Carceri: nulla cambia. La protesta dei Garanti dei diritti dei detenuti agi.it, 2 marzo 2025 Sono passati due mesi dal discorso di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha richiamato tutti al rispetto della dignità di ogni persona e dei suoi diritti anche per chi si trova in carcere. Ma nulla è cambiato. Ecco perché i Garanti regionali, provinciali e comunali delle persone private della libertà, hanno indetto per il 3 marzo una mobilitazione nazionale: “Abbiamo il dovere di agire qui e ora. C’è un silenzio assordante da parte della politica e della società civile sul carcere. Chiediamo soluzioni giuridiche immediate sia alla politica che all’Amministrazione penitenziaria attraverso provvedimenti che riducano il sovraffollamento e migliorino le condizioni di vita dentro le carceri. Alla società civile chiediamo invece una sensibilità che superi la visione carcero centrica”. “È solo dall’ascolto dalle parole di chi vive il carcere (operatori, detenuti, volontari) che si può cogliere l’estremo livello di sofferenza ingiustificata ormai raggiunto. Abbiamo bisogno di trovare soluzioni, possibilmente rapide e che prescindano il più possibile da pregiudizi fonte di risposte magari efficaci nel breve ma controproducenti nel medio e lungo periodo”. Ecco le richieste 1. L’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere. Siamo convinti altresì che occorre al più presto promuovere una norma per l’aumento dei giorni di liberazione anticipata speciale, prevedendo uno sconto di ulteriori 15 giorni a semestre. 2. L’accesso alle misure alternative ai detenuti, in particolare per quei 19.000 mila che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni e si trovano in una posizione di poter accedere. 3. L’attuazione della circolare sul riordino del circuito della media sicurezza per quanto riguarda la chiusura delle sezioni ordinarie (DAP circ. n. 3693/6143 del 18 luglio 2022), visto che la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. È necessario garantire diverse attività trattamentali: progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative, relazionali. 4. Garantire l’affettività in carcere. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali si chiede come la politica, i singoli direttori delle carceri, i magistrati di sorveglianza, intendono agire per l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo). Occorre da subito, aumentare le telefonate e le videochiamate, soprattutto in casi specifici, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti. Inoltre, occorre che la Magistratura di Sorveglianza si impegni ad aumentare i giorni di permesso premio per i ristretti. Superamento circolari dei P.R.A.P. che restringono l’acquisto, il possesso e la ricezione di oggetti e generi alimentari. Si fa riferimento in tali circolari a un elenco di generi alimentari ed oggetti non consentiti all’ingresso, ma acquistabili al sopravvitto con prezzi maggioritari. I Garanti territoriali lanciano un appello per i diritti dei detenuti: mobilitazione il 3 marzo ansa.it, 2 marzo 2025 La Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali promuove un’iniziativa per sollecitare azioni urgenti sul sistema carcerario italiano, in risposta al silenzio istituzionale e all’aumento dei suicidi nelle carceri. Il 3 marzo 2025, alle ore 11, la Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali delle persone private della libertà personale organizza una mobilitazione pacifica per sollecitare interventi urgenti sul sistema carcerario italiano. L’iniziativa è stata motivata da un “silenzio assordante” che coinvolge tanto la politica quanto la società civile, nonostante gli appelli ripetuti del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a rispettare la dignità dei detenuti. Riflessione nelle aule penali - Nel corso della mobilitazione, i Garanti Territoriali invitano a una riflessione nelle aule penali, durante la quale verrà letto un documento contenente proposte giuridiche concrete per migliorare le condizioni di vita nelle carceri. L’obiettivo di questa azione è sensibilizzare l’opinione pubblica su una questione di grande attualità, ulteriormente aggravata dall’allarmante numero di suicidi e morti non accidentali che si verificano all’interno degli istituti penitenziari. Collaborazione tra istituzioni - Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Avellino ha evidenziato l’importanza di una maggiore collaborazione tra gli enti competenti, tra cui il carcere, l’UEPE, il Tribunale di Sorveglianza, l’ASL e il PRAP, al fine di affrontare le criticità del sistema penitenziario italiano. A tal proposito, viene richiamato l’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e l’obbligo di promuovere la rieducazione del condannato. Un appello alla società civile - “Il carcere restituisce, sta alla società avere attenzione che ciò che viene indicato nella Costituzione sia concretamente attuato”, ha dichiarato il Garante, lanciando un appello alla società civile per un impegno attivo nella difesa dei diritti dei detenuti. La mobilitazione del 3 marzo rappresenta un’opportunità per riportare al centro del dibattito pubblico la questione carceraria e chiedere azioni concrete per garantire un sistema penitenziario più umano e rispettoso dei diritti fondamentali. I volontari in carcere? Uno ogni 16 detenuti. “Senza di loro riforme incompiute” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 2 marzo 2025 Il Terzo settore svolge l’80% delle attività all’interno degli istituti, eppure non esiste un registro nazionale. “Non siamo ruote di scorta, vogliamo contare”. Per milioni di persone, ovviamente, la galera è l’ultimo posto in cui uno vorrebbe finire. Poi ce ne sono molte altre - oggi in Italia 62mila - che in galera ci stanno e ovviamente ne vorrebbero solo uscire. Infine c’è un gruppo di gente, evidentemente strana, che in galera invece spinge per entrare: è la galassia dei volontari e delle volontarie. Tanto necessaria quanto misteriosa: in un mondo che oggi conta anche i microbi nessuno sa con precisione quante persone la compongono a livello nazionale. A partire dal Ministero della giustizia e dall’Amministrazione penitenziaria, che pure sono le autorità da cui tutta quella folla ottiene i permessi d’ingresso. Per fare di tutto: corsi, iniziative culturali, sportive, di formazione professionale, di inclusione, o semplicemente di ascolto (hai detto niente). Gente fondamentale? Per dirlo non c’è sintesi migliore di quella di Elisabetta Palù, direttrice reggente del carcere di San Vittore (circa 900 volontari per 1.100 persone detenute) che si richiama allo scopo della pena previsto dalla Costituzione: “Il reinserimento sociale - dice - necessita imprescindibilmente della rete del volontariato. Senza il contributo della società civile qualsiasi riforma del sistema penitenziario rischia di rimanere incompiuta”. Proviamoci dunque lo stesso a fare i conti, iniziando da quelli sicuri per un confronto. In Italia ci sono 190 carceri per le quasi 62mila persone detenute di cui sopra (siamo tornati al 2012, quando il sovraffollamento delle nostre prigioni valse all’Italia una condanna per tortura da parte dell’Europa) con circa 31mila agenti e mille educatori (dati ufficiali Dap 2024: un agente ogni due detenuti e un educatore ogni 65). Ma sui volontari non c’è rilevazione statistica ufficiale. Unica possibilità sarebbe contare i permessi d’ingresso rilasciati in base agli articoli 17 oppure 78 dell’Ordinamento penitenziario (il quale assegna esplicitamente al volontariato un “ruolo fondamentale”) che però non distinguono tra chi entra una tantum e chi magari tutti i giorni. Inoltre il conto lo tengono i singoli istituti, non c’è una somma. Chi negli anni ha provato a farla con certosina pazienza è stata l’associazione Antigone con il suo Osservatorio. E ha rilevato che stando ai permessi d’ingresso la galassia di volontari-volontarie nelle carceri italiane è cresciuta costantemente, fino al record del 2019 con 19.511 persone: più di un volontario ogni due agenti. Poi è arrivato il Covid. Con mesi di ingresso vietato per tutti. E alla ripresa, a fine 2020, il numero degli articoli 17 e 78 era dimezzato: 9.825 in tutto, un volontario ogni cinque detenuti. L’anno dopo siamo risaliti a quasi 12mila, ultimo totale pervenuto. Ma il ritorno ai livelli pre-Covid è ancora lontano e comunque ripetiamo: il conto non distingue tra occasionali e costanti. Una stima attuale dell’Osservatorio ipotizza un volontario ogni 16 detenuti. Stesso discorso per le associazioni a cui i singoli volontari in genere fanno capo. Il sito del Dipartimento amministrazione penitenziaria ne cita 64, in un elenco fatto su segnalazioni occasionali che però si ferma al 2022 e comunque la sua tenuta non è prevista dalla legge. Dopodiché dal 2015 esiste una Conferenza nazionale volontariato giustizia (Cnvg) che nel 2023 ha anche stipulato un protocollo di intesa con Csvnet, la rete nazionale dei Centri servizi volontariato. E quel che se ne ricava, sempre a occhio, è che l’80 per cento delle attività sociali e simili nelle carceri esiste grazie al Terzo settore: a questo proposito un corposo studio di Filippo Giordano, docente dell’Università Bocconi, documentava già nel 2021 con prefazione di Marta Cartabia che dei circa 150 euro al giorno spesi dallo Stato per ogni detenuto la quota destinata al suo “recupero” non supera gli 8 centesimi. Il resto lo fanno i volontari. “È il tradimento - dice Michele Miravalle dell’Osservatorio Antigone - della riforma dell’Ordinamento penitenziario dell’85 che al volontariato assegnava un ruolo importantissimo di collaborazione: non di supplenza, come spesso avviene. Con l’aggravante, a volte, di dover chiedere come fosse un favore il permesso di fornire servizi o addirittura beni essenziali che senza volontari non fornirebbe nessuno”. Spazzolini compresi, a volte. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova e presidente di Cnvg, aggiunge: “Il volontariato nelle carceri non va considerato ruota di scorta. Il carcere è un pezzo della società e occorre che questa se ne prenda cura, non per buonismo ma per la propria stessa sicurezza”. Nel novembre scorso il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna ha pubblicato - lavoro quasi unico in Italia - l’esito di un meticoloso sondaggio sul volontariato penitenziario nella regione. Al termine c’è l’elenco di ciò che i volontari vorrebbero: più dialogo, partecipazione, comunicazione... le richieste occupano tre cartelle in formato Word, interlinea uno. Morti di solitudine: il perché di uno stillicidio che unisce le carceri di Liguria e Catalogna di Laura Ghiandoni ghigliottina.info, 2 marzo 2025 Le due regioni di prima accoglienza hanno raggiunto nel 2024 il più elevato tasso di persone che si sono tolte la vita all’interno delle carceri nei rispettivi Paesi. L’ultimo anno ha segnato un brutto record per la Catalogna e la Liguria. Le due regioni sul Mar Mediterraneo hanno contato un numero di morti all’interno dei propri istituti penitenziari che non lascia dubbi sul fatto che il carcere sia, non solo un luogo di privazione di libertà, ma di privazione di altri diritti, primo di tutti la salute. Le persone che si sono tolte la vita secondo i dati di Ristretti Orizzonti e del Dipartimento Catalano di Giustizia sono sette in Liguria e undici in Catalogna, con un ampio scarto in confronto alle altre regioni all’interno dei rispettivi Paesi. Numeri elevati, considerato che sia in Italia che in Spagna sono attive procedure per la valutazione del rischio suicidario applicate dal comparto medico all’ingresso in carcere e secondo criteri di livello regionale, nazionale e internazionale. E soprattutto, nonostante il fatto che all’interno degli istituti siano presenti psicologi, psichiatri e a volte intere equipe di specialisti impegnate nel ridurre il rischio suicidario. A Roma, lunedì 3 marzo, per reagire al silenzio della politica su temi prioritari quali il sovraffollamento nelle carceri, il difficile accesso dei detenuti alle misure alternative, per garantire l’affettività in carcere, i garanti territoriali delle persone private della libertà, regionali e provinciali, hanno indetto una giornata di mobilitazione nazionale in seguito all’appello diffuso durante la Conferenza nazionale, in cui si chiedono soluzioni giuridiche immediate sia alla politica che all’amministrazione penitenziaria. Persone, non numeri. Si chiamava Hawaray, era entrato nel carcere di Genova Marassi per un piccolo furto compiuto nel 2023 e mentre era dentro, a causa di un litigio tra detenuti, si era visto prolungare la pena di alcuni mesi. Fino a quando per una punizione non è stato rinchiuso in cella di isolamento dove si è tolto la vita nel febbraio 2024. Si chiamava Moussa, il pizzaiolo ormai naturalizzato genovese, schizofrenico, che una volta entrato in carcere non ha mai ricevuto né una visita psichiatrica né una visita di un amico o conoscente, è stato tra gli ultimi a togliersi la vita nel 2024. Storie che restano sul banco degli imputati tra un rimpallo di responsabilità tra i differenti comparti della sanità e della giustizia. In Liguria e Catalogna: tra le cause delle morti il segreto di Pulcinella - L’analisi pubblicata nel 2021 sulla rivista Lancet, che ha riunito i dati di 77 ricerche scientifiche sui suicidi in carcere in tutto il mondo per scoprire una volta per tutte le cause all’origine di questa tragedia, aveva già alcuni anni fa evidenziato come fattore critico l’assenza di visite sociali da parte di amici, parenti o familiari. Secondo la scienza, sarebbe quindi la cocente solitudine a impattare negativamente la salute mentale di chi è rinchiuso. L’indagine del Dipartimento di Giustizia della Catalogna del 2024 sembra confermarlo. Secondo i dati raccolti, l’80% delle persone morte per suicidio tra il 2018 e il 2021 si trovava in isolamento negli ultimi sei mesi di vita. E mentre in Catalogna l’isolamento è un fattore di primo piano, in Liguria le pratiche per l’accesso alle visite sociali proibiscono a chi non è di nazionalità italiana di ricevere visite sociali e familiari. In Liguria, come in Catalogna, il numero di detenuti stranieri arriva quasi al 50% del totale della popolazione carceraria e quattro su sette persone che si sono tolte la vita in Liguria erano di origine non italiana. Le lungaggini sono legate a documenti extra, traduzioni e certificazioni, che a volte risultano irreperibili, portano il detenuto ad attendere un tempo indefinitamente lungo per accedere alla prima visita sociale o telefonata dei parenti all’ingresso del carcere, momento riconosciuto di maggiore fragilità psicologica. Come nei casi di Moussa e Hawaray, l’autorizzazione alle visite non è stata concessa in tempo - Ornella Favero, di Ristretti Orizzonti, in prima linea sul tema, conferma: “I soggetti a più elevato rischio suicidario sono quelli che rimangono più isolati”. E descrive l’atmosfera attuale all’interno delle carceri: “Le persone, a causa degli elevati tassi di sovraffollamento a cui sono sottoposte, non si sentono ascoltate, si sentono numeri, si sentono abbandonate a se stesse”. Continua: “Durante l’epidemia di Covid-19 si è autorizzata una telefonata al giorno di dieci minutie e una videochiamata a settimana per chi non svolge il colloquio. Dopo la pandemia in molte carceri la telefonata quotidiana è stata eliminata e invece riallacciare in tutti i modi i colloqui affettivi è l’unico appiglio vero per ridurre il rischio suicidario”. Per quanto riguarda i migranti, conferma: “L’unica cosa che funziona per la nostra esperienza di Padova è la creazione di uno sportello apposito che faciliti l’espletamento delle pratiche burocratiche, perché i detenuti possano accedere in tempi brevi ai servizi più importanti per la loro vita detentiva”. Favero conclude: “A metà 2024 ci siamo rivolti al DAP Giovanni Russo per sensibilizzare la dirigenza sull’importanza cruciale dei colloqui affettivi. Ora, a pochi mesi dalle dimissioni di Russo, attendiamo che la nuova dirigenza mantenga la promessa di una circolare per il ripristino della telefonata quotidiana in tutte le carceri”. Sovraffollamento e salute nell’ambito carcerario tra Liguria e Catalogna - Le due regioni affrontano oggi la stessa sfida del sovraffollamento interno agli istituti carcerari. In Liguria, il tasso di sovraffollamento attuale è di quasi il 130%, mentre in Catalogna la situazione è ancora peggiore, con una media che supera quella nazionale spagnola, già molto elevata, del 146%. Già alcuni anni fa, nel 2016, una ricerca scientifica denominata M.E.D.I.C.S., realizzata dal team guidato da Roberto Monarca con i fondi del Ministero della Giustizia italiano, faceva emergere - grazie a un’indagine compiuta tra i diversi operatori all’interno delle carceri catalane - il tardivo intervento del personale medico nei casi di tentato suicidio e una scarsa preparazione del personale, medico e non, sul fronte della salute mentale. La ricerca evidenziava come il sovraffollamento rendesse sempre più difficile per il personale medico reagire e offrire la giusta attenzione ai detenuti. A quasi dieci anni dalla ricerca, poco sembra essere cambiato. In Catalogna, secondo i dati forniti dal Dipartimento della Sanità, pochi medici (123) assistono quasi 8.000 detenuti con l’aiuto di 175 infermieri. Per quanto riguarda la salute mentale, sono presenti un totale di 23 psichiatri e 12 psicologi, ossia - facendo un rapido calcolo - uno psicologo per circa 650 detenuti. Un numero che spiega, in parte, il crescente ricorso agli psicofarmaci nel tentativo di gestire la popolazione carceraria. I dati della Liguria non sono più favorevoli: tre ore di lavoro di uno psichiatra bastano per seguire cento detenuti, di cui ben 43 assumono regolarmente psicofarmaci ipnotici e sedativi. Questi dati celano storie vere che trasformano quotidianamente un luogo volto alla rieducazione in un ambiente in cui la punizione arriva a colpire la salute del detenuto, senza pietà e nella sua forma più estrema. “Libri Liberi”, i classici raccontati nelle carceri italiane ansa.it, 2 marzo 2025 Primo incontro con Edoardo Albinati e Stefano Fresi che leggeranno L’Odissea. Si inaugura il 6 marzo, alle 16.00, nel carcere di Rebibbia l’iniziativa Libri Liberi, promossa dalla Fondazione De Sanctis con il patrocinio del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - e in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura. Edoardo Albinati e Stefano Fresi racconteranno e leggeranno L’Odissea nella prima delle 12 tappe della rassegna. Sarà presente la dott.ssa Teresa Mascolo, dirigente penitenziario e direttore della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Gli incontri si terranno nelle principali carceri italiane, in cui un attore o un’attrice accanto a uno scrittore o a una scrittrice presenteranno i capolavori della letteratura. La rassegna Libri Liberi inizia il 6 marzo e si concluderà il 21 dicembre 2025. L’obiettivo della rassegna è offrire ai detenuti la possibilità di immergersi in mondi letterari alternativi e di esplorare le profondità della condizione umana attraverso la lettura. Con il prezioso contributo di attori e scrittori di fama, gli incontri diventano esperienze uniche e irripetibili, in cui le storie prendono vita attraverso letture avvincenti e discussioni appassionate. Sarà incoraggiato il dialogo e il confronto aperto per rendere i detenuti non solo spettatori ma anche protagonisti di questi straordinari incontri. La rassegna si inserisce così in un più ampio contesto di promozione della cultura come strumento di riscatto e rinascita, offrendo una preziosa occasione di riscoperta del sé e del proprio valore all’interno della comunità. I protagonisti e le protagoniste - Edoardo Albinati con Stefano Fresi, Maurizio De Giovanni con Fabrizio Bentivoglio, Elisa Fuksas con Elena Lietti, Daniele Mencarelli con Alessio Boni, Aurelio Picca con Sergio Rubini, Rosella Postorino con Francesco Montanari, Giulia Caminito con Claudia Gerini, Igiaba Scego con Anna Bonaiuto, Donatella Di Pietrantonio con Lino Guanciale, Giuseppe Culicchia con Giorgio Colangeli, Davide Rondoni con David Riondino, Antonio Franchini con Marianna Fontana. Si ringrazia Poste Italiane per il supporto. Teramo. Detenuto di 42 anni muore in cella, disposta l’autopsia per accertare le cause di Diana Pompetti Il Centro, 2 marzo 2025 L’uomo, 42 anni, si è sentito male mentre mangiava in cella. L’allarme dato da un altro recluso. Disposta l’autopsia, una prima ricognizione ha escluso segni di violenza sul corpo. A dare l’allarme è stato il compagno di cella che lo ha visto accasciarsi a terra mentre stava mangiando: Michele Venda, 42 anni, detenuto nel carcere di Castrogno dove era arrivato circa 9 mesi fa dal penitenziario di Rebibbia, è morto in pochi minuti nonostante i soccorsi immediati di operatori sanitari e agenti di Polizia penitenziaria. Tra le ipotesi all’esame quella di un boccone di cibo andato di traverso che lo avrebbe soffocato. Proprio per fare chiarezza sulle cause della morte il sostituto procuratore di turno Monia Di Marco ha disposto l’autopsia che sarà eseguita domani e l’acquisizione di alcune testimonianze. Una prima ricognizione cadaverica esterna ha escluso ogni segno di violenza e di gesti estremi. Il dramma si è consumato in pochi attimi nella serata di venerdì, durante l’ora della cena. Poco dopo le 18 i due stavano consumando il pasto appena distribuito quando improvvisamente, così ha raccontato l’altro detenuto, Venda avrebbe iniziato a sentirsi male, cadendo dalla sedia, accasciandosi a terra e mostrando difficoltà a respirare. In pochi attimi, dopo la richiesta di aiuto dell’altro recluso, sono arrivati gli agenti di polizia e gli operatori sanitari che hanno subito soccorso il 42enne. Ma ogni tentativo si è rivelato vano: l’uomo è morto in pochi attimi. Venda, che risulta essere nato in Ucraina da papà italiano e mamma ucraina e residente nel Lazio, era arrivato nel carcere teramano circa nove mesi fa per scontare una condanna definitiva a circa dieci anni di carcere per vari reati tra cui alcuni di natura sessuale. L’istituto