dilanianti e la sostanziale mancanza di speranza nel sistema penitenziario fanno dell’Italia un caso in Europa. Oggi alle 18 nella sala conferenze dell’Hostello Sacco di via Cavour 35 a Fossano è in programma l’incontro “Un silenzio assordante della politica e della società civile sul carcere”. Saranno presenti il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte Bruno Mellano, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, la Camera Penale del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta e l’Associazione “Nessuno tocchi Caino - Spes contra Spem”. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali ha deciso di promuovere una mobilitazione nazionale per tornare a porre con urgenza e con forza la questione dell’esecuzione penale in carcere. Il sovraffollamento in continua crescita, il numero dei suicidi, le tensioni dilanianti e la sostanziale mancanza di speranza nel sistema penitenziario fanno dell’Italia un caso in Europa. L’appello che abbiamo lanciato come figure di garanzia alle istituzioni e alla società civile, a cominciare dalla politica. Anche su temi così sensibili e delicati come il carcere, che nella società contemporanea ha assunto una valenza fortemente simbolica, i veri avversari sono innanzitutto gli indifferenti. Quali osservatori esterni designati dagli enti locali e dalle Regioni noi garanti abbiamo l’ingrato compito di agire con sguardo intrusivo un monitoraggio ficcante sui diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, segnando a “chi di dovere” e azioni per dare gambe al trattamento volto al recupero e al reinserimento. Doppiamente ingrato dunque un ruolo che prevede come primo interlocutore proprio le istituzioni che ci hanno nominato e che spesso pensano di aver esaurito il proprio intervento con l’individuazione di un “delegato al problema”. Sono ormai 50 anni dall’approvazione dell’ordinamento penitenziario (legge 354 del 1975) che mette tutte le principali attività del trattamento in capo a istituzioni chiamate a collaborare con l’amministrazione penitenziaria. E in molti settori, come la sanità, la competenza è esclusiva. Le narrazioni che si fanno del carcere finiscono per essere determinanti nell’approccio dell’opinione pubblica ma anche dei decisori pubblici. Riuscire a parlare dei detenuti partendo dalla loro umanità sofferente e dalle inaspettate risorse personali che le mura contengono ma non cancellano è l’unico modo interessante e fecondo per poter affrontare efficacemente anche la questione della sicurezza sociale a cui tutti ambiamo. L’appello dei Garanti, partendo dalle parole del Presidente della Repubblica, non è un mero richiamo morale o ideale, ma concreto e operativo. Molto c’è da fare qui e ora: il tessuto sociale dei territori non può pensare di lasciarlo alla gestione dei penitenziari. La sfida deve essere quella di vedere, con le difficoltà e le oscurità del pianeta carcere, anche e in primo luogo le potenzialità sociali e persino economiche di un servizio pubblico che, laddove necessario ed extrema ratio di un sistema complesso di misure restrittive, deve riuscire a conservare la dignità della persona e ad alimentare la speranza in un cambiamento possibile. I dati ci dicono che investendo sui progetti si raccolgono risultati “imprevisti”. Ma occorre pur sempre scommettere sull’uomo e sulla donna, anche quando tutto sembra perduto. Con San Paolo, ripreso come monito da Nessuno tocchi Caino, “spes contra spem”: un impegnativo “essere” speranza contro uno sterile “avere” speranza. Che, peraltro, è proprio il motto ufficiale del Corpo della Polizia penitenziaria che recita “Despondere spem munus nostrum”, garantire la speranza è il nostro compito. Di tutti i cittadini costituzionalmente orientati! *Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte Calabria. Malasanità, sovraffollamento, disagio e suicidi: ecco cosa succede nelle carceri di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 3 marzo 2025 Malasanità, disagio e morti dietro le sbarre. Le carceri italiane non avevano mai registrato dati così alti. In un anno 246 decessi, 90 dei quali per suicidio (5 in Calabria). A Catanzaro la casa circondariale di Siano è prima in Italia per numero di tentativi di togliersi la vita tra i detenuti, secondo l’Osservatorio penitenziario del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Il 2025 non si è aperto con segnali migliori negli istituti di pena calabresi. Nella casa circondariale di Paola, tra il 7 e 8 gennaio, due persone si sono tolte la vita. Un detenuto tunisino 40enne nella notte e al mattino un impiegato amministrativo 48enne residente a Lauria, ma alloggiato nel penitenziario. Per entrambi il decesso sarebbe riconducibile a impiccagione. Il primo nella cella d’isolamento, il secondo nella palestra comune. La situazione nelle carceri calabresi - In Calabria sono attive 10 case circondariali, 2 case di reclusione (Rossano e Laureana di Borrello), 2 Rems - Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Santa Sofia d’Epiro e Girifalco) e 1 Istituto Penale per i Minorenni - Ipm di Catanzaro. L’associazione Antigone ha visitato nell’ultimo anno quasi tutte le carceri calabresi dove il sovraffollamento in alcuni casi supera la media nazionale del 133%. “Il quadro tracciato è allarmante per la carenza di assistenza sanitaria.” afferma la referente di Antigone Calabria Perla Arianna Allegri. “C’è enorme carenza di medici, rifiutano di lavorare in carcere - spiega Allegri - e chi si trova in prima linea fatica perché deve rispondere dell’assenza degli altri”. La casa circondariale di Paola - Il duplice suicidio detenuto/impiegato del mese scorso nella casa circondariale di Paola segue alla morte del 21enne di Sala Consilina Giuseppe Spolzino avvenuta a giugno 2024. Sono 178 i detenuti presenti a Paola a fronte di una capienza regolamentare di 181 posti, 38 sono stranieri. “In generale a Paola c’è sempre un cattivo clima detentivo che si percepisce durante le visite. L’istituto nel 2024 - afferma Allegri - versava in uno stato di abbandono. Solo gli spazi esterni erano molto curati, puliti e ordinati, con piante, alberi e aiuole. All’interno invece ci sono intonaci scrostati, gravissime infiltrazioni d’acqua, pareti da ritinteggiare e lesioni murarie”. “Ci riferivano che la cura del verde era un’attività molto gradita dalla popolazione ristretta e che gli spazi per l’attività in comune, quindi palestra, biblioteche, aule, sala teatro, erano attrezzati, ben mantenuti e vivibili. Risultavano invece particolarmente tenute male le sezioni che rispecchiavano lo stato generale delle celle che ospitano solo due persone. C’erano 66 persone che lavoravano, 3 che facevano formazione professionale e 74 che studiavano”. “In questi giorni - racconta l’avvocato Olesya Dzedzinska - stanno per trasferire un mio assistito dal carcere di Paola ad una clinica per malati terminali di Catanzaro. È un ragazzo ucraino che da sei mesi lamentava problemi respiratori, non riesce più a deglutire e dopo tanta insistenza abbiamo ottenuto una biopsia e che ha rivelato la presenza di un tumore ormai in stato avanzato”. La casa circondariale di Catanzaro - Un 32enne il 12 dicembre 2024 è stato trovato privo di vita in una cella della casa circondariale di Catanzaro. Era stato arrestato per essere evaso dai domiciliari ai quali era ristretto con l’accusa di maltrattamenti in famiglia. Sul caso la Procura di Catanzaro ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti, a seguito di una denuncia presentata dai parenti del detenuto. Un mese prima, il 15 novembre 2024, tra le stesse celle è morto il 28enne siciliano Domenico Lauria invalido al 75%. Un decesso attribuito ufficialmente ad “abuso di sostanze stupefacenti e arresto cardiaco”. La famiglia del giovane detenuto però ha denunciato la presenza sul corpo del ragazzo di tagli, ematomi e ferite, alcune con punti di sutura. Per una malattia curata nell’istituto di pena di Siano un 57enne è morto a gennaio del 2024. “La casa circondariale di Catanzaro - spiega Allegri - si è trovata diverse volte in grossa difficoltà. È l’unica articolazione per la salute mentale attiva in Calabria e su una popolazione totale di circa 3.000 detenuti è un problema. Si trova in affanno perché è la sola che può contenere soggetti con problematiche psichiatriche. Lavora con 2 psichiatri, 5 psicologi, ma in parte non è usata perché mancano gli operatori. Certo la sezione dedicata non presenta particolari criticità, c’è un’assistenza medica garantita dalle 8:00 alle 20:00, ma forse non basta e si ipotizza il trasferimento fuori regione di detenuti con patologie psichiatriche gravi. Abbiamo però registrato alcuni segnali di miglioramento. È stata approvata la ristrutturazione delle facciate per il triennio a venire, quindi 2025-2027, e sono stati acquistati dei nuovi materassi per le sezioni di alta sicurezza”. “Non è sovraffollato: ospita 628 persone a fronte di una capienza regolamentare di 682 posti. Ci sono 216 persone che lavorano per l’amministrazione penitenziaria, 297 che studiano e 120 con diagnosi psichiatriche gravi. Circa 1/3 dei ristretti fa uso di benzodiazepina, sedativi e ipnotici”. Un 40enne ucraino lo scorso anno dopo aver lamentato per mesi uno stato di grave malessere è stato portato in Pronto Soccorso dove lo hanno dimesso con una diagnosi di cefalea. È morto in carcere a distanza di giorni. Ad occuparsi oggi del caso è l’avvocato Giancarlo Liberati il quale chiarisce che è stato riconosciuto il decesso per colpa medica ed è in corso un procedimento civile per risarcimento del danno per malasanità carceraria alla mamma in quanto “si tratta di persone affidate allo Stato che deve sorvegliare sulle problematiche connesse anche alla loro salute fisica e mentale”. La casa circondariale di Cosenza - Una situazione al limite è stata denunciata da Antigone dopo la visita alla casa circondariale di Cosenza. “Qui e a Rossano - dichiara Allegri - ho trovato delle situazioni contrarie al senso di dignità. Ho visto un 35enne russo in una cella di isolamento svestito, con indosso solo delle mutande e una coperta, steso sul pavimento senza letto, senza brandina, senza cuscino, senza riscaldamenti. La direzione del carcere è molto preoccupata. Ha già segnalato la situazione al magistrato, al DAP e al provveditorato regionale di amministrazione penitenziaria chiedendo il trasferimento