Uomini e.... posti letto di Carmelo Cantone* Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2025 La lettura dell’avviso di Invitalia sulla” Procedura ristretta avente ad oggetto l’ampliamento delle strutture carcerarie esistenti mediante fornitura di moduli detentivi...” solleva forti perplessità, meglio ancora forti preoccupazioni. La relazione tecnico illustrativa preliminare licenziata dal Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria fornisce la chiara sensazione che nella collaborazione tra il Commissario e gli uffici del Dap non sia emersa la consapevolezza di cosa sia giusto richiedere all’edilizia penitenziaria prossima ventura, in termini di qualità di vita di chi deve vivere in carcere e di chi ci lavora, di concezione di una sicurezza declinata con intelligenza ed efficacia, di comprensione in definitiva di quali sforzi si devono affrontare per fare in modo che si possa puntare ad un deciso miglioramento del mondo della detenzione. Vediamo alcuni primi aspetti che immediatamente appaiono negativi: Il c.d. “blocco detenzione” o modulo detentivo, come viene nominato nel titolo dell’avviso, da una prima descrizione appare subito come un manufatto che non deve esprimere alcun pregio architettonico, vista la dichiarata urgenza di recuperare nuovi posti letto per detenuti senza alcuna pretesa di esprimere un’edilizia ragionata e funzionale per collettività chiusa. Ci si potrebbe rassegnare a queste scelte, visto l’approccio emergenziale voluto dal governo ma quello che immediatamente non torna già dalla visione del layout funzionale è la logica con cui vengono concepiti gli spazi, sia delle stanze di pernottamento che delle sale destinate a varie attività. Si prevede che le stanze di pernottamento debbano avere una superficie di 30 mq. per ospitare ciascuna quattro detenuti; in questa metratura viene ricompreso il bagno che, si afferma, dovrà avere una “superficie indicativa di 3 mq.”. Non si comprende come sia concepibile un locale di tre mq con dentro wc, lavabo, doccia ed “eventuale” bidet. Ma si deve anche sottolineare che tutte le indicazioni normative e giurisprudenziali, europee e nazionali, calcolano la superficie della stanza al netto del locale servizi igienici, immaginando comunque che nei progetti proposti sarà improponibile un bagno di tre mq che debba anche contenere una serie di effetti personali di quattro persone oltre ai materiali di pulizia. Si dovrà pertanto ipotizzare uno spazio nella sola stanza di pernottamento di non più di 25 mq. Sarà necessario detrarre ulteriormente da questo dato lo spazio occupato da quattro letti, da un tavolo e quattro sedie, visto che è stata fatta la scelta di imporre che tutti questi arredi siano “predisposti per fissaggio a pavimento” per impedirne lo spostamento. È veramente singolare la scelta di un tavolo monoblocco in metallo con quattro sgabelli incorporati, tanto che chi vivrà in queste stanze potrà sedersi solo in quella postazione, altrimenti potrà utilizzare la seduta del letto (condizione peggiorativa di qualsiasi istituto attualmente in uso). Da notare che dopo diversi anni in cui si era denunciato l’uso esclusivo di sgabelli, senza la possibilità di disporre di uno schienale, se ne ribadisce ora l’uso commissionandone la costruzione all’affidatario dei lavori, quando esistono le lavorazioni di falegnameria negli istituti penitenziari che costruiscono tavoli e sedie. Tra l’altro il PON inclusione 2014 -2020 aveva portato alla creazione di prototipi di arredi presso la casa circondariale di Lecce; che fine ha fatto questa sperimentazione? Nulla si dice sugli spazi da destinare alla preparazione di cibi e bevande consentite dall’ordinamento penitenziario e si perde l’opportunità di prevedere l’installazione di piastre ad induzione al fine di abolire finalmente l’acquisto e l’uso di fornellini da campeggio e di bombolette di gas. Altre considerazioni meritano la presenza nei due blocchi di detenzione ipotizzati di sei stanze, ciascuna di 30 mq, destinate ai seguenti diversi usi: palestra, sala socialità, posto agente, barberia/ lavanderia, psicologo ed” educatore” (che da anni è denominato funzionario giuridico pedagogico...) e sala polivalente/ biblioteca. Si registra l’assenza di una logica rispetto agli utilizzi di questi singoli locali: le 24 persone detenute in questi blocchi disporranno di soli 30 mq per la socialità, per la palestra, per la sala polivalente/ biblioteca (chissà perché senza bagno), mentre con la stessa superficie, in questo caso eccessiva, si ospiteranno i colloqui con gli operatori o la postazione dell’agente di sorveglianza, per non parlare del locale lavanderia che funge anche da barberia. Ma la scelta di mettere in unico blocco stanze di pernottamento insieme con ambienti comuni, peraltro inadeguati, e ambienti di ufficio, tenuto conto anche del modo con cui è stata concepita la stanza di pernottamento, quale tipo di vita detentiva vuole proiettare? I canoni di sicurezza appaiono prevalenti, anzi assorbenti se si tiene conto che oltre agli spazi di cui abbiamo parlato, in questi blocchi di detenzione insiste esclusivamente un cortile di passeggio di non precisata superficie ma che dal layout e dalle indicazioni contenute nel documento non si distanzia dalle disgraziate esperienze dei cortili di passeggio dei complessi penitenziari costruiti negli anni 80. In questa fase preliminare si deve rilevare che non viene richiesta la progettazione di un impianto antincendio che è cosa diversa da un impianto rilevazione incendi e da un impianto di spegnimento automatico che sono invece citati. Si insiste sulla necessità che le fonti energetiche siano tutte sul versante elettrico, ma non si coglie l’occasione di indirizzarsi sulle energie rinnovabili, con i costi che comporterà ad esempio l’uso di split anche per il riscaldamento degli ambienti. Tutto ciò testimonia come sono state perse di vista una serie di coordinate che tengono insieme sicurezza e qualità della vita, imparando anche dagli errori delle passate esperienze. Si dovrebbe anche spiegare a quale tipo di circuito penitenziario saranno destinati questi blocchi di detenzione; forse ai detenuti a “trattamento intensificato”? Ma da quel che appare queste persone verrebbero tagliate fuori dalle opportunità trattamentali dell’istituto. Se invece si punta ad una sezione a “trattamento ordinario” le contraddizioni sono palesi nel mischiare canoni eccessivi di sicurezza con condizioni non adeguate per il lavoro soprattutto dei poliziotti penitenziari. Queste sono solo poche osservazioni di prima fase, ma il quadro che viene fuori è veramente preoccupante, perché appare totalmente disperso un patrimonio di competenze tecniche e un expertise penitenziario che esistono e non sono stati utilizzati. *Già vicecapo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e Provveditore regionale Il carcere fra disagio e indifferenza, occorre rilanciare il progetto culturale dell’articolo 27 Costituzione di Damiano Francesco Pujia* Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2025 Occorre pensare ad una nuova sistemazione ordinamentale e costituzionale alla “misura-carcere” e riconfigurare la struttura del percorso trattamentale del condannato nell’ottica della prospettiva di rilascio al venire meno della pericolosità sociale. Continua il drammatico fenomeno dei suicidi in carcere. Sono 23 al 23 marzo 2025 ed è importante ricordarne il numero - come fa quotidianamente l’Unione delle Camere Penali - perché in questo Paese spesso l’opinione pubblica e la politica sembrano colte da “arithmofobia”. I numeri ci riportano alla realtà. Per tale ragione dal confronto con essi ci si vuole sfilare, per evitare di essere eccessivamente “coinvolti”. Nella comunicazione politica si riduce il problema della pena e del percorso trattamentale ad una questione di spazio e si propone la criminalizzazione delle manifestazioni di disagio da parte delle persone ristrette. Ossia si risponde al disagio con la minaccia e la sanzione. Come ricorda il Prof. Flick “è più facile punire i deboli che affrontare i problemi strutturali” (Flick, Questo carcere è fuori dalla Costituzione. Ora diventi “laboratorio di speranza”, Il Dubbio, 29-11-2024). Ancora oggi la pena detentiva si presenta paradossale. Tale situazione è esasperata da “atteggiamenti opposti” - così li definisce il Prof. Fiandaca nel suo libro Punizione (Il Mulino, 2024) - e dalla mancanza di cultura della pena nella società. Non stupisce allora la particolare disinvoltura con cui il legislatore interviene sulla dosimetria sanzionatoria, nonostante i richiami della Corte costituzionale (si pensi ad esempio alla sentenza n. 46-2024 in tema di ragionevolezza degli inasprimenti sanzionatori). Per la politica criminale è prevalente l’illusione di rispondere all’esigenza sociale con la minaccia penale e l’attenzione al tema della general-prevenzione. La verità è che per la società, per la politica - bipartisan - e forse anche per qualche operatore del diritto il carcere deve essere ancora lo strumento principale per garantire la sicurezza sociale e per emarginare chi ha commesso un fatto di reato (in caso di espiazione della pena) o è accusato di averlo commesso (in caso di applicazione di misure cautelari). Nel dibattito pubblico l’idea della “difesa sociale” ha infettato il sistema penale e il “senso” delle pene indicato nell’art. 27, co. 3° Cost. Le prese di posizione più violente da parte della collettività e della politica nei confronti della realtà penitenziaria e delle persone ristrette non sono frutto di “ignoranza”: sono posizioni convinte, di testa e non di “pancia”, o anche frutto di precise scelte “elettorali”. Il “bisogno di pena” è innervato nella società - anche a causa della narrazione mediatica - e porta a riflettere sul fallimento del progetto di “riforma culturale” promosso dalla Costituzione. In seno all’Assemblea Costituente si discusse molto sulla formulazione di quello che sarebbe divenuto il comma terzo dell’art. 27: l’esplicitazione in Costituzione della funzione della pena avrebbe potuto avvicinare il testo costituzionale ad una delle scuole di pensiero precedenti (la Scuola positiva e la Scuola classica). Dall’orrore del regime fascista maturò però la necessità di dover affermare l’inviolabilità della libertà personale e di esplicitare la finalità rieducativa delle pene. Forse è inevitabile che con il passare del tempo e con l’allontanamento anche “ideologico” dall’esperienza di dolore e di sofferenza vissuta dai Costituenti - attraverso la conoscenza diretta dello stato delle carceri italiane - si perda il senso dei valori costituzionali e dei principi fondamentali che dovrebbero illuminare la concezione della collettività delle pene e del carcere. Occorre prendere atto - a distanza di 50 anni dall’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354) - di una realtà sociale in cui non è possibile ragionare sulla giustificabilità del carcere senza essere tacciati di eccessivo idealismo, di essere “un’anima bella” o - nei casi più gravi - di essere sovversivo. Di un tale fallimento culturale siamo tutti responsabili: accademici, assuefatti alla logica dello specialismo esasperato; professionisti giovani e anziani, dimentichi della propria funzione sociale e assorbiti dalla logica del profitto economico che fagocita quello culturale; istituzioni e giudici, sopraffatti dalla logica dell’efficientismo; partiti, intrappolati nella campagna elettorale perenne e nella logica del “convincere per vincere”; giornalisti, particolarmente attenti a rivendicare il proprio ruolo di watchdogs della democrazia ma obnubilati dalla logica del clickbait, del sensazionalismo, della pornografia del dolore. Come ricorda spesso Mauro Palma - citando Foucault - il carcere è un esempio di non-luogo, di eterotopia. Di questo non-luogo si fatica oggi a rinvenire il senso concettuale, filosofico e costituzionale. Ciò sembra fisiologico, perché il senso della pena è cambiato profondamente nel corso dell’evoluzione delle società umane e degli ordinamenti. La speranza è che arrivi ad un’ulteriore forma di evoluzione che ripudi definitivamente la reclusione come specie principale di “punizione” per l’illecito penale. Persino Beccaria in Dei delitti e delle pene si chiedeva “cosa fare” della persona ristretta. L’ingresso della reclusione nel novero delle punizioni per il fatto-reato trovava la sua giustificazione filosofica e giuridica nel collegamento fra la critica alla pena di morte e a quella corporale e la costruzione di un sistema di commisurazione del quantum di pena proporzionale al fatto commesso: il fondamento contrattualistico del potere punitivo dello Stato non tollerava irrazionalità, arbitrio od eccessi, dal momento che esso derivava dalla cessione di quote di libertà da parte degli individui in vista di un interesse generale, ossia quello di assicurare la convivenza civile. La giustificazione razionale e filosofica della reclusione mutuava il suo significato dalla de-legittimazione del diritto di annientare l’essere umano da parte del Sovrano. Il ragionamento di Beccaria era logico ed utilitaristico: se la sanzione non viene percepita come giusta, allora essa è inutile. Una volta mossa la critica alla violenza della pena capitale e alla truculenza del supplizio pubblico residuava il dubbio su cosa fare dell’individuo messo a disposizione dell’autorità. Non esiste nella storia una concezione assoluta di punizione per un fatto di reato. Eppure, oggi la collettività pensa che l’unica concezione della pena debba essere quella “carceraria”: bisogna “buttare la chiave”. Mentre nel 1948 “il pubblico non sa[peva] abbastanza” delle condizioni della vita carceraria - come ricordava Calamandrei - oggi il pubblico “non vuole saperne niente”. Occorre invece pensare ad una nuova sistemazione ordinamentale e costituzionale alla “misura-carcere”; rifiutare le pene detentive lunghe e brevi; riconfigurare - una volta individuata la effettiva funzione della “custodia” successiva alla sentenza di condanna - la struttura del percorso trattamentale del condannato nell’ottica della prospettiva di rilascio al venire meno della pericolosità sociale. L’auspicio è che si riesca a rilanciare il progetto culturale dell’art. 27 Costituzione, nato dagli orrori della guerra e del carcere fascista e che non può morire di fronte agli orrori del carcere attuale. Occorre lanciare una reale e capillare - nonché costosa e dispendiosa - stagione culturale, costituzionale e “costituente” per perseguire l’immagine di un “carcere vuoto” (Gallone, Il sogno di un carcere vuoto, L’Osservatore Romano, 06-07-2024) o quantomeno “semivuoto”, varcando le soglie del quale la persona ristretta possa sempre sperare di “veder lo cielo”; purché una volta fuori la società non continui ad additarla come dannata. La speranza è che non si debbano più sentire storie di suicidi, di abbandono e di perdita di dignità di chi è anzitutto persona, prima di essere una “persona ristretta”. *Avvocato, Foro di Roma Tre mesi di vuoto: i dubbi del Quirinale sulla scelta di Delmastro per il Dap di Giuliano Foschini La Repubblica, 31 marzo 2025 In stallo la nomina di Lina Di Domenico. Suicidi e sovraffollamento: è caos. Altare della Patria, martedì pomeriggio festa della polizia penitenziaria. Lo scenario, come ogni anno, è quello delle occasioni solenni: c’è il ministro della Difesa, Guido Crosetto. E quello della Giustizia, Carlo Nordio. Il corpo schierato. La diretta della Rai. Il programma prevede la premiazione di tre agenti che si sono distinti nel corso dell’anno. E in tutti e tre i casi lo speaker pronuncia la stessa frase: “A premiare, il sottosegretario Andrea Delmastro”. “Il punto è questo: i riflettori devono essere tutti i suoi”. Una fonte di governo racconta e spiega così il perché in Italia sta accadendo una vicenda senza precedenti nella storia del paese: da tre mesi, dal 27 dicembre scorso, il Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e quindi anche la polizia penitenziaria, sono senza guida. E lo sono in uno dei momenti più neri della storia delle nostre carceri: il record di suicidi, le celle che scoppiano, l’allarme sul boom dei cellulari ai detenuti. Da quando Giovanni Russo, il magistrato scelto dal governo Meloni per guidare le carceri italiane, lasciò l’incarico all’improvviso ma non a sorpresa, nessuno ha occupato ancora quel posto. E questo perché il ministero della Giustizia e in particolare il sottosegretario Delmastro, hanno solo un nome: la facente funzione Lina Di Domenico. E il Quirinale, invece, a cui spetta formalmente la scelta (è il presidente della Repubblica, anche a capo delle forze armate, a doverla firmare) non procede perché la vicenda è diventata un pasticcio. Subito dopo le dimissioni di Russo, via Arenula aveva infatti fatto filtrare ai giornali il nome di Di Domenico con la certezza dell’indicativo: sarà lei il nuovo capo. Peccato che nessuno aveva avvisato o si era confrontato con il Quirinale. Da qui lo stallo per una questione di forma, evidentemente. Ma che è diventata da subito anche di sostanza. Il sottosegretario - come racconta il dettaglio, piccolo ma significativo, delle premiazioni davanti alle telecamere nel giorno della festa del corpo - ritiene di essere il vero capo del dipartimento. Russo è andato via per questo: i rapporti erano diventati pessimi, ancor di