Sovraffollamento e disperazione, le carceri scoppiano di Samuele Ciambriello* Il Mattino, 30 marzo 2025 Vedendo una parte della corda con la quale il giovane trentenne Harar si è impiccato, nel reparto Livorno del carcere di Poggioreale ho rivisto un copione, un canovaccio di una routine perversa fatta di numeri, pregiudizi ed indifferenza verso il mondo penitenziario, Da decenni i numeri dei suicidi, del sovraffollamento, delle pessime condizioni igieniche sanitarie, dei detenuti chiusi per 20 ore al giorno nelle celle, delle poche misure alternative al carcere, dell’eccessivo uso del carcere preventivo ci inducono a pensare che è difficile parlare di un “carcere nella Costituzione”, perché semplicemente non esiste nella realtà. Non esiste, oggi, un carcere che incarni i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è un luogo ideale, secondo alcuni una mera utopia irrealizzabile, sicuramente un obiettivo ancora lontano ma, almeno io credo, essenziale per affrontare seriamente e realisticamente questo problema. Forse allora, tutti, dobbiamo avere il coraggio di parlare di un carcere fuori dalla Costituzione. le nostre carceri sono ancora sovraffollate, colme anche e soprattutto di poveri e vittime di ingiustizie sistemiche: immigrati (20mila in Italia, 908 in Campania), tossicodipendenti (17mila in Italia, 1.709 nelle carceri campane) e malati di mente (più di quattromila in Italia, circa 420 venti in Campania, solo a Poggioreale 200 di cui 82 psicotici). E la polizia penitenziaria dopo le 19 in tutte le carceri italiane è sottodimensionata: un agente per piano di reparto, per due piani, cioè deve vigilare su circa 150 detenuti! E poi occorre potenziare i medici ai presidi sanitari per ventiquattro ore, intervenire in tempi più rapidi, con personale specializzato. L’isolamento sociale, le condizioni di detenzione e la carenza di supporto psicologico contribuiscono a peggiorare lo stato emotivo dei reclusi, con conseguenze tragiche sui suicidi, i tentativi di suicidio, le forme di autolesionismo e gli scioperi della fame e della sanità. Tutto ciò compromette anche la sicurezza e la vita serena all’interno del carcere ed alimenta episodi di tensione, conflittualità e talvolta violenza. È più facile punire soprattutto i deboli, che affrontare i problemi strutturali. Siamo ancora lontani dal garantire condizioni umane e dignitose. Si continua a chiedere maggiore sicurezza, ma questa viene declinata come sola e semplice “sicurezza pubblica”, nel senso tradizionale e non come “sicurezza sociale”, senza un reale impegno per combattere esclusione e diseguaglianze. Ovviamente mi riferisco alla maggior parte della popolazione carceraria, fatta di soggetti emarginati e marginali, a prescindere da quelli che possiamo avvertire come autori di fatti particolarmente allarmanti, come la criminalità organizzata, su cui potremmo aprire altro ampio discorso, ma non è questa l’occasione. Coloro che si suicidano o provano a farlo, hanno una età media di 42 anni, sono al primo ingresso nel carcere o stanno per uscire. Dobbiamo trovare un equilibrio tra sicurezza, prevenzione, rieducazione, inclusione sociale, per fare in modo che il carcere sia un luogo non solo e tanto di punizione, ma anche dove si coltiva il futuro, non un limbo dove si soffoca la vita, ma un laboratorio di speranza che aiuta a cambiare le persone, difendendo la loro dignità, che non è negoziabile. Servono figure di ascolto. La politica e tutti i soggetti interessati abbiano il coraggio di mettere in campo riforme strutturali e risorse di uomini e professionisti: profonda depenalizzazione della fattispecie meno offensive, soprattutto in tema di stupefacenti e patrimonio; riforma della recidiva, e vitando gli attuali meccanismi; riforma della custodia cautelare, oggi un detenuto su quattro nelle nostre carceri è in attesa di giudizio; pensare a pene principali non carcerarie, con pene alternative al carcere non affidate alla sola discrezionalità del magistrato; assunzioni di educatori, pedagogisti, assistenti sociali, psicologi, psichiatrici e mediatori linguistici. Ad oggi constatiamo con amarezza che non sono valsi a nulla (almeno per ora) le manifestazioni della sofferenza dei detenuti, la fatica degli operatori penitenziari, le denunce dei garanti, il richiamo del Presidente della Repubblica e del Papa. Non abbandoniamo la speranza. *Garante dei detenuti della Campania Il giubileo delle carceri di Stefano Caredda sermig.org, 30 marzo 2025 Nell’anno del Giubileo, con papa Francesco che dopo quella della basilica di San Pietro va nel carcere romano di Rebibbia per aprire proprio lì una Porta Santa, il tema delle condizioni di vita dei detenuti non può certo passare inosservato. Un messaggio di speranza e misericordia, quello dell’Anno Santo, che da sempre - e anche in questo 2025 - risuona dentro le carceri in modo particolarmente forte. Ogni nazione ha al riguardo le proprie particolarità, e quelle dell’Italia - purtroppo - non sono affatto positive. Il nostro Paese attraversa da decenni una fase particolarmente critica, che porta con sé la consapevolezza che trattamenti inumani e degradanti siano diventati ormai molto diffusi. Proviamo a fare una veloce fotografia della situazione. Le persone detenute in Italia a fine 2024 erano oltre 62mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51mila posti e una capienza effettiva (al netto delle celle non disponibili per manutenzioni o inagibilità) di circa 47mila posti. Il tasso di affollamento effettivo si attesta intorno al 132%: nelle prigioni italiane ci sono 132 persone per ogni 100 posti disponibili. È il sovraffollamento, prima condizione cronica delle carceri italiane. E, come sempre in questi casi, parliamo di una media: il che significa che ci sono posti dove si sta meglio e altri dove si sta peggio. Il carcere di San Vittore a Milano ha raggiunto il 225% di affollamento effettivo, le carceri di Brescia, Como e Lucca sono oltre il 200%, e sono in tutto una sessantina le strutture dove si supera il 150% di affollamento: soprattutto case circondariali metropolitane, dove c’è il numero più alto di ingressi e si registrano le maggiori tensioni. Mediamente parliamo di strutture assai vecchie, alcune - senza mezzi termini - fatiscenti, costruite nella prima parte del secolo scorso, a volte addirittura prima del 1900: è frequente che non tutte le celle siano adeguatamente riscaldate, che l’acqua calda non sia sempre presente, che non esistano docce, che gli spazi siano minimali. Non ovunque è garantito il limite minimo di tre metri quadrati calpestabili per ogni persona detenuta. Tre metri quadrati a persona. Situazione al limite che certamente incide anche sugli atti di autolesionismo (in crescita) e sul tragico numero di suicidi (il 2024 è stato un anno record con una novantina di casi). E c’è anche un problema di carenza di personale (c’è un agente di polizia penitenziaria ogni due detenuti e un funzionario giuridico pedagogico ogni 68 detenuti). Per il resto, sono circa 17mila (su 62mila) i detenuti che lavorano in carcere alle dipendenze del carcere stesso e circa 3mila quelli che hanno altri datori di lavoro. Ce ne sono poi alcune migliaia che frequentano corsi di formazione professionale, con grandi differenze geografiche (a metà 2024 in Lombardia gli iscritti a questi corsi erano il 14% dei detenuti, mentre in Umbria, Puglia, Sardegna e Basilicata non si arrivava all’1%). In circa 4mila frequentano percorsi scolastici con successo (quindi venendo promossi). Un mondo variegato (cui si somma poi la popolazione che usufruisce di misure alternative alla detenzione, come semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, ecc.) sul quale il Giubileo aiuterà a tenere alta l’attenzione. Un compleanno dietro le sbarre: ma cosa c’è da festeggiare all’inferno? di Donatella Mega ilsussidiario.net, 30 marzo 2025 Il carcere sembra e a volte è un mondo a parte. Ma chi ci vive ha le stesse esigenze e domande di chi è fuori. Mi è capitato di recente di essere invitata a una festa di compleanno, in galera. La cosa non desterebbe alcun interesse, non fa notizia, se non a una cerchia ristretta di qualche amico, quando va bene. Perché dunque parlarne? Sì, è una festa in carcere e allora? Allora c’è che non è immediata, non è automatica, non è scontata come lo può essere fuori. Intendo l’equazione compleanno=festa. E poi che c’è da festeggiare? Un altro anno in galera? Il carcere “costringe” a dare le ragioni di ogni cosa, anche di una banale festa di compleanno. E c’è chi questo lavoro non può o non vuole farlo, darsi cioè le ragioni e, esattamente come chi sta fuori, lentamente si lascia morire. Se non addirittura la fa finita e, soffocato nel gorgo della solitudine e della disperazione, compie l’estremo atto perché il dolore è irrespirabile, oltre che inspiegabile. Nella cella al piano di sopra di quella della festa, pochi giorni prima si è consumato il dolore, me lo ricorda il festeggiato con una punta di tristezza, “qui è sempre più dura, amica mia”, mi confida. In galera accade tutto vicino, non solo per il sovraffollamento, ma per il comune destino che rende strani fratelli persone che non si sarebbero scelte in libertà. Eppure ti capita di sentire parole di struggimento per questo vicino di cella, una compassione che non è commento a un fatto di cronaca. Perché uno che non ce la fa in galera getta nello sconforto il vicino, toglie ossigeno alla speranza: che possa essere questo l’esito anche per me? Qui, ed è strano tra gente che ci immaginiamo bestiale, emerge, al contrario, una simpatia per l’altro che non è sentimentalismo, ma un farsi coraggio reciprocamente, fare il tifo l’uno per l’altro, quasi come se all’improvviso ci si scoprisse fratelli, cioè bisognosi della stessa cosa. Di normalità. Me lo ripetono più e più volte da un anno a questa parte. Ma cosa vuol dire normalità? Che cos’è normale? Una festa in galera, per esempio. Il che non è proprio come bere un bicchier d’acqua. C’è un considerevole sforzo operativo, di energie fisiche, economiche e di “domandine”. Le domandine sono richieste scritte dai detenuti e inviate al vaglio dell’amministrazione penitenziaria, per autorizzare la “qualunque”: autorizzazione per comprare cibo, per la “sala”, per cucinare, ma anche per un quaderno, un rossetto, un libro, insomma tutto ciò che non rientra nel “pacchetto base”. Qui si impara a domandare tutto. Devi proprio volerlo perché sai cosa ti costa. Ti costa domandare, e di ‘sti tempi la cosa non è popolare. Alla faccia dell’“uomo che non deve chiedere mai” con cui ci hanno devastato i giovanili cuori e pensieri. Ed è qui la sorpresa su di sé: accorgersi di essere fatti di desiderio. Di cui la normalità è solo segno. Dietro al desiderio di far festa con gli amici, di mangiare con le posate di metallo, di bere il caffè in una calda tazzina di ceramica, come un tempo si faceva senza nemmeno coglierne la straordinarietà, forse si cela quell’esigenza che ci si trova addosso, cucita sul cuore, quella cioè di amare ed essere amati, desiderio di bellezza e giustizia. Esigenze elementari, le definiva un grande maestro del nostro secolo, del mio in particolare, don Giussani. La stessa esigenza di questo amico ferito, la stessa degli agenti penitenziari, che pure annoverano tra le proprie fila amici che non ce l’hanno fatta a sostenere la speranza, ai cui funerali mi è capitato di partecipare. La stessa esigenza mia e dei miei amici volontari. Si fa festa per un amico che ricorda il giorno della nascita a questa vita perché é la cosa più bella che il destino ci ha donato. Anche in galera. Mi perdonino i miei amici galeotti se oso pronunciare queste due parole insieme, bellezza e galera, qui dentro, nell’inferno, ma è quello che vedo: donne e uomini che rinascono come semi messi sotto terra che iniziano a germogliare. È da una compagnia, a volte impensabile e misteriosa, che si riparte, come quella di una minuscola scritta rinvenuta sul muro di una galera straniera, da cui è ripartito un amico detenuto, seppellito a decine di metri sotto terra. “Hanno tentato di sotterrarmi dimenticandosi che sono un seme”, recitava la scritta il cui sconosciuto autore doveva essere un precedente inquilino della stessa cella. E tutto improvvisamente si fa chiaro. Il problema non è non morire, ma vivere. Stare di fronte alla propria umanità con tutte le ferite ancora aperte e cominciare ad averne tenerezza per capirne la stoffa. L’8 marzo, festa della donna, era un sabato, giorno in cui noi di Incontro e Presenza entriamo a Bollate. Faccio il mio ingresso al reparto femminile, quando mi viene incontro un’amica appena uscita dalla saletta adibita a centro estetico, sui generis. Ancora un tentativo di normalità, il farsi bella per sentirsi ancora donna, anche se non ti guarderà nessun uomo, non qui dentro. Eppure lei ostinatamente attende che qualcuno lo faccia, e questo basta per continuare a sperare, con i capelli biondi raccolti e tenuti su dal giallo ramo di mimosa e, sulle labbra rosse, un sorriso che illumina ogni cosa intorno, sembra che le sbarre