fuori regione in quanto nell’articolazione di salute mentale di Catanzaro non c’è posto per accoglierlo”. “È da 2 anni che il mio assistito è in questo limbo, - racconta l’avvocato Olesya Dzedzinska - non è cambiato nulla. L’ho visto pochi giorni fa. Si trova in un evidente completo stato di infermità mentale. Arrestato con altri migranti a Roccella Jonica con l’accusa di essere un presunto scafista era stato tradotto nel carcere di Locri. La mamma mi ha contattata informando che le medicine russe che aveva bisogno di assumere per una patologia di cui soffre da bambino non gliele avevano fatte portare nel penitenziario perché provenienti da un altro Paese. Quando è terminato l’effetto il ragazzo ha perso la cognizione dello spazio e del tempo. Ha tentato di evadere salendo sul tetto, ha provato a suicidarsi, ha cambiato 4 carceri fino ad arrivare a Cosenza più di un anno fa. Se non cambia nulla dovrebbe tornare in libertà il 15 ottobre 2025. Ho comunque presentato istanza di liberazione anticipata. Di queste situazioni ce ne sono tantissime”. “Nella casa circondariale di Cosenza - chiarisce Allegri - non abbiamo registrato un particolare sovraffollamento. Sono presenti 253 persone a fronte di una capienza regolamentare di 220 posti e gli stranieri sono in totale 40. C’è un problema con le finestre dove hanno posizionato un pannello di plexiglass, oltre alle griglie all’esterno delle sbarre. Queste schermature impediscono il ricircolo dell’aria rendendola irrespirabile a facendo raggiungere d’estate i 43 gradi di temperatura all’interno. I ventilatori che hanno acquistato per superare il caldo non bastano. C’è uno psichiatra per 25 ore a settimana e sono attivi diversi corsi scolastici e universitari, con 110 studenti, che funzionano bene. In più ci sono altre attività molto partecipate come la gestione delle serre dell’istituto e laboratori di scrittura”. La casa di reclusione di Rossano - A Rossano dopo il suicidio di un 34enne egiziano avvenuto il 25 gennaio 2024 l’associazione Antigone nel corso della sua visita ha denunciato la presenza di un uomo in stato di forte disagio. Del caso si è occupata anche la direzione segnalando la situazione al magistrato e chiedendo trasferimento fuori regione perché a Catanzaro nell’articolazione di salute mentale non c’è posto. “È un africano di circa 40 anni in uno stato di evidente fragilità psichica - racconta la referente di Antigone Calabria - che al momento della nostra visita giaceva in una cella di isolamento con una branda senza materasso, in attesa che un’articolazione di salute mentale possa accoglierlo. Il problema della casa di reclusione di Rossano è che non sono presenti particolari attività educative, formative, lavorative, per i detenuti che sono 306 su una capienza regolamentare di 263 posti. Sono molte le persone trasferite da altri istituti che lamentano di non poter più studiare. Le celle sono in buone condizioni, dotate di bagno separato e docce, ma nell’alta sicurezza ospitano fino a 6 detenuti ciascuna e lo spazio vitale diventa davvero minimo”. La casa circondariale di Locri - Nella casa circondariale di Locri sono presenti 125 persone a fronte di una capienza regolamentare di 85 posti. Ha quindi un sovraffollamento pari al 142%. “Il 27 dicembre è stata fatta la visita a Locri e pare che molte persone siano impegnate in diverse attività. Anche qui però - ammette Allegri - c’è grossa carenza di medici specialisti con conseguenti lunghe attese. Un altro problema importante è che la metà dei detenuti (57) è straniera, ma manca un mediatore linguistico culturale. Ci sono 52 persone che lavorano per l’amministrazione penitenziaria, 6 per datori di lavoro esterni, 25 coinvolte nei corsi di formazione professionale e 30 studiano. Almeno su quello che è il trattamento penitenziario Locri ha delle buone pratiche. C’è anche un detenuto iscritto alla facoltà di Matematica dell’Università di Calabria. I ristretti frequentano corsi di chitarra, pallavolo, calcetto, un laboratorio cristiano e un laboratorio di libri sensoriali dove realizzano libri per non vedenti. In più c’è la redazione di un giornalino. Locri non è mai stato un istituto particolarmente complesso”. La casa circondariale di Reggio Calabria - Panzera e Arghillà - A Reggio Calabria l’associazione Antigone ha visitato entrambi i plessi: Panzera e Arghillà. “Il carcere di Arghillà - afferma Allegri - è quello che ha numeri alti: 351 persone a fronte di una capienza regolamentare di 294 posti. In questo penitenziario c’è una percezione diffusa di malessere generale dovuta al sovraffollamento e ai problemi relativi all’assistenza sanitaria che vengono lamentati. Ero entrata col medico, però molti ristretti denunciavano di aver chiesto di essere visitati senza ricevere risposte. All’istituto Panzera invece la situazione è un po’ diversa: ci sono 204 persone presenti (34 donne) a fronte di una capienza regolamentare di 180 posti. Nella sezione femminile c’è un corso di ricostruzione unghie, uno di inglese e un laboratorio di sartoria. La criticità maggiore riguarda le condizioni strutturali dell’istituto che è molto vecchio. Il reparto dedicato ai semiliberi è pessimo, senza riscaldamenti, in condizioni un po’ complicate. Per gli uomini vi è assenza di attività di formazione ad eccezione di un cineforum religioso”. La casa di reclusione di Laureana di Borrello - La casa di reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello ospita oggi 43 detenuti (24 sono stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 37 posti. Ha un approccio sperimentale al reinserimento sociale. “È piccolo e sovraffollato, però funziona. Non desta preoccupazioni, - dice la referente di Antigone Calabria - ha moltissime attività e non presenta particolari criticità. Le condizioni della struttura sono tutte buone, le aree ben curate. Hanno dato la possibilità di fare colloqui dalle 9:00 alle 16:00 in uno spazio verde con panche, tavoli, una zona riparata da una tettoia, in più da poco è data la possibilità di trascorrere la giornata con i familiari anche all’interno di una casetta di legno dotata di bagno e area giochi”. “C’è un capannone dedicato alla lavorazione della ceramica dove producono diversi manufatti, un altro adibito a falegnameria e il terzo contiene le serre con le coltivazioni di peperoncini, altri prodotti della terra dai quali si realizzano i barattoli con le conserve. Quando siamo andati noi i detenuti erano 54 e lavoravano tutti. Il carcere di Laureana di Borrello è l’unico istituto calabrese dove possiamo pensare di parlare di rieducazione, in quanto ne vengono date le possibilità”. I ritardi nell’assistenza sanitaria però si fanno sentire anche in questa struttura dove pochi anni fa a un ragazzo ucraino, che da tempo lamentava forti dolori e veniva trattato con antidolorifici, hanno diagnosticato un cancro allo stomaco solo una settimana prima della sua morte. La casa circondariale di Vibo Valentia - Il 37enne Karim Abderrahim si è impiccato nella cella che condivideva con un altro detenuto il 7 aprile 2024 nel carcere di Vibo Valentia. La casa circondariale ospita 383 persone (56 stranieri) su una capienza di 406. “Ha beneficiato di diverse ristrutturazioni, - racconta Allegri - pur essendo stato ritinteggiato però presenta ancora evidenti infiltrazioni d’acqua. Le attività trattamentali sono varie, 6 educatori e 1 mediatrice linguistica sono stati contrattualizzati, ma mancano 72 agenti rispetto alla pianta organica. Anche a Vibo è stata registrata, come negli altri istituti, la mancata assistenza medica riguardo diverse sofferenze e patologie. C’erano 3 detenuti con disabilità motoria, 8 con diagnosi psichiatrica grave e 200 che fanno uso regolare di sedativi e ipnotici, mentre in 150 assumono stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Si tratta di un numero importante che fa riflettere se confrontato con l’elevato volume degli isolamenti disciplinari (142 nel 2024). Sono 68 gli ospiti che lavorano, 2 per datori di lavoro esterni, 10 frequentano corsi di formazione professionale e 159 studiano”. La casa circondariale di Palmi - Nella casa circondariale di Palmi sono presenti 171 detenuti (13 stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 141 posti. “È un penitenziario che al momento della visita di Antigone - dichiara la referente per la Calabria - aveva un po’ di problemi. La sezione di media sicurezza era inaccettabile, con docce comuni, spazi detentivi piccoli, angusti e in cattivo stato. La struttura è vecchia, distrutta. L’edificio è stato oggetto di interventi di ristrutturazione nelle sezioni di alta sicurezza, che ora finalmente hanno le docce all’interno delle celle. Permangono invece condizioni critiche nelle aree esterne dell’istituto e nella sezione di media sicurezza: muri scrostati, muffa, pavimenti rotti, celle buie. Non erano garantiti i 3 metri quadri per persona e i bagni ristrutturati dispongono di uno sfiatatoio che affaccia direttamente sulle celle anziché sull’esterno, provocando miasmi e muffa sul soffitto. Le finestre sono coperte da reti molto fitte che limitano la visione delle aree circostanti. È un istituto dove si contano diversi provvedimenti di isolamento disciplinare che di fatto danno la fotografia di quello che può essere il clima detentivo”. La casa circondariale di Castrovillari - Nella casa circondariale di Castrovillari attualmente sono presenti 175 persone (44 stranieri e 27 donne) a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti. “È sovraffollato nella sezione maschile, - secondo la referente di Antigone Calabria - ma non in quella femminile. Le condizioni delle celle sono accettabili, sia sul piano strutturale sia per quanto riguarda illuminazione e pulizia. Sono però assenti le docce in cella e si notano alcune crepe nelle pareti”. “Ci sono 44 persone (tra le quali 6 donne) che lavorano, 5 per datori di lavoro esterni, in 114 persone studiano ed è in corso un progetto di pet therapy. La sezione femminile ha qualche crepa, ma è arredata con maggiore cura. Il caldo all’interno d’estate è asfissiante al punto da costringere le detenute a schermare con tessuti le finestre per ripararsi dal sole. Si percepisce una maggiore rassegnazione riguardo la condizione detentiva da parte delle detenute, meno disponibili ad aprirsi e a dialogare con le osservatrici rispetto alla popolazione maschile, che