più dopo la deposizione del magistrato davanti ai giudici romani sul caso Cospito, testimonianza che si è poi rivelata centrale per la condanna. Di Domenico viene raccontata da tutti come persona valida e rispettabile. Ma nello stesso tempo di assoluta fiducia dell’avvocato di FdI che sulla penitenziaria ha fatto un investimento politico: nonostante i rapporti non idilliaci con tutti i sindacati e le uscite infelici - come “l’intima gioia nel sapere che non lasciamo respirare chi sta dietro il vetro oscurato di questa auto” nella presentazione delle nuove vetture - che hanno sollevato polemiche, le carceri sono roba sua. Tanto che in questi mesi non ha mai fatto passi indietro. Sostiene non ci siano altri nomi e, nessuno, anche in via Arenula dove vivono con sconcerto quello che sta accadendo, si azzarda a offrire alternative. Perché “altri nomi sarebbero subito bruciati”. Tutto questo mentre la situazione nelle nostre carceri è tragica. Il 2024 è stato l’anno record per numero di suicidi: 90 morti, mai così male. Il 2025 non è iniziato meglio: 20 i suicidi in tre mesi, con una situazione di sovraffollamento sempre peggiore. “Mancano ottomila agenti” denuncia il segretario della UilPa, Gennarino De Fazio, “ci sono deficienze strutturali, logistiche e organizzative, carenze sanitarie strutturali, logistiche e organizzative, carenze sanitarie. E questo governo si occupa dell’Albania e non nomina il capo delle carceri”. C’è poi l’emergenza criminale. Come hanno avuto modo di denunciare i procuratori delle distrettuali antimafia, clamoroso il caso dei cellulari. “Chi è in carcere - ha detto tra gli altri il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri - ha un filo diretto con l’esterno come se niente fosse. Abbiamo proposto diverse soluzioni per fermare il fenomeno, a partire da una banalissima schermatura per le sezioni di alta sicurezza, ma nessuno se ne occupa”. Anche perché, chi dovrebbe, per il momento non c’è. Quando il carcere soffoca: la realtà dei trasferimenti dei detenuti in Italia di Camilla Malatino L’Opinione, 31 marzo 2025 In Italia, la privazione della libertà non dovrebbe mai tradursi in privazione della dignità. Eppure, la realtà delle carceri e dei trasferimenti dei detenuti racconta spesso un’altra storia: una storia fatta di condizioni al limite della sopportazione umana, di celle sovraffollate, di viaggi in furgoni blindati che trasformano lo spostamento da un carcere all’altro in un’esperienza umiliante e disumana. Un racconto emblematico di questa realtà è stato pubblicato nell’ultima edizione del giornale di Nessuno tocchi Caino. Gioacchino Calabrò, detenuto all’ergastolo nel carcere di Opera, ha descritto in prima persona il suo trasferimento su un furgone della polizia penitenziaria. Nel suo resoconto emerge tutta la disumanità di un’esperienza che dovrebbe essere una semplice procedura amministrativa. Rinchiuso in una celletta blindata all’interno del furgone, uno spazio talmente angusto da impedirgli quasi di respirare, Calabrò racconta la sensazione di soffocamento, l’impossibilità di muoversi e la totale mancanza di aria. Un viaggio che, nelle condizioni attuali, assomiglia più a una punizione aggiuntiva che a un normale spostamento tra istituti di pena. L’esperienza di Calabrò non è un caso isolato. Ogni giorno, detenuti in tutta Italia vengono trasferiti in condizioni analoghe, costretti a trascorrere ore in compartimenti angusti, senza sapere quanto durerà il viaggio o se avranno accesso a un minimo di ventilazione. Per chi soffre di ansia, claustrofobia o problemi respiratori, ogni trasferimento può trasformarsi in un incubo. Il tema delle condizioni detentive in Italia non si esaurisce nei problemi strutturali delle carceri, come il sovraffollamento o la mancanza di personale, ma si estende a tutto ciò che ruota attorno alla vita dei detenuti, compresi i trasferimenti. L’articolo 27 della Costituzione italiana è chiaro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma quale funzione rieducativa può avere un sistema che umilia, opprime e priva di ogni residuo di dignità? Non si tratta di pretendere privilegi, ma di rivendicare il rispetto dei diritti umani anche per chi ha sbagliato. Uno Stato che decide di privare una persona della libertà ha il dovere di garantirle, comunque, un trattamento dignitoso. Ma rinchiudere un essere umano in uno spazio angusto, senza aria e senza possibilità di movimento, anche solo per alcune ore, significa ignorare questo principio e trasformare una pena legittima in una forma di tortura. La pubblicazione della testimonianza di Calabrò su Nessuno tocchi Caino è un segnale importante: il problema esiste, ed è ora che se ne parli apertamente. Affrontare questa realtà significa rivedere non solo le modalità di trasporto dei detenuti, ma l’intero approccio alla pena in Italia. Se vogliamo davvero un sistema che rispetti la Costituzione e i diritti umani, dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che certe pratiche non sono più accettabili. Il primo passo è parlarne, rompere il silenzio su queste condizioni inaccettabili e chiedere riforme che garantiscano trattamenti umani per tutti. Perché uno Stato che calpesta la dignità dei detenuti non solo tradisce i suoi principi fondamentali, ma finisce per soffocare anche il senso stesso di giustizia. Ddl Sicurezza, il Quirinale insiste per le modifiche. Ora Meloni teme la bocciatura del testo di Ilario Lombardo La Stampa, 31 marzo 2025 Contatti tra i collaboratori del capo dello Stato, il Governo e i partiti di maggioranza. La Lega contro le obiezioni al ddl del Colle. Possibile incontro premier-Mattarella. Il primo ok della Camera al disegno di legge Sicurezza è datato 18 settembre 2024. Sono passati quasi sette mesi e il testo fino allo scorso giovedì galleggiava nel limbo del Senato, finito in un pantano politico-istituzionale che sta logorando i partiti della maggioranza. E che ha riacceso l’attenzione del Quirinale. Lungo la scorsa settimana ci sono state triangolazioni tra gli uffici della Presidenza della Repubblica, Palazzo Chigi e i capigruppo in Parlamento di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Stando a fonti parlamentari e di governo, della questione si è occupato direttamente il segretario generale Ugo Zampetti. Questo accade perché la Lega resta indisponibile a cambiare la norma seguendo le indicazioni del Colle, nonostante gli azzurri e i meloniani avessero garantito che le modifiche ci sarebbero state. Adesso il testo tornerà alla Camera: dopo quasi un anno in Parlamento, a Palazzo Madama si sono accorti che le coperture finanziarie sono insufficienti. Risultato: i tempi si allungano. È il tentativo estremo di trovare una soluzione che possa accontentare tutti: chi è critico (compreso il Quirinale) e chi, come la Lega, ha l’esigenza di salvare la faccia dopo mesi di battaglie e di promesse. Il ddl ha ricevuto un’attenzione particolare da parte di Sergio Mattarella: il Capo dello Stato aveva mosso precise osservazioni su alcuni capitoli a rischio di incostituzionalità. Si va dalla detenzione in carcere per le donne incinte fino al divieto di vendita di sim telefoniche ai migranti e all’elenco di opere pubbliche sulle quali viene esteso il reato di manifestare, come le stazioni. Sono misure bandiera per la destra, introdotte durante la campagna elettorale per le Europee, una dimostrazione muscolare e identitaria contro la comunità rom, contro gli immigrati e contro i movimenti di protesta, che a causa anche di una formulazione legislativa, a quanto pare, un po’ sgrammaticata, ha spinto gli uffici quirinalizi a intervenire. Quando l’elenco delle criticità è stato recapitato a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha dato personale disponibilità a emendare il testo, durante i lavori parlamentari. Modifiche che apparivano quasi scontate per Forza Italia, l’anima più moderata della coalizione, poco incline a seguire le norme punitive degli alleati sovranisti. Ma anche FdI, su input della premier, aveva aperto alle correzioni del Colle. Certo Meloni non si aspettava che Matteo Salvini non si sarebbe ammorbidito e che non avrebbe ceduto fino a questo punto. Mercoledì scorso è stato il capogruppo leghista al Senato Massimiliano Romeo a sentenziare: “Per noi si va avanti su questa strada, il ddl deve passare così com’è”. Le interlocuzioni del Quirinale con i capigruppo (che avrebbero coinvolto Maurizio Gasparri di FI, Lucio Malan e Galeazzo Bignami di FdI) sono avvenute quasi contestualmente. Nella risposta di Marco Lisei, relatore del partito guidato da Meloni, c’è la traccia di quale potrebbe essere stato l’avvertimento del Colle. Lisei non esclude modifiche e dice che il governo è aperto “a un provvedimento fatto bene che non abbia problematiche successive”. Quello che temono Meloni e i suoi parlamentari è che Mattarella possa -una volta approvato - rimandare indietro il testo, se non sarà corretto nelle parti indicate. È nei suoi poteri di garante della Costituzione farlo anche se in passato ha preferito evitarlo. Secondo indiscrezioni che insistentemente circolano dentro FdI, la premier potrebbe anche avere un colloquio al Quirinale nei prossimi giorni. Il nodo del ddl Sicurezza sarebbe certamente sul tavolo del confronto con Mattarella. Ma c’è anche altro. Meloni vuole evitare che le tensioni con le toghe si sfoghino in un cortocircuito tra istituzioni. Mercoledì 26 marzo la giunta esecutiva dell’Associazione nazionale magistrati è stata ricevuta dal Capo dello Stato. Nel corso dell’incontro, ha poi rivelato l’Anm, è stata espressa preoccupazione “per i frequenti attacchi rivolti alla magistratura negli ultimi mesi”. Da quanto è stato possibile ricostruire, Mattarella non ha dato sponde, né avrebbe intenzione di interferire con il lavoro del Parlamento su una riforma molto divisiva come la separazione delle carriere, che la destra vuole comunque approvare entro la legislatura. Di sicuro però ha già fatto arrivare a Palazzo Chigi che vanno abbassati i toni. E Meloni non sempre lo ha ascoltato: non quando, per difendersi o difendere il suo fedelissimo sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, condannato in primo grado, si è scagliata con durezza contro i magistrati. Separazione delle carriere, Nordio parli chiaro di Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 31 marzo 2025 L’esito della mozione di sfiducia presentata contro il Guardasigilli Nordio era scontato, visti i numeri in Aula degli opposti schieramenti. Nondimeno il ministro doveva essere piuttosto preoccupato, perché alla fine dei lavori si è lasciato andare a considerazioni che avrebbe fatto molto meglio a tralasciare. In particolare ha pronunciato, con tono perentorio, parole come: “Noi non vacilleremo e non arretreremo. Noi andremo avanti inesorabili. Voi fate il vostro peggio che noi faremo il nostro meglio” (non è dato sapere se queste altisonanti parole fossero accompagnate da una postura tipo mascella indurita e petto in fuori). Nordio si riferiva esplicitamente alla riforma della separazione delle carriere fra Pubblici ministeri e Giudici, unica freccia rimasta - sembra - all’arco del governo dopo l’accantonamento del Premierato e dell’Autonomia differenziata. Ancora una volta Nordio ha presentato la separazione delle carriere come una vera e propria riforma della giustizia. Ben sapendo peraltro che le cose non stanno così perché, se anche passasse la separazione delle carriere, le attuali difficoltà della giustizia resterebbero tali e quali, a dispetto delle richieste e degli interessi dei cittadini tutti. Nordio dovrebbe smetterla di negare pervicacemente, un giorno sì e l’altro anche, che il vero e ultimo scopo della separazione delle carriere risponde, in realtà, all’obiettivo di togliere ai pubblici ministeri la loro indipendenza e di sottometterli al potere esecutivo (come avviene in tutti i paesi in cui questa separazione è stata attuata). Ora invece, per sfuggire a questa realtà, egli afferma di subire attacchi di malafede. Si lancia persino contro la Corte dell’Aia, che sta indagando sul caso Almasri e quindi sul suo comportamento in quell’occasione, affermando che la Corte “va messa a posto”. E giunge addirittura a stabilire un’analogia (per la verità ardita) tra lui stesso e coloro che erano vittime della seicentesca Inquisizione spagnola. A questo punto facciamo un passo indietro: al 1982. Viene sequestrata una valigetta con dentro il “Piano di rinascita democratica P2”, redatto da Licio Gelli, gran maestro appunto della loggia massonica P2. In questo piano, lungo e dettagliato, è inserito “l’obiettivo a medio e lungo termine” di “separare le carriere requirente e giudicante”. E fra l’altro ci si pone apertamente lo scopo di stabilire con la corrente più moderata della magistratura “un accordo sul piano morale e programmatico” per “elaborare un’intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento”. Il che vuol dire, in parole semplici, voler comprare la magistratura, cominciando da una parte di essa. Poi viene Silvio Berlusconi, con trentasei procedimenti penali a suo carico, otto dei quali conclusi soltanto con la prescrizione, due per amnistia ed uno con una condanna definitiva a quattro anni per frode fiscale. Berlusconi detestava i pubblici ministeri perché lo avevano inquisito in tutti questi procedimenti. Egli voleva la separazione delle carriere per punirli, e per far sì che essi in futuro non potessero più fare liberamente il loro mestiere e fossero invece tenuti a indagare o a non indagare a seconda che si trattasse di persone sgradite o gradite al potere esecutivo. E infatti il ministro Tajani, quando oggi si batte anche lui per la separazione delle carriere, lo fa ricordando sempre (come per adempiere a un voto di fedeltà) che si tratta di un desiderio del suo ex capo. Allora abbiamo una domanda. È a questi precedenti che il nostro ministro vuole rifarsi? A queste persone, il cui interesse principale non era certo quello del Paese? Se è così, abbia la bontà di farcelo sapere. Trasparentemente. Senza giocare con il significato delle parole e senza travisare la realtà. Intercettazioni, limite di 45 giorni. Controlli rafforzati per le proroghe di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2025 Le nuove regole non valgono per alcuni gravi tipi di delitti, tra cui mafia e terrorismo. Impegno del Governo a escludere dal regime i reati del Codice rosso. Limiti temporali più rigidi per le intercettazioni. E controlli del giudice più pesanti sui presupposti per concedere le proroghe. A prevederli è la nuova legge (presentata da Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia) che modificala disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione, approvata in via definitiva dalla Camera lo scorso 19 marzo. Ma i nuovi limiti non valgono per alcuni gravi reati, a partire da quelli di criminalità organizzata. E il Governo si è impegnato, dando parere favorevole durante l’esame degli ordini del giorno, a sottrarre alla disciplina anche i reati del “codice rosso”. Le regole - Le intercettazioni di conversazioni - telefoniche, telematiche o ambientali, effettuabili anche con virus informatico, nei casi previsti dall’articolo 266 del Codice di procedura penale - sono un mezzo di ricerca della prova che ha una disciplina diversa in base al titolo di reato per cui si procede. Quella ordinaria è più garantiste. Invece la disciplina speciale, regolamentata dal decreto legge 152/1991, lo è molto meno e riguarda diverse fattispecie delittuose. Nel regime ordinario l’autorizzazione all’ascolto è concessa quando vi sono “gravi indizi di reato” e l’intercettazione è “assolutamente indispensabile” per la prosecuzione delle indagini. In quello speciale basta che gli indizi siano “sufficienti” e le captazioni “necessarie”. Nel primo caso, sino a oggi, la durata non poteva essere superiore a 15 giorni, ma il giudice poteva prorogarla per tutto il tempo delle indagini preliminari (in alcuni casi fino a due anni). Per i reati del regime speciale la durata era - e rimane - di 40 giorni, che possono essere aumentati di altri 20 giorni e comunque proseguire fino alla fine delle indagini preliminari; inoltre, l’intercettazione può essere effettuata con virus informatico e, quando si tratta di criminalità organizzata, è consentita nel domicilio anche se non vi è motivo di ritenere che vi si stia svolgendo l’attività criminosa. Le novità - La nuova legge interviene solo sulla disciplina ordinaria. All’articolo 267, comma 3, del Codice di procedura penale viene previsto, in coda, che “le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a 45 giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Nei fatti, quindi, la durata iniziale delle intercettazioni “ordinarie”, che deve essere indicata nel decreto del Pm che le dispone dopo l’autorizzazione del Gip, resta di 15 giorni. Continua anche a essere possibile prorogare le operazioni, con decreto motivato, per periodi successivi di 15 giorni, ma viene fissato un limite complessivo di 45 giorni: per superarlo ora è richiesta una motivazione rafforzata. Il nuovo limite non si applica ai reati (anche tentati) per cui opera la disciplina speciale. Si tratta di: reati di criminalità organizzata, anche monosoggettivi (come l’omicidio) se aggravati dal metodo mafioso o di terrorismo; attività organizzate per il traffico di rifiuti