penitenziario di Castrogno attualmente ospita più di 400 detenuti a fronte della metà prevista ed è considerato uno dei più sovraffollati della regione. Un’emergenza, a cui si aggiunge il numero degli agenti di Polizia penitenziaria in servizio notevolmente inferiore a quello previsto dalla pianta organica, che si trascina ormai da anni in quello che è il contesto nazionale della criticità carceraria da tempo al centro di richieste di intervento arrivate da più parti. Nei giorni scorsi il caso Castrogno è stato affrontato nel corso di un consiglio comunale straordinario aperto a istituzioni, forze politiche, associazioni e sindacati con l’obiettivo di lanciare proposte d’intervento. Le condizioni del carcere teramano in più occasioni sono stato oggetto di comunicazione al ministro della giustizia Carlo Nordio sollecitato a visitare il penitenziario teramano per rendersi conto personalmente della situazione. Bergamo. Sono 400 i detenuti con dipendenze o problemi psichici di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 2 marzo 2025 Via Gleno, celle sovraffollate (+18% in 5 anni). Le azioni di Carcere e Territorio per il reinserimento. Per qualche settimana, appena dopo le festività natalizie, i numeri si erano lievemente attenuati, scendendo attorno ai 560 detenuti. Ora però il carcere di Bergamo torna a sfiorare il record negativo, lambendo l’asticella dei 600 reclusi: al 26 febbraio, stando alle cifre aggiornate del ministero della Giustizia, la casa circondariale di via Gleno accoglieva 590 persone, a fronte dei 319 posti regolamentari, con un tasso di affollamento del 185%. La crescita è continua, se rapportata al recente passato: il 29 febbraio 2024 i reclusi erano 552; il 29 febbraio 2020, un lustro fa, appena prima delle misure deflattive legate alla pandemia, i ristretti erano 499. Così, la popolazione carceraria di Bergamo è aumentata del 6,9% in un anno e del 18,2% in un quinquennio. Cifre che appunto oscillano continuamente, visto che il picco era stato toccato con i 595 detenuti presenti al 16 dicembre 2024. Un anno critico - Quello da poco concluso è stato un anno critico per tutto il sistema carcerario italiano, tra sovraffollamento ed eventi critici. Nel penitenziario di Bergamo, secondo i dati raccolti dall’associazione Carcere e Territorio, lo scorso anno si è registrato un decesso per cause da accertare, ma anche 21 tentativi di suicidio, 131 episodi di autolesionismo e 20 aggressioni al personale, mentre i detenuti con problemi di dipendenza o disagio psichico sono circa 400. “Per disporre di un minimo reddito vitale, per costruirsi una cultura del lavoro e per accedere alle misure alternative - riflette Fausto Gritti, presidente dell’associazione Carcere e Territorio, nella relazione che racchiude le attività svolte nell’anno da poco concluso, Molti soggetti necessitano di una opportunità di accompagnamento al lavoro. Rilevante è anche la quota di chi, non disponendo di una casa o di una rete famigliare, necessita di una accoglienza temporanea. Casa e lavoro sono i presupposti sociali indispensabili per i percorsi di reinserimento dei detenuti e su di essi l’associazione ha concentrato il maggior sforzo operativo”. Carcere e Territorio fa da regia progettuale, contribuendo al coordinamento di più progetti. “Reti” finanziato da Regione Lombardia (capofila è il Nuovo albergo popolare), “E uscimmo a rivedere le stelle” (con capofila sempre il Nuovo albergo popolare) finanziato dalla Fondazione della Comunità Bergamasca e da altri enti (Comune di Bergamo, Istituti educativi, Mia, Azzanelli, Caritas, associazione Homo, Opera Pia Caleppio), “Si può fare” finanziato dal ministero della Giustizia (capofila è il Consorzio Mestieri Lombardia), il “bando C” di Regione Lombardia per un centro diurno, “Liberi di abitare” sempre di Regione (capofila il Consorzio Mestieri). Negli appartamenti dedicati al supporto di chi accede a misure alternative, nel 2024 Carcere e Territorio ha dato accoglienza a 33 persone (27 uomini, 6 donne; 2 persone tornate libere, 21 in misura di affidamento, 10 in detenzione domiciliare). C’è poi il lavoro, con più modalità: col Consorzio Mestieri sono stati gestiti 96 tirocini per mansioni che vanno dall’operatore ecologico alle manutenzioni fino all’assemblaggio, in realtà come cooperative sociali (61 tirocini), enti pubblici (15 tirocini), fondazioni e associazioni (4 tirocini), imprese del privato “puro” (16 tirocini); in 25 casi si è arrivati poi all’assunzione, 40 progetti sono ancora in corso, 21 si sono conclusi per fine pena, in 10 casi sono stati interrotti. A questi si aggiungono 13 percorsi di lavori di pubblica utilità e 17 “messe alla prova”. Ma ci sono poi anche Lavori le attività dentro il carcere, sia per garantire esperienze di lavoro, sia per costruire momenti di formazione. Una galassia ampia, quella dei laboratori: solo per citarne alcuni, quello tessile gestito da Abf ha coinvolto 18 detenuti con 2.253 ore di lavoro, Mosaico ha coinvolto nella cura dell’orto e del giardino 10 detenuti, Pedalopolis ha attivato un laboratorio di riparazione biciclette con 3 detenuti, il forno della cooperativa Calimero ha coinvolto 9 detenuti. Le sfide future - Per il nuovo anno, spiega Gritti, “si consolideranno gli organismi sia a livello politico sia organizzativo”, partendo da “una cabina di regia istituzionale che assicuri una visione unitaria e obiettivi strategici chiari per la progettazione”. Una rete anche per superare le oggettive difficoltà di questa mansione, per esempio nel reinserimento abitativo: tema su cui, rileva Carcere e Territorio, “criticità si sono evidenziate nell’aumento delle spese manutentive, nella difficoltà di accompagnare al mercato libero anche chi ha finito la pena”. Sfide che riguardano fasce sempre più ampie di popolazione: tra chi ha alle spalle un’esperienza nella giustizia penale, però, gli ostacoli rischiano di farsi ancora più forti. Treviso. Troppi detenuti al carcere minorile: “Dormono sui materassi per terra” di Elena Dal Forno Corriere del Veneto, 2 marzo 2025 La denuncia del Pd e di Ntc dopo la vista alla struttura di Treviso: “Va chiusa”. Venticinque detenuti contro una capienza massima di dodici. Un sovraffollamento del 200%, con tutte le conseguenze che ne derivano dal punto di vista sociale, igienico e sanitario. È questa la drammatica fotografia del carcere minorile di Treviso, uno degli istituti penitenziari per minori più inadeguati d’Italia, di recente visitato da una delegazione di esponenti del Partito Democratico e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. La struttura, che accoglie giovani detenuti provenienti anche da Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, versa in condizioni inaccettabili, con spazi angusti, servizi igienici fatiscenti e pochissime possibilità di socializzazione e formazione. “Definire bagno quello che ho visto è un eufemismo ha commentato l’europarlamentare Alessandra Moretti dopo la visita -. I ragazzi si lavano su una grata posizionata sopra una turca, con turni rigidamente stabiliti per le docce. Un’immagine che da sola descrive il degrado in cui questi giovani,alcuni appena quindicenni, sono costretti a vivere”. Il sovraffollamento, però, è solo uno degli aspetti di una realtà che sembra tradire ogni finalità rieducativa. I pochi spazi dedicati alla didattica sono insufficienti: una sola stanza, buia e inadatta, dove si svolgono le attività scolastiche. Anche le opportunità di praticare sport sono minime. Solo da poco è stato riaperto il campo da calcio, chiuso per un anno e mezzo per lavori di manutenzione e ora condiviso con il carcere per adulti. Prima di allora, l’unico passatempo disponibile era qualche partita a biliardino o a ping pong. “Siamo di fronte a una situazione che genera malessere, smarrimento e impotenza - ha aggiunto la consigliera comunale Carlotta Bazza”. Le testimonianze raccolte parlano di giovani costretti a dormire su materassi a terra per mancanza di letti, in spazi inadeguati e promiscui, dove convivono minorenni, giovani adulti fino a 25 anni e detenuti in attesa di condanna e già connunciato dannati. Nel 2013, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva già condannato l’Italia per situazioni analoghe. “Eppure - ha denunciato Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino - il nostro Paese continua a violare i diritti fondamentali, rischiando una nuova condanna”. Due anni fa era stato presentato anche un esposto per chiedere la chiusura dell’istituto di Treviso per gravi carenze di sicurezza e per il mancato rispetto delle norme antincendio. “Il carcere non rispetta le leggi e va chiuso. Ma stiamo ancora aspettando risposta” ha deLuca Bosio, delegato della Funzione Pubblica Cgil. In questo contesto di degrado e illegalità, l’impegno del personale e della nuova direttrice Barbara Fontana diventa una battaglia controvento. “La detenzione non può essere solo reclusione - ha spiegato Fontana - il nostro focus è la rieducazione. Collaboriamo con varie associazioni per laboratori e percorsi scolastici, ma il turn over altissimo dei ragazzi rende tutto più difficile”. Eppure, una possibile soluzione ci sarebbe già. Da anni si attende l’apertura del nuovo carcere minorile di Rovigo, che dovrebbe nascere dalla ristrutturazione dell’ex casa circondariale. Un progetto che potrebbe alleviare il sovraffollamento di Treviso e garantire ai giovani detenuti condizioni di vita dignitose, ma che resta bloccato da continui rinvii e lentezze burocratiche. “L’inadeguatezza delle carceri minorili italiane non è più tollerabile. Il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena non può rimanere una dichiarazione astratta, ma deve tradursi in strutture e percorsi concreti” concludono gli esponenti del Pd e di Nessuno Tocchi Caino. Bologna. I 50 giovani alla Dozza, Ostellari domani vede Lepore e de Pascale: “Misura temporanea” di Rosalba Carbutti Il Resto del Carlino, 2 marzo 2025 Il sottosegretario alla Giustizia: “Entro l’estate tre nuovi istituti per minori. Li trasferiremo lì. La protesta? No a strumentalizzazioni, collaboriamo”. “Il trasferimento dei 50 minori alla Dozza sarà temporaneo. Lunedì (domani, ndr) avrò un confronto con il presidente della Regione Michele de Pascale e il sindaco Matteo Lepore. Su temi come questi, non servono bandiere ideologiche, si deve lavorare insieme”. Andrea Ostellari, sottosegretario leghista alla Giustizia, ex commissario del Carroccio in Emilia, spiega i prossimi passi del ministero dopo il sit-in organizzato da Volt davanti al carcere con tanti esponenti del centrosinistra. Sottosegretario, i 50 minori verranno trasferiti alla Dozza il 15 marzo o ci sono margini di trattativa? “I 50 giovani che hanno tra i 21 e i 25 anni verranno trasferiti, ma solo temporaneamente. E, sottolineo, la gestione dei detenuti sarà sempre del dipartimento di giustizia minorile”. Quando dice “temporaneamente” che cosa intende? “Intendo che si dovrà soltanto attendere la consegna dei tre nuovi istituti penali per minorenni di Rovigo, L’Aquila e Lecce. Li avremo