invece è stata più reattiva nel rivendicare bisogni e comunicare carenze, soprattutto dal punto di vista sanitario. Ci sono 10 persone con diagnosi psichiatriche gravi, 30 che fanno uso di sedativi e ipnotici e 10 assumono stabilizzanti dell’umore e antipsicotici”. Parma. “Il carcere? È un luogo dimenticato dallo spazio politico” di Christian Donelli parmatoday.it, 3 marzo 2025 Intervista al Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri: “In via Burla più di 750 detenuti, solo un indulto riuscirebbe a portare la calma”. Il carcere di Parma, le condizioni dei detenuti e quelle degli agenti della polizia penitenziaria. In via Burla si è superato il numero di 750 reclusi e il sistema non ce la fa più. Ogni giorno rischia il collasso. Nel corso del 2024 ci sono stati 3 suicidi, sui 9 totali registrati nei penitenziari della Regione Emilia-Romagna. Gli atti di autolesionismo sono in costante aumento, così come i tentativi di suicidio. Il parmigiano Roberto Cavalieri, dal 2022, è il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. “Il carcere è un luogo di marginalizzazione sociale e discarica sociale. Luogo dimenticato nello spazio politico se non quando eventi come i suicidi colpiscono le coscienze”. E sul sovraffollamento: “Il carcere di Parma ha oramai superato le 750 presenze quotidiane e il sistema non regge più. Di fatto solo un indulto riuscirebbe a portare la calma ma il contesto politico nazionale sembra non dare troppe speranze. Nel carcere di Parma sono presenti molti detenuti ergastolani, persone anziane, oltre 200 detenuti sono portatori di patologie serie, molto diffusa è la sofferenza psichica” Quali sono le tre maggiori criticità del carcere di Parma? “Per rispondere a questa domanda bisogna prima definire quali sono le finalità di un carcere e poi verificare cosa non permette di assolvere ad una funzione. Allora partiamo dall’inizio. La funzione della pena, che può essere espiata in carcere, è quella di tendere alla rieducazione del condannato e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Ora per riuscire in questa funzione, pilastro di un carcere, si deve realizzare un trattamento del detenuto che consiste in una complessità di pratiche che hanno lo scopo di rieducare i detenuti attraverso il lavoro, la scuola, la formazione, lo sport, etc. con la prospettiva della reintegrazione sociale dei detenuti. Detto questo la sua domanda la riformulo in “quali sono le tre maggiori minacce al trattamento del detenuto”. La prima è in assoluto la scarsa considerazione che ha il mondo penitenziario nella società. Il carcere è un luogo di marginalizzazione sociale e discarica sociale. Luogo dimenticato nello spazio politico se non quando eventi come i suicidi colpiscono le coscienze. Il carcere ha invece bisogno di una considerazione continua sia da parte della società civile che della politica e deve essere considerato uno specchio in cui la società libera deve guardarsi. La seconda minaccia è legata alla complessità del contesto. A Parma troviamo persone anziane, malati, stranieri, tossicodipendenti, persone in sofferenza psichica, poveri, giovani adulti. Di fatto un contesto nel quale le pratiche trattamentali hanno scarsi risultati perché non si riesce ad individualizzare l’offerta delle attività e quelle che vengono realizzate non sono sempre funzionali alle caratteristiche delle persone che troviamo in carcere. La terza minaccia è nella arretratezza dei sistemi del lavoro e dell’educazione che si realizzano in carcere dove i detenuti sono sotto alfabetizzati nell’utilizzo del digitale, nelle pratiche del lavoro e troppo spesso si ha a che fare con l’analfabetismo e la sofferenza patita ha compromesso i desideri di questi esseri umani. Queste tre minacce valgono per un qualunque contesto detentivo. E anche a Parma si soffrono gli effetti di queste sfide” Quali sono i tre interventi che andrebbero effettuati in emergenza per garantire migliori condizioni all’interno? “Una riduzione delle presenze è oramai inevitabile. Il carcere di Parma ha oramai superato le 750 presenze quotidiane e il sistema non regge più. Le piante organiche del personale anche se non migliorate negli ultimi tempi in termini di numero è composto da personale stressato e oramai sfinito. Questo vale sia per il personale dell’amministrazione penitenziaria che della sanità. La comunità esterna non ha aumentato presenze di volontari e offerta di attività alla stessa velocità con la quale sono cresciuti i detenuti. Di fatto solo un indulto riuscirebbe a portare la calma ma il contesto politico nazionale sembra non dare troppe speranze e la preoccupazione e lo sconforto sono sempre più presenti. Il secondo intervento deve riguardare ad un rinnovamento della cultura dei contesti territoriali che devono puntare ad una cultura dell’accoglienza e del contrasto della povertà. In carcere sono presenti moltissimi detenuti che potrebbero accedere ai benefici penitenziari e iniziare un percorso all’esterno ma troppo spesso verso la povertà si applicano logiche che considerano il finanziamento di progetti per queste persone un “costo” e non un investimento anche in termini di sicurezza e di benessere. Così nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti fatto tutta la loro pena in carcere ed escono a pezzi da questa esperienza sino a ricadere di nuovo nel crimine. Il terzo intervento racchiude i due precedenti e la risposta definitiva alla sua domanda: bisogna costruire speranza e definire orizzonti raggiungibili per i detenuti attraverso interventi ed investimenti che abbiano un approccio differente da quello che spesso vedo nelle carceri e improntato sull’intrattenimento o come li definì Mauro Palma, il primo garante nazionale, interventi di “infantilizzazione” fini a se stessi e che non costruiscono una prospettiva futura” Nel 2024 in Emilia-Romagna ci sono stati 9 suicidi di detenuti, di cui 3 solo a Parma… “Per rispondere in modo corretto alla sua domanda bisognerebbe percorrere ciascun evento suicidario per cercare di capirne le cause. Ciascuna di queste vite, perse nella maggior parte dei casi in un cappio che ha impiccato questi esseri umani, merita rispetto e la ricostruzione delle loro sofferenza e di quanto avvenuto non restituirebbe giustizia a queste persone ma almeno la dignità al loro ricordo. Il filo che collega tutte queste vite è la perdita di speranza, l’abbruttimento sofferto nella quotidianità della vita detentiva, la perdita di contatto con l’esterno e con i propri affetti (quando si ha la fortuna di conservarli), la perdita della speranza quando ci si accorge che dentro al carcere sono centinaia le persone che hanno il tuo stesso problema e che non troverà mai una soluzione. Sarebbe importante un giorno riscrivere la storia di questi suicidi pubblicando le immagini dei foto-rilevamenti che fa la Polizia penitenziaria alla scena di ciascun suicidio. Forse ci fermeremmo tutti, ma veramente tutti, e l’enorme quantità di sciocchezze che si sentono tacerebbe immediatamente. Quelle scene, che io personalmente ho visto, sono il punto terminale di sofferenze patite e risposte mai ricevute. Per risolvere il problema dei suicidi in carcere non è necessario altro che la volontà collettiva, sociale e politica che la comunità esterna deve avere, di portare speranza oltre le mura di un carcere e indignarsi per le condizioni in cui versano quelle strutture. Bisogna indignarsi del fatto che i detenuti non ricevono i migliori servizi possibili perché contro la devianza, la recidiva e la delinquenza la società deve combattere con i migliori servizi possibili” Il procuratore generale di Bologna Paolo Fortuna e l’avvocato generale dello Stato Ciro Cascone, nella loro relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario parlano di un indice medio di sovraffollamento, nelle carceri dell’Emilia-Romagna, del 130%... “Per le ragioni che ho detto nelle precedenti risposte le carceri si gonfiano di persone. Io sono stato eletto dall’Assemblea legislativa nel febbraio del 2022. In 3 anni il numero di detenuti presenti in Emilia-Romagna sono saliti di 500 unità. Tenuto conto che la taglia media di un carcere nella nostra regione è di 380 detenuti è come se in 3 anni fosse nato un nuovo carcere. Il sovraffollamento riguarda solo i detenuti media sicurezza, coloro che hanno compiuto reati comuni. Uso di sostanze stupefacenti e la povertà sono le maggiori cause di carcerazione. Esistono solo due ricette possibili. La prima è quello di potenziare le politiche di contrasto alla povertà e le opportunità di accoglienza, per i tossicodipendenti, di entrare in comunità terapeutica. La seconda è potenziare gli investimenti a sostegno delle persone che possono accedere ai benefici penitenziari ovvero accoglienza e lavoro” Quali sono le condizioni di vita all’interno del carcere di via Burla - sia per i detenuti che per gli agenti della Penitenziaria - che ha riscontrato durante la sua ultima visita in via Burla? “Sono condizioni dure per tutti. Ogni tanto c’è qualche luce di speranza portata dai volontari, dai provvedimenti dei magistrati, dal coraggio di un ufficiale o del comando della penitenziaria ma la quotidianità è veramente dura. Nel carcere di Parma sono presenti molti detenuti ergastolani, persone anziane, oltre 200 detenuti sono portatori di patologie serie, molto diffusa è la sofferenza psichica. È una battaglia quotidiana per gli uni, i detenuti, per sopravvivere, e per gli altri, gli operatori, per resistere alla pressione delle condizioni di lavoro”. La testimonianza di un ex detenuto che abbiamo raccolto qualche mese fa parla di pastiglie tritate e sniffate da parte dei detenuti. Quanto è presente questa realtà in carcere? “Quello dell’accumulo di farmaci e del loro uso è un fenomeno diffuso alla quale va detto la sanità regionale è corsa ai ripari con diverse strategie come la riduzione e il controllo dei farmaci più ricercati dai tossicodipendenti oppure con l’utilizzo di sistemi di registrazione digitale dei farmaci prescritti ai detenuti. Tuttavia data la grande quantità di detenuti che usano psicofarmaci e la povertà che porta a dare un valore economico ai farmaci, così come alle sigarette, alla droga o ai telefonini (quando vengono superati i controlli) la vita penitenziaria rischia di diventare vittima di un mercato parallelo e illegale contro il quale l’opera della