non esistano più, che le pareti siano alberi e tutto intorno profumo di libertà. Ci sono momenti, anche in galera, in cui diventa evidente che siamo nati liberi, anzi liberati, e attendiamo che qualcuno in carne e ossa ci venga a tirare fuori di prigione e ci faccia respirare all’aria fresca. È l’esperienza dei colloqui: quando un detenuto attende un colloquio o rientra da un colloquio, soprattutto coi figli, sembra camminare a un passo dal cielo, glielo vedi in faccia, ha una trasfigurazione, il volto gli si illumina. È contento, qualunque condanna senta pesare su di sé, qualunque misfatto abbia commesso, per un momento non gli pesa più, non sente il pungiglione del male che tormenta la carne e le notti galeotte. Sarà per questo che visitare i carcerati è tra le opere di misericordia? Domenica scorsa, di passaggio straordinario a Bollate per salutare un amico, lo faccio chiamare dalla guardia di turno al reparto. Il suo cognome si diffonde nell’etere attraverso il suono gracchiante dell’interfono nella speranza che raggiunga in modo comprensibile il diretto interessato ai piani alti dove sono ubicate le celle. Non sempre si ottiene l’effetto desiderato. Nell’attesa, anche per i volontari il carcere è attesa, mi guardo intorno nel silenzio più totale, tipico della domenica in galera. La domenica è per i detenuti il giorno più duro perché non c’è nulla da fare, nessuna attività, nessun colloquio, nessun volontario, insomma nessuna distrazione da se stessi, dalla propria condanna, ci sei solo tu davanti a te stesso, ai tuoi ricordi, ai tuoi fantasmi e si piange molto. Mi ritrovo davanti alla porta della piccola cappella del secondo reparto, anch’essa una cella, da dove scorgo il volto del Crocifisso, tutto solo anche Lui, un Cristo tra le sbarre. Anche Lui, con la sua umanità ferita a suon di chiodi. Anche Lui sembra attendere, anche Lui, come tutti qui dentro, attende che qualcuno Gli faccia visita, si metta in colloquio con Lui, Lo strappi alla solitudine. Anche Lui con la sua “domandina”, anche Lui mendicante, sì ma del cuore dell’uomo, anzi proprio del mio. Mi trova con questi pensieri il mio amico che mi saluta abbracciandomi forte, sorpreso della visita “fuori orario” e insieme ci incamminiamo, come i due di Emmaus, verso la stanza dei colloqui, ognuno con dentro la gioia per il dono di un incontro atteso e sperato. Il buco nero dei beni confiscati, l’Agenzia nazionale non paga chi li gestisce: ha i conti pignorati di Giulia Merlo Il Domani, 30 marzo 2025 La relazione della Corte dei conti ipotizza di istituire una task force per saldare i debiti arretrati. Una amministratrice deve avere quasi 150mila euro da cinque anni: “Ho licenziato i dipendenti”. La gestione dei beni confiscati alla mafia è un compito difficile, perché prosegue anche dopo la fine dei procedimenti penali e avviene in territori difficili dal punto di vista del contesto ambientale. Per questo, nel 2010, è stata istituita l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) - ente con personalità giuridica di diritto pubblico e vigilato dal ministero dell’Interno - che gestisce, in collaborazione con l’autorità giudiziaria, i beni sequestrati e poi confiscati in via definitiva con l’obiettivo di restituirli alla comunità. L’Agenzia si trova a Roma, con sedi secondarie a Reggio Calabria, Palermo, Napoli e Milano, e affida questi compiti di gestione a professionisti autonomi - in molti casi gli stessi già nominati dal tribunale nella fase giudiziale - che dovrebbero essere pagati per la loro attività. Nulla di più facile, essendo l’agenzia un ente pubblico e di fatto una diramazione dello stato. Ciò che appare lineare sulla carta, tuttavia, nella realtà si trasforma in una babele di carte bollate, che spesso si trasformano in contenziosi civili infiniti per i professionisti che devono essere pagati. “Pregiatissimo direttore Maria Rosaria Laganà, con la presente intendo rappresentare una paradossale ed ormai annosa situazione che attiene il mancato pagamento a tutt’oggi dei compensi a me spettanti per le attività di coadiutore”. Comincia così la lettera inviata da Cristiana Rossi, ragioniera iscritta da trent’anni all’Ordine dei commercialisti, laureata in giurisprudenza e docente universitaria. La professionista, che per anni ha lavorato con l’Anbsc e che ha gestito ingenti patrimoni sequestrati, in particolare nel Lazio, dal 2021 vanta un credito di oltre 100mila euro per compensi mai liquidati per prestazioni svolte tra il 2016 e il 2019 e altri due mancati pagamenti da circa 20mila euro ciascuno. “Tale immotivata inadempienza da parte dell’Agenzia ha determinato - e determina ancora - gravissimi danni alla mia attività professionale nonché alla mia famiglia”, ha scritto rivolgendosi alla neonominata direttrice Laganà, con una missiva datata 12 dicembre 2024. E questo non è certo il primo tentativo: nel 2022 aveva provato, senza successo, di mettersi in contatto con il predecessore, Bruno Corda, e nel maggio 2024 si è rivolta direttamente alla presidenza del Consiglio. Questo perché le vie legali si sono dimostrate un incredibile vicolo cieco. Sul credito più consistente il tribunale di Roma ha emesso un decreto ingiuntivo diventato esecutivo nel 2022 ma, al momento di procedere al pignoramento, la professionista ha scoperto “la preesistenza di ulteriori e diversi pignoramenti di importi elevatissimi”, si legge nella missiva inviata a palazzo Chigi. In altre parole: un soggetto pubblico di stato ha in questo momento i conti correnti pignorati. Il verbale di pignoramento del 31 maggio 2023 ha contorni surreali perché sottopone a pignoramento “una scrivania di noce colore scuro di 3 metri, di valore circa 300 euro; una poltrona con schierale alto e due poltrone con seduta di colore nero di valore 150 euro” e così via per una quarantina di mobili e suppellettili presenti nella sede dell’Agenzia di via del Quirinale 28. Tuttavia, e qui sta la beffa, proprio la sua natura pubblica ha fatto sì che il giudice civile scriva che “non è in discussione la solvibilità del debitore, soggetto pubblico, nel caso di differimento dell’esecuzione”. A oggi, però, la decisione è ancora pendente dopo l’ennesimo rinvio e l’Agenzia, nonostante la definitiva esecutività del decreto ingiuntivo, continua a non pagare. Se Rossi denuncia da anni il danno subito, altri professionisti che hanno preferito rimanere anonimi - sia nel Lazio sia in Sicilia, dove uno di loro vanta crediti che superano il mezzo milione di euro - hanno confermato che la prassi è questa. Denunciare, però, rischia di avere conseguenze. Dunque meglio attendere che, prima o poi, il compenso venga liquidato ed effettivamente pagato. Proprio in questo “prima o poi” si muoverebbe l’Anbsc, difesa come tutti gli enti pubblici dall’Avvocatura dello stato. “Impugna pretestuosamente in tribunale qualsiasi richiesta di pagamento, impiegando in liti temerarie l’Avvocatura dello stato e sfruttando i tempi lunghi della giustizia civile”, è la tesi di Rossi, che ha raccontato a Domani di aver rinunciato a lavorare con l’Agenzia: “Ho rinunciato a tutte le procedure che seguivo, anche se l’Anbsc ha tentato in tutti i modi di prorogare il rapporto, e a oggi lavoro solo come amministratrice dei beni nella fase giudiziale”. La motivazione è evidente quanto drammatica: “Il danno economico che sto ancora subendo mi ha costretta negli anni a licenziare i dipendenti e ha messo in seria difficoltà la mia famiglia. Per dare una dimensione: mia figlia diciottenne va la lavorare dopo la scuola per darmi una mano”. A conclusioni analoghe a quella di Rossi è giunta anche la Corte dei conti, che nella relazione del 2023 della sua sezione di Controllo ha acceso un faro proprio su questi mancati pagamenti, dando conto del fatto che, a novembre 2022, su 1.819 rendiconti presentati dai coadiutori, ne sono stati approvati soltanto 611. E solo dopo l’approvazione dell’Agenzia è possibile venire pagati. Per questo sul tema i giudici contabili hanno ritenuto necessario valutare “l’opportunità di istituire una task force dedicata a tale adempimento”. A nulla è servita nemmeno l’iniziativa del 2020 di istituire una procedura “speditiva” che doveva consentire di pagare almeno una parte dei compensi a titolo di acconto. La Corte ha rilevato che, al 6 agosto 2020, erano state presentate all’Anbsc “284 richieste di acconto per un totale di 1.633.102,36 euro. Sono state istruite 90 richieste ed è stato corrisposto un importo complessivo di 405.823,88 euro”. I giudici hanno confermato che “è emersa la sussistenza di un arretrato accumulatosi nella corresponsione dei compensi ai coadiutori” e la presenza del “contenzioso con alcuni professionisti” “ai quali i compensi previsti non sono stati corrisposti o lo sono stati solo parzialmente. Alle richieste avanzate, sebbene sia stato emesso decreto ingiuntivo, l’Agenzia si è opposta nei relativi giudizi investendo l’Avvocatura”. Le conclusioni a cui arriva la relazione sono nette: “Chi riceve e svolge l’incarico consegue il diritto a percepire il compenso pattuito nei limiti e nei tempi prestabiliti, avendo erogato prestazioni professionali” e “prassi connessa a differenti interpretazioni di legge, a ritardi organizzativi ed ulteriori malfunzionamenti non possono determinare un decorso del tempo, in alcuni casi di anni”. Contattati da Domani, sia il ministero dell’Interno sia la stessa Agenzia non hanno fornito alcun chiarimento sulle ragioni di questi mancati pagamenti né se qualcuno si stia attivamente occupando di saldare i debiti di un ente che, almeno sulla carta, dovrebbe essere il simbolo dello stato nella trasformazione di beni di mafia in beni al servizio della collettività. Invece l’Agenzia continua a non pagare il lavoro a molti professionisti e, per usare le parole della Corte dei conti, l’effetto rischia di essere quello di impattare “negativamente sulle stesse finalità della normativa antimafia”. Caso Moussa, da Lucano a Casarini: petizione “per la verità” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 30 marzo 2025 Il ricordo Moussa viene ricordato nel presidio a lui dedicato davanti alla stazione di Porta Nuova, dove è morto. “Verità e giustizia per Moussa Diarra”. È quanto chiede la petizione nazionale lanciata sul caso del 26enne maliano ucciso lo scorso 20 ottobre in stazione a Porta Nuova. Tra i firmatari Ilaria Cucchi, Mimmo Lucano e Luca Casarini. Richiamo l’Arena di Pace, quella con Papa Francesco dello scorso maggio. “A quell’Arena di Pace il tema che Verona ha celebrato, dal sindaco in giù, era “quando verità e giustizia si baceranno”. Allora invece di fare i grandi eventi così e basta, quella cosa lì bisogna tradurla nel concreto di tutti i giorni. E così, per me, Moussa diventa la traduzione di quell’Arena di Pace: per lui, come per ogni essere umano, verità e giustizia si devono incontrare, si devono baciare. Quindi noi vogliamo verità e giustizia”. Le parole sono quelle di Luca Casarini, ex portavoce delle Tute Bianche, tra i fondatori e capomissione della ong Mediterranea Saving Humans. C’è anche la sua tra le prime firme della petizione lanciata ieri sulla piattaforma Change che chiede “politiche di cura e non di repressione - Verità e Giustizia per Moussa Diarra”, il 26enne maliano ucciso da uno dei tre colpi di pistola sparati da un agente della polfer davanti alla stazione di Porta Nuova la mattina del 20 ottobre scorso dopo che - in forte stato confusionale da alcune ore senza che nessuno avesse chiamato un’ambulanza - aveva distrutto alcune vetrine. Petizione che fa travalicare il caso di Moussa da Verona, per farlo approdare a un contesto nazionale e che vede, come primi firmatari, anche il presidente dell’Alto Consiglio della Comunità maliana in Italia Mahamoud Idrissa, l’europarlamentare ed ex sindaco di Riace Mimmo Lucano , i senatori Ilaria Cucchi e Peppe De Cristofaro, i deputati Francesca Ghirra e Marco Grimaldi e il cantautore Pierpaolo Capovilla, a fianco dei promotori veronesi: i docenti dell’università Donata Gottardi, Roberto Leone e Ivan Salvadori, con don Marco Campedelli, Andrea de Manincor e Gloriana Ferlini, la pastora della Chiesa valdese Laura Testa e il “prete degli ultim” don Paolo Pasetto, gli psichiatri Carlo Piazza e Francesca Gomez, la consigliera comunale Jessica Cugini, l’attivista Alberto Sperotto, insieme a 32 tra partiti, sindacati e realtà associative della provincia scaligera, laiche e cristiane. Sono oltre 5 mesi che il corpo di Moussa è all’istituto di medicina legale di Borgo Roma. E, ad oggi, gli avvocati della famiglia di Moussa, non hanno ancora potuto vedere l’esito delle perizie d’ufficio e le immagini delle telecamere. In quella petizione viene chiesto, tra le altre cose, “alla procura della Repubblica di Verona di porre gli avvocati e i periti delle parti offese nelle condizioni di svolgere al meglio il loro lavoro. Chiediamo un’indagine rigorosa e un processo serio e trasparente che accerti la verità. Chiediamo alle istituzioni locali, regionali, nazionali ed europee, di realizzare politiche di cura che garantiscano la vita, la