entro l’estate, direi, quindi entro quella data i giovani potranno lasciare la Dozza. Poi quando finirà il restyling del Pratello, i minori che provengono da quella struttura vi torneranno”. Non si poteva evitare questo trasferimento nel carcere degli adulti che comunque è già sovraffollato? “Se andiamo oltre alle bandiere ideologiche, è chiaro che questa decisione è inevitabile. Due dati: alla fine del 2022 in Italia avevamo 380 giovani detenuti nelle carceri minorili, oggi quel numero è arrivato a 600. C’è un’emergenza che non riguarda Bologna o l’Italia, ma tutta Europa. I fattori sono plurimi: dal numero dei minori stranieri non accompagnati che ora superano il 50% della popolazione in carcere all’aumento dei reati più gravi come stupro, tentato omicidio e omicidio. Senza contare il fenomeno della dipendenza da stupefacenti e non solo, che è in crescita. Un allarme su tanti fronti che non può essere colmato soltanto con la giustizia: servono soluzioni alternative”. Che cosa intende? “Il ministero della Giustizia sta lavorando su un progetto di ampio respiro che integra la costruzione di nuovi Istituti penali per minorenni con l’apertura di comunità socio educative che possano potenziare spazi di agibilità detentiva, senza necessariamente pensare alle carceri. Un esperimento che stiamo portando avanti in Lombardia e Veneto, ma vorremmo istituire anche in Emilia-Romagna”. Chiederà la disponibilità di de Pascale e Lepore? “Certo. Lunedì (domani, ndr) avremo un primo incontro online per portare avanti questa operazione. Che è nell’interesse dei minori. Per questo chiederò una mano per aprire nuove comunità in Emilia-Romagna: dobbiamo collaborare”. Si aspettava una protesta davanti alla Dozza così partecipata? “Credo che ora, invece, di portare avanti narrazioni strumentali si debba fare squadra per affrontare il tema dei giovani alle prese con fenomeni di devianza”. Firenze. Carcere di Sollicciano, Palazzo Vecchio chiama Roma: “Interventi non più rimandabili” di Niccolò Gramigni La Nazione, 2 marzo 2025 L’assessore Paulesu e il presidente del consiglio Guccione rispondono alla polemica sollevata dall’ex cappellano don Russo. “Sostegno concreto ai detenuti”. Il ministro atteso in commissione. Quel “sul carcere di Sollicciano solo parole e mai azioni concrete” pronunciato dall’ex cappellano di Sollicciano Don Vincenzo Russo ha provocato una serie di reazioni all’interno di Palazzo Vecchio. La critica di Don Vincenzo Russo riguarda tutti i livelli della politica. Da Palazzo Vecchio hanno replicato sia l’assessore al welfare Nicola Paulesu che il presidente del Consiglio comunale Cosimo Guccione. “A chi non riconosce l’impegno sul carcere di Sollicciano da parte dell’amministrazione e delle associazioni del Terzo settore rispondiamo che sono i fatti a parlare”, afferma Paulesu che ricorda che sia lui che la sindaca Funaro più volte si sono espressi “contro la situazione drammatica in cui versa il carcere. Abbiamo più volte sollecitato gli interventi del Governo che adesso non sono più rimandabili”. “C’è un coordinamento - aggiunge - tra pubblico e organizzazioni del Terzo settore e c’è una forte collaborazione e attenzione al tema da parte del Comune anche con la diocesi attraverso la Fondazione Solidarietà Caritas e i suoi progetti”. Il Comune, si ricorda da Palazzo Vecchio, collabora con Caritas per ‘Il Samaritano’, una struttura di accoglienza che si occupa di misure alternative al carcere. C’è anche l’impegno su ‘Casa Ginestra’ per persone a fine pena, o per ‘Casa Mimosa’ che accoglie donne con misure alternative al carcere o fine pena. Il Comune collabora con Caritas anche per la messa in prova e per scontare la pena facendo attività sociali, o anche col volontariato quotidiano in carcere e il sostegno attraverso materiali di prima necessità. Attesa intanto la risposta del ministro della giustizia Carlo Nordio, invitato dalla commissione politiche sociali a parlare del carcere. “L’impegno del Comune e delle associazioni c’è, serve cambio di rotta da parte del Governo” (comune.fi.it) “A chi non riconosce l’impegno sul carcere di Sollicciano da parte dell’Amministrazione e delle associazioni del Terzo settore rispondiamo che sono i fatti a parlare”. L’assessore al Welfare Nicola Paulesu interviene sul carcere di Sollicciano ricordando l’impegno del Comune. “Che il carcere versi in condizioni drammatiche lo denunciamo pubblicamente da mesi. Da quando sono assessore, ad esempio, lavoro per migliorare la situazione di Sollicciano insieme alla sindaca Sara Funaro. Non solo ci siamo espressi numerose volte contro la situazione drammatica in cui versa il carcere, ma abbiamo più volte sollecitato gli interventi del Governo che adesso non sono più rimandabili”. Paulesu continua mettendo in fila alcuni interventi concreti su cui sta lavorando. “C’è un coordinamento tra pubblico e organizzazioni del Terzo settore e c’è una forte collaborazione e attenzione al tema da parte del Comune anche con la diocesi attraverso la Fondazione Solidarietà Caritas e i suoi progetti” ha aggiunto Paulesu. Per fare alcuni esempi il Comune collabora con Caritas per ‘Il Samaritano’, una struttura di accoglienza che si occupa di misure alternative al carcere. C’è anche l’impegno su ‘Casa Ginestra’ per persone a fine pena, o per ‘Casa Mimosa’ che accoglie donne con misure alternative al carcere o fine pena. Palazzo Vecchio collabora con Caritas anche per la messa in prova e per scontare la pena facendo attività sociali, o anche col volontariato quotidiano in carcere e il sostegno attraverso materiali di prima necessità. Non è ancora finita: c’è una forte collaborazione per gli inserimenti lavorativi. “Siamo consapevoli che non è sufficiente, e che il cammino da fare sia ancora molto lungo. Ma, per quanto di nostra competenza, siamo al lavoro per incrementare ancora i nostri servizi con progetti di accoglienza per il fine pena e sull’attivazione di percorsi a supporto delle detenute vulnerabili e delle madri, con un sempre maggiore collegamento tra operatori sociali e sistema di accoglienza, valutando caso per caso le situazioni individuali. La collaborazione è anche con altre associazioni del territorio con cui facciamo un lavoro prezioso per l’inclusione dei detenuti”. “Ribadiamo che la situazione del carcere di Sollicciano è inaccettabile e che le condizioni in cui versa il penitenziario fiorentino sono disumane e prive di dignità per i detenuti e per chi vi lavora. Serve con urgenza, e per questo rinnoviamo l’appello al Governo, una direzione stabile che renda più semplice la gestione di una situazione così complessa e così difficile e che ci aiuti come Amministrazione ad avere un interlocutore stabile con cui potenziare il nostro impegno e il nostro lavoro”. Verona. Turetta via dall’area “protetti”, i legali scrivono alla procura di Roberta Merlin Corriere del Veneto, 2 marzo 2025 Filippo Turetta, recluso a Verona per il femminicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, è stato trasferito dalla sezione “protetti” alla sezione riservata ai detenuti comuni. Condannato all’ergastolo il 3 dicembre scorso per il sequestro e l’uccisione della studentessa ventiduenne di Vigonovo, il giovane padovano è in carcere a Montorio dal 25 novembre 2023, dopo il suo arresto in Germania. È nella sezione riservata ai reati di forte riprovazione sociale, anche per la necessità di maggiore sorveglianza sanitaria. A quasi tre mesi dalla condanna la direzione della casa circondariale di Montorio ha però deciso di spostarlo, a causa del sovraffollamento della struttura, trasferendolo dalla terza sezione protetta alla quarta, destinata ai detenuti con pene lunghe. Il trasferimento ha suscitato preoccupazione tra i legali di Turetta, Giovanni Caruso e Monica Cornaviera, che hanno inviato una segnalazione alla direzione del carcere, alla Corte d’Assise e alla Procura di Venezia. Gli avvocati temono infatti che, a contatto con altri detenuti, il ventitreenne di Torreglia possa trovarsi in un ambiente ostile, considerando anche la forte eco mediatica che ha accompagnato il caso. Pur riconoscendo la legittimità del provvedimento, i difensori hanno sottolineato “la necessità di garantire particolare attenzione al detenuto, soprattutto in vista della pubblicazione delle motivazioni della sentenza (prevista per metà aprile), poiché le manifestazioni di ostilità potrebbero intensificarsi”. Secondo Caruso e Cornaviera l’ostilità pubblica, alimentata dalla stigmatizzazione della vicenda, potrebbe avere infatti ripercussioni all’interno del carcere. “Si tratta solo di un scrupolo professionale”, ha detto ieri l’avvocato Caruso, facendo riferimento all’imminente scadenza per la pubblicazione delle motivazioni della sentenza all’ergastolo, fatta slittare dal Collegio dal 3 marzo a metà aprile. Preoccupati il trasferimento del figlio i genitori del giovane, Nicola Turetta ed Elisabetta Martini. La famiglia, conferma il loro avvocato Paola Rubini, è preoccupata per un’eventuale escalation di ostilità legata sempre alla pubblicazione delle motivazioni della sentenza. Le ragioni giuridiche della condanna all’ergastolo dello studente chiariranno la scelta di non riconoscere le aggravanti della crudeltà e degli atti persecutori, ma anche la decisione di non disporre una perizia psichiatrica su Turetta. La difesa aveva deciso di non richiederla, probabilmente anche per evitare di alimentare il clima ostile. Un accertamento che però potrebbe essere disposto in caso di impugnazione della condanna, anche se non è detto che il giovane scelga di tentare di ottenere uno sconto di pena. Dopo la lettura della sentenza aveva infatti dichiarato “di accettare la pena e di volerla scontare”. Ora tuttavia il trasferimento alla sezione ordinaria potrebbe rendere più difficile l’esperienza carceraria per Turetta poiché, come conferma un ex volontario del carcere di Verona, “gli autori di reati contro donne e bambini non sono ben visti dagli altri detenuti”. Lo studente potrebbe dunque dover affrontare un ambiente più difficile, con commenti e reazioni che fino ad ora non aveva dovuto subire nella sezione protetta. “Per il momento non è successo nulla di grave a Filippo - conferma il garante dei detenuti del carcere di Verona, don Carlo Vinco - quello disposto dalla direzione è un trasferimento legittimo per chi deve scontare una pena lunga. Il problema del sovraffollamento è invece molto preoccupante e peggiora le condizioni già difficili dei detenuti”. Alba (Cn). Emilio De Vitto è il nuovo Garante comunale dei detenuti di Matteo Grasso Gazzetta di Alba, 2 marzo 2025 Il sindaco Alberto Gatto ha nominato Emilio De Vitto come nuovo garante comunale delle persone detenute. Il bando era stato pubblicato il 31 gennaio scorso ed era scaduto il 21 febbraio. “Emilio De Vitto è impegnato da diversi anni nel sociale, nel volontariato e nell’assistenza alle persone più fragili. Lo ringrazio fin d’ora per il lavoro volontario e gratuito che si accinge a svolgere con le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nella casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba”, ha dichiarato Gatto. “Il garante ha un ruolo delicato, interagisce con i detenuti, riceve segnalazioni e dialoga con le autorità per adempimenti e azioni necessarie di sensibilizzazione all’esterno”, ha spiegato il primo cittadino. Il garante dei detenuti resta in carica cinque anni e può essere confermato una sola volta. Non ha diritto ad indennità o emolumenti per l’attività prestata. Ha solo il diritto al rimborso delle spese sostenute, debitamente autorizzate e documentate. Firenze. Di giorno al lavoro, la sera rientrano in carcere: McDonald’s assume due detenuti firenzetoday.it, 2 marzo 2025 L’imprenditore del fast food di via Cavour: “Volenterosi e pieni di entusiasmo”. Il lavoro come strumento di riscatto e reinserimento sociale: è con questo obiettivo che, con il supporto della Confcommercio fiorentina e la collaborazione dell’associazione Seconda Chance, il licenziatario McDonald’s di via Cavour a Firenze, Giuseppe Troisi, ha deciso di assumere due detenuti, offrendo loro una concreta opportunità professionale. Entrambi stanno concludendo un periodo di tirocinio organizzato da Fondazione Caritas con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, a conclusione del quale continueranno il loro rapporto di lavoro con il locale fiorentino targato McDonald’s. Attualmente sono ospiti della struttura di Fondazione Caritas, il Samaritano, in permesso premio orario o temporaneo di qualche giorno. Ma dal prossimo 15 aprile uno dei due sarà accolto dalla stessa struttura in Misura Alternativa alla Detenzione. L’iniziativa di inserimento lavorativo si inserisce in un percorso più ampio di promozione delle buone pratiche nel settore del terziario. “Avevo sentito di un’esperienza analoga realizzata da un collega in Sardegna, così ho deciso di replicarla qui a Firenze, attivandomi con Seconda Chance e Fondazione Caritas per individuare due detenuti prossimi alla scarcerazione che avessero voglia di rimettersi in gioco - racconta Troisi - Dopo un’attenta selezione e alcuni colloqui, da due settimane sono in staff nel nostro punto vendita. Lavorano di giorno rientrando in carcere la sera. Sono volenterosi e pieni di entusiasmo, sanno che si tratta di una bella opportunità. Diffidenze? Prima del loro arrivo c’era qualche preoccupazione tra gli altri dipendenti, dettata più da pregiudizi che da altro. Ma conoscerli ha dissipato ogni dubbio”. “Crediamo fortemente nella responsabilità sociale d’impresa - precisa il direttore di Confcommercio Toscana Franco Marinoni - per questo sosteniamo questa iniziativa, come esempio concreto di impresa generativa che chiunque potrà seguire, se lo vuole, contattando l’associazione Seconda Chance, con cui Fipe Confcommercio ha firmato un protocollo d’intesa nazionale. Non è la prima volta che ci collaboriamo: nei mesi scorsi abbiamo patrocinato un corso di ristorazione per detenute nel carcere di Sollicciano, coinvolgendo chef celebri del panorama fiorentino come docenti. Un impegno costante, volto a favorire il reinserimento lavorativo e a dimostrare come il terziario possa essere un motore importante di inclusione e riabilitazione contribuendo attivamente alla crescita del territorio e al futuro di chi cerca una seconda possibilità. Un modello virtuoso che può e deve essere replicato”. “Il lavoro ai detenuti fa bene anche agli imprenditori che li assumono”, dichiara Stefano Fabbri della no profit Seconda Chance, che dal 2022 opera su tutto il territorio nazionale per dare opportunità di lavoro a detenuti, organizzando il loro incontro diretto con veri e propri colloqui di lavoro con le imprese, grazie anche al protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “La legge Smuraglia (193/2000) - spiega - offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Ma soprattutto sempre più imprese grandi e piccole partecipano ai nostri progetti perché convinte di svolgere un importante ruolo per tutta la società. I dati Cnel parlano chiaro: il rischio di tornare a compiere reati riguarda 6 detenuti su 10, ma tra coloro che trovano lavoro la percentuale può scendere al 2%”. “Progetti come questo vanno nella direzione giusta, quella di promuovere un reinserimento lavorativo come leva per la costruzione del proprio futuro - sottolinea l’assessore al Welfare del Comune di Firenze Nicola Paulesu - Come amministrazione siamo impegnati per mettere a sistema tutte le realtà come questa con un tavolo dedicato proprio alle tematiche del carcere per fare rete e provare sempre di più a condividere proposte progettuali. Un sempre maggiore coordinamento è un’azione fondamentale per provare a dare risposte concrete sul fronte della situazione carceraria”. Brescia. Domani i Garanti dei detenuti scendono in piazza: “Sofferenza estrema” di Marta Mircalla Prandelli Il Giorno, 2 marzo 2025 Anche Brescia partecipa alla mobilitazione nazionale dei Garanti delle persone private della libertà personale, indetta per domani. A due mesi dal discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella, che aveva richiamato al rispetto della dignità e dei diritti di ogni persona anche in carcere, nulla è cambiato. A Brescia la mobilitazione è stata preceduta dalla rappresentazione teatrale “La terza branda” al Nerio Fischione, frutto del lavoro di riflessione del gruppo “Diritti umani” guidato da Giuseppina Turra. “La pièce ha fatto da spunto per riflettere su temi quali colpa, reato, vittima e collettività - spiega Luisa Ravagnani, la Garante bresciana - cominciando a elaborare strategie di riparazione che non possono tuttavia essere facilmente perseguite nell’attuale condizione di sofferenza del sistema penitenziario”. È solo dall’ascolto di detenuti, operatori e volontari che si può cogliere “l’estremo livello di sofferenza ingiustificata ormai raggiunto”. Le richieste dei Garanti? Misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno; alternative per sconta una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni; affettività da garantire e molto altro. Napoli. Carceri, domani il presidio a piazzale Cenni, antistante al Palazzo di Giustizia Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2025 “La politica tace. La società civile e la magistratura non possono tollerare che i detenuti vivano in condizioni indegne e inumane”. Su iniziativa della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale il 3 marzo sono state indette manifestazioni su tutto il territorio nazionale per accendere i riflettori sull’emergenza carcere. A Napoli lunedì 3 marzo ore 15:00 manifestazione a Piazzale Cenni, antistante al Palazzo di Giustizia. Il presidio indetto dal garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, nonché Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, d’intesa con Don Franco Esposito cappellano di Poggioreale e responsabile della Pastorale Carceraria della Diocesi di Napoli e la conferenza campana di giustizia e volontariato. Sono 61.852 detenuti presenti nei 192 Istituti in Italia, 15mila detenuti oltre i posti disponibili, che vivono in condizioni drammatiche. In Campania 7525 detenuti su 5616 posti disponibili. Il garante Ciambriello: “Ringrazio Don Franco Esposito per aver aderito a questa manifestazione, e che insieme alla sua associazione accoglie già molti detenuti in permesso e in misura alternativa. C’è un silenzio assordante della politica e della società civile. Noi garanti territoriali chiediamo l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere, sono 8 mila i detenuti in Italia, e in Campania 977 e non hanno reati ostativi. L’accesso alle misure alternative per quei 19mila detenuti che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni. Occorre da subito - sottolinea Ciambriello - aumentare le telefonate e le videochiamate, soprattutto in casi specifici, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti. Bisogna garantire l’affettività in carcere, come intendono agire per l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo)? occorre che la magistratura di sorveglianza si impegni ad aumentare i giorni di permesso premio per i ristretti.” Denuncia il garante campano: “lo scandalo dei prezzi per il sopravvitto in alcuni Istituti della Campania, le richieste non accolte per i trasferimenti fuori regione. Sovraffollamento, carenza di strutture e risorse adeguate, burocrazia. Sono i tre lacci che soffocano da anni il sistema penitenziario italiano, giunto ormai allo stremo. La politica tace. La società civile e la magistratura non possono tollerare che i detenuti vivano in condizioni indegne e inumane. Chiediamo la solidarietà con la presenza il prossimo 3 marzo non solo dei garantisti, dei tanti volontari dell’area cattolica e non solo, dell’avvocatura e della magistratura e della stessa politica”. Vasto (Ch). Al Liceo Artistico “Immaginati libera”, il progetto con i detenuti della Casa Lavoro vastoweb.com, 2 marzo 2025 Mercoledì scorso, nell’auditorium del Liceo Artistico - alla presenza del Dirigente scolastico, prof.ssa Anna Orsatti, e l’assessora alle Politiche giovanili e all’Istruzione di Vasto, dott.ssa Paola Cianci - c’è stato un incontro, moderato dalla Prof.ssa Santa Forgione, tra tutti i protagonisti coinvolti nel progetto: alunni, docenti, responsabili dell’area educativa F.G.P, dott.ssa M. Giuseppina Rossi, la docente e scrittrice Valentina Franzese, e tre ragazzi della Casa Lavoro. Gli alunni e le alunne del triennio hanno presentato un power point sul lavoro di studio e riflessione scaturito dalla lettura dei testi di Woolf-Murgia, analizzando il significato e le analogie. Inoltre, sono stati presentati i bozzetti che verranno poi trasformati in murales per abbellire l’ambiente in cui sono costretti a vivere i detenuti. Le classi 4°A e 5° A hanno realizzato due immagini che rappresentano a loro volta due frasi celebri estrapolate dai libri ‘Stai zitta’ dell’attivista e femminista Michela Murgia e ‘La Signora Dalloway’ testo di Virginia Woolf, modernista e femminista britannica. Gli alunni hanno spiegato il significato delle future opere d’arte: nel primo bozzetto, la figura stilizzata di una donna è circondata da papaveri rossi, simboli di sacrificio e sensibilità. Nel secondo bozzetto è presente un’ulteriore donna la quale indossa una corona colma di gioielli, un’idea che rinvia simbolicamente a una frase scelta dai ragazzi del carcere. La Dott.ssa Rossi nel suo intervento ha richiamato l’importanza di evidenziare nel concetto di pena l’aspetto educativo, la possibilità di reiniziare, rimediando ai propri errori. Il messaggio condiviso dai diversi partecipanti è che la cultura è ciò che permette alle persone, donne e uomini, di essere liberi. I ragazzi della Casa Lavoro hanno espresso il loro punto di vista sul progetto, di come sia stato per loro un obiettivo personale, un’opportunità per creare un “ponte” tra loro e noi studenti, e anche con la comunità. “Il progetto “Immaginati libera”, - ha dichiarato la Dirigente scolastica, Prof.ssa Anna Orsatti - è ideato dalla professoressa Forgione ed unisce letteratura, arte, educazione civica e