penitenziaria, nell’emergenza, è fondamentale ma il vero modo per ridurre questi fenomeni e rifondare il rapporto con i detenuti sulla base di una rivisitazione del senso della pena”. Bologna. Il summit sui 50 giovani-adulti alla Dozza: “Collaboriamo su alternative al carcere” di Rosalba Carbutti Il Resto del Carlino, 3 marzo 2025 Lepore raccoglie l’invito di Ostellari. Il sindaco risponde al sottosegretario alla Giustizia: “Servono risorse per progetti educativi e di recupero”. Pd e Coalizione civica: “Sul trasferimento dei giovani faccia dietrofront”. Panini (Volt): “Non arretriamo”. Prove di dialogo sul caso dei cinquanta minori che verranno presto trasferiti alla Dozza. Matteo Lepore raccoglie l’invito del sottosegretario leghista alla Giustizia, Andrea Ostellari, che aveva fatto appello alle istituzioni locali per “lavorare insieme anche per aprire comunità socio educative in Emilia-Romagna, come in Veneto e in Lombardia”. Alla vigilia del summit che si terrà oggi con anche il presidente della Regione Michele de Pascale, il sindaco dà la “massima disponibilità a collaborare” e ammette che “servono risorse per progetti educativi e di recupero: non limitiamoci alla carcerazione”. Sarà, quindi, possibile fare squadra da Roma a Bologna come auspicato dal leghista Ostellari? La maggioranza di centrosinistra che martedì scorso (25 febbraio) ha preso parte a un partecipato sit-in davanti alla Dozza per dire no al trasloco dei giovani detenuti nel carcere degli adulti, in seguito ai lavori del minorile del Pratello, però, tiene il punto. “Come Pd, combatteremo fino all’ultimo perché il ministero della Giustizia abbandoni il progetto scellerato di trasferire i ragazzi nel carcere della Dozza. Un penitenziario che si trova già in una situazione esplosiva, a causa di un sovraffollamento che ha raggiunto ormai il 175%”, ribadisce la segretaria provinciale del Pd Federica Mazzoni. Che, poi, sottolinea “l’importanza vitale di garantire a questi ragazzi percorsi alternativi, questione che è giusto ridiscutere”. Non cambia idea l’ala sinistra di Coalizione civica col consigliere Detjon Begaj che replica a Ostellari che aveva invitato “alla collaborazione”, evitando “strumentalizzazioni politiche”: “L’unica bandiera ideologica che vedo è quella repressiva e carcero-centrica del governo che ha portato al decreto Caivano, che non a caso Ostellari si dimentica di citare come concausa di questa situazione. La stessa ideologia del ddl sicurezza”. Per Begaj, insomma, “essere concreti oggi significa fare dietrofront sui trasferimenti, ridurre i detenuti investendo seriamente nell’accesso alle pene alternative, depenalizzare alcuni reati legati alle sostanze, ragionare di amnistia e indulto”. Unico spiraglio aperto, quello sugli spazi alternativi al carcere: “Capiremo in cosa consiste la proposta (di Ostellari) delle “comunità educanti” dal confronto. La mobilitazione comunque continua”. Resta sulle barricate Silvia Panini portavoce di Volt (movimento che ha organizzato il presidio del 25 febbraio davanti alla Dozza): “Il trasferimento dei giovani detenuti non è un provvedimento amministrativo, ma una scelta politica che punta a smantellare il sistema penitenziario minorile, come prescritto dal decreto Caivano. Ostellari dice che sarà un trasferimento temporaneo, quello dei minori alla Dozza, ma noi non ci crediamo. E comunque continueremo a vigilare e non arretreremo di un millimetro”. Trieste. Tribunale di sorveglianza, manca personale: “Lavoro raddoppiato nell’ultimo decennio” di Stefano Mattia Pribetti triesteprima.it, 3 marzo 2025 A confermarlo è la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste Rosa Maria Putrino. La crisi si inserisce in una situazione con “migliaia di istanze da istruire e definire”. All’appello si uniscono anche i garanti per i detenuti. Nel 2024 si è registrata “una grave scopertura di personale magistraturale pari al 50 per cento del Tribunale di Sorveglianza di Trieste”, senza contare la “carenza di organico anche a livello amministrativo”. La crisi si inserisce in una situazione che vede “migliaia di istanze da istruire e definire”, per una mole di lavoro “raddoppiata negli ultimi dieci anni” a fronte di una pianta organica rimasta invariata. A confermarlo è la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste Rosa Maria Putrino. Carenze di organico “Dal 1° gennaio 2024 ci sono stati tre pensionamenti consecutivi. Prima il presidente, poi un magistrato di sorveglianza di Trieste e, in seguito, uno di Udine. Qui a Trieste ero rimasta solo io a svolgere le funzioni dei due magistrati di sorveglianza e contemporaneamente le funzioni direttive di presidente facente funzioni”. È previsto, infatti, un organico di tre magistrati: due di sorveglianza e il presidente. Dal 1° gennaio 2024, dopo il pensionamento del dottor Pavarin e della dottoressa Bigattin, la mole di lavoro prima gestita da tre persone è rimasta in capo alla sola dottoressa Putrino. Il tutto in una situazione di sovraffollamento. Pescara. “Un Consiglio comunale straordinario sul problema del carcere di San Donato” ilpescara.it, 3 marzo 2025 Il presidente del movimento “Pettinari per l’Abruzzo” e consigliere comunale Domenico Pettinari, ha inviato formale richiesta per la convocazione di un consiglio comunale straordinario riguardante la situazione e le problematiche del carcere di Pescara. “Il 17 febbraio si è registrato l’ennesimo episodio di suicidio di un detenuto presso la struttura carceraria casa circondariale di Pescara “San Donato”. A seguito dell’episodio di suicidio, si è consumata una rivolta da parte dei detenuti del carcere, per denunciare la situazione di sovraffollamento e inadeguatezza dell’aspetto logistico in cui versa la struttura. Considerato che anche l’ordine degli avvocati di Pescara, a seguito degli eventi avvenuti presso la struttura carceraria di Pescara ha dichiarato lo stato di agitazione, per denunciare le condizioni pessime in cui versa la struttura del carcere a causa del sovraffollamento e dell’inadeguatezza dell’aspetto logistico che di fatto rendono difficoltoso anche il rapporto di interfaccia quotidiana tra gli avvocati e i loro assistiti. Sulle condizioni del carcere di Pescara è intervenuto anche il sindacato di polizia penitenziaria, il quale nel fare rilevare l’inadeguatezza della struttura fortemente condizionata dall’arretratezza temporale che ne compromette non solo l’aspetto legato alla logistica ma anche la realizzazione di idonee linee guida in ambito trattamentale, auspicando l’individuazione di un nuovo sito dove poter realizzare una nuova struttura carceraria, sollecitano le istituzioni locali a sensibilizzare il governo centrale affinché vengano stanziati i fondi necessari e ricordando anche le mie tante ispezioni da consigliere regionale nel carcere di Pescara e la corposa corrispondenza intercorsa tra me a il ministero di giustizia nella mia precedente funzione di vice presidente del consiglio regionale . “ Pettinari nella richiesta conclude: “Per questi motivi, ai sensi dell’articolo 44 del regolamento del consiglio comunale, abbiamo chiesto la convocazione di una seduta straordinaria da tenersi in forma aperta alla partecipazione dei rappresentanti dei sindacati, dell’ordine degli zvvocati, degli organismi di partecipazione popolare, dei rappresentanti del parlamento, della Regione Abruzzo e altri Comuni interessati al tema, per procedere alla discussione del seguente argomento da inserire all’ordine del giorno: situazione attuale e scenari futuri della struttura carceraria casa circondariale di Pescara “San Donato”.” Il consiglio comunale straordinario dovrebbe essere convocato nei prossimi giorni. Casal di Principe (Ce). Apre “Cotti in fragranza”, il laboratorio di biscotti che sanno di riscatto di Gilda Sciortino vita.it, 3 marzo 2025 Da Palermo, dov’è nato nel 2016, il laboratorio di “Cotti in fragranza”, progetto nato nell’Istituto di pena minorile “Malaspina” di Palermo, ha aperto anche a Casal di Principe. Un bene confiscato alla camorra gestito dalla Fondazione Don Calabria il luogo in cui, attraverso la produzione di golose bontà da forno, nasceranno percorsi di inserimento socio-lavorativo di giovani a rischio marginalità sociale. Era il 2016 quando, nel carcere minorile Malaspina di Palermo, allora diretto da Michelangelo Capitano, un direttore con lo sguardo al futuro, per il quale la detenzione doveva passare attraverso la valorizzazione dei talenti per un pieno e consapevole reinserimento nel tessuto socio-lavorativo basato su percorsi alternativi, nasceva “Cotti in fragranza”, impresa sociale civile che permetteva ai giovani detenuti di lavorare nella produzione di biscotti. Esperienza replicata anche in altre strutture detentive italiane dove i laboratori sono diventati dolci occasioni di riscatto, anche e soprattutto personali. A dare vita al progetto la Cooperativa sociale “Rigenerazioni Onlus” insieme a Fondazione Don Calabria per il Sociale. Vere e proprie delizie, capaci di creare quella dipendenza che solletica il piacere del palato come, primi di tutti, i Buonicuore, deliziosi frollini al mandarino raccolti nei terreni confiscati a Cosa nostra a Ciaculli, quartiere palermitano ad alta densità mafiosa. Per non parlare dei Parrapicca (dal dialetto palermitano, parla poco), frollini con farina di maiorca biologica molita a pietra e zucchero integrale di canna Muscovad; o, ancora, Rucimusso (dolce di bocca, n.d.a.), un impasto croccante di fichi, miele, farina di grani antichi Maiorca e Tumminia, ricoperto da una granella di zucchero. Solo alcuni esempi rispetto alle tante bontà che raccontano non solo una capacità di andare incontro al gusto e al piacere dei consumatori, ma anche quella di reinterpretare positivamente quella cultura che utilizza il linguaggio per definire comportamenti e atteggiamenti pieni di pregiudizio per chi ha sfiorato o vissuto l’esperienza del carcere. Un lavoro portato avanti con non poca fatica, ma che ha dato ottimi risultati dal momento che, durante i primi 6 anni di vita, sono state 108mila le confezioni vendute (circa 7 milioni di biscotti), mentre il 2023 si è concluso con più di 4.500 chili di grandi lievitati prodotti. A seguire, ben 54 corsi professionali, avviati sia nello stesso Ipm di Palermo sia nel polo operativo all’interno di Casa San Francesco, ex convento seicentesco, nel cuore del quartiere