dignità e la sicurezza delle persone più vulnerabili. Chiediamo politiche e servizi pubblici per la salute mentale. Chiediamo, nei confronti dei migranti e delle persone senza dimora, politiche inclusive e non discriminatorie e criminogene”, organizzando anche una raccolta fondi per le spese legali. Spiega, Casarini, che quell’istanza l’ha firmata “innanzitutto perché questo ragazzo abbia riconosciuti il rispetto e la dignità che non ha avuto in vita. Per me è già importante che facciamo il suo nome e cognome, che pensiamo che sia un cittadino, che sia una persona degna di essere ricordata ma, soprattutto, tenuta in considerazione anche per le ingiustizie della vita che, in generale, ha subìto”. Ragiona che “in questo tempo c’è bisogno di cercare la giustizia, non è scontata. È un principio, è un modo di trattare gli esseri umani e siccome un essere umano è stato vittima di un’uccisione con un’arma da fuoco, gli è stata tolta la vita, allora questo essere umano anche se era povero e anche se era migrante ha diritto alla giustizia, perché la giustizia non è una proprietà privata di quelli “perbene”. Per Casarini “è fondamentale fare di tutto perché questo caso non venga insabbiato, non venga sottratto alla giustizia, perché tanto si tratta di un immigrato, perché tanto si tratta di uno che “non è come noi”. Aggiunge che “perdere la vita di Moussa, di un essere umano, è stata una cosa tragica per Verona, per tutti noi, anche se Moussa era un povero, anche se Moussa era un migrante, perché la vita è sacra e questo è un altro nodo che deve interrogarci quando parliamo di queste cose”. Sferza la città, Luca Casarini. “Verona è anche la città di San Zeno, del vescovo moro. Bisogna sempre sperare che le cose cambino. E a farle cambiare siamo noi. Tanti dicono “speriamo che Verona cambi”. La speranza è un agire, quindi io credo che anche questa petizione e il caso di Moussa siano un’occasione per cambiare. È la speranza di cambiare”. Calabria. Ripartire dal carcere si può, serve impegno e dialogo costruttivo di Elisa Barresi ilreggino.it, 30 marzo 2025 La Garante Russo: “Fondamentali le sinergie istituzionali”. Continuano le attività di ricognizione e di avvio del mandato dell’Autorità garante regionale, l’avvocato Giovanna Russo, nel settore penitenziario. La Calabria conta ben 12 istituti penitenziari per adulti, un istituto penale minorile, l’Ipm di Catanzaro, due Rems una a Girifalco e una a Santa Sofia de Piro. Una regione complessa che vive da sempre contraddittorietà che di certo non hanno risparmiato nel tempo il mondo del carcere. Già nel primo mese da quando ha assunto il suo mandato istituzionale, la Garante ha effettuato una riunione per la ricognizione della Sanità penitenziaria calabrese, condividendo con la Regione e il Prap della Calabria delle linee operative volte a riorganizzare la sanità, sull’intero territorio, offrendo così ai cittadini ristretti una qualità delle cure adeguata ai LEA. “Già nel primissimo incontro con il Presidente del Consiglio Mancuso, condividevamo e convergevamo sull’idea di focalizzare l’attenzione sulla sanità penitenziaria per la parte di mia competenza, fornendo dati e progettualità concrete. Al tema presta molta attenzione anche il Presidente Occhiuto, ben consapevole che una sanità penitenziaria che funzioni favorisce reali garanzie e tutele per tutti. In questa direzione l’Autorità Garante è pronta a fare responsabilmente la propria parte al fine di rendere concreto il diritto alla salute dei privati della libertà, promuovendo attività di efficientamento dei servizi all’interno dei nostri istituti di pena”. Ha effettuato già, in un solo mese, tre visite istituzionali, partendo dalla Casa Circondariale Ugo Caridi di Catanzaro in occasione della cerimonia del Giubileo delle Carceri, e nei giorni scorsi si è recata presso il Centro di giustizia minorile della Calabria e successivamente all’IPM di Catanzaro. In programmazione le visite presso gli altri istituti della regione e le due REMS. Impegnata in attività di sensibilizzazione della tematica carceraria e dei diritti umani, ha già presenziato in queste settimane a più convegni, volti a diffondere la cultura della giustizia dentro e fuori le mura, lavoro indispensabile per la stessa. È stata altresì audita in Commissione regionale per l’eguaglianza dei diritti e delle pari opportunità, al fine di vagliare con la commissione ulteriori attività di sensibilizzazione per la detenzione delle donne. Successivamente ha fortemente voluto ed è stata condivisa l’audizione in Commissione consiliare contro il fenomeno della ‘ndrangheta, della corruzione e dell’illegalità diffusa. Vogliamo incontrarla a distanza di un mese e chiederle concretamente cosa ha trovato nelle visite istituzionali che ha già effettuato in così poco tempo... “Parlare del sistema penitenziario significa accingersi ad affrontare un tema altamente complesso tanto per l’interdisciplinarietà con la quale dovremmo descrivere tutte le realtà che lo compongono, quanto per le varie articolazioni e le connesse peculiarità delle stesse. Posso sicuramente dire che ho trovato delle Amministrazioni impegnate in prima linea, pronte a fare la loro parte, a cui va tutta la mia vicinanza istituzionale per i sacrifici che compiono nelle loro attività quotidiane. La mancanza di personale e di una formazione specialistica sono dati effettivi sui quali bisogna continuare a lavorare per una migliore condizione di vivibilità negli istituti. Ho avuto modo di interloquire con i Direttori degli Istituti, con alcuni operatori penitenziari ed ho trovato una comunità-Stato che, con abnegazione e coraggio, risponde al dettato costituzionale di umanizzazione della pena, malgrado il momento sociale molto complesso. Le persone private della libertà auspicano percorsi che diano loro una reale seconda chance attraverso un trattamento penitenziario che permetta un ripensamento e un reinserimento tangibile. Mi hanno particolarmente colpito le riflessioni dei minori e dei giovani adulti che ho incontrato giorni fa. Tanta voglia di riscatto, sicuramente esito di un processo di ripensamento della loro vita. I ragazzi hanno bisogno di riconoscersi nell’autorevolezza, nelle regole che non rinunciano alla relazionalità. L’ascolto e il dialogo sono fondamentali”. A proposito di minori detenuti e di minori in comunità, quale è la sua visione a riguardo? “Sì, li ho incontrati a Catanzaro, alla presenza del Direttore della Struttura, della Dirigente del CGM e di altri funzionari che quotidianamente si dedicano alle loro tensioni emotive, caratteriali e ai loro problemi di salute. Ciascuno con il proprio vissuto ha una storia di vita spesso triste e di importanti fragilità. Sono persone che, accompagnate in un reale percorso di attività educative, formative e di reinserimento, auspicano che la loro esistenza si normalizzi e che il rientro in società non li marchi per sempre. Voglio fare un cenno alla sua audizione in Commissione regionale anti-’ndrangheta. Perché questo studio e quali riflessioni su criminalità organizzata e carcere? “Questo studio è la riflessione scientifica che curo da anni per una giustizia giusta dentro e fuori le mura, per una realizzazione del welfare penitenziario che concepisca gli istituti come case di vetro, libere da illegalità e criminalità. Il fenomeno della criminalità carceraria è complesso, ma va affrontato con rigore scientifico e dati concreti, istituto per istituto. A noi interessa rieducare e garantire i diritti delle persone più deboli e fragili, quelle che vivono un altissimo rischio di cadere nelle maglie della criminalità. Le attività trattamentali, la rieducazione e il reinserimento previsti dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario saranno realizzabili solo se riusciremo a mettere al centro la sicurezza. Partendo dalla complessità dell’eterotopia carceraria, facendo tesoro dei migliori uomini tanto del settore penitenziario quanto dell’antimafia nazionale, saremo in grado di realizzare la normalizzazione e l’auspicata pacificazione della realtà carceraria. Sconfiggere la criminalità da dentro è necessario e urgente, oggi più che mai, soprattutto per evitare che si ledano i diritti dei detenuti più deboli e di chi una seconda vita vorrebbe davvero costruirla”. Venezia. La Caritas aprirà uno spazio per sette uomini tra carcere e vita libera di Giorgio Malavasi genteveneta.it, 30 marzo 2025 A Santa Chiara, nei pressi di piazzale Roma a Venezia, aprirà a breve lo spazio pensato per ospitare sette uomini che stanno vivendo il periodo di transizione dal carcere alla vita libera. E intanto per le donne nelle medesime condizioni si aprono gli spazi di Casa San Giuseppe alle Muneghette. E nel frattempo si rende disponibile un appartamento per altri quattro ex detenuti, mentre si avviano a realizzazione i lavori di manutenzione di Casa Mons. Vianello a Campalto, anche’essa pensate per ospitare uomini provenienti dal carcere. È l’insieme di iniziative che la Caritas veneziana ha scelto di realizzare per dare ulteriore slancio al progetto solidale legato alle persone recluse nel territorio. L’obiettivo, infatti, è di aiutare chi sta per terminare la pena nel fare il passo più difficile: quello del reinserimento. Trovare un lavoro e soprattutto trovare un tetto, per chi esce dal carcere, è il passaggio più complicato, quello in cui si scontano giudizi e pregiudizi che avvolgono chi ha subito condanne. Per chi ha subito condanne inferiori ai tre anni (e dunque può accedere alle pene alternative alla detenzione in cella) o per chi si avvia a completare il tempo della pena e può accedere alla semilibertà, o anche per chi fruisce di permessi premio, la fatica numero uno consiste nel trovare chi - fuori - dia fiducia e metta a disposizione strutture e servizi. “L’idea - spiega il direttore della Caritas diocesana, Franco Sensini - è di spostare le donne che attualmente fanno questo percorso avendo per base lo stabile di Santa Chiara, a piazzale Roma. Per loro rendiamo disponibili sette posti in Casa San Giuseppe alle Muneghette”. Quanto il trasferimento verrà compiuto sarà possibile ospitare a Piazzale Roma uomini reclusi a Santa Maria Maggiore e nelle condizioni per poter uscire dal carcere, una volta ottenuto anche il benestare del magistrato. In questo modo si darà una risposta ad un’emergenza ancora maggiore rispetto a quella delle donne: “Per i detenuti - riprende Franco Sensini - ci sono anche altre due opportunità per cui la Caritas e la Diocesi stanno investendo risorse. La prima è Casa Mons. Vianello a Campalto”. Lo stabile, già utilizzato per questo scopo e adesso vuoto, ha bisogno di un intervento di manutenzione per riprendere la sua funzione: “Una risistemazione, con gli adeguamenti necessari, va fatta; ma non si tratta di un intervento molto gravoso. Una volta ottenute le autorizzazioni, i lavori dureranno pochi mesi. La speranza è quella di poter arrivare ad inaugurazione entro l’anno giubilare”. Casa Mons. Vianello, che dispone di un ampio spazio verde e di una decina di posti letto, su due piani, sarà una risposta importante. Anche perché oltre a fornire un tetto garantirà anche un accompagnamento ai suoi ospiti: “I detenuti che escono vanno seguiti, accompagnati non solo in un processo di verifica e controllo, ma anche all’interno di un percorso rieducativo e di nuova integrazione. Per loro infatti, è essenziale riappropriarsi della propria autonomia, che significa saper gestire il denaro, farsi le spese, tenere in ordine una casa, cucinare…”. In questo senso, per Casa Mons. Vianello, la Caritas veneziana sarà affiancata da Fondazione Esodo, composta dalle diocesi di Verona, Vicenza, Venezia, Belluno e Rovigo, e dalla cooperativa Nova, che supporterà con proprio personale le attività da compiere. Ma c’è un’altra novità ancora più imminente: “A giorni - spiega il direttore della Caritas - andremo a firmare il contratto per ottenere un appartamento da Ater Venezia, così da metterlo a disposizione degli ospiti del carcere maschile. Sarà a Marghera e renderà disponibili altri quattro posti letto, in un alloggio semplice e sobrio, ma rispettoso di tutte le norme di sicurezza e adatto per questo tipo di attività”. Genova. “Ponte tra carcere e società, un Centro d’ascolto per detenuti e famiglie di Tiziana Oberti primocanale.it, 30 marzo 2025 L’idea dell’arcivescovo mons. Marco Tasca aperto anche alle vittime dei reati. Un centro di ascolto diocesano dedicato alle necessità dei detenuti e delle loro famiglie. E’ l’incarico affidato dall’arcivescovo di Genova mons. Marco Tasca e presentata nella lettera pastorale “Cammino di libertà” in occasione della Quaresima. Una iniziativa per rafforzare il ruolo della Chiesa come “ponte” tra il carcere e la società, offrendo supporto materiale e spirituale a chi vive l’esperienza della detenzione, alle famiglie ma anche alle vittime dei reati. Il nuovo centro si inserisce in un contesto di impegno già consolidato della Chiesa genovese attraverso cappellani, diaconi, religiosi e volontari laici. Mons. Tasca sottolinea poi l’importanza di “non