coinvolge gli studenti in un percorso di formazione ampio e articolato. L’incontro con i detenuti della casa lavoro rappresenta una delle tappe più significative poiché si basa sulla lettura condivisa del testo “Stai zitta” di Michela Murgia. Una lettura che ha dato origine a riflessioni su valori imprescindibili, a partire dal rispetto della persona. Dal confronto a più voci tra gli studenti e i detenuti è emerso che l’essere umano può cadere in errore, ma anche riabilitarsi e ricominciare un percorso di vita. In questo percorso l’istruzione è il cardine su cui si può fondare una vita autentica e libera”. “Questo appuntamento è un ulteriore tassello che aggiungiamo al percorso sulla promozione della cultura della legalità tra le nuove generazioni avviato da qualche anno con il Pantini Pudente. Attraverso l’arte stiamo - ha detto l’assessora all’Istruzione Paola Cianci - lanciando dei messaggi importanti nella nostra città, rafforzati dalla collaborazione della scuola con la Casa Lavoro in modo che la nostra comunità e soprattutto i giovani entrino in contatto con il mondo impegnato nel reinserimento sociale dei detenuti, per comprendere il grande lavoro svolto dagli operatori nello stimolare forza di volontà e consapevolezza necessarie a comprendere gli errori commessi e ad apprezzare la vita e la sua libertà. Una bellissima esperienza per tutte e tutti noi’. Napoli. Carcere di Secondigliano, al via il progetto “Rigiocare il futuro, lo sport per ripartire” metropolisweb.it, 2 marzo 2025 A Napoli è stata avviata la prima fase di lavori all’interno del Centro penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano nell’ambito del progetto “Rigiocare il Futuro, lo sport per ripartire”, ideato dalle associazioni Seconda Chance e Sport Senza Frontiere e premiato in occasione della terza edizione del CSR Award della Fondazione Entain. Il progetto ha l’obiettivo di realizzare un polo sportivo di eccellenza all’interno dell’istituto penitenziario, fornendo ai detenuti nuove opportunità di sviluppo personale e di reintegrazione nel mondo del lavoro. L’iniziativa, che si distingue per essere sviluppata in partenariato tra Terzo settore, imprese private e istituzioni pubbliche, si propone come un esempio concreto di investimento in infrastrutture sociali e di sviluppo di servizi. Per questo motivo, le associazioni promotrici mirano ad ampliare la rete di sostenitori, coinvolgendo partner privati che contribuiscono a restituire valore sul territorio, a favore delle categorie sociali più vulnerabili. Completata la fase iniziale del progetto che prevede la costruzione dei due campi da padel, prenderà avvio la ristrutturazione del campo da calcio esistente. Seguirà un percorso formativo di 24/36 mesi, che vedrà coinvolti i detenuti in attività sportive e corsi di formazione professionale volti anche al reinserimento nel mondo del lavoro. “In Seconda Chance crediamo che ogni individuo meriti una seconda opportunità, soprattutto se disposto a lavorare su sé stesso e a contribuire attivamente per la comunità. Il nostro progetto mira a trasformare il carcere in uno spazio di crescita, investendo nella formazione e nel reinserimento professionale per ridurre il rischio di recidiva e favorire il reinserimento sociale. Vogliamo offrire ai detenuti gli strumenti per riscattarsi e ricostruire legami significativi con la società, dimostrando che la seconda opportunità può fare la differenza per l’individuo e per la collettività. Siamo fieri della velocità con cui proseguono i lavori: ormai la fase uno è terminata e contiamo che la seconda parte degli interventi strutturali sia conclusa prima dell’estate. Orgogliosi dei risultati che stiamo ottenendo invitiamo altre imprese, in particolare del territorio, a guardare con interesse a quello che è uno straordinario esempio di collaborazione pubblico-privato per il bene della collettività”, ha detto Flavia Filippi, fondatrice di Seconda Chance. “La nostra esperienza ci mostra ogni giorno il potere trasformativo dello sport come strumento di inclusione sociale - ha aggiunto Alessandro Tappa, presidente di Sport Senza Frontiere - Il progetto di rieducazione che presentiamo mira a portare questa opportunità all’interno di uno dei principali istituti penitenziari italiani, offrendo ai detenuti la possibilità di acquisire nuove competenze attraverso la pratica sportiva e corsi professionalizzanti. Siamo convinti che il miglioramento del benessere psicofisico garantito dallo sport, insieme a un apprendimento mirato, possa avere un impatto positivo sul loro percorso di vita, sostenendo la loro reintegrazione sociale. Oggi il tema delle carceri è all’attenzione di tutti e poter intervenire concretamente attraverso un progetto così impattante è per noi una grande soddisfazione”. Giuliano Guinci, Public Affairs, Sustainability & Retail Operations Director del Gruppo Entain in Italia ha commentato: “Essere partner di questo progetto è per noi un motivo di grande orgoglio. Da anni abbiamo intrapreso un percorso di sostenibilità, focalizzandoci sul mondo dello sport e sull’inclusione. In questa fase, siamo particolarmente impegnati nel supportare progetti di riqualificazione delle infrastrutture sociali. Restituire parte del valore generato dalla nostra azienda a favore delle categorie più vulnerabili è per noi una priorità. Crediamo fermamente che solo attraverso interventi concreti si possa fare la differenza. Siamo fiduciosi che altri partner si uniranno a questa squadra vincente per contribuire alla realizzazione della più grande Cittadella dello Sport all’interno di un istituto penitenziario, un progetto che avrà un impatto significativo sulla vita dei detenuti e sulla comunità”. Napoli. “Freedom”, il murales che fa da ponte tra studenti e giovani detenuti di Simone Lo Presti orizzontescuola.it, 2 marzo 2025 Un’imponente scritta “Freedom” introduce il nuovo murale realizzato all’Istituto Penale Minorile di Nisida, frutto della collaborazione tra gli ospiti del carcere minorile e gli studenti della Scuola Pontificia Pio IX di Roma. Il progetto, intitolato “Arte Senza Confini”, ha permesso a due mondi apparentemente distanti di incontrarsi attraverso l’arte, dando vita a un’opera che simboleggia speranza, libertà e trasformazione. L’iniziativa è stata promossa dall’Associazione Operazione Cuore e dall’Associazione Fratelli Emanuele Francesconi Onlus, con la guida della street artist Trisha Palma, pittrice e scenografa con esperienza in progetti artistici dedicati ai giovani, tra cui laboratori a Betlemme e Gerusalemme. L’opera è stata realizzata sul muro perimetrale del campo di calcetto dell’Istituto, con il supporto di Giuseppina Canonico, funzionario della professionalità pedagogica del carcere minorile. Un’opportunità di crescita per tutti - “L’arte diventa un ponte tra mondi diversi, un simbolo di speranza e cambiamento” ha dichiarato Laura Romeo, presidente di Operazione Cuore. Il progetto rappresenta un’occasione per i giovani detenuti di esprimersi in modo positivo e per gli studenti di vivere un’esperienza formativa profonda, accompagnati dal direttore Fratel Andrea Bonfanti e dal professore Simone Nieddu. Il significato del murale “Freedom” - Oltre alla scritta “Freedom”, il murale raffigura due gabbiani in volo su un mare blu, che si allontanano dall’isola di Nisida, simbolo di un possibile nuovo inizio. A opera terminata, i ragazzi hanno lasciato le proprie firme sul murale, suggellando il valore collettivo dell’esperienza. Venezia. Parole tenute dentro da far sentire fuori L’Osservatore Romano, 2 marzo 2025 “Il carcere da fuori non mi commuoveva, non mi colpiva. Credo, come alla maggior parte delle persone, semplicemente che non me ne importava dell’esistenza. Si sa che esiste, ma non ti riguarda: è per chi ci deve stare. E poi ci sono entrata, mi sono trovata qui dentro. Ad accorgermi che non è affatto un luogo da sottovalutare. È un luogo di sofferenza”. Fra le sbarre della Giudecca risuonano le parole così poco comuni di Papa Francesco: “Ogni volta che entro in un carcere mi faccio la stessa domanda: perché loro e non io?”. Questione rimossa, quasi insostenibile, su cui si sostiene la distanza fra dentro e fuori. Un binomio - dentro e fuori - che la detenzione imprime nei pensieri, nei sogni, nelle parole di ogni giorno. Due mondi nello stesso mondo, separati da mura, sistemi di sicurezza e soprattutto tempo: giorni, mesi, anni. In carcere c’è chi per lavoro entra ed esce, ogni giorno. Chi abita al suo interno, però, fa dello spazio e del tempo un’esperienza separata. La voce che ci ricorda “è un luogo da non sottovalutare” coglie perfettamente la posta in gioco. “Per voi è difficile capirlo, ma noi siamo costrette a rivederci tutti i giorni. Stiamo negli stessi spazi senza esserci scelte, in poco spazio. La vita in cella può essere un inferno e lì dentro ci sei tu, non puoi andare da un’altra parte. Qui è un concentrato di malizia, di pregiudizi, di invidia, di ignoranza. L’ignoranza fa moltissimo. Porta a diventare nemiche anche se si è sulla stessa barca. D’altra parte, quel che abbiamo nel cuore esce dalla bocca e ci si può fare molto male. Facciamo tutte l’esperienza di sentirci giudicate non solo dalla legge, o dalla società che è là fuori, ma anche dalle altre che vivono con noi. Allora, proprio qui, bisogna scegliere. O ci si lascia contagiare da tutta questa negatività, oppure la si riconosce, la si rifiuta e si inizia a cambiare. Per vivere, per andare avanti con umanità”. Forse, allora, la barriera fra dentro e fuori è meno spessa di quanto appaia, forse è più artificiale di come sembra. L’impressione è che si concentrino, dietro le sbarre, tensioni interne a ogni realtà umana: contrasti e veleni che rendono campo di battaglia i luoghi del lavoro e della convivenza, l’ignoranza che ovunque fa parlare senza pensare, il risentimento che proietta sugli altri le personali inquietudini e le colpe che pesa ammettere. Ascoltare tanta sofferenza avvicina alla comune, eppure rara, conclusione: si può fare la differenza, si può scegliere, si può cambiare. “Ho tanti di questi pensieri”, confida un’altra voce: a questo serve un luogo di condivisione, un tempo per la parola. Pronunciare ciò che il cuore avverte, fissarlo su un foglio o dirlo a chi fa come il vuoto e accoglie: farsi spazio. E rompere la barriera, attraversare le porte chiuse. Piace che escano dal carcere, che lascino la laguna e raggiungano tanti lettori le parole nate dal cuore. “Mandare un messaggio fuori. Non perché l’ho scritto io, non per sentirmi brava a scrivere o a parlare, ma perché esca. Molti entrano nel carcere - politici, registi, scrittori, giornalisti, esperti di tante cose -, ma nessuno ascolta le nostre voci e soprattutto nessuno le porta fuori. Sembra a volte di essere allo zoo: viene questo e quello, persone anche famose, che ci guardano rapidamente, chiuse in gabbia. Non credono, forse, che abbiamo una parola. Ed è allora straordinario che finalmente qualcosa che qui pensiamo e comprendiamo esca, perché può servire. Può fare pensare. Fuori ci sono