o di stupefacenti; minacce telefoniche; reati informatici e contro l’inviolabilità dei segreti previsti dall’articolo 371-bis comma 4-bis del Codice di procedura penale; sequestro di persona a scopo di estorsione; delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni; reati contro la personalità individuale e in materia di prostituzione. Gli ordini del giorno - Durante l’esame in Aula alla Camera del disegno di legge, il Governo ha dato parere favorevole agli ordini del giorno che lo impegnano ad “adottare le opportune iniziative normative” per estendere il regime speciale delle intercettazioni (e quindi sottrarle in futuro al limite di 45 giorni) per i delitti di violenza sessuale e di genere, stalking, revenge porn e pedopornografia. Si tratta di un impegno per il futuro: per ora l’utilizzo delle intercettazioni nelle indagini per questi reati è soggetto ai nuovi limiti di durata e di motivazione rafforzata per le proroghe. Altri impegni riguardano le intercettazioni indirette: il Governo valuterà interventi che prevedano che per utilizzarle come prova debbano concorrere ulteriori elementi di prova che ne confermino l’attendibilità. Infine, il Governo si è impegnato a valutare eventuali interventi normativi volti a garantire la genuinità degli esiti delle intercettazioni e l’esclusione di alterazioni a opera di sistemi di intelligenza artificiale. Bracciali elettronici paradosso italiano: record di dispositivi ma controlli difficili di Manila Alfano Il Giornale, 31 marzo 2025 Oggi, anche grazie alla legge del 25 gennaio 2025, dopo mesi di allarmi e segnalazioni, sembra che la situazione sia in miglioramento. Tra le misure adottate per contrastare la violenza di genere, spesso si ricorre al braccialetto elettronico. Una soluzione che ha evidenziato criticità e difficoltà legate a problemi di malfunzionamento, scarsa reperibilità, e talvolta a manomissioni volontarie. Oggi, anche grazie alla legge del 25 gennaio 2025, dopo mesi di allarmi e segnalazioni, sembra che la situazione sia in miglioramento. “Il dispositivo non può essere la panacea di tutti i mali e bisogna capire come utilizzarlo meglio” spiega il magistrato Valerio de Gioia. Il legislatore e la società collegata al dispositivo, Fastweb, si sono attrezzati per il miglioramento. Il decreto legge di dicembre, che a gennaio è stato convertito in legge, ha stabilito che i braccialetti elettronici verranno disposti solo quando le condizioni lo permetteranno. Occorre cioè che ci sia la fattibilità tecnica oltre che la fattibilità operativa. Ma tutto questo sarà sufficiente? Introdotto in Italia a livello sperimentale nel 2001, nei primi anni venne utilizzato solo come uno strumento di controllo nel caso di persona condannata a scontare la pena nella propria abitazione. Il vero aumento arrivò nel 2019 con l’introduzione del codice rosso e cominciò a essere usato come strumento di contrasto alla violenza di genere e nel novembre del 2023 quando venne applicato anche alle persone accusate dei cosiddetti “reati spia” del femminicidio, come stalking e maltrattamenti. A dicembre del 2023 il numero di braccialetti attivi era 5.695, già decisamente in crescita rispetto ai 3.357 del 2022 e ai 2.808 del 2021. Alla fine del 2024 i braccialetti elettronici attivi in Italia erano 10.458, di cui 4.677 con funzione antistalking. In altri paesi il numero di braccialetti in uso è inferiore rispetto a quello che c’è in Italia, con una diversa gestione. In Francia i dati del ministero dell’Interno dicono che nel 2023 i braccialetti installati erano 963. Il monitoraggio, sia in Francia che in Spagna, viene affidato a centrali operative dedicate, private o pubbliche, attive 24 ore su 24 7 giorni su 7 con personale specificamente formato. In Italia non è stato creato un sistema nazionale. Sia il monitoraggio che l’intervento in caso di allarme sono affidati invece alle forze dell’ordine. In altri paesi europei le valutazioni per decidere se il braccialetto è idoneo vengono fatte dai magistrati affiancati da speciali commissioni o sulla base di una serie di analisi. In Italia è la polizia giudiziaria che verifica la copertura di rete e la distanza tra i due soggetti. Le forze dell’ordine verificano la fattibilità, valutano le persone coinvolte che devono collaborare attivamente, il loro contesto sociale, e poi i luoghi, le condizioni abitative, l’effettiva copertura del segnale. In passato è successo anche che il braccialetto venisse dato per difendere una donna senza fissa dimora e dunque impossibilitata a ricaricare l’apparecchio. Oggi, se l’aggressore vive per esempio a una distanza inferiore a quella necessaria per la sicurezza della vittima, il braccialetto viene escluso, così come viene escluso se le persone coinvolte vivono in determinati luoghi o aree geografiche dove il segnale è scarso. In attesa di Giustizia: comune senso del pudore di Manuel Sarno ilpattosociale.it, 31 marzo 2025 Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare: ho visto celebrare processi in videoconferenza e decidere la sorte di un uomo con la connessione intermittente che faceva capire una parola si e tre no, ho visto cancellerie chiuse con i funzionari a casa in smart working ma senza i computer criptati per lavorare e ho visto sentenze della Cassazione sostenere che un certificato medico presentato in udienza da un avvocato non vale nulla perché andava spedito via pec. Benvenuti nel meraviglioso mondo del processo penale telematico dove tutto è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione, un po’ come sostiene il Perozzi in Amici Miei riferendosi al genio. Solo che in questo caso di genialità non c’è nulla, anzi: serve fantasia per interpretare le circolari ministeriali, intuizione per capire come funziona il leviatanico portale di deposito atti, colpo d’occhio per scoprire gli uffici con all’interno un umanoide che sia ancora disposto a darvi retta e velocità di esecuzione per cogliere l’attimo in cui i sistemi informatici messi a disposizione da via Arenula sono miracolosamente funzionanti. In questo girone dantesco destinato agli inefficienti che è diventato il back office della giustizia penale la semplificazione che avrebbe dovuto portare ha, invece, fallito miseramente peggiorando le cose ed è ancora più facile imbattersi in forme particolari di mancanza di senso del pudore come nella sentenza della Cassazione che questa settimana offre amari spunti di riflessione. Accade che un avvocato, per ragioni di salute, non sia in grado di raggiungere Roma per discutere un processo proprio in Cassazione: come si è fatto per decenni chiede ad un collega la cortesia di andare a chiedere un rinvio per legittimo impedimento inviandogli via mail una copia di certificato medico; per completezza di informazione ricordiamo, anche a chi non è seguace di Davigo e Travaglio, che questi rinvii non valgono a raggiungere la prescrizione perché ne sospendono il corso. Risultato: la Suprema Eccellentissima Corte rigetta l’istanza e senza rispetto alcuno per il comune senso del pudore e con sprezzo del ridicolo scrive che la richiesta non può essere accolta perché: 1) il certificato medico è in fotocopia 2) perché doveva essere spedito alla cancelleria via pec. E così fu che il ricorso è stato trattato senza il difensore a discuterne le ragioni; questa decisione induce alcune riflessioni: la prima di queste attiene alla primazia che sembra doversi ormai riconoscersi alle macchine ed il vade retro ad un gentiluomo in toga soprattutto se per sostenere le proprie ragioni è munito solamente di una fotocopia…fotocopia che la pec (nell’eventualità remota che qualcuno la legga per tempo o non finisca nella spam a causa della presenza di un allegato sospetto) si direbbe in grado di trasformare miracolosamente in un originale così come la macchinetta della Lavazza sita nel corridoio della cancelleria inizi a mescere Barolo al posto del cappuccino. L’etimologia del termine giurisprudenza richiama ad un corretto governo del buon senso nella interpretazione della legge e, a tacer di questo, il codice prevede espressamente che vi possa essere deposito di atti e documenti in udienza e questa decisione non è priva dello sgradevole retrogusto del sospetto nei confronti di avvocati che si ammalano al momento più opportuno…ammesso che lo siano davvero. Vergogniamoci per loro che non sono in grado di farlo da soli. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto 60enne muore in carcere, sarebbe uscito fra 2 anni paesenews.it, 31 marzo 2025 Un 60enne di Sparanise, popoloso centro dell’Agro Caleno, è deceduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove si trovava per scontare una pena definitiva. Fra circa due anni avrebbe pagato il suo debito con la giustizia e sarebbe tornato in libertà. Al momento non si conosce l’identità dell’uomo. Secondo i primi riscontri sarebbe morto per le conseguenze di una grave malattia contro la quale da diverso tempo stava lottando. Milano. Ipm Beccaria, don Rigoldi: “Ragazzi troppo soli, mancano comunità di sostegno” di Lorenzo Garbarino chiesadimilano.it, 31 marzo 2025 Nel carcere minorile un nuovo incendio dopo una rivolta. Il cappellano emerito denuncia sovraffollamento, carenza di personale e assenza di alternative educative. Nel pomeriggio di lunedì 24 marzo è stato appiccato un incendio all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano. È la seconda rivolta in poco meno di due settimane: nella notte dello scorso 13 marzo c’è stato un primo incendio. Questa volta il fuoco si è propagato a seguito di un tentativo di rivolta da parte di alcuni detenuti, che hanno bruciato lenzuola e materassi. Due reclusi sono stati ricoverati al pronto soccorso per una lieve intossicazione da fumo. L’episodio è stato confermato da don Gino Rigoldi, cappellano emerito del Beccaria, presente nell’istituto al momento della rivolta: “Oggi un ragazzo è venuto a sapere che ci sarebbe stato un trasferimento e ha reagito dando fuoco al materasso e alle coperte, insieme ad altri ragazzi”. Don Rigoldi sottolinea come queste dinamiche siano in parte dovute al sovraffollamento carcerario. L’istituto ha una capienza di 70 posti, ma spesso alcuni spazi sono inagibili per via di lavori di manutenzione o danni causati da precedenti proteste. Secondo dati provvisori del ministero della Giustizia, al 15 marzo erano presenti 74 detenuti: 7 tra i 14 e 15 anni, 37 tra i 16 e 17, 29 tra i 18 e 20 e uno tra i 21 e 24. Il sovraffollamento è in parte una conseguenza del decreto Caivano, che ha abbassato da 9 a 6 anni la soglia di pena per applicare la custodia cautelare. Un ulteriore problema, segnala don Rigoldi, è la mancanza di alternative: “I tempi morti sono i momenti dove accadono i disastri. Purtroppo abbiamo solo due strumenti: il Beccaria e il carcere per adulti. La terza alternativa per molti è la strada. Mancano posti in comunità, non riusciamo a mandare fuori qualcuno a lavorare in articolo 21 o in formazione. I ragazzi sono troppi e abbiamo un bisogno enorme di comunità capaci di reggere i nostri giovani”. Le indagini sui maltrattamenti - Lo scorso anno il Beccaria è stato al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per presunti maltrattamenti da parte degli agenti. Ad aprile furono applicate misure cautelari a 13 agenti e ne furono sospesi altri 8. Attualmente è in servizio un nuovo comandante e, secondo don Rigoldi, sono stati inviati una trentina di nuovi agenti: “Sono tutti molto simpatici e intelligenti, ma hanno solo 23 anni, sono quasi coetanei dei reclusi e magari alla prima esperienza. E da più di un anno non c’è il direttore dell’istituto”. Il direttore, figura centrale negli istituti di pena minorile, è responsabile del coordinamento delle attività e della gestione del personale: “Abbiamo un bravissimo facente funzione - prosegue il sacerdote -, ma sa di essere provvisorio, come anche tutti gli altri. Al Beccaria serve un nuovo direttore, ma dubito che ciò accada”. L’attuale cappellano, don Claudio Burgio, aveva già dichiarato che il carcere non è la soluzione: “L’ambiente carcerario non riesce più ad affrontare le situazioni dei reclusi in contesti così sovraffollati e degradati. Molte carceri - non solo minorili - sono invivibili, al limite della dignità umana”. Don Rigoldi parla di ragazzi scossi, incapaci di gestire la frustrazione. Lo stesso don Burgio aveva descritto un disagio trasversale: dai minori stranieri non accompagnati ai ragazzi italiani, anche di buona famiglia. Alcuni presentano patologie incompatibili con la detenzione e molti fanno uso di stupefacenti. Monza. “Mi chiamo Michael, sono come te”. Il percorso di educazione tra pari di Cristina Bertolini Il Giorno, 31 marzo 2025 “Ciao, sono Michael e sono un detenuto come te”. Così, senza maschere, si presenta Michael, detenuto del carcere di Sanquirico, a cui la dottoressa Alessandra Arosio, giurista ed educatrice penitenziaria ha proposto di lavorare come “Peer educator” (secondo il progetto educativo promosso dal carcere di Monza, insieme alle imprese sociali Galdus e Energheia). È l’educatore tra pari, un vero lavoro, non retribuito, a cui Michael e Andrea hanno detto di sì. L’accoglienza dei detenuti nuovi arrivati, il loro inserimento in un percorso di rieducazione proposto dagli operatori del carcere incontra spesso diffidenza e ostilità, spiega Alessandra Arosio. Le stesse proposte, offerte dai pari, cioè da persone che sanno cosa significa la paura, l’incertezza e la noia della detenzione, suonano più credibili e rassicuranti. Michael e Andrea hanno avuto una formazione di base, poi hanno seguito un modulo formativo per la cura del verde, imparando a prendersi cura di qualcosa di diverso da sé, anche un fiore o una pianta bastano. Ecco il sostegno tra pari, per intercettare i reali bisogni dei compagni. I tutor tra pari svolgono tre azioni principali: l’accoglienza, il supporto dei già detenuti e l’affiancamento delle fragilità nel lavoro. “Senza un’attività non c’è sicurezza - chiarisce la giurista - perché le persone, con i loro pensieri, intenzioni e fragilità sono difficili da inquadrare da una persona sola. Ci si avvicina più facilmente in équipe, con un progetto condiviso. Siamo 8 educatori”. “Il sostegno tra pari nasce come dialogo tra compagni - spiega Michael - Io ho scelto di farlo, perché ho sempre avuto contatti con le persone. Ho lavorato come Pr e organizzatore di eventi. Noi siamo volontari, parliamo e tranquillizziamo i nuovi arrivati, spiegando che le procedure vanno svolte, ma che gli operatori delle istituzioni non sono “cattivi”, ma propongono un percorso per poter recuperare”. I pari aiutano a riempire i moduli per l’assistenza legale, i contatti con i famigliari e con l’avvocato e insegnano il valore della pazienza: in un momento di angoscia non è facile accettare l’idea che per fare una telefonata occorrano 15 giorni. “Io ho accettato di fare il “peer supporter” - racconta Andrea - perché ho capito che a me fa bene e quindi sono stato contento di aiutare gli altri e me stesso. Un confidente che ti mette a tuo agio”. Cagliari. “Galeghiotto”, il brand di formaggi prodotti dai detenuti nelle Colonie penali cagliaritoday.it, 31 marzo 2025 L’iniziativa mira a integrare i detenuti nella società, offrendo loro l’opportunità di sfruttare il periodo di detenzione in modo costruttivo. “Galeghiotto” mira a integrare i detenuti nella società, offrendo loro l’opportunità di sfruttare il periodo di detenzione in modo costruttivo. I detenuti sono coinvolti nell’intero ciclo produttivo lattiero-caseario, dalla cura del bestiame alla produzione di formaggi e altri prodotti a marchio “Galeghiotto”. Questo progetto non solo fornisce formazione professionale, ma consente anche ai detenuti di acquisire competenze utili per il loro reinserimento nella società. Il marchio “Galeghiotto” offre una vasta gamma di prodotti, tra cui formaggi pecorini, caprini, misti, stagionati e semi-stagionati, nonché insaccati, carne fresca, macelleria equina e olio. Questi prodotti, attualmente commercializzati solo in Sardegna, saranno presto disponibili sul mercato nazionale. Domenico Arena, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna, e il tecnico agrario Mauro Pusceddu hanno presentato il progetto al PalaCheese. Arena ha sottolineato l’importanza dell’esperienza pratica nel processo educativo e ha evidenziato i piani per espandere il progetto, aumentando il numero di detenuti coinvolti nelle colonie sarde di Isili, Is Arenas e Mamone. L’ultima giornata del festival è stata caratterizzata da numerosi eventi, tra cui l’allestimento di un pannello decorato con mezzelune di provolone, la preparazione di un maxi panino farcito con Provolone Auricchio e uno spettacolo di showcooking con la celebre chef Sonia Peronaci. “Formaggi & Sorrisi, Cheese & Friends Festival” è stato promosso dal Consorzio di Tutela Provolone Valpadana e dal Consorzio di Tutela Grana Padano, con il contributo e il patrocinio di diverse istituzioni e aziende del settore. Monza. La salute anche dentro una cella: “In carcere imparano a curarsi” di Cristina Bertolini Il Giorno, 31 marzo 2025 Al convegno dell’Ordine dei Medici l’esperienza di chi si occupa di detenuti e ne scopre patologie dimenticate. Patologie della bocca e dei denti; malattie infettive, psichiche, disturbi da utilizzo di sostanze stupefacenti e poi traumi osteorticolari dovuti a