lasciare indietro nessuno”, invitando la comunità cristiana a vivere la misericordia anche nei luoghi della detenzione. “Ho dato quindi incarico di realizzare, anche come frutto concreto di questo Anno Santo, un centro di ascolto diocesano per le necessità dei detenuti e delle loro famiglie, su modello di quanto già avviene con il FAU (Fondazione Anti Usura) - scrive il vescovo Tasca - uno sportello aperto, con molta discrezione e delicatezza, ai problemi delle famiglie dei detenuti, inserito nella rete ecclesiale, anche solamente per strappare le famiglie dalla loro solitudine, dalla stigmatizzazione da parte della società e per favorire percorsi di detenzione alternativa o di presa in carico di quei soggetti che ne manifestano la volontà, ma anche come sguardo aperto alle vittime dei reati e alle loro famiglie, per cui la Chiesa, da sempre ministra della riconciliazione, non può ignorare i percorsi ormai recepiti dal mondo della giustizia e proposti come giustizia riparativa”. Il centro di ascolto diocesano sarà un punto di riferimento per ascoltare le esigenze dei detenuti e delle loro famiglie, facilitando il reinserimento sociale e offrendo sostegno psicologico, burocratico e lavorativo. L’iniziativa si affianca ai 33 centri di ascolto Vicariali già attivi nella Diocesi di Genova, che ogni anno assistono migliaia di persone in difficoltà. Mons. Tasca esorta i fedeli a guardare ai carcerati con compassione cristiana, ricordando che la visita ai carcerati è un’opera di misericordia utilizzando la parabola del figliol prodigo usata per illustrare il percorso di perdita e ritrovamento della libertà, paragonandolo all’esperienza dei detenuti. Una richiesta di attenzione dell’arcivescovo “in sintonia con quanto espresso da Papa Francesco nella bolla di Indizione del Giubileo: “saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle detenuti”. “Liberi” ma rinchiusi in gabbie invisibili - “La riflessione sul carcere può esserci di stimolo a considerare tutto ciò che può limitare le nostre libertà personali - scrive sempre Tasca nella lettera - anche noi, esseri ‘liberi’, siamo spesso rinchiusi in gabbie invisibili fatte di dipendenze e di pregiudizi, di asservimento alla moda o al pensiero dominante, di manie complottiste, dell’incapacità di esercitare un pensiero critico. E tutti, senza esclusione, dobbiamo avere la consapevolezza della nostra fragilità e del nostro peccato; specie quando quest’ultimo può essere di fronte a Dio molto più grave del ‘reato’ che ha portato in carcere un nostro fratello. Questa consapevolezza su noi stessi ci aiuti a guardare il mondo dei carcerati con occhio non giudicante ma cristianamente compassionevole, come sempre la Chiesa ha fatto in obbedienza alle indicazioni di Cristo il quale ha posto la visita ai carcerati (non a quanti sono ingiustamente carcerati, ma a tutti indistintamente) sullo stesso piano delle altre opere di misericordia” Carceri genovesi luoghi giubilari - “Le carceri sono luoghi dove siamo chiamati a vivere le opere di misericordia e, come Chiesa che è in Genova abbiamo voluto sottolineare questo riconoscendo la casa circondariale di Marassi e quella di Pontedecimo quali luoghi giubilari. Essi sono luoghi aperti, nelle forme e nelle modalità consentite, per fare esperienza del richiamo evangelico “siete venuti a visitarmi”. I cappellani sono quindi a disposizione per concretizzare questa opportunità, che, laddove non si possa tradurre in una presenza fisica dentro i confini degli istituti penitenziari, può diventare occasione di testimonianza per gruppi e parrocchie, oppure di particolare attenzione delle stesse con momenti di preghiera e raccolte mirati. Milano. “La Costituzione è amica e compagna di strada anche in cella” di detenuti di San Vittore Corriere della Sera, 30 marzo 2025 Lo scritto con cui i detenuti hanno dato il benvenuto a professori e studenti del corso di diritto costituzionale coinvolti in una serie di lezioni-dibattito.- Studenti del corso di diritto costituzionale sono coinvolti in una serie di lezioni-dibattito sulle principali problematiche carcerarie con alcuni detenuti del carcere di San Vittore, nell’ambito dell’iniziativa “Constitutional law in action”, che vuole portare gli studenti nei luoghi simbolo delle istituzioni, affinché comprendano come la Costituzione incida nella vita di tutti. Di seguito pubblichiamo la lettera con cui i detenuti hanno accolto studenti e professori. Un benvenuto agli studenti e ai professori di Bocconi, e un ringraziamento in particolare alla presidente Cartabia per questa rinnovata presenza tra noi. Grazie alla Direzione che ancora una volta dà spazio a iniziative come questa. “Costituzione viva” è un minimo laboratorio di alfabetizzazione costituzionale che ha raccolto gli stimoli del Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale, per la prima volta a San Vittore nel 2018 con l’allora vicepresidente Marta Cartabia. In questo spazio d’incontro continua a risuonare l’appello lanciato nel 1995 da un padre costituente, Giuseppe Dossetti, in un momento di serio pericolo della Costituzione: “Cercate di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi princípi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada”. La Costituzione amica e compagna di strada anche in carcere, nella dura condizione di privazione della libertà. La Costituzione, infatti, non si ferma all’ingresso del carcere: le sue garanzie e tutele valgono per tutti, anche per i detenuti, limitati nella libertà ma non nella dignità, fondamento assoluto degli intangibili diritti della persona che l’esecuzione penale non può in nessun caso violare. Diritti, non concessioni umanitarie o semplici aspettative. E che ci caricano di enorme responsabilità: essere all’altezza dell’amicizia costituzionale indicata da Dossetti; all’altezza delle grandi promesse della Costituzione che nasce anche nelle carceri, anche qui a San Vittore, dove con le loro speranze e le loro scelte di vita, negli anni drammatici di lotta al nazifascismo, furono in tanti a tracciare - veri e propri “protocostituenti” - le prime linee dello straordinario disegno costituzionale. E a scrivere quelle parole di pari dignità, uguaglianza sostanziale, solidarietà, giustizia sociale, che restano il vocabolario minimo e sempre necessario per dire del volto costituzio-nale della pena e delle pene. Per dire della distanza che c’è tra come la pena dovrebbe essere e come troppo spesso è; e della strada ancora da percorrere perché questo volto non abbia sfregi. Ci rende felici poter fare ora un tratto di questa strada anche con voi. Grazie di vivo cuore. Roma. Il convegno “Sovraffollamento nelle carceri”, una ferita aperta della nostra società leggo.it, 30 marzo 2025 Il convegno si terrà giovedì 10 aprile alle ore 17:00 in Piazza Montecitorio 116, a Roma. “Sovraffollamento nelle carceri: è ancora emergenza”, il convegno promosso dall’Associazione Uniti nel Fare presieduta da Renata Polverini, che si terrà giovedì 10 aprile alle ore 17:00 in Piazza Montecitorio 116, Roma, volto a discutere il grave problema del sovraffollamento nelle carceri italiane. Secondo il sottosegretario Delmastro le carceri affollate sono colpa degli stranieri: “Rimandiamoli a casa loro”. La situazione nelle carceri italiane rimane critica con una crisi sociale e umana sempre maggiore, le misure adottate finora non sono sufficienti per garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti. Urgente un intervento riformatore. Questo fenomeno non è solo una questione di diritti umani, ma rappresenta anche un grave rischio per la sicurezza e la salute dei detenuti e del personale penitenziario. Le strutture carcerarie, già in condizioni critiche, si trovano a fronteggiare un numero di detenuti ben superiore alla loro capacità. Questo sovraffollamento genera un ambiente di vita insostenibile, compromettendo il diritto alla dignità e al trattamento umano delle persone private della libertà. Inoltre, le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i detenuti possono portare a tensioni interne, violenze e un aumento del rischio di recidiva. “Il sovraffollamento delle carceri è una ferita aperta nella nostra società”, afferma Renata Polverini. “Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a una situazione che viola i diritti fondamentali delle persone. È tempo di agire, di rivedere le politiche penali e di garantire un sistema che non solo punisca, ma anche riabiliti”. L’evento vedrà la partecipazione di illustri relatori, tra cui il Sen. Francesco Paolo Sisto (Vice Ministro della Giustizia) Rita Bernardini (Presidente Associazione “Nessuno tocchi Caino”), l’Avvocato Irma Conti (Componente del Garante Nazionale delle persone private della libertà), l’Avvocato Cesare Placanica (già Presidente della camera penale, cassazionista), l’Avvocato Luigi Pelaggi (Avvocato Cassazionista), Piero Sansonetti (Direttore dell’Unità) e Gaia Tortora (Giornalista e conduttrice televisiva). Modera Philip Willan (Corrispondente del Times). Insieme per offrire testimonianze e analisi sulla situazione attuale del sistema penitenziario italiano, proponendo possibili soluzioni e strategie per affrontare questa emergenza. Il sovraffollamento delle carceri rappresenta una questione critica che richiede un intervento urgente e coordinato, non solo per garantire il rispetto dei diritti umani, ma anche per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e favorire un processo di riabilitazione efficace. Roma. A Rebibbia i capolavori della letteratura diventano percorso di riabilitazione e riscatto di Lorena Crisafulli L’Osservatore Romano, 30 marzo 2025 L’iniziativa “Libri Liberi” nell’istituto penitenziario. Immergersi in altre storie provenienti da luoghi e tempi remoti, ma in grado di restituire la dimensione più autentica e intima di un’umanità talvolta perduta in un luogo difficile come il carcere. È accaduto a Rebibbia con la rassegna letteraria “Libri Liberi”, promossa dalla Fondazione De Sanctis allo scopo di offrire alle persone detenute la possibilità di esplorare le profondità della condizione umana attraverso alcuni capolavori della letteratura. Il primo appuntamento della rassegna, che toccherà altre città e si concluderà a dicembre, si è svolto nella casa circondariale romana il 6 marzo, alla presenza di Margherita Cassano, prima presidente della Corte Suprema di Cassazione italiana e Teresa Mascolo, dirigente penitenziario e direttore della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. L’iniziativa è patrocinata dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura. “Libri Liberi si propone di abbattere le barriere dell’isolamento, trasformando le carceri in luoghi di apprendimento, crescita e speranza - dichiara Francesco De Sanctis, Presidente della Fondazione De Sanctis -. Questo progetto non solo favorisce la crescita personale e l’empowerment dei detenuti, mediante la cultura e la conoscenza, ma promuove anche l’inclusione sociale e la sensibilizzazione sulle sfide e sulle opportunità di reintegrazione nella società”. Diversi nomi e volti conosciuti al grande pubblico hanno deciso di supportare “Libri liberi” per il suo valore sociale e culturale, consapevoli della forza della letteratura nel trasformare anche le esperienze più difficili e complesse: Maurizio De Giovanni con Fabrizio Bentivoglio, Elisa Fuksas con Elena Lietti, Daniele Mencarelli con Alessio Boni, Aurelio Picca con Sergio Rubini, per citarne solo alcuni. Stefano Fresi ed Edoardo Albinati hanno avviato l’iniziativa nel carcere di Rebibbia ripercorrendo “L’Odissea”, e altri si avvicenderanno nelle tappe successive in giro per l’Italia e poi di nuovo a Roma: Rosella Postorino e Francesco Montanari il 15 maggio a Regina Coeli per raccontare “La strada di San Giovanni” di Italo Calvino e il 9 giugno Giulia Caminito e Claudia GerMi nel carcere minorile di Casal del Marmo con le letture de “L’isola di Arturo” di Elsa Morante. “Con il prezioso contributo di attori e scrittori di fama, gli incontri diventano esperienze uniche e irripetibili, in cui le storie prendono vita attraverso letture avvincenti e discussioni appassionate”, rende noto la Fondazione. Nel corso dell’incontro a Rebibbia, accolti dall’entusiasmo delle persone detenute sedute in sala, Albinati e Fresi hanno raccontato e letto alcuni dei passi più significativi dell’Odissea: l’incontro con Polifemo e le sirene, la vendetta sui pretendenti di Penelope, l’abbraccio tra Ulisse e la moglie, sullo sfondo il tema principale dell’opera, ovvero il viaggio, quel “nostos” (ritorno) che richiama l’atmosfera della nostalgia, la tensione del ritorno. Un viaggio che riconduce a Itaca, la casa di Ulisse, in un cammino ricco di sfide e ostacoli che il protagonista deve affrontare e superare per vincere la battaglia con se stesso. “L’Odissea, con il suo schema classico dell’avventura, è una metafora della detenzione”, ha fatto notare lo stesso Albinati, che ha insegnato a Rebibbia per quasi 3o anni. Nel suo intervento Fresi ha ricordato il film in cui era uno dei protagonisti, “Smetto quando