storico Albergheria, dove i giovani formati vanno a nutrire la brigata del ristorante “Al Fresco”, nel quale la città ama ritrovarsi non solo per gustare i piatti della tradizione locale, una pizza come poche o un frizzante aperitivo, ma anche per condividere l’atmosfera di uno spazio che conosce il valore della fragilità. Un’offerta che si completa con un B&B, un luogo storico di grande valore culturale, in cui prende vita una tipologia di viaggio sostenibile e etica. Una realtà che valorizza le persone nella loro diversità, nel rispetto della loro storia, impiegando in diversi progetti giovani a rischio di marginalità sociale o in esecuzione di pena, per offrire una nuova strada da percorrere nel segno della legalità. Un luogo Ristorante e bed and breakfast a parte, nei quali le storie sofferte di vita ritrovano nuove strade da percorrere, la cooperativa sociale “Rigenerazioni”, grazie anche a Cotti in fragranza, di strada ne ha già fatta tanta, premiata nel 2019 dal Gambero Rosso come miglior progetto sociale Food d’Italia, mentre nel 2021 dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con il titolo di Alfiere della Repubblica, un riconoscimento condiviso da tutti i giovani coinvolti nel progetto. Emozioni a fior di pelle per tutti, anche quando ci si è portati a casa il Premio all’innovazione nell’Economia sociale, vinto nel 2024. Ora l’ulteriore capacità di spiccare il volo, questa volta superando lo Stretto e facendo base in Campania, più precisamente a Casal di Principe, in un bene confiscato alla criminalità organizzata e gestito dal 2022 anche qui dalla Fondazione Don Calabria per il Sociale, che nel territorio supporta percorsi di crescita e di inserimento socio lavorativo di giovani a rischio marginalità sociale. Quasi naturale, ma soprattutto con grande entusiasmo, le professionalità siciliane sono arrivate a supportare l’avvio della nuova squadra di lavoro del laboratorio di pasticceria e panificazione, pronta a sfornare prodotti sotto il marchio Cotti in Fragranza, esprimendo la stessa qualità che ha distinto il brand in tutti questi anni a Palermo, ovviamente con una declinazione fortemente territoriale, a partire dall’uso degli ingredienti. Ma come arriva “Cotti in Fragranza” in Campania? “Arriva a Casal di Principe intanto perché “Fondazione Don Calabria” gestisce questo bene confiscato”, spiega Fabio Mencocco, educatore e responsabile del laboratorio. “Ci è, quindi, sembrato naturale replicare il progetto palermitano perché è giustissimo andare a scuola ma, per coloro che non ne hanno le possibilità o anche solo la voglia di andarci, ma anche per quanti si sono ritrovati a seguire esempi che hanno fatto imboccare loro strade sbagliate, cosa vogliamo fare? Stare a guardare? Invece di lasciarli per strada e abbandonarli al loro destino, pensiamo sia più utile offrire la formazione e anche eventualmente un’opportunità lavorativa. Così come hanno fatto e fanno a Palermo”. Una squadra con tante anime pronte a rinascere - Una piccola brigata quella che anima il laboratorio, nel quale le singole esperienze di vita non rimangono isole sperdute, ma diventano l’una la forza dell’altra, in uno scambio tra la storia di Lamine, giovane africano proveniente dal Gambia inserito in una comunità per stranieri del territorio; Orsola, una madre che incrementa con questo lavoro il reddito di cittadinanza che percepisce e con cui mantiene i figli; Maria, giovane Neet che porta il suo bagaglio di introspezione amando assistere Giovanni Petrillo, il pasticciere che ogni giorno indossa la divisa con tutta la responsabilità che attiene a chi desidera dare il meglio di se stesso per continuare a offrire quella qualità che fa la differenza, soprattutto in territori complicati come questo. “Una responsabilità che sentiamo tutti anche in virtù del fatto che siamo in questo specifico luogo”, aggiunge il responsabile del laboratorio di Casal di Principe. “Al momento non abbiamo ancora scelto un nome, lo chiamiamo “bene di via Firenze” perché è dove abbiamo la sede. Forte la sua caratterizzazione in quanto una volta era di proprietà di due persone affiliate al clan dei Casalesi. Il laboratorio si trova in uno degli spazi che sorgono all’interno delle due ville confiscate che ci sono state affidate otto anni fa e che abbiamo ristrutturato con un milione e mezzo di euro, fondi europei che ci hanno consentito di realizzare anche una comunità per minori stranieri non accompagnati e un centro di formazione”. Un territorio complicato, quello in cui ricade il laboratorio, nel quale sono soprattutto i giovani le prede preferite, in quanto più facili da conquistare, dalla criminalità organizzata. “Questo ovviamente è un territorio ad alto rischio di fragilità. Considerate che usciamo da 20 anni di dominio della camorra”, dice ancora Mencocco, “e l’intervento dello Stato serve come il pane per dare opportunità ai ragazzi. La fascia di età più colpita è quella che va dai 16 ai 22 anni, quindi abbastanza ampia. Sono giovani spesso smarriti, la cui unica possibilità è quella di stare seduti davanti ai bar o a vagare per le strade, fornendo nuova manovalanza ai clan. Con interventi come il nostro, vogliamo offrire luoghi sicuri dove proporre supporto scolastico, educazione alla lingua, anche attività di giardinaggio. Bisogna aprire le porte e accogliere i nostri ragazzi. Certo, poi dobbiamo lavorare anche sulla stabilizazione lavorativa, ma avverrà quando supereremo la fase della start up e cominceremo a crescere”. I beni confiscati che possono portare felicità - “Non possiamo che gioire per questa nuova tappa”, afferma Lucia Lauro, project manager delle start up innovative di “Fondazione Don Calabria per il Sociale”. “Diciamo che siamo partiti a settembre ma, essendo a ridosso del Natale, abbiamo pensato che fosse meglio posticipare di un po’ la vera partenza del progetto campano. Ovviamente sono tanti i punti in comune con noi. Anche loro hanno il problema dell’educazione alla legalità, che trova nel lavoro una parte fondamentale. Per questo ci hanno chiesto di dare loro una mano a creare un laboratorio per la produzione di prodotti a forno, ma anche altre ambizioni. Abbiamo, infatti, realizzato qui alcune cose che ci sarebbe piaciuto fare a Palermo ma che, per una serie di ragioni, non ci è stato consentito portare avanti. Penso alla pasticceria fresca, molto richiesta all’estero, che a Casal di Principe risulta più facile proporre per esempio per la sua posizione logistica. Questo laboratorio è un primo passo, ma in progetto c’è già altro. Mi riferisco al fatto che abbiamo una collaborazione con la Fondazione Rut che ha avuto assegnato un altro bene confiscato in questo territorio. Dovrebbe nascere un caffè letterario dove ci saranno i prodotti del nostro laboratorio. Come sempre i pensieri sono tanti, la fantasia galoppa e le emozioni ci riempiono di energia”. C’è qualcosa che l’ha colpita tra quello che i partecipanti al progetto hanno condiviso rispetto a questa esperienza? “Più che le parole”, ricorda in conclusione Lauro, “mi ha lasciato piacevolmente sorpresa il fatto che fossero sin da subito a loro agio durante il lavoro. Veramente molto professionali anche nel dimostrare di sapere mantenere e proporre l’impronta di “Cotti in fragranza” secondo il progetto iniziale. Ovviamente speriamo di fare anche qui i numeri di Palermo dove, dal 2016, cioè da quando abbiamo cominciato, nell’ambito della ristorazione abbiamo impiegato circa 90 ragazzi. Quando concludono il percorso con noi, però, non potendoli purtroppo tenere tutti, dobbiamo attivare sinergie con altre aziende del territorio che conoscono la qualità del lavoro di formazione che facciamo. Non esagero quando dico che almeno il 70 per cento dei ragazzi che seguiamo continuano a lavorare nel settore senza tornare a percorrere le strade che li hanno portati a fare scelte di vita sbagliate. Crediamo che a Casal di Principe ci siano tutte le condizioni per fare un ottimo lavoro in tal senso”. Cagliari. Corsi di cucina in carcere per progettare il futuro: “Le mani in pasta” cagliaritoday.it, 3 marzo 2025 Da domani cinque detenute della sezione femminile della Casa circondariale prenderanno parte al corso di formazione curato dalla nota chef oristanese Laura Sechi, titolare del ristorante Vitanova. Un progetto educativo e culturale, ma anche una concretissima opportunità. Riempire le giornate di chi vive dietro le sbarre con progetti e laboratori che saranno utili ai detenuti quando avranno terminato di scontare la pena è un dovere civile. Il 2025 è da incubo nelle carceri della Sardegna, a Uta in particolare. Ma ci sono anche lampi di speranza. Da domani, martedì 4 marzo, cinque detenute della sezione femminile della casa circondariale di Cagliari-Uta prenderanno parte al corso di formazione “Le mani in pasta”, curato dalla nota chef oristanese Laura Sechi, titolare del ristorante Vitanova del capoluogo isolano. L’iniziativa è promossa dall’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV. Si tratta, va specificato, di un corso con tutti i crismi, non di un’iniziativa “spot”: cinque appuntamenti di due ore ciascuno, prima una parte teorica, finalizzata all’illustrazione delle caratteristiche delle materie prime farine, uova, ripieni; poi una parte pratica con la cottura della pasta associata ai condimenti. Senza trascurare i dolci. Al termine del corso alle partecipanti sarà consegnato un attestato. Un progetto educativo e culturale, ma anche una concretissima opportunità di imparare o perfezionare competenze che saranno realmente utili in futuro alle corsiste per trovare lavoro. Le strutture alberghiere in Sardegna sempre più frequentemente fanno ricorso a personale esterno per il confezionamento di prodotti artigianali di qualità, tra cui la pasta fresca. La possibilità di realizzare una piccola azienda familiare e togliersi tante soddisfazioni è un’opzione reale. E, per chi si trova in carcere, pensare in maniera così strutturata al proprio futuro è impagabile. Cosenza. La testimonianza di Salvatore Striano: “Il carcere non rieduca, imbastardisce” cosenzachannel.it, 3 marzo 2025 L’ex detenuto, oggi attore e scrittore, ha portato in scena “Il giovane criminale” al Cinema San Nicola, denunciando le falle del sistema penitenziario italiano. Con la spavalderia di uno scugnizzo dei vicoli e insieme con la consapevolezza di uomo che ha saputo