incidenti e storie di violenza. Sono alcune delle patologie che incontra il medico che lavora in carcere. Lo ha spiegato la dottoressa Elisabetta Chiesa, responsabile della Sanità penitenziaria alla Casa circondariale Sanquirico (diretta da Cosima Buccoliero), nel convegno, promosso dall’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della Provincia di Monza e della Brianza presieduto da Carlo Maria Teruzzi. “Sono responsabile del servizio da agosto 2021 - spiega la dottoressa - lavorare in carcere è un’esperienza sconvolgente e appassionante. È un ambiente molto complesso che un medico non immagina come prospettiva lavorativa”. Gli oltre 700 detenuti di Sanquirico provengono dai margini della società e spesso non hanno mai curato la propria salute. Il curante scopre malattie preesistenti, mai curate e silenti: malattie dermatologiche, respiratorie, cardiovascolari, gastrointestinali, scabbia e diabete. Il carcere, con tutte le sue limitazioni, diventa per molti la prima opportunità per venire a contatto con il Servizio sanitario nazionale. “Il medico - continua la dottoressa - è il primo operatore, subito dopo la polizia penitenziaria, con cui i detenuti vengono in contatto appena entrano. Sono spaventati, hanno in mente mille pensieri. Non interessano gli screenig per le malattie infettive, il 50% rifiuta il prelievo di sangue, per timore che il rilevamento di sostanze stupefacenti o alcol possa impattare sul verdetto del giudice. Abbiamo scoperto che un detenuto era sieropositivo solo due mesi dopo l’ingresso, durante una visita di routine. La prima visita è fondamentale, ma non sufficiente”. Le persone, nelle interminabii ore in cella, cominciano a preoccuparsi della propria salute e cercano il medico, invocando l’urgenza, anche solo per noia, per uscire dalla cella. Qualcuno, non assumendo più stupefacenti avverte il dolore di una carie o per un trauma osteoarticolare causato da una vecchia rissa. Il medico è presente al carcere di Monza lungo le 24 ore. L’assistenza è equiparabile a quella del territorio, anzi, anche più veloce. È supportata dal Servizio tossicodipendenza (Sert) e dal servizio psichiatrico 5 giorni alla settimana. È in corso lo screening per l’epatite C. Su 690 detenuti (età media 40 - 45 anni) ha aderito il 50%, con un tasso di positività del 7% (inferiore alla media nazionale della popolazione carceraria, che è il 9%). Prevale l’uso di sostanze e la patologia psichiatrica. La salute può essere motivo di sospensione della pena o misure alternative. Perciò alcuni sospendono eventuali terapie per aggravare le proprie condizioni e chiedere di uscre; alcuni sono autolesionisti a rischio suicidio; diffuso lo sciopero della fame per rivendicazioni o per ottenere benefici. Napoli. Il legno delle barche dei migranti diventa musica, a Secondigliano laboratorio di liuteria di Sara Finamore periferiamonews.org, 31 marzo 2025 Creare un’alternativa per chi è convinto di non averne: questo è ciò che rappresenta il laboratorio di creazione di strumenti musicali per alcuni detenuti all’interno del carcere di Secondigliano. Il laboratorio di liuteria è tenuto dal Maestro Vincenzo Romano, liutaio musicista dal 1993 che ha collaborato con svariati artisti del panorama italiano ed è parte integrante del progetto “Metamorfosi” della Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti” in collaborazione con la Cooperativa Sociale “L’uomo e il legno” attiva a Scampia; l’idea di punta è il riutilizzo di materiali di scarto per trasformarli in strumenti musicali unici, regalando loro così una nuova vita così come regala ai detenuti una speranza di sognare un futuro seguendo quest’antico mestiere. Abbiamo fatto qualche domanda al Maestro Romano che tiene il laboratorio nel penitenziario di Secondigliano. Com’è nato il progetto “Metamorfosi”? Questo progetto è stato ideato dalla Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti”, presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori e pone lo sguardo sul tema della migrazione attraverso appunto una metamorfosi: quella del legno delle barche dei migranti, trasportate dal molo Favaloro di Lampedusa in alcune carceri italiane, tra cui quella di Secondigliano e che viene trasformato così da persone detenute in strumenti musicali. Nel progetto sono coinvolti, in totale, i laboratori di liuteria delle carceri di Opera e di Secondigliano ed i laboratori di falegnameria nelle Case di Reclusione di Monza e Rebibbia. L’idea di prendere queste barche dei migranti e crearne degli oggetti, tra cui gli strumenti musicali, è un modo anche per testimoniare la sofferenza delle persone che partono dal loro Paese, spinte dalla forza della disperazione e che affrontano il mare su queste barche, che non sono quelle che noi abbiamo in mente, ma che hanno una struttura che costringe loro a viaggiare stese e con pochissimo spazio, una situazione impressionante. Con questo laboratorio, cerchiamo di creare un nuovo sbocco per i detenuti, che possono anche immaginare di imparare questo mestiere, lasciandosi alle spalle il proprio passato e trovare, in quest’arte, il loro modo di rivalersi su quanto commesso. Chi coordina il progetto all’interno del carcere di Secondigliano e come si svolge nel pratico? Il laboratorio di liuteria lo tengo io personalmente, grazie alla collaborazione con la Cooperativa “L’uomo e il legno” e mi coordino con i membri della Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti”, che avendo sede a Milano, scende qui di tanto in tanto. Dunque, per gli aspetti pratici sul posto, sono il referente e mi coordino con la Fondazione nella persona di Greta Corbella. Il laboratorio qui a Napoli è nato nel 2023 e partecipano attualmente 3 detenuti, ma avremmo piacere di allargarlo a più persone appena sarà possibile: le attività si svolgono 3 mattine a settimana e, durante le nostre lezioni, costruiamo strumenti in maniera artigianale, usando appunto ad esempio il legno delle barche dei migranti, aiutandoci con macchinari, tanta buona volontà ed entusiasmo. Ad oggi, in un anno e mezzo, abbiamo già costruito 3 chitarre classiche, 5 chitarre elettriche, un basso elettroacustico e stiamo cominciando la produzione di altre 3 chitarre classiche. Il progetto è formato interamente da persone che non avevano mai fatto questo mestiere, quindi, possiamo dire che stiamo raggiungendo degli ottimi risultati. Qualche riflessione sull’esperienza fino ad oggi: quali sono le cose che l’hanno più colpita e quali invece le difficoltà incontrate lungo questo percorso? Il primo giorno che ho messo piede nel laboratorio, ho notato che c’erano 3 banchi per 3 detenuti e gli ho subito detto di lavorare per arrivare a creare 3 chitarre. Sono rimasto sorpreso e profondamente colpito dal loro entusiasmo e dalla loro voglia di fare: infatti le nostre produzioni sono sempre a 3 alla volta, perché hanno da subito seguito le indicazioni e si sono messi all’opera, veramente con grande dedizione. Si sa che la realtà carceraria è difficile e sicuramente, avendo a che fare con la parte laboratoriale, non conosco nel dettaglio quanto vivono ogni giorno, ma la loro felicità nel frequentare il laboratorio è tangibile: arrivano addirittura in anticipo alle lezioni, perché è tanta la loro voglia di mettersi a disposizione per imparare e ci riescono, con le naturali difficoltà dovute alle mancate conoscenze sulla liuteria, ma non avrei mai immaginato un simile entusiasmo. Non ci sono state fino ad oggi molte difficoltà, se non quella di aiutare loro a conoscersi e a collaborare, perché ognuno ha una storia e un vissuto diverso: due ragazzi sono andati via e sono subentrati due che prima erano solo uditori, ma dopo un breve periodo di assestamento, si è creato un buon equilibrio del gruppo di lavoro. Il momento che porta nel cuore? Sicuramente, anche perché sono fan da sempre, l’incontro con Vasco Rossi. Abbiamo avuto modo di consegnargli una chitarra realizzata dai detenuti: è stata un’esperienza meravigliosa, perché è stato anche molto disponibile, una persona molto umana, al di là del personaggio che si conosce. Quali pensa che siano gli effetti di questo laboratorio nell’ottica della rieducazione carceraria? Mi sento di dire che i ragazzi si sono affidati in maniera cieca in questa impresa e vedo in loro una sorta di rinascita che lascia ben sperare per il loro futuro, ma soprattutto per il futuro di queste iniziative, che vanno sostenute sempre più e ancora più potenziate, perché possono avere una risonanza proprio sulla società. Qualcuno di loro mi parla di ciò che farà in futuro, finita la pena, e qualcuno sogna di fare questa professione. È importante far vedere loro che esiste un’alternativa non solo professionale, ma di vita: con loro spesso parliamo anche di dinamiche esterne e provo sempre ad inculcare loro la voglia di vedere il mondo con occhi diversi, perché il vero problema è la mancanza di visione di alternative, prima ancora di un’alternativa vera e propria. Senza quindi l’idea di offrire questa nuova visione, il carcere non assolve al suo scopo ultimo. Napoli. “Salute in carcere: un diritto negato?”, il Garante Ciambriello chiama alla riflessione corriereirpinia.it, 31 marzo 2025 Un convegno sulla “Salute in carcere: un diritto negato?” organizzato dal Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, d’intesa con l’Osservatorio regionale sulle condizioni delle persone private della libertà personale. È l’appuntamento in programma il 31 marzo, presso la sala “G. Siani” del Consiglio regionale della Campania, a partire dalle ore 9.30 fino alle ore 17.00. Il convegno avrà inizio con i saluti istituzionali del Presidente della Consiglio regionale della Campania Gennaro Oliviero dopodiché saranno previsti diversi interventi da parte di Magistrati di Sorveglianza, Consiglieri regionali, Direttori delle ASL, responsabili delle comunità per tossicodipendenti, garanti territoriali, avvocati, assistenti sociali, dirigenti sanitari, responsabili SerD Area penale. “Domani 31 marzo sarà l’occasione per accendere i riflettori sul tema della salute in carcere! Sono passati 17 anni dell’entrata in vigore del Dpcm per il trasferimento delle funzioni in materia di sanità penitenziari al servizio sanitario nazionale e il convegno rappresenterà un momento per riflettere sulle criticità e le buone pressi legate a questo cambiamento e per fare il focus insieme ad autorità locali e nazionali ed operatori del settore penitenziario sulle mancanze sanitarie e trattamentali, sul tema della salute mentale e della tossicodipendenza, e sulla necessità di una maggiore applicazione delle misure alternative al carcere. L’analisi dei dati inerenti all’anno 2024 ha fatto rilevare una serie di problematiche relative all’ assistenza sanitaria penitenziaria dovute alla carenza di risorse e personale sanitario. Preoccupanti sono i numeri che riguardano i detenuti con patologie psichiatriche e tossicodipendenti. Questa discussione servirà a prendere coscienza di questa grande tragedia esistenziale, che giace nel silenzio delle istituzioni. Troppo spesso i luoghi detentivi sono considerati una discarica di esseri umani, anziché luoghi di riabilitazione. In attuazione dell’art. 32 della Costituzione servono misure urgenti ed efficaci rispetto al diritto alla salute in carcere che è un diritto fondamentale”, così il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello. Il convegno ha il patrocinio dell’Ordine degli Assistenti sociali per la Campania che rilascia n. 5 crediti formativi e dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e di Napoli Nord che rilasciano n.6 crediti formativi. Roma. Appello ad Amazon: “I libri resi diventino risorse per i detenuti” di Fabio Falbo Il Tempo, 31 marzo 2025 I volumi danneggiati, invenduti o restituiti dal cliente al colosso dell’eCommerce potrebbero essere donati alla biblioteca del carcere che avrebbe così testi aggiornati. Online dal 1995, inizialmente specializzato nella vendita di libri, divenne la più grande libreria al mondo, per poi espandere le proprie attività in altre categorie merceologiche. Stiamo parlando di Amazon, il più grande eCommerce al mondo, un colosso da oltre 500miliardi di fatturato annuo. Oggi, se vogliamo comprare online, il primo nome che viene in mente è sempre Amazon, dove è possibile acquistare non solo prodotti, ma anche servizi e perfino automobili. Storica la collaborazione con Fiat, dove per la prima volta una piattaforma eCommerce letteralmente consegnava un’automobile alla stregua di un pacchetto di pochi grammi. Amazon è divenuta principalmente famosa per il suo servizio clienti. Qualsiasi sia il problema successivo all’acquisto, l’azienda rimborsa o sostituisce il prodotto senza batter ciglio, un tale livello di affidabilità da portare Amazon alla conquista della fiducia dei clienti. Nel tempo, abbiamo conosciuto Amazon per Alexa, l’assistente virtuale onnipresente, la FireTV che trasforma ogni in TV in Smart. Una mole di acquisti così importante e l’assoluta eccezionalità del servizio cliente, comporta un’inevitabile quantità di resi colossale. Così grande, da far nascere perfino aziende che rivendono i resi Amazon a peso, quasi fosse un sacchetto di frutta e verdura. L’idea: lanciamo un appello ad Amazon, affinché i resi, quali i libri, siano destinati alle biblioteche di Rebibbia. Una donazione che Amazon potrebbe considerare anche per i prodotti non esigibili alla vendita, perché parzialmente danneggiati o non conformi alle caratteristiche di qualità richieste dal colosso. Un gesto che sarebbe apprezzato da tutta la popolazione detenuta e permettere di aggiornare le vetuste biblioteche, dando una seconda vita a un libro. Chiediamo ad Amazon di salvare un libro per aiutare tutta quella popolazione detenuta che non ha le risorse economiche, ciò non solo rappresenterebbe un atto di umanità ma anche un grande gesto per la salvaguardia dell’ambiente. Amazon, aspettiamo tue notizie. Milano. “Io, fotografo di moda dopo 4 anni in carcere per spaccio” di Anna Gandolfi Corriere della Sera, 31 marzo 2025 Milanese di Città Studi, 30 anni: “Ero la pecora nera di una famiglia perbene, dopo il liceo cercavo i soldi facili e di notte facevo il writer. A Bollate ho preso in mano per la prima volta una macchina fotografica. Ma quando sono uscito di cella, nel 2023, avevo paura”. Le foto di Bianca Balti, oggi la più top delle top model (non solo per la moda). Quelle di Tony Effe con Giulia De Lellis all’outing da coppia. I Club Dogo. Anna Pepe alla festa per il lancio di un singolo. Youssef e Giovanni che tirano calci a un pallone. In comune gli scatti hanno l’autore. Però, nell’ultimo, lo sfondo non è glam: “Giocavano a calcio nell’aria di Bollate”. Adriano Grassi, in arte Adriano Alia (“il paesino siciliano della famiglia di mia madre”), ha trent’anni ed è milanese di Città Studi. La sua è una carriera che va di corsa. Bianca Balti — icona ben oltre il recinto del fashion anche per la poderosa reazione al cancro — è l’ultima in ordine di tempo ad averlo scritturato e ad aver ripostato le foto di Adriano facendogli fare il giro del mondo. “Il telefono suona in continuazione, l’agenda è piena: incredibile. Fino a qualche mese fa scattavo gratis, bastava farmi conoscere. La mia prima macchina l’ho presa in mano tre anni fa con un corso per detenuti. In carcere ho imparato a ritrarre anche chi non vuole farsi ritrarre, però sempre chiedendo il permesso”. Andiamo con ordine. Chi è Adriano Alia? “Ho studiato all’artistico di via Hajech a Brera. Pecora nera di una famiglia perbene, padre giornalista, madre stilista. Finito il liceo pensavo solo alla bella vita: discoteche, viaggi, ristoranti. Frequentavo giri sbagliati, mi sono messo a vendere marijuana perché vedevo soldi facili”. Il termine giusto è spaccio... “Anni buttati, tempo buttato, tutto sbagliato. Ero una testa calda, di notte facevo il writer. Mi sono iscritto al Politecnico, ho passato il test di design e non mi sono immatricolato. Nel 2014 sono partito per Lanzarote tentando di staccare dal vortice di Milano. Noleggiavo bici sul lungomare. Non è durata e sono tornato. Ho frequentato un corso da sarto e lanciato una linea di abbigliamento, tuttavia ci sono ricascato”. Come è finito in carcere? “Il 3 luglio 2019 ero nel negozio che gestivo con mio fratello in via Sighele ed è arrivata la polizia. Non ho fatto resistenza. Hanno trovato 5 chili di erba. Condanna per il codice 73 comma 4: spaccio, appunto. Arriveranno quattro anni e 10 mesi (poi me li sarei fatti tutti, senza sconti, la buona condotta non è il mio forte). Prima destinazione San Vittore: una settimana nelle celle dell’accoglienza, eravamo in tre più tanti scarafaggi. Caldissimo. Poi mi hanno inviato nel penalino, con i ragazzi fino a 25 anni: l’educatrice, Fiore, era eccezionale e in cella ho trovato un compagno delle elementari. Quasi quasi me la passavo bene, lontano dal capire ciò che avevo combinato. Finché non mi hanno mandato a Opera”. Perché il cambio? “La condanna era diventata definitiva. Il pullmino mi scarica davanti al cancello alto 10 metri e largo 10, in testa avevo racconti del 41 bis. Ero senza fiato. Terrorizzato. Opera è difficile, alle finestre trovi inferriate più reti: non vedi fuori. Le attività sono poche: ti alleni e giochi a carte. Per non impazzire mi sono iscritto all’università, beni culturali. Gli esami non li ho potuti dare: era arrivato il Covid”. Pandemia vissuta in prigione... “Routine stravolta, chiusi nelle celle, i contatti con le famiglie ridotti a una telefonata di 10 minuti alla settimana. È scoppiata la rivolta: temevamo di non rivedere più i nostri cari. La luce alla fine del tunnel non si vedeva”. Qui si è pentito della sua vita precedente? “Ero disperato. Avevo capito bene di avere sbagliato tutto in quegli anni vuoti”. Poi, però, è uscito... “Un magistrato lungimirante ha scelto l’affidamento al territorio. Dovevo stare a casa dei miei dalle 23 alle 6 mentre durante il giorno facevo due lavori: uno con la coop ZeroGrafica e uno nel negozio di vestiti di famiglia. Poi è successo di nuovo un pasticcio. A un’amica è stato trovato nella borsa un sacchetto con dell’erba. Accusato di essere coinvolto sono finito di nuovo a processo ed è saltato l’affidamento: torni in carcere. Era il 2021”. Ci dica com’è oggi la sua situazione con la giustizia. “In questo secondo processo sono stato assolto con formula piena. Per il primo ho pagato interamente il mio conto con la giustizia: sono libero”. Torniamo al 2021. Quindi rientra a Opera? “Stavolta a Bollate. Racconto la mia storia per dire: quel carcere è gestito in modo davvero efficiente, il direttore Giorgio Leggieri fa un lavoro immenso. Puoi costruirti una seconda opportunità. All’interno ho iniziato a lavorare come grafico”. Quando entra in scena la fotografia? “Si presentano Diego Sileo, direttore del Padiglione di arte contemporanea di Milano, e il fotografo Amedeo Novelli, ambasciatore di Sony. Il Pac e la onlus Ri-scatti lanciavano un corso di fotografia tra i detenuti sostenuto da Comune di Milano, Tod’s e lo studio legale Lca. Mi sono candidato”. Racconti... “Eravamo dieci (gruppi analoghi partivano a Opera, San Vittore e Beccaria) ci hanno dato una macchinetta digitale: potevamo fotografare tutto ciò che volevamo fino alle tre del pomeriggio”. Anche cose che non si sarebbero dovute vedere? “Qualche problemino sì, è entrato nell’obiettivo. Era una cosa rivoluzionaria, se ci pensate. Dieci detenuti con la macchina fotografica liberi di girare. Non è mai stato cancellato nulla: c’era ovviamente un processo di condivisione. Ciò che è uscito all’esterno aveva la liberatoria, nelle mie immagini ci sono soprattutto i miei amici (anche Vallanzasca, che era lì: parlavamo, il Covid l’ha provato tantissimo). Il 18 febbraio 2022, il mio compleanno, ho scattato la prima di migliaia di foto”. Giovanni e Youssef che giocano a calcio. Davvero bella... “Sileo e Novelli mi hanno riempito di complimenti e ho pensato: so fare qualcosa! Dal percorso è nata una mostra, una cosa grossa per Milano. La foto del manifesto, vista in tutta la città, era mia. Tra le celle ho imparato a scattare veloce, a chiedere “posso?” anche a chi non aveva nessuna voglia di finire nell’obiettivo, a cercare foto non costruite. Finito il corso mi sono proposto come fotografo del giornale interno carteBollate, curato da Susanna Ripamonti. Ce l’ho fatta. Ero orgogliosissimo: Bollate è un carcere molto aperto, si fa teatro, arrivano i politici. Potevo darmi da fare quasi 24 ore su ventiquattro. Da carcerato ho immortalato l’allora ministra Cartabia in visita e l’immagine è diventata quella ufficiale”. Quando è uscito? “Fine pena 18 agosto 2023. Assurdo: avevo paura. Mi chiedevo: adesso cosa faccio? Dico grazie una volta di più alla mia famiglia e agli amici d’infanzia. Sono loro ad avermi detto: sai fare le foto? Vai avanti! Io non ci credevo tanto, cazzeggiavo. Mi hanno portato a comprare la prima macchina solo mia: ho scelto un’analogica, perché “digitali le fanno tutti”. Resta la mia tecnica: uso il rullino, bisogna aspettare lo sviluppo”. Non proprio l’ideale per le celebrità che sui social postano istantaneamente. Come ha fatto ad arrivare in quell’ambiente? “Sulla tecnica, dico questo: le foto particolari attirano, c’è un po’ di suspence. Poi anche io, se richiesto, lavoro in digitale”. Sì, ma il giro come se l’è fatto? “Stavo tutto il giorno a fotografare nel negozio di tatuaggi dei miei amici, Zano e Andrea. Satattt, in porta Venezia, è una realtà importante: passano artisti, gente dello spettacolo, addetti ai lavori. Hanno iniziato a invitarmi ai release party, legati ai lanci degli album. Io mi vergognavo, ma i miei amici raccontavano la storia: si è fatto il carcere! In quell’ambiente non ti scansano, diventi piuttosto oggetto di qualche curiosità. Così sono andato avanti a testa bassa: non avevo contratti, scattavo gratis, come tra amici, sperando che qualcuno notasse il mio lavoro. La prima è stata Anna Pepe: ha rilanciato un ritratto e, con i suoi 3 milioni di follower, fatto conoscere il mio profilo Instagram, che è il mio portfolio”. Nel frattempo come si manteneva? “A Bollate lavoravo come grafico, dunque avevo uno stipendio, e spendevo pochissimo. Così mi sono trovato con da parte un po’ di soldi e li ho investiti per darmi un periodo in cui fare pratica: ritraevo di tutto - paesaggi, mobili, persone - sette giorni su sette. Conoscevo Bresh, Tedua, li seguivo. Ero a Roma per uno show di Tedua e ho incontrato il manager di Tony Effe, Gianmarco Barbieri, che poi mi richiama a settembre: ritrai tu Tony a Verona? Nel van arriva Giulia De Lellis. Sarebbero stati i primi scatti della coppia, su cui impazzava il gossip”. Non era un nome sulla breccia. Secondo lei perché l’hanno scelta? “Penso sapessero di potersi fidare. Non avrei venduto lo scoop. Tony ha postato le mie foto sui social, le hanno riprese tutti i media. La beffa: nessuno metteva il credit. Allora ho telefonato alle redazioni: non voglio soldi, però mi firmate lo scatto? Siccome non avevo un contratto era difficile. Tony mi ha richiamato per la cover web su Vanity Fair del 27 settembre, lì ho aperto la partita iva. Poi ci sono stati altri servizi: Andrea Ferrara (Sixpm, producer marito di Rose Villain) mi ha ingaggiato per un servizio su l’Officiel. Iniziavo a mantenermi come fotografo”. Come incontra Bianca Balti? “A Sanremo. La incrocio che esce da un ristorante. “Bianca posso farti una foto?”. Qualche giorno dopo mi sveglio: Bianca Balti ti segue su Instagram. Non ci potevo credere, mi sono fatto coraggio e le ho scritto. Lei ha risposto subito”. Lei in persona? “Lei, lei. Mi ha messo in contatto con la sua manager: sarebbe stata a Milano per la Fashion Week e ha proposto di farle dei ritratti. Ero tesissimo. Mi dicevo: non sono nessuno e una foto a Bianca Balti sarà ovunque e se sbaglio è la fine”. Non ha sbagliato… “Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme ho pensato: con gli amici degli amici è un conto, ma adesso devo spiegare a una top model che il corso di fotografia l’ho fatto in prigione. Che sono stato in galera”. E? “Non ha fatto una piega, era curiosa. È fantastica. Mi ha contattato per seguirla a marzo anche a Parigi, per le sfilate di Valentino: ho avuto il badge di fotografo accreditato (anche queste immagini, grazie al repost della top model con molti cuoricini, sono diventate virali). Ora la mia agenda è piena, mi chiamano per la Design Week, devo rinunciare agli ingaggi perché sono troppi. Se ripenso al carcere, ai miei compagni lì che se posso risento, mi devo ripetere: non è fantascienza! È un lavoro. Il mio. È la mia seconda enorme opportunità”. Televisione. “Ragazzi fuori”, gli adolescenti e le nuove frontiere del cyberbullismo Il Domani, 31 marzo 2025 Riccardo Iacona esplora il fenomeno del disagio giovanile e della violenza minorile su Rai Play. Il viaggio di PresaDiretta parte dalla Campania, tra Napoli e l’hinterland, raccogliendo le testimonianze di genitori, operatori e forze dell’ordine, in un contesto segnato da dolore e difficoltà. La seconda tappa ci porta dentro gli istituti di pena minorili, dove da mesi si susseguono rivolte. Dai centri di detenzione di Nisida (Napoli) e Cesare Beccaria (Milano) emerge un quadro preoccupante: il sistema carcerario minorile è al limite. A oltre un anno dall’approvazione del decreto Caivano, nato per contrastare criminalità e baby gang, restano aperti molti interrogativi. L’Intelligenza artificiale ci sta portando in una nuova dimensione della tecnologia, ma anche in una nuova frontiera del cyberbullismo. Il successo delle applicazioni che nudificano e distorcono immagini anche innocenti dimostra quanto sia diffuso e accessibile per i ragazzi l’operazione di manipolazione della realtà. Si moltiplicano i casi in cui ragazzini tramite applicazioni basate sull’Ia spogliano altre ragazzine e condividono queste immagini sempre più simili al reale nelle chat e sui social network. Immagini che una volta condivise girano inarrestabili nel web, persino quello più oscuro. Presadiretta ha raccolto la testimonianza di una ragazza di 14 anni vittima di un compagno di classe. Le sue foto prese dai profili social, o rubate durante le ore di lezione, sono circolate tra i compagni della scuola, fino ad arrivare ai gruppi pedopornografici di Telegram. Con le sue telecamere PresaDiretta è entrata nel carcere per minori di Nisida a Napoli e nel Cesare Beccaria a Milano, ha incontrato i giovani, gli operatori e le forze dell’ordine tra dolore, malessere e riscatto. E poi ancora i più fragili, quelli presi di mira dai bulli, sul web e non solo, quelli che non riescono più a sopportare di vivere. In un sistema carcerario minorile già provato, quali sono gli effetti del decreto Caivano, approvato più di un anno fa per contrastare criminalità e baby gang? Secondo l’associazione Antigone, 12 strutture su 17 sono in sovraffollamento. Mai così tanti minorenni dietro le sbarre, mentre sulle comunità di rieducazione pesano tagli e ridimensionamenti. Il tema è stato affrontato nella puntata di PresaDiretta insieme a Elisa Giomi, commissaria AgCom e docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università Roma Tre. Ragazzi fuori è un racconto di Riccardo Iacona e Maria Cristina De Ritis con Cecilia Carpio, Daniela Cipolloni, Teresa Paoli, Paola Vecchia, Emilia Zazza, Fabio Colazzo e Paolo Martino. La puntata è visionabile a questo link: https://www.raiplay.it/video/2025/03/Ragazzi-fuori---PresaDiretta---Puntata-del-30032025-6449ee09-ca9d-4eab-b961-9a5a3a31395c.html?wt_mc=2.www.cpy.raiplay_vid_Presadiretta Teatro. A Roma ex detenute in scena davanti ai magistrati di Fulvio Fulvi Avvenire, 31 marzo 2025 In Corte di Cassazione gli spettacoli teatrali di due compagnie nate nel carcere di Rebibbia e un convegno sul valore della pena e la rieducazione del condannato. Una compagnia di attrici ex detenute, “Le donne del Muro Alto”, reciterà davanti ai magistrati della Cassazione e a un pubblico qualificato di giuristi. Lo spettacolo si intitola Olympe ed è la storia degli ultimi giorni in carcere di Olympe de Gouges (1748-1793), sostenitrice durante la Rivoluzione francese dei diritti delle donne, ma anche dei neri, degli orfani, degli anziani, dei disoccupati, dei poveri, sulla scena si ricostruiranno il suo processo e la condanna a morte tramite ghigliottina. L’appuntamento è martedì 1° aprile nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Roma alle ore 11. L’iniziativa è del Comitato Pari Opportunità della Suprema Corte che ha organizzato “Si va in scena!”, una giornata di riflessione sull’articolo 27 della Costituzione, quello che al comma 3 afferma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ed è proprio su questo terreno che si gioca la scommessa del teatro praticato all’interno dei penitenziari attraverso l’allestimento di spettacoli o laboratori di recitazione, scenografia, sartoria, drammaturgia, cioè il teatro come opportunità di redenzione e reinserimento sociale, e in alcuni casi anche lavorativo, delle persone che scontano una misura detentiva. Sono 83, in Italia, le compagnie impegnate in progetti del genere con reclusi o ex reclusi e i risultati sono quasi sempre positivi: chi impara a memoria un copione e poi si cimenta in un ruolo insieme ad altri, seguendo una guida e rispettando delle regole, mettendosi di fronte a un pubblico, conosce meglio se stesso e la realtà, ricostruisce la propria identità. Dopo una tavola rotonda sul significato della “rieducazione del condannato” e la sua effettiva attuazione nelle strutture detentive italiane al “Palazzaccio” di rione Prati si svolgerà un altro capitolo dell’evento: nel pomeriggio saranno i detenuti del Teatro Libero di Rebibbia a mettere in scena Cesare ‘addamorì!, spettacolo adattato e diretto da Fabio Cavalli, con gli attori di Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 2012, di cui il regista della piéce è stato sceneggiatore: nel tempio del diritto e della Giustizia italiana riecheggeranno i versi di Shakespeare e si potrà meditare anche sulle testimonianze di chi vive le sue giornate dietro le sbarre. “Ma qui risuoneranno con maggiore forza pure le parole di giustizia e uguaglianza pronunciate da Olympe de Gouges che si intrecciano con quelle delle nostre attrici, ex detenute del sistema penitenziario moderno - commenta Francesca Tricarico, regista e ideatrice del progetto Donne del Muro Alto - e sono molti i richiami all’attualità che rendono, purtroppo, la sua triste storia ancora oggi vicina a noi”. “Le donne che saliranno sul palco sono la testimonianza viva, la prova tangibile, di come il teatro sia uno strumento di inclusione e di applicazione concreta dell’articolo 27 - spiega la regista e drammaturga -, perché tutte loro hanno alle spalle un percorso detentivo preceduto da storie di violenze e di fiducia tradita, esperienze di povertà e di famiglie divise, ma hanno ritrovato nel teatro la loro dimensione umana, sociale e lavorativa, perché vengono pagate per fare le attrici, e non è una cosa banale, il nostro è un lavoro e non sfruttamento, la compagnia fa spettacoli nelle scuole e tournée nelle carceri, il teatro fa bene a queste ragazze che adesso non hanno più paura della verità e del giudizio degli altri, ma la loro testimonianza fa ancora più bene alla società civile perché pone domande necessarie: il teatro in questo caso, quando viene fatto con professionalità, è come una lente di ingrandimento del carcere e il carcere è ciò che accade fuori ma all’ennesima potenza”. Sono una ventina le “ragazze” di tutte le impegnate quotidianamente nella compagnia teatrale nata all’interno della sezione femminile di Rebibbia. E continuano a “metterci la faccia” anche adesso che sono libere, per favorire il dialogo e annullare i confini tra “dentro” e “fuori”. Compito non facile. La loro avventura umana e professionale è cominciata con un patto di fiducia con la direttrice del corso di formazione al teatro al quale hanno partecipato. “È un patto imprescindibile, le ragazze mi hanno affidato la loro parte emotiva e mi commuovo ogni volta a pensarci - commenta Francesca Tricarico -, mi hanno fatto capire che ognuno di noi è molto più di quello che crede di essere, come è accaduto a Teresa che mi diceva di non saper leggere perché semianalfabeta, di non capire le cose, di non essere capace di recitare e invece ha dimostrato proprio il contrario, si è impegnata e ha scoperto una parte profonda di sé che non conosceva, arrivando a interpretare persino un ruolo da co-protagonista di uno spettacolo”. Chi sono Le Donne del Muro Alto lo spiega Bruna Arcieri, l’Olympe che si racconterà davanti ai magistrati senza timore: “Abbiamo l’impressione che nonostante siano trascorsi oltre duecento anni da quel fatto, poco sia davvero cambiato perché molti diritti non sono ancora stati applicati e noi anche martedì vogliamo dare un messaggio forte a chi è chiamato ad applicare le leggi”. È una donna coraggiosa, Bruna, che oggi, scontata la pena in carcere, fa l’impiegata nella segreteria studenti dell’Università La Sapienza e continua a fare l’attrice sotto la guida di Francesca: “A Rebibbia le giornate non finivano mai e ho frequentato il laboratorio teatrale solo per fare passare il tempo, poi il lavoro che si faceva ha cominciato a scavarmi l’anima, ho capito che si può evadere con la mente, sentirsi protetti dal testo che si deve interpretare, ho imparato quanto sia democratico il teatro, perché scavalca ogni diversità e oggi per me questo lavoro è diventato una missione: sconfiggere i pregiudizi, favorire l’inclusione”. Nella trappola dei social: in Italia mezzo milione di giovani ne è dipendente di Paolo Russo La Stampa, 31 marzo 2025 Dalle relazioni virtuali che già creano problemi nel rapportarsi al mondo reale all’isolamento in una bolla. Che è poi l’anticamera, non solo della depressione, ma della difficoltà a gestire emozioni e rabbia, oltre che dell’intolleranza verso ciò che è “altro” rispetto ai modelli che i “social” ci impongono. Un male oscuro che colpisce non più solo la nostra gioventù, ma ancor prima l’adolescenza, come racconta la serie del momento: “Adolescence”. La svolta ha origine con TikTok. “Se devo indicare una piattaforma più insidiosa di altre rispetto al rischio di depressione e disturbi alimentari allora indico questa”, afferma la psicoterapeuta Laura Dalla Ragione, consulente del ministero della Salute per i disturbi alimentari, che spesso ha origine dai social. TikTok è cresciuta così velocemente che Instagram e Facebook stanno facendo di tutto per copiare la sua ricetta del successo. Che consiste in una vera rivoluzione, perché se i primi arrivati hanno puntato sula creazione di una comunità, con tutti i rischi