voglio”, dove l’episodio di fuga era ambientato proprio tra le mura di Rebibbia: “Il valore di questa iniziativa risiede nel ribadire che il carcere non deve allontanare dalla società, ma promuovere il reinserimento”, ha specificato l’attore romano. Grazie alla partecipazione attiva delle persone detenute, l’incontro è stato arricchito di una dimensione interattiva dove il dialogo e il confronto hanno contribuito a creare un ambiente di riflessione. “Siamo pezzi di carta, non siamo accolti come Ulisse, ci portiamo sempre dietro il pregiudizio e viviamo la nostra Odissea”, ha dichiarato commosso uno dei detenuti presenti in sala. “Sono in carcere da vent’anni, la cultura mi ha dato la forza e come Ulisse che sperava che la moglie lo aspettasse, anche noi non dobbiamo perdere la speranza”, ha chiosato un altro tra loro. “Penso alla figura di Penelope che rappresenta la speranza e al contempo la perseveranza, due sentimenti centrali per chi si trova in carcere - ha poi aggiunto Andrea O stellari, Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia -. Quello che porta alla libertà è un percorso difficile e può capitare che si cada o ricada in qualcosa di sbagliato. Bisogna perseverare e non perdere mai la speranza di un futuro migliore. Il governo fa e continuerà a fare la sua parte. Sappiamo che il 98% di chi impara a fare qualcosa in carcere poi una volta uscito non delinque più, dobbiamo investire in questo e sul personale da incrementare. Importanti anche le “strutture esterne”, previste dal decreto ministeriale di prossima pubblicazione: aiuteranno i detenuti che, nonostante abbiano completato il percorso di pena, non possono uscire dal carcere per mancanza di un domicilio idoneo”. Il carcere romano non è nuovo alla promozione di esperienze culturali di questo tipo, si pensi ad altri progetti dove l’arte è stato il filo conduttore e l’elemento trainante di un modo diverso di vivere la reclusione: “Credo ancora nelle favole”, il laboratorio teatrale realizzato con alcune persone detenute all’interno della casa circondariale romana, “L’arte non ha sbarre”, il progetto di riabilitazione attraverso l’arte-terapia e i laboratori manuali di pittura per sensibilizzare í cittadini sulle difficoltà della vita in carcere e sulle possibilità di rieducazione delle persone detenute, oltre ai tanti corsi per favorire il reinserimento lavorativo post reclusione come “Fratelli tutti”, la formazione professionale per i detenuti di Rebibbia. Tutte iniziative che hanno cercato in qualche modo di alleviare la condizione di reclusione di coloro che stanno scontando una pena, per aiutarli nel difficile percorso di reintegrazione sociale che li attende alla fine del percorso di reclusione. E l’idea alla base della rassegna promossa dalla Fondazione De Sanctis è proprio quella di rendere la cultura un mezzo di riscatto e di rinascita per queste persone, in un luogo in cui la vita scorre lenta e l’incertezza del “dopo” acuisce per loro la spaccatura tra “dentro” e “fuori”, un fuori sbiadito e per alcuni ancora troppo incerto che si riaccende solo nella speranza di poterlo rivivere al più presto. Follonica (Gr). Tra teatro ed educazione civica: gli studenti assistono allo spettacolo dei detenuti della Gorgona ilgiunco.net, 30 marzo 2025 In scena “Una tempesta” di Shakespeare: l’esperienza per avvicinare i ragazzi ai temi del potere del perdono e della libertà. Emozione e commozione, per uno spettacolo che li ha fatti riflettere e crescere. È l’esperienza vissuta dai ragazzi e dalle ragazze delle classi seconde e terze delle scuole medie follonichesi, “Pacioli” e “Bugiani”, che nei giorni scorsi, alla Fonderia Leopolda, hanno assistito alla rappresentazione “Una tempesta” della Compagnia del Teatro popolare delle arti. Lo spettacolo, con la regia di Gianfranco Pedullà e con il coordinamento della attrice e regista Chiara Migliorini, è il frutto di un progetto teatrale e musicale realizzato con i detenuti della Casa circondariale della Gorgona. Le alunne e gli alunni dei due istituti, nelle settimane precedenti all’evento, hanno seguito in classe un percorso di avvicinamento, sia alla esperienza teatrale della Casa di reclusione, sia ai temi del potere del perdono e della libertà derivanti dal testo di Shakespeare da cui è tratta la rappresentazione. “Esperienze come questa - spiegano i docenti - completano e rafforzano le attività di educazione civica su cui le scuole si impegnano attivamente. Ma non solo. Sono finalizzate a fornire agli studenti una visione corretta dei valori e dei principi alla base della nostra Costituzione. Non a caso, all’ingresso del teatro era stato affisso un cartello con l’articolo 27: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Particolarmente emozionante - affermano gli organizzatori - è stato il momento successivo alla rappresentazione teatrale, quando le ragazze e i ragazzi hanno dialogato con gli attori, stabilendo un vero e proprio interscambio emotivo che ha arricchito lo spirito di tutti i presenti. L’evento è stato organizzato in collaborazione con l’associazione Lotus, nell’ambito del progetto Teatro del mare, sostenuto dalla Regione Toscana. Un ringraziamento alle due dirigenti scolastiche Elisa Ciaffone e Paola Brunello”. Firenze. Materia Prima Festival: “Il Giardino degli Incontri” con i detenuti di Sollicciano portalegiovani.comune.fi.it, 30 marzo 2025 Giovedì 3 aprile 2025, alle ore 19.00, arriva in programma l’appuntamento finale del Materia Prima Festival di Murmuris alla Casa Circondariale di Sollicciano, dove la compagnia formata dai detenuti del carcere sarà protagonista dello spettacolo itinerante “Il Giardino degli Incontri”. Prenotazione obbligatoria con documento d’identità a info@materiaprimafestival.com entro il 15/03. Replica venerdì 4 aprile alle ore 19.00. Prodotto da Krill Teatro - realtà che dal 2008 promuove le arti sceniche all’interno del penitenziario di Firenze - con la regia di Elisa Taddei, il lavoro prende il nome dallo spazio realizzato dall’architetto Giovanni Michelucci per i colloqui tra i detenuti e i loro familiari. Il Giardino degli Incontri fu l’ultimo progetto realizzato da Michelucci insieme ad alcuni detenuti del carcere, morirà prima di vederlo terminato. Un’esperienza di progettazione condivisa che l’architetto ritenne una delle più belle della sua vita. Lo spettacolo inizia proprio da questa storia così speciale: è il giorno della inaugurazione del Giardino, gli spettatori vestono i panni dei familiari venuti per il colloquio. Ma il Giardino è infestato da strane presenze, che sono lì per un motivo preciso. Materia Prima Festival è a cura di Murmuris, col sostegno e il contributo di Mic - Ministero della Cultura, Regione Toscana, Comune di Firenze, Fondazione CR Firenze, Unicoop Firenze. In collaborazione con In-box, Firenze dei Teatri, Rat - Residenze Artistiche Toscane, Patto per la lettura del Comune di Firenze, Rete delle librerie indipendenti, C.Re.S.Co. coordinamento realtà scena contemporanea; Toscana Terra Accogliente, Accademia Italiana, ISIA Firenze. Nell’ambito della Multiresidenza Creativa Flow insieme a Elsinor - Centro di Produzione Teatrale e Versiliadanza. Murmuris è una realtà culturale che dal 2007 si occupa di promozione del contemporaneo attraverso progetti, laboratori, spettacoli, eventi. Tema fondante della sua identità è il continuo confronto tra i diversi linguaggi dello spettacolo dal vivo e l’indagine del rapporto fra scena e spettatore. Parallelamente alla attività creative e produttive, Murmuris si occupa di organizzazione: dal 2007 al 2013 cura la direzione artistica e organizzativa del Teatro Everest di Firenze, per diventare dal 2013 parte della multiresidenza creativa del Teatro Cantiere Florida, insieme a Elsinor Centro di produzione teatrale e Versiliadanza. Per maggiori informazioni: www.murmuris.it Gli anti-fascisti e la guerra persa della memoria, in Italia di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 30 marzo 2025 Milioni di italiani non sanno quale tragedia sia stato il fascismo, e non lo vogliono sapere. L’antifascismo è considerato di parte, perché molti pensano, magari in buona fede, che la Resistenza sia stata fatta soltanto dai comunisti, o comunque dalla sinistra. Ma non è vero. In questi trent’anni in Italia si è combattuta una guerra della memoria. E questa guerra noi antifascisti l’abbiamo perduta. Nettamente e clamorosamente. Non è stata una sconfitta elettorale. Non solo perché le elezioni la sinistra le ha quasi sempre perse. Anche perché solo in Italia - e questo è un altro segno della nostra sconfitta - è passata l’idea per cui se sei antifascista sei comunista, o comunque di sinistra. Non è così. Il nazifascismo fu sconfitto da uomini di destra. Un conservatore inglese come Winston Churchill. Un nazionalista francese come Charles de Gaulle. I nazisti, prima ancora di eliminare gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, cominciarono a eliminare i bambini Down. Li chiudevano dentro camion che diventavano primordiali camere a gas. Il programma di eliminazione dei “minorati mentali” fu interrotto grazie all’intervento di un oppositore del regime. Non era un bolscevico; era un vescovo, di famiglia aristocratica. Si chiamava Clemens August Joseph Pius Emanuel Antonius von Galen. Dal pulpito della cattedrale di Münster disse: “Hai tu, ho io, il diritto alla vita soltanto finché noi siamo produttivi, finché siamo ritenuti produttivi da altri? Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo improduttivo possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e decrepiti… Nessuno è più sicuro della propria vita”. Martin Bormann, il segretario di Hitler, propose: “Impicchiamolo”. Non era uno scherzo: i ragazzi della Rosa Bianca, studenti universitari colpevoli di aver distribuito qualche volantino, furono dai nazisti torturati e decapitati (questi erano gli alleati che Mussolini si scelse). Fu Joseph Goebbels, che conosceva l’arte della propaganda, a obiettare che impiccare un vescovo non era una buona idea. La donna che Charles de Gaulle amò di più nella sua vita era la figlia Anne, affetta dalla sindrome di Down, che spirò a vent’anni tra le sua braccia. Così il Generale e sua moglie, la cattolicissima Yvonne, aprirono un istituto per accogliere e salvare i bambini come quelli che il Fuehrer sopprimeva con il gas. La scelta tra il nazifascismo e i suoi oppositori non è la scelta tra la destra e la sinistra. È la scelta tra la barbarie e la civiltà. Eppure questa conclusione, considerata in tutto il mondo un’ovvietà, in Italia è contestata. Di solito si dice: il problema è che in Italia manca la memoria condivisa. Vi confesso che alla memoria condivisa non credo. Di memoria ognuno ha la sua, e non la può cambiare. La memoria di chi ha portato gli ebrei italiani ad Auschwitz non può essere la stessa di chi ha lottato contro coloro che portavano gli ebrei italiani ad Auschwitz. Non la memoria, ma i valori dovrebbero essere condivisi. Invece il valore dell’antifascismo è considerato oggi un valore di parte. Una cosa solo di sinistra. Nulla di più sbagliato. Le prime bande partigiane furono fondate da ufficiali dell’esercito, in particolare da alpini che erano stati in Russia, e dopo essere stati testimoni della guerra di sterminio condotta dai tedeschi avevano tenuto le armi, convinti che prima o poi avrebbero dovuto usarle contro di loro. La maggior parte degli italiani si illusero invece che bastasse concludere l’armistizio con gli angloamericani per uscire indenni dal conflitto. Non avevano capito che, per il regime nazista e il loro criminale capo, la guerra era ormai una questione di vita e di morte; e che l’Italia sarebbe diventata un campo di battaglia, una terra di conquista. La Resistenza comincia subito dopo l’8 settembre. Comincia a Porta San Paolo e sul ponte della Magliana, dove reparti dell’esercito e uomini del popolo tentano di resistere ai tedeschi. Comincia a Cefalonia, dove il generale Gandin chiede ai suoi uomini di votare - ragazzi di vent’anni che non avevano mai votato in vita loro, che non sapevano neppure cosa volesse dire votare - per decidere se arrendersi ai tedeschi o combatterli. Prevale la decisione di combattere, e all’inizio gli italiani hanno la meglio, poi i bombardamenti della Luftwaffe li costringono alla resa, cui seguono fucilazioni di massa e affondamenti di navi: i caduti sono più di seimila. La Resistenza prosegue nei campi di concentramento tedeschi. In pochi giorni, i nazisti fanno prigionieri 800 mila soldati italiani. Vengono portati nei lager, spogliati, affamati, umiliati, azzannati dai cani lupo. Poi viene detto loro: ora vi diamo da mangiare, vi forniamo una divisa, vi liberiamo; ma dovete firmare qui e impegnarvi a combattere per noi, per i tedeschi. Oltre seicentomila, la netta maggioranza, risponde di no, e sceglie di restare nei lager in condizioni disumane - almeno sessantamila moriranno di fame e di stenti - pur di non combattere più per Hitler e Mussolini. Tra loro c’era Alessandro Natta, futuro capo del partito comunista, che solo in tarda età