cose a cui anche noi non pensavamo mai. Qui si capiscono più chiaramente ed è importante se fanno riflettere qualcuno che le leggerà”. Un anno di esperienza e di contatti con l’esterno, resi possibili dalla scelta di allestire dentro il carcere il Padiglione vaticano, ha modificato radicalmente la percezione del contributo che si può dare. “Sono entrate più di ventimila persone e noi abbiamo studiato per essere le guide, ma poi tutte e tutti ci interrogavano sulla vita qui. Nella gente che forse prima, come tutti, pensava male del carcere o non ci pensava proprio, abbiamo visto tante emozioni, tante lacrime, la fine del pregiudizio”. È un dono che deve continuare, per chi ha scoperto di avere voce e dignità e per chi ha bisogno di una scossa: non solo parole, ma esperienza. Alessandra, Angelica, Emanuela, Fanta, Giulia, Nadireh, Paola, Stefania, Susanna, Flavia, Sergio Il film nato in carcere a Teheran alla notte degli Oscar di Maria Tatsos asianews.it, 2 marzo 2025 “Il seme del fico sacro” di Mohammad Rasoulof in corsa nella cinquina per il miglior film straniero. Racconta la repressione delle libertà e lo scontro generazionale attraverso la storia di una famiglia durante le proteste per la morte di Mahsa Amini. Girato nella capitale iraniana eludendo la censura da un regista oggi costretto a vivere in esilio. Quando nel settembre 2022, in seguito alla morte della ventiduenne Mahsa Amini, è scoppiata la rivolta “Donna, vita, libertà” il regista iraniano Mohammad Rasoulof si trovava in prigione per aver firmato una petizione. Da dietro le sbarre, ha seguito l’estendersi delle proteste maturando l’idea di dedicare un film a quanto stava succedendo. È nato così il progetto del lungometraggio “Il seme del fico sacro”, vincitore del premio speciale della Giuria al Festival di Cannes e tra i cinque titoli in corsa per l’Oscar come miglior film straniero che verrà annunciato il 2 marzo a Los Angeles. Il cinema iraniano ha già vinto due volte questo riconoscimento con i film di Asghar Farh?di “Una separazione” (2012) e “Il cliente” (2017). “Tutto è iniziato quando un addetto importante della prigione di Evin mi ha confessato di volersi impiccarsi davanti all’ingresso della prigione - ha dichiarato il regista -. Soffriva di un profondo rimorso di coscienza, ma non aveva il coraggio di liberarsi dall’odio che nutriva per il suo lavoro”. Da questa storia probabilmente è nato il personaggio chiave di “IL seme del fico sacro” Iman, un investigatore statale proveniente da un paesino remoto, che aspira a fare carriera e a offrire alla moglie Najmeh e alle figlie Rezvan e Sana una vita migliore. All’inizio del film, vediamo questa famiglia così normale e ordinaria, che vive in un appartamento a Teheran, festeggiare la promozione del padre a giudice istruttore e sognare una casa più bella. Najmeh, come il marito, sono nati dopo la Rivoluzione del 1979. La donna è perfettamente calata nel suo ruolo di moglie solerte di un impiegato del regime e di sorella di un militare. Senza essere fanatica come una guardiana della rivoluzione, istruisce le figlie al rispetto delle regole e delle apparenze. Soprattutto ora, dopo la promozione del padre, le ragazze devono essere impeccabili in pubblico e non suscitare alcun pettegolezzo negativo. Nel suo nuovo ruolo, Iman si scontra subito con un dilemma: il pubblico ministero chiede che avvalli la condanna a morte di un giovane per offesa a Dio, senza aver neppure letto il lungo fascicolo che lo riguarda. Il suo predecessore si è rifiutato ed è stato licenziato. È il bivio che determinerà ogni successiva scelta di Iman: allinearsi al regime e alla volontà dei capi, costi quel che costi, diventerà il suo imperativo. Gli viene data anche una pistola per potersi difendere, visto che il suo ruolo gli procurerà nemici. Nel frattempo, a Teheran scoppia la rivolta a seguito dell’arresto e della morte di Mahsa Amini. I cellulari di Rezvan, Sana e della loro amica Sadaf restituiscono immagini e video agghiaccianti degli attacchi della polizia contro i manifestanti. All’università, Rezvan scampa per un colpo di fortuna alle pallottole dei poliziotti, ma la sua amica Sadaf rimane ferita. La figlia la porta a casa e anche Najmeh vive il suo dilemma: se aiuta la ragazzina, mette a rischio la carriera del marito. Se non lo fa, si mette contro le figlie. Najmeh sceglie la dissimulazione, con il marito tace ma quando Sadaf viene arrestata cerca a modo suo di aiutarla. Ma l’equilibro della famiglia è destinato a saltare di fronte a un evento catastrofico: la pistola del giudice Iman sparisce, proprio fra le mura di casa sua. L’uomo rischia tre anni di galera e il crollo di tutti i suoi sogni di carriera. La ricerca dell’arma poco alla volta si tramuta nella ricerca della colpevole. Sul banco dei sospettati Iman mette moglie e figlie. Coinvolge un amico poliziotto e psicologo che conduce gli interrogatori e sottopone le tre donne a un assaggio di quanto avviene nelle prigioni, evitando solo la tortura fisica. Non ottenendo alcuna confessione, Iman perde sempre di più il controllo, diventa paranoico e trascina le tre donne nella casa isolata del suo villaggio disabitato, dove si trasforma in un vero aguzzino. Si toglie la maschera del padre e marito amorevole e inizia a comportarsi come probabilmente fa sul lavoro. La moglie e le figlie si trovano di fronte a uno sconosciuto violento e rabbioso, devoto alla logica del suo lavoro infernale. Nel frattempo, il regista ci svela chi ha sottratto la pistola, un dettaglio importantissimo che porterà al tragico epilogo della storia. Dopo oltre tre ore di film, che però scorrono senza mai annoiare lo spettatore, Rasoulof lascia il pubblico con tante domande. Come può un tranquillo padre di famiglia diventare un mostro? È possibile mediare fra le ragioni della propria coscienza e gli ordini di uno stato totalitario, che per giunta dice di agire in nome di Dio? È la brama di potere su altri esseri umani a spingere il carnefice in una spirale di odio e violenza, da cui non riesce più a uscire? “Dopo la rivoluzione del 1979 - ha dichiarato il regista - ci sono strane testimonianze di fanatismo e di insistenza sull’ideologia che snaturano la portata dell’infanticidio, del fratricidio, della ricerca del martirio, facendoli diventare dei valori quasi religiosi. Negli ultimi quarant’anni, la sottomissione indiscussa alle istituzioni religiose e politiche al potere ha creato profonde divisioni all’interno delle famiglie”. Con questa storia di fantasia, Rasolouf ci racconta come si distruggono la fiducia e l’amore in seno a una famiglia, evidenziando lo scontro generazionale in atto in Iran. Sembra incredibile, ma “Il seme del fico sacro” - candidato all’Oscar dalla Germania - è stato girato a Teheran, eludendo la censura, con grande coraggio da parte degli attori e della troupe. Dopo la conferma della condanna a otto anni di carcere, alla fustigazione, a una multa e alla confisca dei suoi beni da parte della Corte d’Appello, Mohammad Rasoulof - al quale la Repubblica Islamica d’Iran aveva confiscato il passaporto nel 2017 - è riuscito a fuggire in Europa lo scorso anno. Ha realizzato otto film, tutti censurati e mai proiettati in Iran. “Io, autorecluso, tengo a bada l’inquietudine lasciando che il fuori resti com’è” di Jonathan Bazzi* Corriere della Sera, 2 marzo 2025 Evito di uscire di casa da mesi: ordino la spesa, faccio yoga online, uso lo smartphone 10 ore al giorno. Non posso dire di esserne scontento: per un verso, è esattamente quello che voglio. Solo che, quando parliamo di equilibro e salute mentale, forse non ci rendiamo conto dell’influenza che la solitudine autoimposta, desiderata, ha sulla nostra vulnerabilità. Da alcuni mesi evito di uscire di casa. Senza che lo decida davvero, le giornate iniziano, finiscono ed è successo di nuovo. Un tempo, persino durante la pandemia, odiavo anche solo l’idea di un giorno trascorso totalmente al chiuso: avevo bisogno di muovere il corpo, cambiare scenario. Non è più così: il bisogno dell’attività fisica rimane, ma ho scoperto che posso sopperire anche a quello nei miei cinquanta metri quadrati. Lavoro a casa ormai da anni, ma prima andavo al supermercato, frequentavo le lezioni di yoga e di altre discipline che mi incuriosivano. Avevo un ritrovo fisso con gli amici per l’aperitivo, nel fine settimana tornavo a pranzo da mia madre. Ora ordino la spesa, e persino i farmaci, a domicilio, seguo corsi online, faccio i saluti al sole incastrato tra il tavolo e il divano, rimando appuntamenti e uscite fino a dimenticarmene, interagisco con la mia famiglia d’origine nel gruppo WhatsApp, nonostante ci separino venti minuti di automobile. Mi sento perciò chiamato in causa quando si parla del nostro come di un secolo antisociale, specie in riferimento all’isolamento domestico. Non posso dire di esserne scontento: per un verso, è esattamente quello che voglio. Ho bisogno di silenzio e tempi lunghi per lavorare, mi piace cucinare il cibo che mangio, scegliere se questo articolo preferisco scriverlo sdraiato sul tappeto o rannicchiato tra i cuscini, alle cinque del mattino o alle undici di sera. Solo che, quando parliamo di equilibro e salute mentale, forse non ci rendiamo conto dell’influenza che la solitudine autoimposta, desiderata, ha sulla nostra vulnerabilità. Molte delle persone che ho intorno sembrano orientate dallo stesso obiettivo: stare il più possibile ritirate, protette nel santuario privato di casa propria, col partner, magari il cane o il gatto, in una specie di cura di sé a oltranza e senza obiettivi precisi. Una sorta di estensione della sindrome della capanna di cui si parlava negli anni del Covid. Se il lavoro costringe a uscire, si sognano alternative, mentre il tempo libero diventa ostinatamente sedentario. Altrimenti ci si avvinghia allo spazio domestico con bramosia totalitaria. Su TikTok va di moda celebrare quando qualcuno con cui hai un appuntamento annulla l’incontro: è una gioia che capisco benissimo. E meno usciamo, meno siamo disposti a uscire. I nostri desideri, però, non sono sempre lungimiranti: tutto questo, a lungo andare, ci rende più forti o ci indebolisce? Spesso ricorriamo - ricorro - alla scusa del meteo: il freddo d’inverno, il caldo d’estate. Vogliamo stare a casa, in una separazione che è fisica ma, all’apparenza, non radicale, dato che viviamo con lo smartphone in mano. Gli esperti dicono che la comunicazione digitale inibisce la ricerca di contatti diretti: la voglia di vedersi dal vivo, nell’iperstimolazione della messaggistica, retrocede sempre più sullo sfondo. Smettiamo di sentirne il bisogno. La sezione apposita del telefono mi informa che ho una media giornaliera di utilizzo pari a 10 ore e 24 minuti: il 17% in meno rispetto alla scorsa settimana (ci sto lavorando). Sullo smartphone faccio molte cose, compreso sentire amici e conoscenti. Dalle sei del mattino a mezzanotte, in un flusso ininterrotto di link, video, sticker e meme. Se vogliamo passare così tanto tempo da soli è perché, oggi, non ci sentiamo mai davvero tali: lo sciame social