e i benefici che questo comporta, TikTok spinge i suoi utenti verso una bolla. Questo grazie ai suoi algoritmi top secret, che con maggiore velocità rispetto al passato non propongono più video e contenuti da condividere con gli “amici”, bensì solo quelli adatti ai miei gusti personali. “Così nessuno sa più chi vede cosa. Con tutte le conseguenze che questo comporta, ossia il senso di solitudine e il moltiplicare all’infinito i problemi che ciascuno si porta dentro”, afferma l’esperta. Che il problema della dipendenza da social in genere sia serio lo dimostra il fatto che la Florida li ha messi al bando per chi ha meno di 16 anni mentre New York è stata la prima città a dichiarare i social media un pericolo per la salute, soprattutto mentale. “Dannosi per i ragazzi come il fumo e le armi”, ha rincarato la dose il sindaco Eric Adams. Il problema è che si sta abbassando paurosamente l’età in cui si comincia a restare imbrigliati nella Rete. “Il 33% dei bambini italiani di età compresa tra i 5 e i 7 anni usa i social e ha un proprio profilo, anche se l’età minima per iscriversi sarebbe 14 anni”, rivela Giuseppe Lavenia, presidente dell’Associazione nazionale delle dipendenze tecnologiche. Già a quell’età infatti il 28% possiede uno smartphone, l’83% usa un tablet e il 23% un laptop, il 74% guarda Tv o film sui device, il 93% utilizza piattaforme di videosharing e il 59% siti o app di messaggistica. “Prima approcciavamo gli adulti, poi gli adolescenti, ora i bambini appena nati perché - afferma Lavenia - non c’è salute senza salute mentale e non c’è salute mentale senza benessere digitale: un bimbo esposto per un’ora e mezzo al giorno davanti ad uno schermo ha il 35% di probabilità di sviluppare disturbi di socialità a 5 anni e rischia 10 volte di più di andare incontro a disturbi di attenzione a 7 anni. Nei loro primi 1000 giorni di vita ci giochiamo il loro sviluppo cognitivo e non è un caso se continuano a crescere deficit di attenzione, iper-emotività e anche difficoltà da più grandi a gestire momenti di frustrazione, come ad esempio l’essere lasciati dal partner”. L’indagine più completa sui danni da social network l’ha però condotta il prestigioso Royal Society for Public Healt britannico. A soffrire di dipendenza dai social sarebbe ormai il 5% della popolazione giovanile, in particolare quella tra i 16 e i 24 anni che sta più attaccata a Instagram, TikTok e altri utilizzati dal 91% di loro. Detta così potrebbe fare poco effetto, ma guardando all’Italia sono oltre mezzo milione i ragazzi e adolescenti con la mente intrappolata nella Rete. Ma per subire danni non c’è bisogno di entrare in uno stadio di dipendenza, perché basta superare le due ore al giorno su social come Facebook, X o Instagram “per avere maggiori probabilità di avere una cattiva salute mentale”, in particolare ansia e depressione. Disturbi seri, dei quali secondo i ricercatori britannici soffrirà un giovane su sei nel corso della vita. E il problema è che il disagio psichico rischia di rimanere sommerso, dato che la stessa ricerca evidenzia come trascorrere parecchie ore sui social comporti anche “avere una scarsa autovalutazione della propria salute mentale”, nonostante la presenza di un disagio psicologico che gli esperti hanno già etichettato come “depressione da Facebook”. Per non parlare del fenomeno in crescita del cyberbullismo, subìto oramai sui social da 7 giovani su 10, il 37% in misura elevata. E come in un circuito perverso, i cyberbullizzati sono poi quelli con maggiori probabilità di avere un basso rendimento scolastico, depressione, ansia, autolesionismo e disturbi alimentari. Tra i boomers è difficile trovare chi sappia cosa significhi, ma tra i giovani social l’acronimo inglese FoMO, che sta per “paura di essere esclusi”, è un termine di moda che nasconde quell’ansia sociale che non fa staccare i ragazzi dalla Rete per paura di perdere un evento, come un concerto o la festa cool di qualche amico. Una condizione che genera poi ansietà e senso di inadeguatezza. Anticamere del disagio mentale. Poi ci sarebbe il lato buono della medaglia. Quello che fa dire a quasi sette adolescenti su dieci di aver ricevuto un supporto dai social nei momenti difficili o la capacità che le piattaforme hanno di creare o mantenere delle relazioni. “Ma anche qui non è tutto oro quello che luccica, perché un conto è relazionarsi con gli altri sui social partendo da un imprinting relazionale reale, altra cosa, come avviene per larga parte dei ragazzi digitalizzati dalla nascita, è aver imparato a rapportarsi con gli altri virtualmente. Infatti tra tanti adolescenti che seguo ritrovo una dissociazione emotiva e l’inadeguatezza al dialogo e al contatto”, spiega Francesca Annunziata, psicoterapeuta che a Roma ha in carico da anni giovani e giovanissimi. Lati positivi e negativi. Molto dipende comunque dall’uso che se ne fa. Aspetti sufficienti per la Royal Society a stilare una classifica dei migliori e peggiori social network, considerando cose come ansia, depressione, cyberbullismo, insonnia, immagine corporea e FoMO da un lato e supporto emotivo, costruzione di una comunità o relazioni nel mondo reale dall’altro. Alla fine sul gradino più alto del podio, con gli aspetti positivi che prevalgono su quelli negativi è salito Youtube. Poi il segno meno inizia a prevalere sia pur di poco con X e le cose vanno ancora peggio con Facebook, mentre Snapchat e Instagram si collocano al 4° e 5° posto. E ancora peggio per i ricercatori italiani vanno i più recenti Telegram e TikTok. Il primo per l’ambivalenza insita nel nascondere le identità di chi frequenta le sue stanze, il secondo per gli algoritmi che chiudono in se stesso chi lo frequenta. Esasperando i problemi esistenti perché alla fine il business delle visualizzazioni, con i suoi 270 miliardi di valore stimati negli Usa, vale più della salute mentale dei nostri ragazzi. Quadro normativo e tutele mancanti: perché proteggere i minori dalla rete è una vera priorità di Federica Santinon* Il Dubbio, 31 marzo 2025 Secondo uno studio del Ministero delle Imprese, sette ragazzi su dieci usano regolarmente social media e piattaforme streaming. Quattro intervistati su dieci raccontano esperienze negative gravi e ripetute. Il momento storico in cui viviamo impone una riflessione sui rischi e i pericoli per i minori connessi in generale alla sfera del mondo virtuale. Citando “Guerre Stellari” è tanto facile cedere al lato oscuro, in questo caso del web e dei social soprattutto per i minori che non hanno uno scudo psicologico forte per reggere adeguatamente. In Italia non c’è ancora una norma specifica e sono state presentate alla Camera dei Deputati ben quattro diverse proposte di legge, volte a tutelare, sotto diversi profili, i minori di età dall’utilizzo e della diffusione su canali multimediali di contenuti digitali che li riguardano (n. 1771/2024; n. 1800/2024; n. 1863/2024; n. 1217/2024). Quindi il legislatore ha compreso la necessità di un intervento normativo a protezione dei minori e della loro identità digitale. Nel nostro Paese, vigono diverse disposizioni di rango costituzionale, nonché di rango primario e secondario, da cui possono trarsi principi volti alla tutela dei minori online: l’articolo 31 della Costituzione, il quale prevede che la Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo; l’articolo 37 della Costituzione, il quale reca principi di tutela del lavoro minorile; la legge n. 977 del 1967 (e successive integrazioni e modificazioni), la quale stabilisce i principi fondamentali per la tutela del lavoro minorile, ponendo limiti di età minima per l’occupazione e l’orario di lavoro, definendo le misure di sicurezza e, più in generale, condizioni di lavoro adeguate per i giovani lavoratori; Il Codice della protezione dei dati personali, di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 che - in linea con il regolamento europeo sulla protezione dei dati (Gdpr) - considera l’immagine fotografica dei minori un dato personale, e, pertanto, la sua diffusione risulta un’interferenza nella vita privata; il decreto legislativo n. 208 del 2021 recante il Testo Unico sui servizi di media audiovisivi (cd. Tusma), così come modificato dal decreto legislativo n. 50 del 2024, il quale ha introdotto ulteriori misure per la protezione dei minori dai pericoli legati all’ambito digitale, anche attraverso la rimozione di contenuti nocivi per i minori, e l’individuazione delle Video Sharing Platforms quali nuovi soggetti sottoposti a obblighi normativi, anche in termini di co-regolamentazione, con una particolare attenzione alla tutela dei minori; il decreto del Ministro delle comunicazioni n. 218 del 2006, che reca la disciplina sull’impiego di minori di quattordici anni in programmi televisivi. Ma non basta: l’evoluzione digitale incombe ed è velocissima. Vale la pena sottolineare che tali principi di tutela previsti dall’ordinamento nazionale italiano rientrano in un più ampio quadro di garanzie internazionali sulla protezione dei dati personali dei minori online, quali: la Convenzione dell’Assemblea generale della Nazioni Unite (Onu) sui diritti dell’infanzia, approvata a New York nel 1989, i cui art. 1 e 16 dispongono una serie di tutele per la protezione della vita privata dei minori e della loro reputazione; il regolamento europeo sulla protezione dei dati (Gdpr), il cui considerando 38 recita che “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali”. Le proposte di legge in itinere mirano tutte ad affrontare la complessa tematica generale del rapporto dei minori con Internet e con i social media. Tale tematica presenta diversi aspetti tra loro connessi e affrontati con approcci diversi sia per estensione della disciplina proposta, sia per le soluzioni normative prospettate. In particolare, è possibile distinguere due filoni normativi proposti, avendo anche riguardo ai rischi per la salute psico-fisica del minore: la disciplina dell’età minima a partire dalla quale è consentito al minore l’accesso a determinati contenuti online e, nello specifico, ai servizi della società dell’informazione; l’utilizzo dell’immagine dei minori sui social media, per finalità di lucro, ludiche o relazionali. L’auspicio è che la norma venga approvata quanto prima, è indispensabile una tutela normativa per i minori. Secondo i dati riportati da Save the Children, tra il 2021 e il 2022 il 73% dei minori (tra i 6 e i 17 anni) ha dichiarato di connettersi a Internet quotidianamente. L’esposizione ad Internet è legata all’utilizzo di piattaforme di social media (soprattutto Instagram, TikTok e Snapchat ora anche reddit), sistemi di messaggistica istantanea (es. Whatsapp), visione di video (es. YouTube). Uno studio molto interessante e pubblicato a febbraio 2024, promosso dal Ministero delle Imprese e Made in Italy ha rilevato che sette ragazzi su dieci usano regolarmente i social media e le piattaforme streaming. In particolare, lo studio analizza gli eventi critici circa i rischi della rete per i minori. Nello specifico, 4 intervistati su 10 raccontano esperienze negative gravi e ripetute (il 42 per cento dei minori e il 53 per cento degli adolescenti dai 13 anni). La maggioranza degli intervistati ha visto contenuti molto inadatti per l’età almeno una volta nelle piattaforme in rete. L’accesso ad Internet da parte dei minori comporta una serie di gravissimi rischi quali, ad esempio: dipendenze da Internet, che include comportamenti online problematici con ripercussioni anche sullo svolgimento di attività scolastiche e sui rapporti affettivi; esposizione a fenomeni di cyberbullismo e, in generale, a contenuti violenti o inadatti online (si pensi per esempio all’effetto emulativo che si realizza su alcune piattaforme, anche a opera delle cosiddette baby gang); rischi legati alla privacy dei minori, in quanto le informazioni raccolte possono essere poi processate e utilizzate per orientare i consumi e nei casi più gravi, ma purtroppo frequenti possono essere riutilizzate per la produzione di materiale pedopornografico. Sono in costante aumento i cyber-attacchi rivolti a minori online attraverso utilizzo di brand da loro preferiti. Sempre con riguardo al più ampio tema dell’esposizione dei minori ai rischi dell’ambiente digitale, vale la pena segnalare che, secondo i dati Istat, nello scorso decennio il numero dei reati relativi alla pedo-pornografia è incrementato in modo costante. L’altra faccia poi dell’accesso ad Internet da parte dei minori e, in particolare, delle piattaforme di social media, riguarda due fenomeni tra loro distinti ma connessi, che hanno significative implicazioni sulla privacy, la sicurezza e, più in generale, sul benessere dei minori in particolare si è assistito anche all’aumento di disturbi legati all’alimentazione. Si tratta dei cosiddetti “baby influencers” e dello sharenting, che comportano l’impiego di minori nell’ambito di piattaforme digitali di condivisione dei contenuti multimediali (social media, piattaforme video) per finalità di lucro - nel primo caso - e ludico-relazionali - nel secondo. In particolare, con il termine “baby influencer” si fa riferimento al fenomeno dei minori che, grazie alla fama raggiunta sul web, riescono a generare profitti promuovendo prodotti o servizi sui canali social. La promozione viene, quindi, effettuata attraverso la pubblicazione di contenuti a pagamento sulle piattaforme digitali di condivisione utilizzando i profili social dei genitori o pagine create appositamente per i bambini. Tale pratica, ormai in larghissima diffusione, porta con sé il rischio di esporre i minori a pressioni significative, a essere destinatari di critiche e, con sempre maggiore frequenza, vittime di bullismo da parte di altri utenti dei social, con conseguenze negative per la loro identità fisica e digitale nonché psicologica oltre a minare l’autostima. Tali rischi non vengono a mio avviso adeguatamente considerati dai genitori. Inoltre, i minori non hanno alcuna tutela, nemmeno dal punto di vista psicologico, lavorativo ed economico, in quanto i guadagni sono spesso gestiti in autonomia dai medesimi genitori. La presenza dei cosiddetti “baby influencer” sui social è un puzzle complesso, le cui dimensioni non sono state ancora compiutamente quantificate e analizzate. I pezzi del puzzle sono ciascuno un caso a sé, con guadagni dovuti ora a sponsorizzazioni di prodotti, ora a soggiorni premio o ad altre soluzioni di profitto. La proposta di legge n. 1771/2024 definisce i baby influencer come quei “minori che diventano famosi sul web e la cui presenza nell’ambito delle piattaforme digitali genera introiti” mediante “pubblicizzazione diretta di prodotti o servizi destinati ai coetanei dei minori medesimi ovvero a situazioni che indirettamente forniscono un sostegno alla pubblicizzazione o sponsorizzazione di prodotti e servizi destinati agli adulti, solitamente i genitori” e, come sharenting, quel comportamento dei genitori che “non comprende lo sfruttamento commerciale, ma consiste nella pratica... di condividere sui social media contenuti multimediali (foto, audio, video) dei propri figli”. Come osservato nella relazione illustrativa della citata proposta n. 1800/2024, “la cosiddetta generazione alpha, ossia i bambini nati dopo il 2012, è la prima che si dovrà confrontare, una volta cresciuta, con un archivio digitale della propria vita, costituito da centinaia di immagini, video o altri contenuti che i predetti non hanno scelto di condividere e di commenti da parte di sconosciuti”. Ciò significa che “la pubblicazione di foto di minori crea vere e proprie tracce digitali incontrollate che si sedimentano nella rete creando un’identità digitale del giovane”, con cui il medesimo dovrà fare i conti per tutta la vita, oltre al fatto che “il caricamento indiscriminato di contenuti multimediali concernenti i bambini sarà la causa dei due terzi dei furti di identità che i giovani dovranno affrontare entro la fine del decennio” (proposta n. 1771/2024). Senza ombra di dubbio è necessario che per le attività dei minori su piattaforme digitali a scopo di lucro, debba essere prevista la stipula di un regolare contratto di lavoro che preveda i medesimi limiti e tutele previsti per i minori che lavorano nel mondo dello spettacolo (regolamento di cui al decreto del Ministro delle comunicazioni n. 218/2006, recante disciplina dell’impiego di minori di anni quattordici in programmi televisivi) integrati, altresì, da ulteriori disposizioni specifiche. Quanto ai compensi percepiti per l’attività sul web, risulta di particolare interesse la proposta di prevedere che, ove i medesimi superino una determinata soglia, siano versati immediatamente in un conto corrente gestito, fino al raggiungimento dei diciotto anni di età, da un curatore speciale nominato dal tribunale in cui risiede o è domiciliato il minore, con la precisazione che, nelle more del raggiungimento della maggiore età, solo una quota del reddito, determinata dal tribunale nei limiti stabiliti dalla legge, possa essere resa disponibile al minore che abbia compiuto sedici anni ovvero ai genitori dello stesso, per essere impiegata e rendicontata nel suo interesse esclusivo. Tale necessità risulta condivisa, in termini ancor più stringenti, anche dall’art. 8 ter della proposta n. 1800/2024. Quanto, invece, al cosiddetto sharenting, la proposta di legge n. 1217/2024 definisce