pubblicherà un libro intitolato non a caso “L’altra Resistenza”; e c’era Giovanni Guareschi, anticomunista di ferro, il papà di don Camillo e Peppone, che nel suo diario scrive: “Non muoio neanche se mi ammazzano”. C’erano i padri di Francesco Guccini e di Al Bano, di Antonio Di Pietro e di Vasco Rossi, che si chiama così perché il padre Giancarlo stava morendo, in una buca scavata da una bomba americana, quando un compagno lo tirò su di peso: “Come ti chiami? Vasco? Se un giorno avrò un figlio, lo chiamerò come te”. Sono gli internati militari in Germania, e di loro si è sempre parlato molto poco. Era un internato militare in Germania anche il capitano Giuseppe De Toni, che al fratello scrive di voler restare nel campo di prigionia per “dimostrare che vi sono degli Italiani pronti a sacrificare tutto per un’Italia rispettata, onorata”. Lo stesso concetto, quasi le stesse parole che scrive al padre il capitano Franco Balbis, prima di affrontare il plotone d’esecuzione fascista, e che danno il titolo a questo libro: “Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero”. E anche la data è la stessa: 5 aprile 1944. Due capitani, due ufficiali italiani che non si sono mai incontrati e mai si incontreranno, perché nessuno dei due sopravvivrà alla guerra ed entrambi daranno la vita per la patria, scrivono la stessa cosa, interpretano la Resistenza come riscatto nazionale e morale, come rinascita politica e umana, dopo la notte e la vergogna nazifascista. Franco Balbis era un ufficiale dell’esercito. Aveva combattuto la seconda guerra mondiale in Africa. Prima di essere fucilato, lascia scritto di celebrare una messa ogni anno nell’anniversario della battaglia di El Alamein, in memoria dei commilitoni caduti. Il capitano Balbis faceva parte del comitato militare della Resistenza piemontese, catturato dai nazifascisti mentre era riunito non in una fabbrica occupata, non in una sezione del partito comunista, ma nella sacrestia del Duomo di Torino, con il consenso dell’arcivescovo. Con i militari vengono presi i rappresentanti dei partiti, tra cui un comunista, uno solo: Eusebio Giambone, un amico di Gramsci, operaio della Fiat costretto all’esilio. Anche lui si alza in piedi a gridare “Viva l’Italia!”, quando lo ordina il capo del comitato militare, il generale Giuseppe Perotti. Il tenente Silvio Geuna, condannato all’ergastolo, ha offerto la sua vita per salvare quella del generale, condannato a morte. Perotti, che non vuole essere salvato, tronca la discussione gridando: “Signori ufficiali, in piedi!”. Gli ufficiali si alzano in piedi. “Viva l’Italia!” grida il generale Perotti. “Viva l’Italia!” rispondono gli alti condannati. Una scena di straordinaria forza morale, di commovente nobiltà d’animo. E io, nel mio piccolissimo, sono orgoglioso di aver pagato un piccolissimo prezzo - essere insultato non solo sui social ma pure sui giornali, pure da illustri accademici, fascisti o ex maoisti convertiti, più le telefonate anonime, le mail di offese, le lettere di minaccia - per aver raccontato storie come questa. Eppure, sia chiaro, hanno vinto loro. I fascisti, e gli anti-antifascisti. Milioni di italiani che non sanno quale tragedia sia stato il fascismo, e soprattutto non lo vogliono sapere. E pensano, magari in buona fede, che la Resistenza sia stata fatta soltanto dai comunisti, o comunque dalla sinistra. In realtà, la Resistenza fu un fenomeno plurale. Fu fatta da partigiani di ogni fede politica: comunisti, socialisti, azionisti, anarchici; ma anche moderati, cattolici, liberali, monarchici; e soprattutto ragazzi di vent’anni che non sapevano neppure cosa fosse un partito, ma non volevano più combattere per Hitler o Mussolini. Erano autonomi dai partiti i comandanti militari della Repubblica dell’Ossola, primo esperimento democratico nell’Italia ancora occupata dai nazisti: Dionigi Superti, napoletano, aviatore della Grande Guerra, e Alfredo Di Dio, palermitano, che cadrà in combattimento il 12 ottobre 1944. Era un autonomo Ernesto Martini “Mauri”, che comandava la Resistenza sulle Langhe, e aveva ai suoi ordini il giovane monarchico Beppe Fenoglio. Era un cattolico Ignazio Vian, l’eroe di Boves - il primo paese bruciato dai nazisti - impiccato a un albero nel centro di Torino. A gonfiare le bande dei resistenti furono i bandi Graziani, che obbligavano i giovani italiani a combattere dalla parte dei tedeschi. Molti andarono convinti. Molti andarono per paura, qualcuno di loro disertò alla prima occasione. Molti si nascosero: erano renitenti alla leva i fucilati dalla banda Carità in campo di Marte a Firenze, e la maggioranza dei giovani impiccati agli alberi di Bassano del Grappa. Molti salirono in montagna. La Resistenza però non fu fatta solo dai partigiani, ma anche dai civili, dai contadini che protessero i patrioti, dagli ebrei, dalle donne, dalle suore che nascosero i perseguitati nei conventi, dai sacerdoti. Si parla molto, e giustamente, dei preti fucilati dai partigiani; non si parla mai dei 190 sacerdoti fucilati dai fascisti e dai 120 fucilati dai tedeschi, perché avevano scelto la Resistenza. Sacerdoti che decisero di morire accanto ai fedeli, come don Ferrante Bagiardi: “Vi accompagno io davanti al Signore” disse prima di affrontare il plotone d’esecuzione nazista. O come suor Enrichetta Alfieri, la protettrice dei prigionieri di San Vittore, tra cui Mike Bongiorno e Indro Montanelli, che al processo di beatificazione dichiarò: “Certe cose possono farle solo i santi o gli eroi; e suor Enrichetta era entrambe le cose”. La Resistenza fu fatta anche dai militari. Dai soldati che combatterono al fianco degli Alleati. Dai prigionieri che rifiutarono di andare a Salò. Dai carabinieri deportati a migliaia di Germania. Dai poliziotti che presero le armi per difendere gli ebrei, come Giovanni Palatucci, Angelo De Fiore, Mario Canessa, Mario De Nardis, che sono oggi Giusti tra le Nazioni. La Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione. Migranti. I Centri d’Albania diventano carceri di Carlo Tecce L’Espresso, 30 marzo 2025 Stroncata dai giudici l’idea di utilizzare le colonie extraterritoriali per i rifugiati in attesa di asilo, Meloni cambia ancora: con un decreto legge approvato in Consiglio dei ministri nelle strutture verranno spediti i “clandestini da cacciare”. Ma riuscirci non sarà così facile. Ecco la soluzione per altri titoli da propaganda: mandiamo i migranti da espellere in Albania. Con un decreto legge approvato oggi in Consiglio dei ministri. Facile, no? Non proprio. Qualche minuto di pazienza. Per il governo italiano i centri migranti in Albania sono una specie di seconda casa di proprietà. Come le seconde case, lontane, costose, spesso inutili. Quanti tentativi falliti. Ci mandiamo i migranti per sbrigare in fretta le richieste di protezione internazionale, le domande di asilo. Allestiamo a suon di milioni un gigantesco effetto “deterrenza” - una delle parole che ti forniscono quando vai al potere assieme a “escalation” e “resilienza” - per scoraggiare le traversate in mare di disperati che, secondo gli arguti piani di Palazzo Chigi, dovrebbero spaventarsi di un trasbordo in Albania. Finisce che il diritto, cioè i giudici che applicano le leggi, rispedisce i migranti in Italia. Allora facciamo un decreto per rivedere la lista dei cosiddetti “Paesi sicuri” e finisce di nuovo che il diritto li rispedisce in Italia. La terza volta è successo a febbraio con 43 migranti riportati in Italia con una motovedetta della Guardia Costiera perché liberati da una sentenza della Corte di appello di Roma che non ha convalidato il loro trattenimento in Albania. Dunque il governo italiano, proprio per dimostrare che questa seconda casa ha un senso e non è uno spreco, un clamoroso spreco, oggi ha indicato una svolta all’italiana: i centri in Albania non li utilizziamo soltanto per sbrigare in fretta le richieste di protezione internazionale quando sarà possibile e se sarà possibile, in attesa che la Corte di giustizia europea si esprima sui “Paesi sicuri” (entro giugno), ma li utilizziamo per trasferire in Albania i migranti che devono essere espulsi. Quelli che, riassumono col solito garbo i media di governo, sono “clandestini da cacciare”. Passare da “deterrenza” a “detenzione” è un attimo. Una semplice conversione con un decreto legge. Si diceva: facile, no? Non proprio. Per niente. Per vari motivi che si sciolgono in uno: il protocollo di intesa firmato dai governi di Italia e di Albania prevede altro e le stesse costruzioni in Albania sono predisposte per altro. In questa lunga baruffa fra il governo italiano e il diritto internazionale, un dato è certo: il costo per lo Stato. Il protocollo di durata decennale, cinque anni più cinque attivabili tacitamente, ha generato stanziamenti per oltre 726 milioni di euro: 680 si riferiscono al fabbisogno per il primo quinquennio; 45,6 sono appoggiati sul quinquennio seguente, ma chiaramente sono una posta provvisoria nel bilancio pubblico. Il traguardo di un miliardo di euro in un decennio è più che verosimile. Senza inoltrarci troppo nel misterioso futuro, è sufficiente calcolare la spesa fin qui: per il 2024 ci sono 73,5 milioni di euro per avviare i centri e 97,5 milioni per la gestione; per il 2025 ci sono 127,2 milioni di euro di generica dotazione finanziaria. Il consuntivo non è disponibile, ma per questo biennio il governo ha mobilitato risorse per circa 300 milioni di euro. Al momento in Albania ci sono due centri per migranti dove vige la giurisdizione italiana e operano soltanto italiani, due centri vuoti presidiati da decine di agenti di polizia e centinaia di telecamere. Il sito portuale di Schengjin, una frazione del comune di Lezhe, è stato allestito per identificare e accogliere i migranti soccorsi in mare, tassativamente maschi adulti e all’apparenza in buona salute. Il sito interno di Gjader, un ex sede dell’Aeronautica albanese senza fogne, senza rete idrica, senza strade decenti, arroccata su un terreno paludoso, è stato bonificato e trasformato nel Centro di permanenza e rimpatrio con 880 posti per i richiedenti asilo, 144 per i migranti da espellere, 20 per il penitenziario. Come intuibile, questo sì facilmente, Gjader è parzialmente adeguato a diventare un centro per “clandestini da cacciare” (citazione), il sito portuale di Schengjin no. C’è sempre il diritto internazionale a complicare i disegni di Palazzo Chigi: in Europa un migrante irregolare si considera definitivamente espulso quando lascia l’Unione Europea, quindi la procedura di espulsione non può avvenire a tappe con soste intermedie per esempio in Albania. Non bisogna però impelagarsi in direttive europee che possono mutare, questo va detto, per genuflettersi al vento di destra che spira nel mondo, il difetto del protocollo è il protocollo stesso. Il presidente albanese Edi Rama ha sottoscritto con la collega Giorgia Meloni (novembre 2023) un protocollo di intesa per consentire agli amici italiani di affrontare con piglio duro, e si presume maggiore efficacia, l’epocale problema della migrazione: deterrenza su modello inglese, e fotografie sorridenti. Non era contemplato il cambio di uso. Rama ha ottenuto molte garanzie dal governo di Roma per far accettare il protocollo ai suoi cittadini e l’ha fatto per avere un alleato forte in grado di agevolare l’ingresso albanese in Europa. Proprio per evitare che il suo governo fosse accusato di cedere un pezzo di territorio sovrano oppure di spendere per risolvere i guai agli amici italiani, il protocollo può essere modificato unicamente col consenso di entrambe le parti e l’Albania riceve un rimborso forfettario minimo di 94 milioni di euro in 5 anni. Oggi l’Albania è in piena campagna elettorale per il voto di maggio, Rama è sempre il favorito, ma nessuno ha intenzione di riportare i migranti italiani delocalizzati nel dibattito politico. Nei giorni fonti istituzionali albanesi erano state molto esplicite: “Finché l’Italia non ci informa di aver corretto le sue intenzioni, per noi il protocollo resta quello di un anno e mezzo fa. Nel caso, valuteremo come agire coinvolgendo il Parlamento. Abbiamo cercato di aiutare l’Italia per il rapporto che ci lega e per dimostrare che l’Albania, candidata a entrare in Europa, è pronta a muoversi in un contesto di cooperazione internazionale. Altri Paesi ci hanno formulato proposte simili a quelle italiane, ma per noi è ovvio che non ci saranno repliche a questo esperimento”. Aspettando che il governo italiano sforni la migliore idea che cancella quella precedente, l’esecuzione del protocollo va avanti. Per “esigenze di alloggiamento presso strutture alberghiere” delle forze di polizia per servizi connessi al protocollo, per un anno a partire dal 28 maggio 2025, è stato appena diffuso un bando di gara da 8,9 milioni di euro. Il tema è soprattutto economico, precisa e argomenta Andrea Casu, il deputato del Partito democratico che ha visitato a novembre e gennaio i centri in Albania: “Il governo ha paura del danno erariale. Come può spiegare una spesa di questo tipo con risultati così scarsi? Ogni giorno si fa una