migliorarsi e riscattarsi da un destino che sembrava segnato, venerdì sera sul palco del Cinema San Nicola a Cosenza, Salvatore Striano ha affrontato il pubblico con l’ambizione dichiarata di “svelare il mistero delle carceri italiane”. E lo ha fatto senza remore, puntando il dito contro un sistema che non rieduca chi ha sbagliato ma, piuttosto, lo induce a perseverare. L’ex detenuto, diventato attore, regista e scrittore dopo un’esperienza teatrale in carcere, è stato invitato dal Rotary Club Cosenza Nord con l’intento -ha spiegato la Presidente Antonietta Converso in apertura di serata- di procedere sul percorso di inclusione sociale che il Rotary ha tra i sui propositi di servizio. Già due i progetti messi in atto dal Club con la finalità di avvicinarsi alla sofferenza di chi ha perso la libertà e di contribuire a una rieducazione non solo possibile ma indispensabile. Il primo si sta svolgendo con le detenute del carcere di Castrovillari, il secondo con i minori della Comunità Ministeriale di Catanzaro. Sul palco, a presentare lo spettacolo “Il giovane criminale”, c’erano anche Mario Caterini, docente di Diritto penale all’Unical e Direttore dell’Istituto di studi penalistici “Alimena”, che ha collaborato alla realizzazione dell’evento; Giuseppe Carrà, Direttore dell’Istituto penitenziario di Castrovillari; Angela Costabile, docente di Psicologia Unical; Francesco Chiaia, avvocato penalista e socio del R.C. Cosenza Nord; Franca Garreffa, docente di Servizio sociale e Sociologia Unical, delegata Unical per il Polo penitenziario. Caterini ha ricordato che su una popolazione di circa 62.000 detenuti in carcere, lo scorso anno si sono registrati circa 90 suicidi. Cifra spaventosa in assoluto, ma che colpirebbe certamente di più se -per pura ipotesi- riguardasse i giovani di una città di egual numero di abitanti come Cosenza, mentre, invece, non ha lo stesso impatto se a morire sono carcerati. Eppure qualcosa si può e si deve fare, se è vero che le percentuali di decessi scendono drasticamente nelle realtà penitenziarie che riescono ad offrire un lavoro quando ancora si sta scontando la pena. Il Direttore Carrà ha richiamato l’art. 27 della Costituzione che stabilisce l’obiettivo della rieducazione e del reinserimento del detenuto ed ha sottolineato che dal carcere si dovrebbe uscire migliori di come vi si è entrati. Si è poi soffermato sul progetto del Club Cosenza Nord in corso a Castrovillari, che ha suscitato grande attenzione nelle detenute e che sarà perciò seguito da altre esperienze simili. Angela Costabile ha parlato delle origini della violenza, non sempre attribuibili - come finora si è fatto- ad indole o ambiente. Ha informato che recenti studi avrebbero accertato che il cervello umano raggiunge la maturità non a sedici anni, ma a 22. E dunque, è un dato aggiuntivo da tenere presente per programmare una diversa attenzione al recupero dei minori che delinquono. Francesco Chiaia ha ringraziato il Club per aver dato l’opportunità di parlare del tema. Ha poi sostenuto la convinzione che il problema di fondo sia l’ignoranza, dalla quale nasce la delinquenza, come il grande De Filippo aveva ben rappresentato ne Il Sindaco di rione Sanità. Soprattutto per i minori, dunque, la parola chiave è “cultura”. Franca Garreffa, infine, ha riferito dell’esperienza Unical che vede 86 studenti detenuti. Ha citato la Costituzione che parla di “pene” e non di detenzione che significa che la punizione non può coincidere sempre con il carcere, da riservare piuttosto ai reati più gravi. Invece, gli istituti penitenziari scoppiano, soprattutto di immigrati e meridionali. Ma la risposta esclusivamente carceraria è un’inciviltà. E Striano rappresenta uno degli ex minorenni che avrebbe dovuto avere risposte dalla società prima di entrare in carcere. Salvatore Striano ha quindi iniziato il suo monologo, catturando da subito l’attenzione della platea. Ha raccontato della sua infanzia e della giovinezza, dei primi errori e dei periodi trascorsi negli istituti di rieducazione e in carcere, venendo a contatto con una realtà di soprusi e prepotenze non solo dai compagni di cella, non solo dai capi criminali. Ha sostenuto che l’attuale sistema non riesce a vincere sulla delinquenza perché si illude di farlo aumentando gli anni di carcerazione e la durezza del trattamento. “Ma in questo modo non recuperate nessuno, i detenuti non li fate pagare, semplicemente li imbastardite!” - ha urlato. Striano ha anche rivolto parole di amaro scherno verso l’ipocrisia di una società severa con chi delinque per bisogno e molto indulgente con altre cerchie. “E invece quando una persona perbene non si comporta bene dovrebbe pagare il doppio.” Striano non si autoassolve. Riconosce che la malavita è la più grande truffa in cui si possa incorrere. “Nessuno esce vincente dal mondo della malavita”. Ma il sistema carcerario è inefficiente e va cambiato, soprattutto per recuperare i minori, mentre oggi si favorisce la loro perdita definitiva. Dopo il monologo, Salvatore Striano si è prestato alle domande del pubblico, che ha mostrato grande apprezzamento per uno spettacolo che ha offerto un punto di vista diverso e sul quale meditare. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Una ludoteca per il reinserimento sociale dei detenuti ilgiornalepopolare.it, 3 marzo 2025 Giochi Uniti porta il progetto nel carcere del Casertano, per ridurre lo stress e favorire la socialità, la cooperazione e comunicazione. Il gioco da tavolo come strumento per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Un progetto, quello dei laboratori ludici, rivolto ai reclusi del carcere di Santa Maria Capua Vetere. È l’obiettivo di “Giocare dentro”, progetto che vede protagonista la casa editrice Giochi Uniti, che varca le soglie del carcere per portare il gioco da tavolo tra i detenuti. Quattro gli appuntamenti che vedranno autori e giocatori esperti utilizzare il gioco come veicolo per promuovere la crescita personale e il benessere degli ospiti della casa circondariale. La Giochi Uniti donerà una ludoteca al carcere di Santa Maria Capua Vetere, facendo sì che il gioco da tavolo sia presente in pianta stabile all’interno della struttura. Soddisfazione viene espressa da Marco Puglia, coordinatore dell’ufficio di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Un profondo ringraziamento a Giochi Uniti, questo è un riconoscimento serio alla volontà di questa azienda di partecipare ad una prospettiva nuova e dinamica di ipotesi trattamentale”. “Che il gioco da tavolo riduca lo stress e favorisca la socialità, la cooperazione e la comunicazione tra gli individui è un fatto noto, così come è noto che il gioco da tavolo sia per sua natura inclusivo, democratico e orizzontale”, spiega il direttore operativo di Giochi Uniti Stefano De Carolis. “Crediamo fortemente che tali insite caratteristiche ben si prestino a integrare le attività volte al reinserimento dei detenuti. Del resto, se è vero come dicevano Churchill e Mandela che una società si misura da come si comporta con i suoi detenuti, noi vogliamo dare un contributo reale e concreto a tale miglioramento”, aggiunge. “Il gioco da tavolo è un gioco strutturato, retto da regole”, gli fa eco Gabriele Mari, formatore, educatore ludico e game designer. “Giocare in gruppo significa accettare di sottostare a queste regole tutti insieme. Il gioco diventa quindi una metafora di legalità, di rispetto per gli altri e per le norme che ci legano alla comunità, un vero e proprio percorso di rieducazione alla socialità”. Max Porter: “Cerchiamo un lieto fine. Ai politici di oggi manca la tenerezza” di Giulio D’Antona La Stampa, 3 marzo 2025 Lo scrittore inglese porta in Italia il suo nuovo romanzo sull’adolescenza: “L’angoscia sociale e la crisi psicologica dei ragazzi dipendono da noi adulti”. Il futuro è un tema ricorrente. Forse perché, nello scenario pseudo-apocalittico che si sta delineando comincia ad assomigliare a un concetto difficile da afferrare; sfuggente, vano, effimero. “Inutile parlare di futuro, non sappiamo nemmeno se ne avremo uno”, ha detto Kurt Vonnegut in tempi in cui c’era da stare più allegri. “Sarà un massacro”, ha affondato Leonard Cohen più o meno nello stesso periodo. Gli scrittori hanno due ambizioni: riscrivere il passato e scrivere il futuro. E uno scrittore dalla penna poetica come quella del britannico Max Porter può bene ambire a entrambe le direzioni. Porter non è necessariamente un pessimista, ma è uno che ci vede chiaro. “Fa tutte le domande giuste e ha la maggior parte delle risposte”, ha detto di lui George Saunders, e ci si augura che abbia ragione. Nella sua carriera, dal fulminante esordio di “Il dolore è una cosa con le piume” (in Italia per Guanda, tradotto da Silvia Piraccini) al più recente Lanny (pubblicato da Sellerio per la traduzione di Marco Rossari), ha sempre esplorato le acque più turbolente e inquiete, usando una prosa che somiglia alla poesia e un ritmo proprio della musica elettronica. Con Shy (Sellerio, tradotto da Federica Aceto) condensa la sua idea di futuro in una novella ambientata nel passato. Esplora l’avvenire attraverso lo sguardo di un adolescente “problematico” che fugge dalla casa-famiglia che lo ospita portando con sé uno zaino pieno di sassi e un walkman. Punta a un laghetto e le sue intenzioni sono facili da intuire. Porter mette in Shy tutta l’irrequietezza e la rabbia che può, gli dona la violenza e la ribellione e lo manda per la sua strada, per svelare il destino che ci accomuna e che lui va a cercare in fondo al lago. È preoccupato? “Dovremmo esserlo tutti, credo. E la ragione per la quale ho deciso di scrivere dal punto di vista di un adolescente è proprio per poter dare forma a questa mia preoccupazione. Ho cercato di immaginarmi cosa significhi oggi essere un ragazzo bianco, socialmente inadeguato, alle prese con un incrocio di populismo e despotismo, con un mondo adulto completamente alla deriva. Cosa significhi non avere la prospettiva di un futuro”. Però Shy è ambientato nel passato… “Sì. Ho pensato che questo mi avrebbe fornito la giusta distanza per cercare di mettere meglio a fuoco la matrice del problema. Il fatto di collocare il mio protagonista in un momento nel quale il Regno Unito si trovava sulla soglia di una svolta laburista dopo diversi anni di dominazione conservatrice, con la promessa di un futuro migliore, che poi si è rivelato il frutto di una propaganda bene architettata, mi dava la possibilità di astrarre Shy dal resto del suo intorno e dalla prospettiva del futuro reale. Volevo renderlo più sincero, e spero di esserci riuscito”. Ne è soddisfatto? “Uno scrittore non è mai soddisfatto, credo che l’insoddisfazione faccia parte della nostra natura, così come l’insicurezza”. Shy ha la voce che voleva? “Ha la rabbia che volevo. Volevo che non avesse nulla a che vedere con il sentimento nel quale si trasforma una volta diventati adulti, quel modo un po’ accondiscendente che abbiamo di rileggere il passato, le decisioni che abbiamo preso di impulso e gli errori che abbiamo commesso. Anche in questo la distanza temporale mi ha molto aiutato. Volevo che il suo grido di rabbia fosse rivolto a un futuro ancora carico di speranza”. Però lei il futuro lo conosce… “Proprio per questo è ancora più importante che la vicenda appartenga al passato. Io so che alla fine le cose sono andate peggio di come potevano andare. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo era ambientato nel Medioevo…”. Davvero? “Sì, e il protagonista era un miniaturista. Sempre adolescente, ma turbato dal fatto che aveva cominciato ad avere pensieri sacrilegi e non sapeva più come comportarsi”. E poi? “Era il periodo a cavallo del voto per la Brexit, un periodo deprimente. Ho cominciato a ragionare sul futuro che avremmo lasciato alle generazioni successive, sulla desolazione conservatrice che avevamo di fronte e sul fatto che di lì in poi sarebbe stato tutto in salita per chi avesse avuto l’onere di doversi prendere cura del nostro paese e del resto del mondo. E questa non è una sensazione tipicamente britannica, prima di allora c’era sempre stata una sorta di speranza latente per il futuro”. Anche nei momenti peggiori? “Soprattutto nei momenti peggiori. Era come se fossimo sempre animati da uno spirito collettivo capace di risolvere tutto con una reazione netta. Ma la Brexit ha dato un colpo fortissimo a quel sentimento e, da parte mia, ho sentito la necessità di avvicinare a questo momento di rottura il mio lavoro”. Non c’è speranza per le future generazioni? “Come ha scritto Rebecca Solnit: “La speranza non è un biglietto della lotteria, ma un’ascia con la quale abbattere le porte”. Da sempre le giovani generazioni hanno risposto con un sonoro grido di rifiuto al futuro che veniva loro offerto e soprattutto all’affermazione che sarebbe stato loro il compito di aggiustare il futuro che chi era venuto prima aveva danneggiato. Nel nostro caso stiamo passando ai giovani una prospettiva quasi irrecuperabile e stiamo cercando di convincerli che per loro si tratti di un’opportunità, che più in basso di così non si possa andare e che quindi dovranno rimboccarsi le maniche e arrampicarsi lungo le pareti lisce del loro destino. Questa, per quanto ne so, è la speranza che viene loro offerta”. È una disfatta… “Non lo so e credo che non lo sapremo fino a che non vedremo in effetti come andrà. Però penso che la profonda angoscia sociale e la crisi psicologica che gli adolescenti stanno vivendo in questo momento derivino soprattutto dalla nostra incapacità di decostruire il sogno del boom e dalla continua e intransigente abitudine di sminuire la loro condizione. Non facciamo che ripetere: “Crescete e vedrete”. Ma non sappiamo nemmeno noi cosa gli stiamo augurando”. Cosa ci salverà? “Un po’ di tenerezza, spero. Se si guarda a ciò che i nostri leader politici propongono, al modello umano che promuovono, ci si accorge che manca del tutto la tenerezza, la pulsione al lieto fine, la tendenza a riordinare, a ritrovare la serenità. È tutta solamente una corsa al caos e alla supremazia. Pensi al modello maschile proposto da Donald Trump e Elon Musk: è del tutto avulso da qualsiasi forma di sentimentalismo o di sentimento. È animato dal terrore di essere ritenuti fragili, che sfocia nell’odio”. È per questo che la vicenda di Shy si chiude con un abbraccio? “Generazioni di adolescenti hanno temuto la propria sensibilità al punto di rifiutarla perché i loro adulti non avevano gli strumenti per capirla. I nostri adolescenti sono sensibili e non sembrano averne paura, come non hanno paura dell’identità di genere né del sesso. Hanno bisogno di essere abbracciati”. Minorenni violenti. Ora risse e omicidi spaventano le città: l’ipotesi del carcere già a 12 anni di Maria Sorbi Il Giornale , 3 marzo 2025 L’ultimo rapporto di Criminalpol rileva che l’incidenza dei delitti commessi da under 18 si attesta all’11% degli omicidi del 2024, a fronte del 4% del 2023. Ma c’è un dato, più sommerso, che dovrebbe preoccupare ancora di più: l’aumento della violenza immotivata, gratuita, senza movente. E l’abitudine “maranza” dei minorenni a girare con il coltello in tasca, da sfoderare al primo battibecco per strada. Francia e Germania hanno già cominciato campagne di prevenzione anti-coltelli. E forse anche in Italia è arrivato il momento di affrontare il problema. Maneggiano il coltellino con la stessa nonchalance con cui usano il telefonino. E lo tengono nella tasca del giubbotto, pronto uso. I ragazzini della giungla urbana vivono così, con la lama a portata di mano. Per sentirsi sicuri, grandi, per difendersi. Ma nella maggior parte dei casi per ficcarsi nei guai. E trovarsi da un giorno all’altro con addosso un’accusa di omicidio colposo o lesioni gravi. I coltelli spuntano ovunque. Nelle risse di periferia, fuori dalle discoteche, negli scontri tra le gang, nelle rapine di gruppo, nelle aggressioni. Tanto da diventare un problema sociale, come già da tempo a Parigi, a Berlino e, in genere, nelle capitali europee. L’allarme riguarda soprattutto le città del Nord. A Milano le lesioni provocate dagli under 18 con i coltelli sono pari al 48%. Stesso trend a Bologna (44%). Firenze registra un 21% di aggressioni, mentre il picco si raggiunge a Genova con un 55%. A Milano, tra 500mila detenuti negli Istituti penitenziari minorili, uno su due è straniero e dati ancora peggiori si registrano a Genova dove il 71% dei minori arrestati, secondo le cifre della polizia, è costituito da immigrati. I cosiddetti “maranza”, quelli che contemplano il coltellino parte integrante della divisa, al pari di felpa acetata Adidas, catenina di finti brillanti e cappellino finto Gucci. Di contro al Sud il fenomeno lame sembra in calo sensibile (-27% a Messina, -20% a Palermo, -35% a Napoli, -19% a Roma). Non c’è caso di cronaca in cui la situazione non degeneri per colpa di un coltello. E l’inasprimento delle pene voluto dalla legge Caivano non ha attenuato la violenza, non abbastanza, pur avendo abbassato a 14 anni l’età per poter essere arrestati. Tanto che non si esclude di tornare a valutare la proposta di legge per far scendere ulteriormente l’età imputabile: a 12 anni. È di pochi giorni la denuncia di 142 giovani per ricettazione, possesso di armi e spaccio. Due settimane fa a Cascina Merlata a Milano un 19enne viene preso a coltellate per portargli via monopattino e portafogli. Incancellabile la morte di Sharon Verzeni a Terno d’Isola la scorsa estate, aggredita alle spalle da un perfetto sconosciuto, Moussa Sangare, mentre passeggia vicino a casa. A Bergamo il vigilante Mamadi Tunkara viene ucciso a coltellate da un togolese di 28 anni. E l’episodio spinge il questore Andrea Valentino e il prefetto Luca Rotondi a lanciare l’allarme: “Circolano troppi coltelli nelle tasche dei giovani”. Sempre a Bergamo i coltelli spuntano anche in una rissa tra ragazze fuori dalla stazione, una resta ferita. A Rozzano (Milano) lo scorso novembre Manuel Mastrapasqua, 31 anni, viene accoltellato per strada da un 19enne solo per potergli rubare le cuffie. A Parma i coltelli sono protagonisti di uno scontro in piazza per il controllo dello spaccio. A Treviso a novembre, in una rissa tra giovani bulli, spuntano, oltre ai coltelli, anche i taser, usati dai minorenni per aggredire. Allarme anche nelle scuole. Tanto che Valeria Pirone, dirigente dell’istituto superiore Marie Curie di Ponticelli a Napoli propone l’introduzione dei metal detector. L’emergenza non riguarda solo Napoli ma le principali città. A sentire i bulli, sembra non si rendano conto di quanto sia grave girare con un coltello. Aumentano le aggressioni e gli omicidi per “futili motivi” e c’è una normalizzazione della violenza preoccupante. Complici i social che ne parlano a spron battuto. “I giovani (ma anche gli adulti) hanno una forte difficoltà a gestire il minimo conflitto spiega Maria Angela Grassi, presidente dell’associazione dei pedagogisti Anpe - Il ricorso ai coltelli sembra l’unica soluzione. Questa ‘moda’ è sintomo di una profonda crisi educativa e sociale che richiede interventi non repressivi ma concentrati sulla gestione dell’emotività”. A Parigi le aggressioni con i coltelli sono talmente tante che nelle scuole è stato distribuito un volantino per disincentivare l’uso delle lame. La campagna si chiama “Stop couteaux” e cerca di convincere i ragazzini a non infilarsi il coltellino nella tasca dei jeans tutte le mattine, fenomeno, a quanto pare, molto normalizzato in certe banlieue. Il volantino spiega cosa dice la legge, elenca le pene e i rischi che corrono. “Portare un coltello con sé vuol dire mettersi in pericolo” è lo slogan. In Germania (+15% dei reati di questo tipo in un anno) si ipotizzano zone “coltello free” e il sindacato di polizia propone di premiare con un abbonamento Netflix la consegna spontanea dei coltelli di cui è vietato il porto, cioè quelli a farfalla e quelli con lama di lunghezza superiore a 12 centimetri. Dopo la strage di Solingen (3 persone uccise e 8 ferite durante un concerto), l’ex cancelliere Olaf Scholz proibisce i coltelli alle feste popolari e sui treni. In Gran Bretagna stanno pensando di collocare dei kit di primo soccorso per ferite da taglio nelle strade più a rischio. Dal 2011 a oggi, secondo la campagna “KnifeSavers”, le morti da accoltellamento sono aumentate del 36%. E le vittime, in un caso su 4, sono giovani uomini fra i 18 e i 24 anni. Un dato allarmante che spinge spinto Idris Elba, popolare attore britannico noto anche per ruoli d’azione in trame poliziesche e simbolo della comunità nera dell’isola, a lanciare una campagna al riguardo, invocando la messa al bando dei cosiddetti “zombie knife”, i coltelli ispirati ai film horror e pulp, molto diffusi tra le gang