la “disposizione del ritratto o immagine di un minore ovvero dei contenuti multimediali... un atto di straordinaria amministrazione e in quanto dispositivo di diritti personalissimi e fondamentali”, confermando il rispetto del diritto alla riservatezza del minore e la necessaria applicazione, anche ai contenuti multimediali, delle tutele previste dalla Carta di Treviso, dagli artt. 10 e 320 del codice civile, dagli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d’autore (legge n. 633 del 1941) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1989. Pertanto, ogni decisione in merito all’utilizzo dell’immagine spetta esclusivamente e congiuntamente ai genitori o a chi ne ha la responsabilità genitoriale, con la precisazione che il consenso prestato dagli adulti deve tenere conto, in ogni caso, della volontà del minore, da considerare in relazione alla sua età e al suo grado di maturità. Inoltre, la proposta prevede la possibilità, per il minore che abbia compiuto quattordici anni, di esercitare il cosiddetto diritto all’oblio, ovvero chiedere e ottenere, in ogni momento, la cancellazione dei dati personali in relazione ai contenuti multimediali diffusi da chi ha la responsabilità genitoriale. Tale previsione è condivisa anche dalla proposta n. 1217/2024, che attribuisce però tale facoltà solo a chi abbia raggiunto la maggiore età. Di interesse è, altresì, la previsione di imporre ai servizi delle piattaforme digitali l’adozione di un codice di regolamentazione a tutela dei minori, sulla base di “un modello da definire con atto dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di concerto con il Garante per l’infanzia e l’adolescenza e con il Garante per la protezione dei dati personali”. Infine, così come condiviso dalle altre proposte di legge considerate, si impone una modifica del D.lgs. n. 101/2018 (relativo al recepimento del regolamento europeo sulla protezione dei dati personali - GDPR), che innalzi il consenso del minore al trattamento dei propri dati personali (cd consenso digitale) dagli attuali quattordici anni ai sedici anni di età. Sicuramente è molto difficile fare i genitori nella dimensione on-life e occorre essere attrezzati anche sulla conoscenza delle nuove tecnologie, ed apprendere un bagaglio di nozioni digitali che permetta di essere dei custodi a distanza dei propri figli per tutelare il loro benessere psico-fisico e una crescita digitale serena con particolare attenzione alla privacy. *Coordinatrice Commissione dei Progetti di educazione alla legalità e della Commissione in materia di protezione dei dati personali del Cnf L’allarme del Garante della privacy sul fenomeno dei baby influencer Il Dubbio, 31 marzo 2025 “La sovraesposizione può compromettere seriamente lo sviluppo sano ed equilibrato a cui ciascun minorenne ha diritto”. Un estratto della “relazione finale del tavolo tecnico sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social networks, dei servizi e dei prodotti digitali in rete” del garante della privacy. “I baby influencer rappresentano un vero e proprio fenomeno dei social media e del marketing moderno. Si tratta di bambine e bambini ma anche adolescenti che costruiscono il proprio successo attraverso il loro spazio su internet, la cui immagine viene utilizzata per fare tendenza e profitti, grazie ai like, visualizzazioni e commenti, per sponsorizzare prodotti e servizi dei più svariati settori che vanno dal food, ai viaggi, all’elettronica, alla moda. Riescono ad attirare l’attenzione dei brand, soprattutto quando provano personalmente i prodotti, pubblicano la loro descrizione, le loro caratteristiche e l’uso che ne fanno. Per lo svolgimento di questa nuova forma di marketing, i baby influencers vengono perlopiù assistiti dai genitori manager e più raramente da agenzie. I ragazzi di oggi crescono in un mondo in cui sono spesso gli stessi adulti a sovraesporli in rete fin da piccolissimi. Nonostante i limiti d’età previsti, è presente un gran numero di bambini nell’ambiente digitale anche di età inferiore ai 14 anni: età prevista dal D.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 per esprimere validamente il consenso digitale, in attuazione dell’art. 8, del Regolamento (UE) 2016/679. In questi casi sono coloro che esercitano la responsabilità genitoriale a farsi carico di prestare il consenso. Questa sovraesposizione può compromettere seriamente lo sviluppo sano ed equilibrato a cui ciascun minorenne ha diritto, non consentendogli di vivere la propria infanzia o adolescenza in maniera adeguata mentre viene impegnato a monetizzare le sue prestazioni in età giovanissima oppure a mercificare la propria identità personale in cambio di accesso a servizi digitali. La Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, riconosce a tutti i minorenni un’ampia sfera di diritti e sancisce all’art. 3 il principio del superiore interesse del minore che costituisce il criterio guida per gli adulti in tutte le scelte che lo riguardano. Il superiore interesse del minore è strumento e obiettivo cui tende l’intera Convenzione: esso permea tutte le situazioni in cui la persona di minore età eserciti i diritti attribuiti dalla Convenzione. In particolare, l’art.32 della Convenzione ONU dispone che gli Stati parti riconoscono il diritto del minorenne di essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale. A tal fine, prosegue la Convenzione, gli Stati parti adottano misure legislative, amministrative, sociali ed educative per garantire l’applicazione del presente articolo, stabilendo un’età minima di ammissione all’impiego, prevedendo un’adeguata regolamentazione degli orari di lavoro e delle condizioni d’impiego, nonché pene o altre sanzioni appropriate per garantire l’attuazione effettiva della disposizione”. Nella vita online identità e profilo si confondono: è l’altra realtà dei nostri ragazzi” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 31 marzo 2025 Cos’è la realtà, per chi nasce già immerso in una dimensione digitale? Meglio: dove si trova la realtà? E come possiamo tutelare i giovani dai pericoli della rete, quando siamo i primi a ignorare le regole del gioco? “Se la sola risposta che sappiamo dare è quella di proibizioni goffe e tardive significa che siamo in grande difficoltà”, dice il neuropsichiatra infantile Stefano Benzoni. Che nel suo intervento al convegno “Genitori e figli nell’era digitale”, organizzato lo scorso gennaio dal Cnf, ha analizzato le principali “fragilità” che emergono dalla dimensione on-life del minore, illuminando i nodi del diritto con i dubbi dell’epistemologia. Direbbe che un ragazzo è più vulnerabile in rete che nella “realtà”? Dipende molto da come definiamo i termini di questa equazione: realtà, vulnerabilità, dimensione on-life. La rete non è in sé, sempre e comunque un “rischio”. Il punto che forse fatichiamo a comprendere e che - giusto per citare l’ultima - serie come Adolescence mettono a nudo, è che la “realtà” dei figli oggi include la rete. Ne è una parte integrante inscindibile. Uno dei problemi più grossi che abbiamo come adulti rispetto a questi temi è continuare a pensare che esista un mondo “reale” e poi esista il mondo “finto” dei social. La vita online per i figli non è una fuga dalla realtà, ma nella realtà. Per i nativi digitali questa distinzione è quasi priva di senso. Certo online i figli possono incontrare anche esperienze molto disturbanti, critiche e pericolose. Ma la distanza fisica è anche un modo per proteggersi dall’esposizione troppo immediata dei corpi, delle relazioni e degli incontri. Il punto è che in questa realtà ci trovano il meglio, ma anche il peggio di ciò che abbiamo meticolosamente allestito per loro. Il cosiddetto mondo post-ideologico che abbiamo alacremente contribuito a costruire è imperniato su una precisa ideologia individualista: godi, realizzati, sii veramente te stesso. Questi imperativi ubiqui sono una costante sorgente di possibili esperienze di vulnerabilità. La rete non ne è l’origine. Al limite ne è un efficiente cassa di risonanza. Lei definisce i genitori come “immigrati digitali”. Cosa intende? E in che modo, possono esercitare la propria responsabilità accorciando le distanze in un contesto in cui il mutamento sociale è sempre più rapido? Oggi, il gap generazionale tra un adulto e suo figlio di 8 anni, è lo stesso salto che 20 anni fa c’era tra quel genitore e i suoi nonni. Si chiama accelerazione dei mutamenti sociali. Un bambino di 3 anni parla un linguaggio e vive in una ecologia semiotica completamente diversa dalla sorella adolescente. Tra di loro passano ere. Questo è un tema critico quando parliamo di proteggere i figli dalle insidie del digitale. Siamo come immigrati in un mondo di cui comprendiamo poco. Non si tratta di rinunciare alle nostre responsabilità. Si tratta di comprendere che la forma propria, radicale della responsabilità è la responsività, che è prima di tutto l’arte di farsi delle domande. Per muoverci su questo terreno difficile abbiamo bisogno di interrogarci in modo molto serio sui limiti della nostra conoscenza, sulla distanza che c’è con le nuove generazioni, sulla nostra reale capacità di comprensione della loro esperienza. Se la sola risposta che sappiamo dare è quella di proibizioni goffe e tardive significa che siamo in grande difficoltà. Quali sono i disturbi meno “ovvi” e immediati che affliggono la popolazione dei minori calati in rete? L’esperienza immersiva e prolungata della rete può certo essere molto disfunzionale, innescando mutamenti significativi dell’organizzazione del ciclo sonno-veglia, dei processi attentivi, dei meccanismi di ricerca del piacere e dell’appagamento, per dirne solo alcuni. Lei parla di “tragica transizione dall’identità al profilo”, in un contesto in cui l’algoritmo sa “prima” e più di noi cosa ci piace... È un mutamento che hanno descritto molti filosofi, psicologi e sociologhi. I nativi digitali sono sempre di più soggetti “infomani”. Entità dedite al consumo insaziabile di informazioni. Questo definisce un modo di stare al mondo e di relazionarsi con gli oggetti. Come scrive B. C. Han (filosofo sudcoreano naturalizzato tedesco, ndr) con la sfera del digitale gli oggetti hanno cessato di obicere, di opporre resistenza. La vita digitale è senza crucci. Cerca l’appagamento e la soddisfazione immediata. Il rapporto con l’azione si modifica. Le azioni in rete possono non avere conseguenze oppure avere conseguenze reversibili. Undo, refresh, reset, elimina per me, elimina per tutti. Soggetto e profilo si confondono. In un mondo sempre più “medicalizzato”, c’è il rischio che anche la diagnosi e il rimedio chimico diventino una tendenza da inseguire? Direi che è più una realtà che un rischio. I social sono pieni di video di autorpoclamate communities di giovanissimi pazienti di questa e quella patologia psichica. Si autodiagnosticano, offrendo consigli e rimedi pronti all’uso. La società digitale è in effetti anche la società algofobica (“La società senza dolore”, B. C. Han). Rifiuta il dolore e forse cerca nella medicalizzazione un riconoscimento, una possibile identità. Li incontriamo nei nostri studi i ragazzi di 11 e di 13 anni. Si presentano spesso con la diagnosi in tasca e con la richiesta di un certificato. Dicono “non voglio che mi curi, non voglio cambiare. Voglio solo che scrivi che ho l’ADHD, ho l’autismo, ho l’ansia… perché tutti ci credano”. “Il cyberbullismo rende tutti noi responsabili: la risposta non è nel codice penale” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 31 marzo 2025 “Tutti hanno il diritto di autodeterminarsi come preferiscono. Anche se la rete, forse, non è il luogo più “vero” in cui farlo”. Alessandra Cordiano, ordinaria di diritto privato all’Università di Verona, parla di un male del nostro tempo: il cyberbullismo. Un tema che la docente ha affrontato nel corso del convegno “Genitori e figli nell’era digitale” organizzato lo scorso gennaio dal Cnf. Ma se condividere le proprie fragilità sul web può essere un rischio, come possiamo proteggere i minori dalle loro scelte? “Ho sempre la sensazione che i primi fragili nel mondo digitale - spiega Cordiano - siamo proprio noi adulti”. Qual è la definizione normativa di cyberbullismo e come si distingue dal bullismo “classico”? La legge 71 del 2017 non introduce una nuova ipotesi di reato, perché il cyberbullismo tecnicamente non esiste. Esistono invece una serie di condotte già predeterminate quali le pressioni, le aggressioni, le molestie, il ricatto, le ingiurie, la denigrazione, la diffamazione, e tutta una serie di ipotesi simili che sono realizzate da minori e in danno di minori per via telematica, utilizzando piattaforme, social e luoghi digitali. Queste condotte devono avere però una caratterizzazione, ovvero devono prevedere una sorta di volontà molto chiara di danneggiare la persona. Il digitale è un “non luogo”, una dimensione che Lei definisce “disincarnata”. Questo può alimentare un sentimento di “impunità”? Normalmente le condotte giuridiche, soprattutto quelle che immaginiamo come sanzionabili, si svolgono in luoghi fisici. In questo caso, probabilmente, il contesto cambia sia la fenomenologia che la percezione della propria condotta. I giovani, soprattutto, utilizzano avatar e nickname e questa sorta di spersonalizzazione conferisce anche una maggiore percezione di dominio sull’altro. Il gruppo che si associa, commentando il post oppure mettendo un semplice like, ne percepisce ancora meno il disvalore sociale, diversamente da quelle condotte in concorso in cui materialmente le persone agiscono contribuendo o soltanto assistendo. Anche la vittima, in questo contesto, rischia di diventare invisibile? A volte non la si conosce neppure, oppure non si ha con lei un rapporto così radicato. Ma soprattutto la vittima in questo contesto non reagisce, si ritrae in un mondo di maggiore invisibilità perché sovrastata da azioni ripetute e ossessive. Si tratta di una vittimizzazione secondaria, nella misura in cui chi subisce una condotta cyberbullista non si libera mai della notizia diffusa nel web. Ciò che purtroppo resta abbastanza tipico, in queste condotte, è la vulnerabilità del soggetto. Si tratta spesso di minori bullizzati rispetto a questioni di genere, di orientamento sessuale, di disabilità, con una sorta di simmetria tipica delle condotte bulliste. Dal punto di vista della sovraesposizione mediatica, quali tutele sono previste? Uno strumento molto interessante è il cosiddetto “Notice and takedown”, che consente al minore over 14 o al genitore di inoltrare al gestore del sito incriminato una richiesta di oscuramento, di rimozione oppure di blocco dei dati diffusi. Si può fare in maniera anche molto veloce e snella, senza che sia necessario che quella condotta abbia rilevanza penale, anche senza denuncia. Se entro 24 ore dalla richiesta il gestore non provvede, ci si può rivolgere direttamente al Garante per il trattamento dei dati personali, che procede entro 48 ore. Nel corso del convegno, Lei ha sollevato anche un tema legato all’età. Per lo scarto che si registra tra ciò che prevede la normativa e l’effettiva emancipazione digitale del minore, che è sempre più precoce... La legge, ma non è una sua “colpa”, immagina un minore che forse è sempre meno rappresentato in questa forma. I minori si emancipano con sempre maggiore anticipo dal punto di vista delle loro capacità di maneggiare gli strumenti digitali, ma non nella capacità di usarli in maniera adeguata. E questo si riverbera sulle responsabilità dei genitori. In che modo? Le norme dicono che i genitori devono essere in grado di impartire una buona educazione digitale ai propri figli, ma è quasi una chimera perché è difficile riuscire a impartire un’educazione in un mondo che noi stessi conosciamo poco e nel quale anche noi giochiamo in maniera scorretta. C’è un tema di responsabilità condivisa: siamo “complici” e inconsapevoli dei rischi che i nostri figli corrono nelle loro attività online, perché siamo anche un po’ autori della loro esposizione mediatica. Gli adulti partono sempre da un gap culturale rispetto a questi strumenti, e al contempo sono giustamente chiamati a rispondere delle azioni dei figli quando si concretizzano danni. Come risolvere questo “paradosso”, in ambito giuridico? È un mondo digitale nel quale noi giuristi, ma non solo, auspichiamo e promuoviamo una cultura rivolta all’autodeterminazione dei minori. Perché siano responsabili delle loro volontà, aspirazioni ed errori. Se non promuoviamo un’educazione che sia volta alla libertà, ma anche al dovere e alla solidarietà, come potranno i nostri figli essere dei buoni cittadini e cittadine del mondo (anche digitale)? La risposta non può essere nello strumento penale, bisogna che ci sia prima di tutto una rifondazione condivisa di un progetto comune, che è un progetto di responsabilità. In termini di scuola, università, sport, e agenzie educative a vario titolo. Che ruolo ha la scuola? La legge le attribuisce una serie di importanti responsabilità, ma la scuola non può far tutto. Siamo tutti immersi in una dimensione condivisa, e delegittimare la scuola perché è impreparata, perché non sanziona o sanziona troppo, ci porta in un circo schizofrenico in cui le attribuiamo tutto e il contrario di tutto. Quando siamo i primi, come famiglie, a fare fatica. Le nuove norme sulla cittadinanza per i discendenti