proposta diversa per cercare invano di giustificare la scelta. Era sbagliato in principio: io ho parlato con i migranti arrivati dalla Libia, gente che ha subito violenze, ricatti, soprusi non ha certo paura di essere rinchiusa in Albania in un centro di fatto italiano. Le strutture sono state tirate su in luoghi a dir poco degradati con grande merito del nostro Genio militare, ma sono destinate a usurarsi in breve tempo innalzando un monumento allo spreco del governo Meloni”. Pur sempre un monumento. A Ventotene se lo sognano. Migranti 18 mesi nei Cpr, ma l’Albania non lo sa di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 marzo 2025 Con l’ultimo decreto il Governo italiano smentisce quanto aveva garantito a Tirana, parlamento e Corte costituzionale spiazzati. La sentenza dei giudici di Tirana svela il bluff di Piantedosi: nei Centri c’è doppia giurisdizione. “La Corte, riferendosi alle discussioni in seno alle Commissioni parlamentari per la ratifica del Protocollo sulle migrazioni, osserva che i rappresentanti del governo (il ministro della Difesa e il ministro dell’Interno) hanno sottolineato che nessuno dei migranti, in caso di rigetto della domanda di asilo da parte delle autorità italiane, o anche di ammissione, potrà rimanere nel nostro Paese oltre il periodo di 28 giorni previsto a tal fine dalla legislazione italiana. Ognuno di loro sarà inviato in Italia per procedere con ulteriori procedure di asilo o sarà rimpatriato nel suo Paese d’origine”. È scritto nella sentenza con cui il 29 gennaio 2024 la Corte costituzionale albanese ha respinto il ricorso contro il protocollo Roma-Tirana presentato da 30 deputati d’opposizione. Nella discussione parlamentare d’oltre Adriatico si è sempre parlato di destinare i centri ai richiedenti asilo sottoposti alle procedure accelerate di frontiera, quelli originari di un “paese sicuro” e, da un punto di vista giuridico, non ancora entrati in Italia. Per loro, dicono le norme Ue, il massimo di trattenimento è appunto 28 giorni. Invece con il cambio di destinazione d’uso decretato dal governo Meloni, il dl è stato firmato dal Capo dello Stato Mattarella ed è in vigore da ieri, in Albania potranno essere trasferiti anche cittadini “irregolari” dall’Italia. Questi sono sottoposti a tutt’altra normativa e per loro la detenzione in Cpr dura fino a 18 mesi. L’esecutivo ha ritenuto di poter introdurre la novità modificando solo la legge di ratifica, senza toccare il protocollo. Ha così eliminato l’avverbio “esclusivamente” che limitava i trasferimenti alle “persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale”. Il ragionamento poggia sul terzo comma dell’articolo 4 dell’accordo Meloni-Rama che consente ingresso e permanenza dei migranti “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea”. Il trattenimento degli irregolari in vista del rimpatrio sarebbe quindi già previsto da quel testo. Di diverso avviso è Marash Logu, consulente giuridico del gruppo parlamentare del Partito democratico albanese, principale forza d’opposizione di centro destra, e avvocato nel ricorso alla Corte costituzionale. Per il legale è evidente che la frase sulle procedure “di frontiera o di rimpatrio” si riferisca agli stessi migranti e non a due diverse casistiche. “In ogni caso c’è un problema di procedura: ogni cambiamento deve seguire l’iter del protocollo passando prima dal governo e poi dal parlamento, che lo ha ratificato con la legge 20/2024. Altrimenti non può produrre effetti”, afferma. È verosimile che Rama sia stato informato dall’Italia, ma ai deputati “non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale”. Logu sottolinea poi un’altra questione: “Capisco che il governo italiano non voglia perdere la faccia su questo progetto, ma non deve perderla nemmeno il nostro paese e le nostre istituzioni. Al parlamento e ai cittadini era stato detto che sarebbero arrivati migranti per svolgere l’iter dell’asilo, con al termine rimpatrio o trasferimento in Italia. È stato ripetuto che ciò avrebbe ridotto le traversate del Mediterraneo. Ma la recente modifica cancella tale motivazione”. Anche la difensora civica Erinda Ballanca, che specifica di offrire “un’opinione preliminare e non esaustiva”, ritiene che “il cambiamento, o ampliamento, dello scopo dell’accordo dovrà essere accompagnato da una modifica dell’accordo tra i due paesi” con un necessario passaggio parlamentare. Ma in Albania l’11 maggio si terranno le elezioni e fino a quel momento è difficile si torni a parlare del protocollo. Ballanca guida un’istituzione a tutela dei diritti umani introdotta dalla Costituzione albanese del 1998. “A prima vista, non vedo incompatibilità dal punto di vista costituzionale, fermo restando l’interpretazione della nostra Corte costituzionale che riconosce la giurisdizione dell’Albania in relazione ai diritti costituzionali di questi emigranti”, aggiunge. In effetti la sentenza afferma chiaramente che per i centri di Shengjin e Gjader non c’è una cessione di territorio all’Italia, ma solo di giurisdizione. Cessione non esclusiva perché i giudici ritengono “sia applicabile una doppia giurisdizione per i diritti e le libertà fondamentali dei migranti coperti dal Protocollo sulle migrazioni, il che significa che l’applicazione della giurisdizione italiana nelle due aree in questione non esclude la giurisdizione albanese, per cui esiste una protezione estesa”. Non è vero quindi, come affermato venerdì dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che il Cpr di Gjader sia perfettamente equiparabile a quelli di Milano o Trapani. E questo potrebbe creare controversie giuridiche, a partire dalla direttiva rimpatri che rischia di essere violata dal trasferimento in un paese terzo di un cittadino straniero irregolare già entrato in Italia e quindi in Europa. La storia di Happy, il migrante che pulisce le strade di Padova di Pierfrancesco Carcassi Corriere della Sera, 30 marzo 2025 “Non avevo un lavoro e mi sono dato da fare. Conosco tutti nel quartiere”. Il giovane fuggito dalla Nigeria nel 2016 stava per essere espulso: quando il giudice ha visto le foto della sua attività, ha “fermato” la procedura. “C’era chi rideva di me, ora voglio trovare un impiego e portare qui moglie e figli”. Quando è chino sul marciapiede, gli occhi sono nascosti sotto il frontino del cappellino da baseball. Ma di tanto in tanto Happy alza la testa per salutare una persona del quartiere: allora si vede che quegli occhi seri, scuri, sorridono e si illuminano in un’espressione di gioia. A sud ovest di Padova lo conoscono in tanti: da anni spazza volontariamente le strade della città. Ha 28 anni. Rischiava di essere rispedito nel suo Paese, la Nigeria, da cui è scappato nel 2016 Quattro volte gli è stata negata la protezione internazionale. Ma grazie all’aiuto di Aleksandra Stukova, dottoressa in legge dello studio dell’avvocata Caterina Bozzoli, sul suo ricorso si deciderà nel 2030. Il giudice, quando ha visto le foto di Happy che spazzava i marciapiedi, non ha avuto dubbi: stop all’espulsione, fino all’udienza può restare in Italia. Per trovarlo basta seguire i piccoli cumuli di foglie accanto al marciapiede nel quartiere Sacra Famiglia. E’ lì, con la sua scopa e la sua paletta, che lo incontriamo. Parla inglese e qualche parola di italiano. Happy, come è cambiata la sua vita con la sentenza che in rinvia il suo caso al 2030? “Lavoro come prima (dà due colpi di ramazza, ndr). Ma sono molto, molto felice. L’Italia mi piace e tengo a stare qui, non voglio andare in altri Paesi in Europa”. Quando è arrivato in Italia? “Nel 2016, attraverso il deserto, la Libia, il Mediterraneo. Mi hanno portato in due campi (gli hub di accoglienza nel periodo più intenso degli sbarchi, ndr), prima nell’ex base militare di Bagnoli (nel Padovano, ndr), e poi a Torreglia. Sono scappato dalla Nigeria perché volevo una vita nuova: lì il Paese non funziona, ci sono furti, omicidi, violenza, sparatorie”. Perché ha cominciato a spazzare le strade di Padova? “Quando sono uscito dai campi non sapevo che fare, ero da solo. Non avevo documenti, non avevo un lavoro. Nel 2020 mi sono detto: che posso fare? Io non faccio casino, non voglio problemi, non posso andare avanti a elemosine. Con i pochi soldi che avevo ho comprato scopa e sacchetti e ho cominciato. Pulisco tutta la via, qui e in altri quartieri, lavoro dalle 8 alle 12 o alle 13 quando serve. Raccolgo foglie e sporcizia in un sacchetto e le butto nel cestino”. La gente cosa le dice quando la vede? “All’inizio qualcuno rideva di me. Mi dicevano: “Perché pulisci? Vai a trovarti un lavoro”. Io sono sempre stato zitto, tranquillo, senza rispondere, perché non voglio fare casino. Ma ancora oggi qualcuno me lo dice. Trovare un lavoro è quello che vorrei, ma senza documenti non posso. Io sono forte, posso lavorare”. Una signora che sta andando a fare la spesa attraversa la strada solo per salutare Happy, gli dà una moneta: “Abbiamo sentito la notizia della sentenza, congratulazioni, facevamo tutti il tifo per te”. Happy la ringrazia. Non è l’unica persona che si ferma da lui durante il nostro dialogo. Qui la gente le vuole bene però. “Sì, ogni tanto se hanno bisogno mi offrono di poter spazzare le foglie anche nel loro giardino di casa in cambio di qualche euro. Mi aiutano. Non posso fare l’elemosina, fermare la gente e chiedere soldi. Chi mi vuole bene mi dà qualcosa, altrimenti va bene lo stesso. Ma spero di riuscire a trovare un lavoro e di imparare l’italiano”. Dove vive? “In casa di un amico a Padova, in un altro quartiere. Contribuisco alle spese con i soldi che riesco a raccogliere”. Che lavoro faceva in Nigeria? “Ero elettricista, ma vorrei cambiare: mi andrebbe bene anche fare il magazziniere. Lì ho una moglie e tre figli, li sento ogni settimana, quando va bene. Un giorno spero di portarli qui in Italia”. Ha detto loro della sentenza? “No, no, è troppo presto. Prima di farlo voglio aspettare che le cose si sistemino, di essere stabile e di avere un lavoro”. Suicidi tra i giovani e comunità Lgbtqia+: i numeri dietro il dolore di Francesco Miragliuolo L’Espresso, 30 marzo 2025 Davide Garufi, 21 anni, si è tolto la vita dopo aver condiviso il suo percorso di transizione. Il suo gesto riaccende l’attenzione sul fenomeno, in particolare tra chi è vittima di odio e discriminazione. Garufi aveva solo 21 anni quando, il 19 marzo scorso, ha deciso di togliersi la vita. Lo ha fatto dopo aver affrontato una valanga di insulti e cattiverie sui social, solo per aver condiviso con coraggio il suo percorso di transizione. Quel cammino lo avrebbe portato a diventare Alexandra, la persona che sentiva di essere da sempre. Una persona che desiderava solo essere vista, accolta e amata per ciò che era davvero. La procura ha aperto un’indagine per istigazione al suicidio, cercando di fare luce sulle responsabilità dietro le parole d’odio che lo hanno travolto. Perché l’odio, anche quando si nasconde dietro uno schermo, può ferire profondamente. E nessuno dovrebbe pagare con la vita il prezzo della propria verità. I suicidi in Italia - La storia di Davide non è un caso isolato. In Italia, i dati più recenti parlano chiaro: nel solo 2021 si sono registrati 3.870 suicidi, con un aumento significativo proprio tra i più giovani, in particolare nella fascia 15-34 anni. Un +16% che racconta un disagio profondo, spesso silenzioso. Tra le cause, accanto alla solitudine e alla fragilità psicologica, c’è anche la pressione sociale, il bullismo, il giudizio implacabile che si riversa soprattutto online. Nel 2023, oltre 7.000 persone si sono rivolte a Telefono Amico per gestire un pensiero suicida, proprio o di una persona cara. Mai così tante. E anche se nel primo semestre del 2024 si è registrata una lieve flessione, i numeri restano drammaticamente alti, ben lontani da quelli precedenti alla pandemia, quando le chiamate erano circa mille l’anno. Community Lgbtqia+ e prevenzione - E tra chi soffre di più ci sono proprio loro: i ragazzi e le ragazze della comunità Lgbtqia+. Studi condotti anche in Italia, come quelli dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, confermano che il rischio di suicidio tra chi si identifica come omosessuale o transgender è fino a cinque volte superiore rispetto ai coetanei eterosessuali. Perché vivere la propria identità in un mondo che spesso giudica, esclude o deride può diventare, a volte, semplicemente insopportabile. Prevenire è possibile, ma serve agire con strumenti reali. L’Università Bicocca sottolinea l’importanza di percorsi di supporto psicologico specifici per giovani Lgbtqia+, sia nelle scuole che nei servizi territoriali. Serve formare insegnanti e operatori sanitari perché riconoscano i segnali di disagio e sappiano intervenire. E occorre introdurre l’educazione all’affettività e al rispetto delle differenze già nei programmi scolastici, per combattere pregiudizi e isolamento fin dall’infanzia. Non bastano le parole: servono politiche pubbliche e risorse dedicate. In questo quadro, lo psicologo di base, già attivo in Regioni come Lazio, Toscana, Emilia-Romagna e Campania, è