giovanili. Scuola. Dieci attacchi all’istruzione inclusiva: la nostra disattenzione è complice di Dario Ianes Il Domani, 3 marzo 2025 I continui assalti alla scuola che rispetta le diversità producono l’effetto che gli psicologi definiscono “abituazione allo stimolo”. Così le posizioni repressive e regressive si sentono legittimate. Ogni giorno ci troviamo a registrare azioni e prese di posizione che riguardano il mondo della scuola e la sua inclusività. È importante non sottovalutare queste uscite e interpretarle all’interno di un disegno coerente, che va ben al di là della scuola. Ecco dieci tattiche tossiche contro il rispetto delle differenze, compresa la disabilità, in ambito scolastico che vediamo in azione ormai quotidianamente: 1.?Costruire una scuola culturalmente conservatrice e nazionalista: ci sono evidenti corrispondenze tra la visione di scuola dell’ultradestra tedesca di AfD e l’alone culturale che trapela dalle Nuove indicazioni nazionali; 2.?Reprimere il dissenso: si veda la denuncia di tale processo da parte del rettore Montanari nel suo ultimo libro e la tentennante “via mediana” dei democratici alla Biden rispetto alle contestazioni in Università; 3.?Tagliare finanziamenti, licenziare i fannulloni, sanare gli “sprechi” della spesa pubblica, usare la motosega di Elon Musk, il Doge della spending review Usa; 4.?Pluralizzare l’offerta formativa, sostenendo le scuole private a scapito di quelle pubbliche, accarezzando la libertà di scelta delle famiglie, anche garantendo loro una specie di “diritto di gradimento” rispetto al “proprio” insegnante di sostegno; 5.?Ridurre le azioni Diversity, equity, inclusion in tutti i contesti perché “a forza di tutelare in modo ossessivo le minoranze si discriminano i normali” e “il politically correct sta diventando eccessivo, non si può più dire niente”; 6.?Sostenere senza evidenze empiriche che l’eterogeneità di una scuola inclusiva rallenta l’apprendimento dei compagni di classe, danneggiandoli: così affermano i campioni dell’inclusioscetticismo nostrano, da Galli Della Loggia a Vannacci; 7.?Sottovalutare la stanchezza e la delusione dei nostri docenti, che per quasi un 50% si trova a lavorare in situazioni di carente inclusione e che per un 20% sceglierebbe un sistema formativo separato (scuole normali / scuole-classi speciali); 8.?Credere che la soluzione alle difficoltà della scuola inclusiva sia un’iniezione di “tecnica” e di specializzazione, ad esempio superspecializzando gli insegnanti di sostegno e blindandoli in una classe di concorso separata; 9.?Fare il contrario del punto precedente, dando il pezzo di carta della specializzazione sul sostegno attraverso una sanatoria con percorsi online ridotti, “todos caballeros”; 10.?Rappresentare la scuola come una clinica psichiatrica, pullulante di “disturbati/anti” di ogni sorta, frutto della perversa complicità tra medici diagnosticanti e genitori iperprotettivi e truffatori, per creare una scuola della facilità. Tre conseguenze - Messaggi e azioni di questo tipo possono apparire lontani dalla realtà. Ma ciascuno di loro ha un radicamento di consenso in una parte, non sappiamo quanto grande o piccola, dell’opinione pubblica. In molti casi le “sparate” vengono vissute con stupore e disapprovazione. Ma in fondo, in realtà, si sente che un po’ di ragione c’è, che in effetti il tema esiste, magari mal posto, detto male, banalizzato, ma esiste. Questo consenso / accettazione passiva ha tre effetti molto concreti. Il primo, ovvio, è quello di togliere energia all’attivazione di forme di protesta. Un esempio per tutti: quando il ministero dell’Istruzione decise di istituire forme dimezzate di specializzazione del sostegno, in realtà una specie di sanatoria, le migliaia di corsisti che stavano facendo invece il percorso ordinario, il doppio impegnativo per lo stesso titolo, avrebbero dovuto bloccare i loro corsi, alleandosi con le università e relativi professori, debolmente indignati di questo schiaffo. Il secondo effetto è quello che gli psicologi definiscono “abituazione allo stimolo”, e cioè il calo di attenzione (e risposte correlate, ad esempio irritazione, rabbia, ansia, ecc.) dovuto alla reiterata e frequente esposizione allo stimolo stesso. Il diminuire della curva di attenzione e di risposta consente a chi fa “sparate” quotidiane di continuare a farne di sempre più grosse, e per ottenere l’abituazione ha bisogno di continuare a farne. Il terzo effetto si potrebbe definire di sdoganamento, incoraggiamento strisciante, implicito, indiretto, di forme di azione regressiva in linea con le dieci formae mentis prima citate, anche sotto forma di ritorni indietro, di rallentamenti. Posizioni repressive e regressive si sentono legittimate ad essere più attive e, in modi più o meno visibili, complicano e ostacolano processi inclusivi. Un liceo potrebbe incontrare nuovi ostacoli nello sviluppare e sostenere le misure per le e gli studenti in transizione di genere; qualche comune potrebbe non trovare sufficienti fondi per l’educativa scolastica; qualche docente potrebbe irrigidire le proprie pratiche di verifica, interrogazione e attribuzione dei voti; qualche scuola potrebbe adottare misure disciplinari maggiormente punitive, ecc. Tutto questo può avvenire (ed avviene) in modo strisciante, ipocrita, sotto la soglia di sopportazione, che si innalza progressivamente sempre di più. Le dieci tattiche fanno parte di una strategia complessiva che con tutta evidenza mira a comprimere libertà e diritti. Scuola. L’educazione all’affettività è stata cancellata di Sofia Spagnoli open.online, 3 marzo 2025 Ma c’è comunque una proposta di legge per far decidere i genitori. Il progetto iniziale è stato dirottato su una presunta educazione alla fertilità rivolta agli insegnanti. Una proposta di legge di FdI impone che siano i genitori a scegliere per gli studenti. Una proposta di legge che prevede l’introduzione del consenso dei genitori per la partecipazione dei figli ad attività “su materie di natura sessuale”. È questo il succo della proposta di legge (pdl) depositata il 25 febbraio dal deputato di Fratelli d’Italia, Alessandro Amorese. Sul sito della Camera il testo dell’emendamento non è ancora disponibile ma ha già sollevato alcune polemiche. Perché al momento tutte le attività di formazione legate alla sfera sessuale-affettiva sono state dirottate in altri progetti. O si sono incartate tra due ministeri: quello della Famiglia e della natalità, alla guida di Eugenia Roccella, e quello dell’Istruzione, con a capo Giuseppe Valditara. Da entrambi, di certezze ce ne sono poche, ma molte sono le risposte evasive quando vengono interpellati. In ogni caso, c’è chi vede nella pdl di FdI più un atto ideologico che una reale necessità, considerando che questi percorsi, di fatto, non esistono nemmeno. È il caso di Riccardo Magi, segretario di +Europa, firmatario dell’emendamento che aveva la finalità di promuovere l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole secondarie, dal valore di 500mila euro approvato dal Parlamento e passato anche in legge di bilancio. Provvedimento che però è stato trasformato in un progetto sull’”educazione alla fertilità” dall’Esecutivo. Praticamente FdI “Mette le mani avanti, ancora - commenta Magi - Si esprimono su fatti che non esistono nemmeno. Da qui si comprende l’ossessione che i meloniani hanno su questo tema”. Provare a cercare di capire a che punto sia il progetto “educare alla fertilità” è davvero difficile. Ma bisogna fare un passo indietro per comprendere come si sia arrivati fin qui. L’emendamento Magi era riuscito a passare con il via libera anche della maggioranza, nonostante i pareri tecnici negativi del ministero dell’Istruzione e di quello delle Pari opportunità che sostenevano fosse un progetto sostanzialmente “poco fattibile”. Ma il provvedimento non sfugge all’attenzione dei Pro Vita & Famiglia, che reagiscono con furia. L’accusa è pesante: il governo avrebbe ceduto “all’isteria abortista dei collettivi trans-femministi e alle teorie terrapiattiste sul genere fluido del movimento Lgbtq”. Il loro appello - martellante e accompagnato dallo slogan “Tirate fuori le mani dalle mutande dei nostri figli” - si diffonde nelle newsletter inviate agli iscritti, con tanto di petizione per chiedere lo stop immediato del provvedimento. Fatto sta che dopo poco il governo si adegua e il dossier finisce direttamente sul tavolo di Fratelli d’Italia, che chiede di dirottare quei fondi su un altro obiettivo: l’educazione alla fertilità. Il progetto non riguarda più gli studenti ma gli insegnanti, i quali seguiranno corsi esterni alle scuole per apprendere strategie di contrasto alla denatalità. Una mossa che accontenta i Pro Vita e cambia radicalmente la destinazione dell’emendamento. Il 9 gennaio, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, risponde in aula a un’interrogazione della Lega, confermando - con evidente imbarazzo - la scelta dell’esecutivo. Dal ministero della Famiglia fanno sapere ad Open che il progetto “è in fase avanzata” ma evitano di entrare nei dettagli sulla formazione prevista e sulle modalità di attuazione. Di fronte alle osservazioni sulla trasformazione del progetto, il dicastero scarica la responsabilità sul deputato Riccardo Magi, sostenendo che i fondi sarebbero stati assegnati al ministero sbagliato: “Se l’obiettivo era finanziare l’educazione affettiva nelle scuole, i fondi dovevano essere indirizzati a Valditara, non al fondo per le pari opportunità. Noi non possiamo entrare nelle scuole, lo può fare solo il ministero dell’Istruzione. C’è un’istruttoria in corso per decidere come utilizzare questi fondi, che, tra l’altro, sono davvero pochi”, avvertono. “È sorprendente che queste dichiarazioni provengano da un ministero dal quale ci si aspetterebbe serietà istituzionale al di là delle inclinazioni politiche”, commenta Magi. La realtà è che l’emendamento nella legge di bilancio è stato approvato; quindi, c’è stata una violazione del Parlamento. Il Governo ha giocato al gioco delle tre carte”. Sull’entità del finanziamento, il deputato di +Europa sottolinea che “si trattava di un finanziamento relativamente modesto, ma pur sempre un gesto pionieristico per il nostro paese. Non era obbligatorio per i dirigenti scolastici e gli insegnanti avviare questa iniziativa, ma avevano la possibilità di farlo grazie alle risorse messe a disposizione”.