di emigranti (e i Cpr in Albania) di Stefano Allievi Corriere del Veneto, 31 marzo 2025 Il Governo è intervenuto regolamentando, in senso restrittivo, l’acquisizione della cittadinanza da parte dei discendenti di emigranti italiani. Era un provvedimento atteso da tempo. La normativa precedente consentiva di ottenere la cittadinanza, senza nemmeno essere mai stati in Italia, a chiunque potesse vantare un antenato emigrato dopo il 1861, anno di proclamazione dell’unità d’Italia: con il risultato di intasare ambasciate e consolati, e ancor più i comuni d’origine di questi lontani ascendenti, di complesse pratiche burocratiche, il cui scopo era essenzialmente ottenere un passaporto che consentisse di entrare negli Stati Uniti o in altri paesi senza visto, e in qualche caso di farsi curare in Italia a spese del sistema sanitario nazionale. Una follia logica, che alcuni politici contrari al provvedimento si ostinano a difendere in nome di una inesistente base biologica, straparlando di ‘sangue italiano’ a dispetto di incroci che durano da oltre un secolo e mezzo (e come se il sangue contenesse la cultura, la storia, la lingua di un paese, le cui frontiere peraltro sono nel frattempo cambiate più volte). Intorno a queste richieste strumentali di cittadinanza si era inoltre creato un business di avvocati e faccendieri, che aveva portato al collasso le anagrafi dei comuni in passato a maggiore tasso di emigrazione, spesso già piccoli e poveri di risorse (come sanno bene alcuni comuni veneti, la regione con più emigranti d’Italia). Tutto questo oggi non sarà più ammissibile: la possibilità di richiedere la cittadinanza è limitata a due generazioni, figli e nipoti di emigranti. E subordinata a una presenza di almeno due anni sul territorio italiano: quindi, intuibilmente, a un progetto di stabilizzazione in Italia (ricordiamo che per i cittadini comunitari, la permanenza richiesta è di cinque anni, e per i non comunitari di dieci: resta quindi, correttamente, un trattamento di maggior favore). Il provvedimento è tanto più significativo perché voluto da un governo guidato da una presidente proveniente dallo stesso partito di chi aveva invece voluto la legge precedente (peraltro approvata con sostegno bipartisan), l’onorevole Mirko Tremaglia, che fu anche ministro degli italiani nel mondo: un galantuomo, rispettato esponente della destra, che peraltro ha sempre ritenuto che lo stesso diritto alla cittadinanza dovessero avere gli immigrati in Italia (in questo, rimasto inascoltato). Non va invece nel senso della normalizzazione (al contrario) la decisione di utilizzare i centri in Albania anche come CPR, Centri per il rimpatrio. Per giustificare un enorme investimento sbagliato, a rischio di danno erariale, e per non voler ammettere di avere fatto un errore, si esternalizza una funzione che dovrebbe stare in Italia (molte regioni hanno già un CPR: tra queste, manca il Veneto), peraltro moltiplicando i costi, e dando vita a un rischioso precedente - in termini di principio sarebbe come esternalizzare le carceri. I migranti in attesa di espulsione verranno portati in Albania, potranno stare nel centro fino a 18 mesi (senza alcun capo di imputazione e di fatto senza diritti), ma per essere rimpatriati dovranno essere riportati in Italia, così come quelli che non si potranno rimpatriare, a meno di immaginare di lasciarli liberi in Albania (governo locale permettendo, ed è improbabile): il che significherebbe che potrebbero ritentare l’ingresso via mare dall’Albania o via terra lungo il corridoio balcanico. Un andirivieni inutile che, questo sì, rischia di assomigliare a dei “taxi del mare”, in forma di navi militari, e pagati dal contribuente. Migranti. Nuova rivolta al Cpr di Gradisca, una ventina le persone coinvolte telefriuli.it, 31 marzo 2025 Ci sono volute alcune ore per riportare alla calma il Cpr di Gradisca d’Isonzo, dopo l’ennesima rivolta, andata in scena nella serata di ieri. Tutto è cominciato alle 20.30, quando alcuni ospiti hanno appiccato il fuoco nella ‘zona blu’ dando alle fiamme i materassi. La protesta è continuata con il lancio di oggetti contundenti e di feci contro i finanzieri in servizio, uno dei quali è stato ferito leggermente a una mano mentre cercava di disarmare uno dei rivoltosi. I più violenti, inoltre, hanno cercato di colpire i militari alla testa e al volto. Sul posto sono giunti i vigili del fuoco, che hanno avuto ragione degli incendi. Le persone coinvolte nella rivolta sono circa una ventina. Le forze dell’ordine stanno vagliando la loro posizione, cosa resa difficile dal fatto che nei giorni scorsi diverse telecamere di sicurezza del Cpr sono state messe fuori uso. Si tratta dell’ennesima rivolta degli ospiti del centro, che le forze dell’ordine fanno fatica a gestire anche perché, pur essendo private della libertà, non sono recluse e quindi polizia, carabinieri e finanzieri non possono utilizzare i protocolli delle carceri. “Non ci sono più le condizioni per mantenere ancora aperta questa struttura - denuncia Armando Gallucci, segretario generale regionale del Silf, il Sindacato italiano lavoratori di finanza -. Con l’aumento del livello degli scontri, cresciuti esponenzialmente nell’ultimo anno che ha causato il ferimento di tre finanzieri e di molti carabinieri e poliziotti, è a rischio la vita delle forze dell’ordine ed è intollerabile - continua - il silenzio che sembra essere calato da parte delle istituzioni. Solo la professionalità di chi opera nella struttura ha evitato le peggiori conseguenze. La situazione non è più sostenibile e non può continuare a essere gestita con queste modalità”, conclude. Per Gallucci è necessario il ripristino effettivo della sicurezza a livelli adeguati all’interno del Cpr, anche con la chiusura temporanea del Cpr e lo spostamento in altri centri degli ospiti ora presenti. La sfida di disarmare le menti di Stefano Zamagni Avvenire, 31 marzo 2025 Mentre l’Amministrazione Trump sta provando smantellare anche l’US Institute of Peace, organizzazione indipendente senza scopo di lucro finanziata dal Congresso Usa che si impegna a promuovere i valori degli Stati Uniti nella risoluzione dei conflitti, mi tornano in mente queste parole di Norberto Bobbio (da Il problema della guerra e le vie della pace): “Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia, sollevato dal vento, abbia fermato una macchina”. È davvero così, come la storia conferma. Ebbene, un granello di sabbia che il nostro Paese potrebbe agevolmente porre in campo è quello di dare vita ad un Ministero - pur senza portafoglio - della Pace. (A tutt’oggi, una sola regione, l’Umbria, ha inteso istituire un Dipartimento specifico per la pace, presso la Presidenza regionale). Quale la missione propria di un Ministero della Pace, che - si badi - non escluderebbe affatto il Ministero della Difesa? Quella di diffondere, in modo sistematico e scientificamente robusto, la cultura della pace e di avanzare progetti specifici di educazione alla pace. Per quale ragione al mondo si insegna e si parla, nelle varie istituzioni educative, di guerra e non anche di pace? Vi sono in Italia 40.321 scuole. Solamente in poco più di 700 di queste si propongono attività mirate a educare alla pace, e ciò grazie all’intraprendenza e alla generosità di insegnamenti che hanno compreso che il compito della scuola è, in primis, quello di educare e, in secundis, quello di istruire. Discorso analogo vale per l’Università. Nel 2020 è nata, per iniziativa della Conferenza dei Rettori, la rete delle Università Italiane per la Pace, alla quale aderiscono 73 Università. A tutt’oggi un solo dottorato di ricercaa in Peace Studies è stato attivato. È agevole comprendere quel che si potrebbe realizzare con un Ministero della Pace, su fronti quali l’addestramento alla difesa non armata, politiche territoriali di trasformazione non violenta dei conflitti, di serie politiche di disarmo. Concretamente, si potrebbe sfatare l’idea errata secondo cui maggiori armi garantirebbero maggiore sicurezza perché creerebbero un sistema di deterrenza efficace contro l’eventuale invasore. Perché in realtà non è così? Per la fondamentale ragione che un sistema di deterrenza non è efficace se basato solo su dispositivi d’arma, ma se fondato sulla credibilità che gli attori sono in grado di costruirsi nel rispondere a una minaccia. Le armi sono solamente una componente e neppure quella rilevante. Riarmandosi, l’Unione Europea non acquisterà di certo più credibilità nella sua capacità di fronteggiare la potenziale minaccia portata dalla Russia. La vera carta vincente è quella di dare vita a una Agenzia Europea Indipendente - sul modello della Bce - in grado di occuparsi di tutti gli aspetti di una difesa comune. Sono consapevole delle difficoltà insite nell’attuazione di proposte del genere. Ma non bisogna avere paura delle difficoltà, perché anche l’acqua del mare ha bisogno degli scogli per sollevarsi più in alto. Vi sono persone che studiano l’arte della guerra - come veniva chiamata nella Cina antica - per essere meglio preparati al combattimento. Non solo in Cina, però. Adam Smith, autore della fondamentale opera La ricchezza delle Nazioni (1776) scrive: “La guerra è la più nobile delle arti e il governante deve infondere in tutti gli uomini la capacità di combattere”. Eppure, sono molto di più quelli che si occupano di guerra per scoraggiarne e per impedirne lo scoppio. La pace non è un obiettivo irraggiungibile, dato che la guerra non è un dato di natura, come una nutrita schiera di filosofi e giuristi, pure illustri, ha fatto credere. Piuttosto, la guerra è un frutto marcio di persone che la vogliono. Lungi dall’essere la prosecuzione della politica con altri mezzi (von Clausewitz), la guerra è il fallimento della politica. E allora si sviluppano ideologie che insegnano a odiare: il vicino, il diverso, il povero, spargendo ovunque i semi di quella sottocultura dell’aporofobia (la paura dei poveri, ndr) dei cui effetti devastanti sono piene le cronache. Occorre dunque resistere, con saggezza e tenacia, perché tali persone non abbiano l’ultima parola nella formazione dell’opinione pubblica e soprattutto non arrivino a occupare posizioni di potere politico. Come si sa, l’odio è il più coesivo dei sentimenti politici, perché, più di ogni altro sentimento, tiene assieme una moltitudine e ne fa una totalità obbediente. Polonia. Nell’ateneo di Wojtyla che dà speranza ai detenuti di Manuela Tulli ansa.it, 31 marzo 2025 Le sbarre, le porte che si chiudono dietro ad ogni corridoio, la scatoletta in tasca a volontari e visitatori dove basta premere un pulsante per fare intervenire la polizia penitenziaria. Il carcere di Lublino, in Polonia, come tutti gli istituti di detenzione, ha misure altissime di sicurezza. Tra persone condannate con sentenza definitiva e altre in attesa di giudizio, la vita è scandita dalle rigide regole necessarie per garantire l’ordine in una comunità carceraria. Ma dentro le mura bianche di questo carcere c’è anche uno spiraglio di speranza: i corsi universitari offerti dalla Kul, l’università cattolica di Lublino, la stessa dove insegnò per anni il giovane professore Karol Wojtyla, del quale il 2 aprile ricorrerà il ventesimo anniversario della morte. L’ateneo è ora intitolato proprio a San Giovanni Paolo II. Oltre ai corridoi con le celle, chiuse da pesanti porte di legno, c’è un ambiente arioso, con banchi, lavagne e computer: sono le classi della Kul dove si insegnano, quattro o cinque giorni a settimana, a seconda del corso di laurea scelto, le materie per conseguire la laurea da spendere in una seconda vita oltre quelle sbarre. Come fa Wiktoria (nome di fantasia) che racconta all’Ansa la sua vita non più scandita dal grigio delle giornate tutte uguali. “Mi piace molto studiare, i professori sono gentili, studio Scienza della famiglia e un giorno spero di poter lavorare per aiutare le persone disabili”, dice con un sorriso. Caschetto curato, divisa verde bottiglia linda e stirata, Wiktoria, che ha ancora dieci anni di carcere da scontare, vede già oltre le sbarre. Non nega che studiare le permette anche di usare il computer, e dunque di avere un contatto con il mondo grazie ad internet, ma davvero guarda a quella che immagina “una vita diversa da quella del passato”. Di fatto una seconda vita. Nell’anno accademico 2024/25 sono venti gli studenti che hanno iniziato il primo anno di studi, di cui per la prima volta otto donne. In totale, saranno formate 36 persone presso il centro di detenzione nei programmi di primo e secondo grado. L’Università Cattolica di Lublino forma i detenuti dal 2013 e da quel momento alcune decine di persone hanno terminato gli studi. Attualmente presso il Centro Studi della Kul presso il carcere si possono conseguire lauree triennali e magistrali. L’istruzione viene impartita nel campo delle scienze familiari, negli studi di primo grado con una specializzazione in assistenza alle persone non autosufficienti e negli studi di secondo grado con una specializzazione in animazione dei centri sociali. “Questi studi - spiega il Rettore della Kul, mons. Miroslaw Kalinowski - sono una sorta di cammino verso la libertà. Perché imparare è libertà: è ampliare gli orizzonti, avere una nuova visione del mondo, aprirsi alle persone. Da un lato, forniamo ai detenuti competenze e istruzione che amplieranno le loro opportunità sul mercato del lavoro. In secondo luogo, e questo è talvolta più importante, insegniamo loro la capacità di costruire relazioni con altre persone, facciamo capire loro che sono persone di valore. In questo modo li rafforziamo e diamo loro la possibilità di costruire nuovamente il loro mondo al termine della pena”. Secondo le statistiche, oltre l’80% dei detenuti che hanno completato i loro studi alla Kul, dopo aver lasciato il carcere non ha più compiuto crimini. “E quasi tutti oggi hanno un lavoro”, conclude il Rettore. Costa d’Avorio. Ingegnare italiano in carcere, mobilitazione per raccogliere fondi per la cauzione di Stefano De Angelis Il Messaggero, 31 marzo 2025 Il Comune di Fiuggi e la Provincia di Frosinone si mobilitano per sensibilizzare il governo nel tentativo di poter giungere alla liberazione di Maurizio Cocco, l’ingegnere della città termale detenuto in Africa, in Costa d’Avorio, da quasi tre anni, dal giugno 2022. Ieri sera la facciata del Municipio di piazza Trento e Trieste è stata illuminata di luce calda lungo il perimetro e di verde in segno di solidarietà verso l’ingegnere e la sua famiglia, che da molto tempo trepida sperando di riaverlo presto a casa. Il sindaco di Fiuggi, Alioska Baccarini, oltre a “sollecitare” il ministero degli Esteri a tenere alta l’attenzione sulla vicenda, ha annunciato una serie di iniziative del Comune, in collaborazione con l’ente di piazza Gramsci, con l’obiettivo di raccogliere fondi per “raggiungere la somma di 150mila euro che il Tribunale della Costa d’Avorio pretende sotto forma di cauzione per la scarcerazione del nostro concittadino” ha spiegato. Si tratta di concerti, spettacoli ed eventi, che saranno programmati anche per le prossime settimane, attraverso cui arrivare alla cifra necessaria. Il primo appuntamento, il live concert “Fantasia Veneziana”, “con incasso a offerta libera interamente devoluto alla raccolta fondi per Maurizio Cocco”, si terrà l’11 aprile, alle 21, nell’incantevole teatro della città termale. Si tratta di una tappa nell’ambito di “Provincia Creativa”, format dell’amministrazione provinciale di Frosinone che anima città e paesi della Ciociaria all’insegna della cultura. “L’ingegner Maurizio Cocco deve tornare a Fiuggi subito, restituito all’affetto dei suoi cari - afferma il sindaco Baccarini -. È grave e doloroso il dover constatare che ancora oggi rimane ingiustamente detenuto in Costa d’Avorio da oltre due anni e mezzo, dopo aver scontato per intero la pena che gli era stata comminata da un tribunale locale, dopo che era caduta anche tutta una serie di capi d’imputazione contestati in origine. Questo è quello che emerge nei fatti prima che in punto di diritto. Senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria - sottolinea il sindaco - da parte nostra continueremo a sostenere con ogni mezzo la eroica battaglia che la moglie Assunta va combattendo ormai in ogni sede da mesi”. Baccarini ha poi concluso: “Continueremo a esercitare ogni forma di pressione necessaria anche nei confronti della Farnesina”, affinché possa assumere “ogni determinante azione in favore di Maurizio, così come ha fatto anche di recente per altri italiani detenuti all’estero”. Sul caso, intanto, la deputata del M5S, Ilaria Fontana, ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale chiedendo: “Quali urgenti e ulteriori azioni diplomatiche intenda intraprendere per garantire il rispetto dei diritti umani di Maurizio Cocco e ottenere il suo rilascio; se la rappresentanza diplomatica stia continuando a fornire adeguata assistenza alla famiglia e quali misure di sostegno siano state previste; se siano in corso negoziati con le autorità ivoriane per accelerare la liberazione di Cocco, considerata la “fumosità” dei capi d’imputazione e delle motivazioni legali; se il ministro interrogato intenda intraprendere iniziative congiunte con la rappresentanza diplomatica dell’Unione europea, al fine di esercitare un’azione di pressione più incisiva sul governo ivoriano”.