un passo concreto per rendere accessibile il supporto psicologico. Anche il bonus psicologo offre un aiuto reale a molti giovani. Ma i fondi disponibili restano limitati: vanno aumentati, perché chiedere aiuto non dovrebbe mai dipendere dalle possibilità economiche. Non voleva essere un simbolo, ma ora lo è - Davide cercava solo comprensione. Voleva essere sé stesso. Non voleva diventare un simbolo. Ma ora lo è. E la sua voce, anche se spezzata, continua a parlarci. Chiede ascolto, empatia, responsabilità. E ci ricorda che dietro ogni volto c’è una storia che merita rispetto, non derisione. Un cuore che chiede solo di poter battere in pace. Turchia. “Siamo due milioni”: la piazza di Istanbul avvisa Erdogan di Murat Cinar Il Manifesto, 30 marzo 2025 A Istanbul, quella di ieri è stata una delle manifestazioni più grandi nella storia della Repubblica di Turchia. Secondo la principale forza di opposizione turca, il Partito popolare repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, Chp), in piazza Maltepe c’erano più di due milioni di persone. La manifestazione, organizzata in solidarietà con il sindaco della città, Ekrem Imamoglu, detenuto dal 19 marzo, è stata soprattutto un’occasione per protestare contro il governo centrale. “Quello che hanno fatto a Imamoglu e ai suoi colleghi è un golpe. Siamo qui per difendere la nostra democrazia con coraggio” sono le parole di Özgür Özel, il leader del Chp, che ha parlato dal palco davanti a centinaia di migliaia di persone. Il suo discorso, durato quasi un’ora, è stato spesso interrotto da questa massa oceanica con lo slogan “Tayyip dimissioni”, rivolto direttamente al presidente della Repubblica, Tayyip Recep Erdogan. Nel suo lungo discorso, Özel ha usato un linguaggio inclusivo e ha promesso che la lotta non si fermerà finché non ci saranno elezioni anticipate: “Da domani invito tutti a sostenere la nostra campagna per andare al voto. Siamo pronti a governare insieme a tutti: curdi, turchi, sunniti o aleviti. Costruiremo un futuro migliore. Non abbiamo paura perché le persone coraggiose come voi muoiono una volta, mentre i codardi come Erdogan muoiono ogni giorno”. Per chi era a Maltepe ieri, c’è stata anche una sorpresa: un video messaggio del sindaco Ekrem Imamoglu, prodotto con l’intelligenza artificiale, che invitava le persone a continuare a resistere e lottare. Il leader del Chp, Özel, ha sottolineato di nuovo l’importanza della campagna di boicottaggio lanciata qualche giorno fa dal suo partito, un’iniziativa che prende di mira una serie di aziende direttamente collegate alla famiglia del presidente della Repubblica o che obbediscono agli ordini del governo. Özel, dal palco, ha mostrato le trasmissioni in diretta di otto importanti canali televisivi turchi che non stavano coprendo la massiccia manifestazione: “Se ancora per dieci minuti non vediamo le nostre immagini, annunceremo l’allargamento del boicottaggio nei confronti delle aziende affiliate a questi canali”. Dopo le parole di Özel, il canale televisivo HaberTurk ha iniziato a trasmettere immagini dalla piazza, mentre un altro, Ntv, ha mantenuto il silenzio. Quindi Özel ha invitato tutte le persone a boicottare i prodotti del gruppo Dogus, proprietario di Ntv. E alla fine del suo discorso ha ribadito: “La nostra lotta continuerà in piazza. Da oggi, ogni fine settimana saremo in una piazza diversa a Istanbul per chiedere il ritorno del nostro sindaco e le elezioni anticipate”. Le piazze della Turchia in genere continueranno a essere riempite dai manifestanti nei prossimi giorni. Probabilmente non mancherà neanche la violenza della polizia, di cui si è parlato molto grazie alle prove visive fornite dai manifestanti: occhi gonfi, fratture, timpani danneggiati, mozziconi spenti sul corpo e molestie sessuali durante la detenzione sono alcuni degli elementi citati nelle denunce avanzate. Quest’ultima questione è stata sollevata anche dall’avvocata Eren Keskin in un’intervista ad ArtiGerçek: “Sono forme di chiara tortura sessuale che la polizia usa da anni in Turchia”. Dal 19 marzo sono state fermate quasi 2000 persone, di cui 263 arrestate. L’inizio dei processi è previsto per i primi giorni di aprile. Le detenzioni colpiscono soprattutto i giovani, con accuse inesistenti o legate alla limitazione delle libertà. Tra loro, Yagmur Taylan, presidente del Consiglio rappresentativo degli studenti di Bogaziçi e la diciannovenne Eren Ögetürk, portati via all’alba per aver partecipato alle proteste. Molti altri giovani restano in carcere, mentre i loro genitori presidiano da giorni il Palazzo di Giustizia di Çaglayan. a Istanbul. Tra i fermati poi rilasciati c’è anche Mehmet Pehlivan, avvocato del sindaco Ekrem Imamoglu. Dopo il suo rilascio, ha denunciato il modo in cui “le dichiarazioni di testimoni anonimi vengono utilizzate per giustificare la detenzione e aprire il processo. Uno di questi testimoni - prosegue Pehlivan - ha più di cento casi penali alle spalle. Risulta che i procuratori abbiano minacciato alcuni detenuti perché rilasciassero dichiarazioni contro il sindaco. Ci sono varie carte non firmate, ma sostenute da lettere e dichiarazioni verosimilmente scritte dal sindaco”. La crociata politica contro Imamoglu e la sua amministrazione ha colpito anche altre 14 persone e 12 aziende. La Procura generale di Istanbul ha deciso di confiscare i beni di queste persone e di queste aziende solo perché hanno collaborato ad alcuni progetti con il Comune della città. La repressione continua a colpire anche i giornalisti. Kaj Joakim Medin, reporter svedese del giornale Dagens ETC, è stato fermato il 27 marzo al suo arrivo in Turchia e arrestato due giorni dopo. Andreas Gustavsson, caporedattore della sua testata, ha fatto sapere che Medin doveva documentare le manifestazioni e che il motivo dell’arresto non gli è ancora stato comunicato. Secondo l’agenzia Reuters sarebbe da ricondurre a un’indagine avviata dopo le proteste anti-Ankara organizzate a Stoccolma nel gennaio 2023. La situazione in Turchia continua a deteriorarsi, con crescenti violazioni dei diritti umani e repressione politica, mentre il Paese si avvia verso una vera rivolta popolare. Turchia. Al cuore del progetto autoritario di Francesco Strazzari Il Manifesto, 30 marzo 2025 Le contraddizioni dell’erdoganismo si sono spinte ormai troppo in profondità. Una vicenda politica inesorabilmente intrecciata alla nostra di cittadini europei. L’immensa mobilitazione turca sembra dire che Erdogan ha fatto un passo di troppo, quando ha deciso la prigione per il suo principale rivale, dopo avergli fatto togliere il titolo di studio, così da dichiararne l’ineleggibilità. Si può pensare che abbia calcolato la reazione di massa che ne sarebbe seguita, scommettendo sul suo contenimento, per uscire dalla crisi con una decisa accelerata allo smantellamento dei residui ancoraggi democratici del Paese. Con le pulsioni autoritarie che mietono consensi alla Casa bianca e la Nato tutt’altro che unita, ecco la tentazione dell’ulteriore giro di vite: convocare elezioni anticipate, ora che ha eliminato ogni possibilità che siano contendibili, e incardinarsi al potere per traghettare la Turchia verso un approdo compiutamente dispotico, accanto alla Bielorussia. Come che sia, è un fatto che lo scontro in atto porta il Paese fuori dal solco dell’autoritarismo a fuoco lento in cui la Turchia di Erdogan è stata collocata fino a oggi dal mainstream occidentale, notoriamente poco sensibile all’incarcerazione di massa di giornalisti, minoranze e attivisti di sinistra. Gli arrestati di questa settimana sono in effetti centinaia. Ma non siamo più alla repressione dei cosiddetti margini, i docenti che firmano petizioni per la pace, gli studenti di Gezi Park che si mobilitano contro la devastazione dei “palazzinari amici”, oppure gli attivisti, gli amministratori e i parlamentari curdi, il cui peso elettorale impediva di riscrivere la costituzione. Non siamo nemmeno alle dure purghe contro gli ex consociati gulenisti, scatenate all’indomani del tentato colpo di stato. Per il blocco di potere islamo-nazionalista siamo arrivati al cuore del problema dello stato: lo scontro frontale con le forme odierne del kemalismo repubblicano. Ovvero quel Chp che, ridisegnando le proprie alleanze, ha conquistato il governo delle grandi città, arrivando, due anni orsono, a contendere la presidenza, ed apprestandosi alle designazioni per la prossima battaglia elettorale. È significativo che, aprendo la prima grande protesta seguita all’arresto di Imamoglu, il leader Chp Ozgur Orel abbia voluto salutare il leader dell’Hdp filo-curdo Selahattin Demirtas, che sta scontando una pesante condanna, chiedendone l’immediata scarcerazione. In questi giorni la piattaforma social del campione del free speech, Elon Musk, ha sospeso gli account di politici dell’opposizione. Gli attivisti curdi in queste ore denunciano restrizioni a migliaia di account di X su scala globale. Dalla piazza, i leader dell’opposizione hanno invitato al boicottaggio dei media nazionali, che, seguendo un copione noto, ignorano le immense manifestazioni di protesta, mandando in onda servizi sui dolcetti per la fine del Ramadan, o su “Israele che teme la Turchia”. Il paradosso è che l’apertura di questa profonda faglia interna, alla quale concorrono anche dinamiche economiche disastrose per la popolazione, avviene proprio nel momento in cui sembrava che all’erdoganismo le cose stessero andando piuttosto bene: la rimozione di Assad dalla Siria, con avanzata delle milizie foraggiate da Ankara, il disarmo del Pkk dopo l’appello di Ocalan dal carcere, l’alto profilo tenuto nella comunità musulmana grazie alle tirate, puramente retoriche, contro Israele, e infine il credito ottenuto per i buoni uffici nella mediazione fra Ucraina e Russia. Evidentemente le contraddizioni si sono spinte ormai più in profondità, al cuore del progetto autoritario. Continuiamo a guardare alla Turchia attraverso una sguardo orientalista, interponendo una distanza che in realtà non esiste. Certo, Erdogan si muove lungo i binari di un sultanismo neo-ottomanista reinventato, ed è presumibile che si aggiri rabbioso per le 1.100 stanze del palazzo presidenziale che si è fatto costruire, perché non riesce a conquistare e controllare Istanbul. Ma la vicenda politica turca è inestricabilmente intrecciata con la nostra, dalle dinamiche dei gasdotti mediterranei e della Libia, a quelle del pluralismo e degli spazi democratici in Europa. Per non parlare delle molte lezioni che abbiamo appreso dalla mobilitazione del confederalismo democratico, aggredito da jihadisti, islamisti e nazionalisti. Forse le mobilitazioni che vediamo allargarsi e persistere, da Belgrado a Tbilisi, da Budapest a Istanbul, meriterebbero da parte nostra una considerazione e un’analisi più profonda di quella offerta da strumentali tentativi di ignorarne le diversità, sommando le piazze fra loro, in una ipotetica “primavera delle libertà”. Mentre nel mondo si assiste al ritorno della conquista militare e dei piani di riarmo, mentre si perseguono pacificazioni neo-imperiali in un teatro post-egemonico nel quale gli “egemoni” si mostrano incapaci di alcuna guida, esiste e persiste, attraverso i confini, il protagonismo di chi rivendica democrazia, diritti e giustizia sociale. America Latina. Maduro chiede all’Onu di intercedere sui detenuti venezuelani in El Salvador ansa.it, 30 marzo 2025 Il leader chavista ha parlato con Antonio Guterres e Volker Türk. Nicolás Maduro ha chiesto al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, e all’Alto Commissario per i diritti umani Volker Türk di intervenire a favore dei migranti venezuelani detenuti nel carcere di massima sicurezza di El Salvador su richiesta degli Stati Uniti. Secondo quanto riferisce il ministero degli Affari Esteri di Caracas, Maduro ha parlato telefonicamente con Guterres e con Türk per chiedere al sistema delle Nazioni Unite di assumere un “fermo impegno” nel garantire i diritti dei migranti venezuelani, “assicurando il rispetto del diritto internazionale, in particolare quello che protegge le persone in movimento”. Il governo chavista avrebbe quindi chiesto il “rilascio immediato e incondizionato” dei 238 venezuelani imprigionati nel Centro di Confinamento per i terroristi (Cecot) fatto costruire dal presidente salvadoregno Nayib Bukele per ospitare i pericolosi membri delle ‘maras’, le temibili gang che hanno insanguinato per anni il paese centroamericano. I venezuelani detenuti sono accusati dagli Usa di essere pericolosi criminali e membri della gang internazionale Tren de Aragua ma Caracas denuncia che vengono tenuti in prigione “illegalmente, senza alcun processo giudiziario”. I parenti di alcuni dei detenuti, identificati nei video diffusi dal governo di Nayib Bukele, sostengono che si tratta semplicemente di migranti detenuti perché hanno tatuaggi. Secondo quanto afferma Caracas sia Guterres che Türk si sarebbero impegnati ad “attivare tutti i meccanismi disponibili per ripristinare, il prima possibile, i diritti palesemente violati dei migranti venezuelani”.