ci segue dappertutto, i contatti sono intensi, sebbene confinati allo schermo. Gli altri, in questa modalità mediata, sono spettri che ci attivano o intristiscono, esaltano o inquietano, ma sempre in modo controllato. La presenza altrui è resa, in teoria, meno ingombrante dall’incorporeità: la separazione dovrebbe allentare l’ansia da prestazione sociale - fino a passare intere giornate in pigiama, il cosiddetto goblin mode -, e permette anche di concentrarsi su sé stessi. Casa, comfort e cura di sé compongono una costellazione ricorrente in questo isolamento digitalmente affollato. Girano sempre molto, in rete, i contenuti sulla morning routine, l’insieme di pratiche - igieniche, alimentari, mentali, creative - da destinare al mattino, quando nessuno ci può disturbare. Ma lo sguardo dell’altro - anche quando si parla di attività fisica, skin care o meditazione - rimane centrale, come modello o risultato da raggiungere, motivo di potenziale affossamento dell’umore. Passiamo ore a controllare allo specchio l’effetto delle creme anti-age o i risultati anatomici dei nostri workout, se abbiamo un qualche ruolo pubblico cerchiamo il nostro nome in loop su Google per scoprire che si dice di noi. Nella loro assenza materiale gli altri ci condizionano molto più che in passato, in modo più frenetico, normativo, spietato: il nostro isolamento non rinuncia davvero alla socialità, la rimanda di continuo, e si modula, ansiosamente, al suo cospetto. Se viviamo, come ha scritto Derek Thompson sulla rivista americana The Atlantic, nel secolo più solitario, è perché abbiamo ingigantito virtualmente l’altro: mentalizziamo a tal punto il contatto che cerchiamo di procrastinarlo il più possibile, o almeno recintarlo in spazi prevedibili. Nel frattempo, fissiamo appuntamenti con psicoterapeuti e psichiatri (sempre più spesso online), o cerchiamo di darci una routine nutrizionale o di meditazione, magari seguendo video o scaricando un’app. C’è chi ha coniato la definizione di monaci secolari: tanti iniziano a gestire le tensioni quotidiane con regole e pratiche più o meno esotiche, sperimentando una disciplina dopo l’altra, in una costante e solitaria ricerca di equilibrio. Veniamo scossi dai contatti da remoto e tentiamo di prenderci cura di queste turbolenze sempre rimanendo in disparte. L’obiettivo principale delle mie giornate, al momento, è quello di spuntare le caselle delle due sessioni di meditazione trascendentale previste dall’app che l’insegnante mi ha fatto scaricare al corso introduttivo: a volte temo di aver incanalato le mie disfunzioni in un’ulteriore dinamica troppo privata. Le pratiche introspettive sono fondamentali, ma per molti di noi il rapporto con l’altro continua a essere destabilizzante, e c’è tutto un sistema che ci fornisce gli strumenti - e gli alibi - per evitarlo. Sentiamo che la soluzione alla nostra inquietudine arriverà dalla protezione dei nostri confini, dall’autodeterminazione solipsistica: in un mondo percepito come ostile, concentriamo le nostre vite nell’aggiustamento domestico. Qualche mese fa alla psicoterapeuta ho detto che è come avere tanti soldatini disposti sui confini individuali, una schiera di sentinelle abbarbicate sul perimetro dell’identità. Tanto a casa ci arriva tutto, possiamo fare tutto: mangiare, curarci, studiare, conquistare diplomi e attestati, fare shopping e fare attivismo, appagare la libido o guadagnare con quella altrui, seguire in video-call maestri spirituali, recitare mantra con persone da tutto il mondo. Istigato dall’algoritmo, che ormai conosce tutti i miei punti deboli, spendo i miei risparmi comprando vestiti che non indosso, dato che evito le occasioni in cui potrei metterli. A tanti amici accade lo stesso: tanto poi ci si rivende tutto sull’app per l’usato. L’economia moderna ha sempre meno bisogno delle nostre interazioni dal vivo: ci invita all’introversione, qualcuno dice all’agorafobia. Le nostre case si fanno infestate: raggiunti da frammenti bidimensionali delle vite altrui, rischiamo di rimane bloccati in un pulviscolo di proiezioni e pensieri fissi, sospetti, invidie e fantasie disfunzionali. Virginia Woolf, in un saggio del 1930, Passeggiando per le strade di Londra, descrive l’oppressione paralizzante della propria identità, figlia della casa e dei suoi oggetti, “che esprimono senza sosta la stranezza del nostro temperamento”. Basta un pretesto qualunque però, come quello di dover acquistare una matita nuova, per uscire, spezzando il cerchio chiuso del sé: “Appena usciamo di casa, ci leviamo di dosso l’io che i nostri amici conoscono, diventando parte di quel vasto esercito di pedoni anonimi”. Nel contatto diretto, anche silenzioso, i sensi e l’immaginazione si attivano diversamente, come se non fossimo più incatenati a una mente sola, e potessimo, per un po’, uscire da noi: “Quella specie di conchiglia che la nostra anima ha secreto per avere una forma propria, diversa dalle altre”, scrive Woolf, “viene infranta, e di tutte quelle pieghe e durezze non rimane al centro che un’ostrica di percezione, un enorme occhio”. Uscire di casa, per Woolf, è una liberazione, perché la sua identità le era diventato un peso. È possibile che il nostro sguardo si irrigidisca nella ricerca di un benessere che ci aspettiamo di ottenere in un solo e unico modo. Anche l’insofferenza, acuta ma impietrita, verso le nostre abitazioni, effettivamente sempre più piccole e costose, a causa della speculazione immobiliare, ha forse un legame con questa segregazione volontaria che si illude di poter raggiungere la felicità individuale lasciando che il fuori - troppo grande, troppo complicato - resti com’è. Parliamo così tanto di case anche perché sembra non ci resti nient’altro? “Io, autorecluso senza averlo davvero deciso, tengo a bada l’inquietudine lasciando che il fuori resti com’è” Accorgersi dei fili che legano il proprio dolore privato a quello degli altri è una necessità impellente, la sola possibilità di invertire il corso delle cose. Se i comfort deformano la nostra prospettiva, c’è bisogno di uno scatto, critico e sentimentale, che elevi il nostro desiderio più in alto della sola autoprotezione. A partire dal rapporto col tempo e lo spazio, e dal rischio. Le case di cui abbiamo parlato finora sono anche metaforiche: viviamo in un tempo a bassissimo tasso di creatività, sempre meno persone sentono di potersi permettere di lasciare le stanze note per inoltrarsi verso significati e storie ancora da scoprire. Eppure, siamo molto più di questo: viene da pensare all’Alice di Lewis Carrol inscatolata nella casa del Bianconiglio, con braccia e gambe che spuntano da porte e finestre. È un po’ così che rischiamo di finire: talmente sulla difensiva, e appartati, da contrarre la tana fino a renderla la tagliola nella quale diventiamo la più facile delle prede. *Scrittore I beni confiscati alle mafie diventano case per dare protezione alle donne vittime di abusi di Serena Laezza L’Espresso, 2 marzo 2025 Le case rifugio in Italia sono 450. Negli ultimi 5 anni il loro numero è quasi raddoppiato. Ricordo il mio primo giorno qui. Le tende svolazzavano, la vista era bellissima. Ho pensato “sembra proprio casa”. Olga (nome di fantasia) è alla fine del suo percorso a Casa Fiorinda, bene confiscato alla criminalità organizzata dove, dal 2011, sono accolte gratuitamente donne vittime di violenza maschile sole o con figli a Napoli. Sembra un appartamento come tanti. Invece si tratta della prima casa rifugio del capoluogo campano. Secondo l’ultimo rapporto Istat del 2022, in Italia le case rifugio sono 450, in crescita del 94 per cento in cinque anni, ma ancora insufficienti per gli standard della Convenzione di Istanbul. Solo 0,15 case ogni 10.000 donne, con forti disparità territoriali: il Nord offre il doppio dei posti rispetto al resto del Paese. “Non sono disponibili dati disaggregati che permettano di rilevare le aree di maggiore criticità” spiega Giulia Sudano, presidente di Period think tank. In Campania, le case rifugio registrate dalla Regione sono 31 con 186 posti. Ma ce ne sono altre non accreditate come Casa Fiorinda. La maggioranza delle strutture dipende da finanziamenti pubblici spesso incerti e discontinui. “Negli ultimi dieci anni siamo passati dalla rimozione collettiva del tema della violenza di genere a una maggiore attenzione” commenta Lella Palladino, sociologa femminista e vicepresidente della fondazione “Una, nessuna, centomila”, che si occupa di prevenzione e contrasto alla violenza di genere. “Ma spesso sorge sull’onda dell’indignazione, senza coagularsi in un impegno serio”. La situazione delle case rifugio è, secondo l’esperta, marcata da grande improvvisazione. “Ci sono luoghi che si definiscono case rifugio, dove alle donne non viene lasciata la libertà di autodeterminare i loro percorsi e mancano competenze specifiche”. Le donne restano nelle case rifugio in media 138 notti ma ci sono casi, come quello di Olga, in cui la permanenza arriva a 20 mesi. Durante questo periodo ricevono supporto psicologico, legale e sociale, per prendere consapevolezza dei propri diritti e costruire una nuova vita. Tuttavia, questi servizi essenziali hanno costi che non tutte le strutture riescono a sostenere. “Addirittura qualche anno fa avevamo progetti che duravano 7 settimane”, racconta Tania Castellaccio, dirigente della cooperativa Dedalus che gestisce Casa Fiorinda. Ora, invece, la struttura può contare su fondi Pon (Programma Operativo Nazionale dei fondi strutturali o dell’Unione Europea per favorire la parità economica e sociale delle regioni) di 830mila euro che ne consentirà il funzionamento fino al 2027. Non è la sola struttura che in Campania resiste grazie a fondi europei. A Salerno un finanziamento Pon di 350mila euro nel 2022 ha permesso la nascita di Casa Antigone. Anche in questo caso un immobile confiscato alla criminalità organizzata, che ha ospitato in poco più di due anni 18 persone tra donne vittime di violenza e minori. Come spiega Valeria Fasano, la responsabile: “In diversi casi la permanenza è stata breve. Alcune donne si sono ritrovate qui in emergenza, senza sapere cosa fosse una casa rifugio e non ne hanno accettato le regole”. Infatti, per ragioni di sicurezza le donne accolte devono cambiare scheda del cellulare, nascondere il nuovo indirizzo e limitare temporaneamente la loro libertà. Ma la messa in protezione è solo l’inizio di un percorso di autonomia complesso, sottolinea Lella Palladino: “In un Paese dove solo una donna su due lavora, l’autodeterminazione economica è fondamentale per liberarsi dalla violenza sistemica”. Lo sa bene Giusy (nome di fantasia), altra ex ospite di Casa Fiorinda. “Quando sono arrivata mi ripetevo continuamente: “io non servo”, perché quella persona mi aveva impresso queste parole nel cervello. Ma qui con il tempo l’ho capito, io servo eccome”. In circa due anni Giusy ha preso la licenza media e svolto un tirocinio trovando lavoro in una casa di riposo. Casa Fiorinda ha collaborato con oltre 150 aziende e ha beneficiato del progetto Op.La Donne, avviato dal Comune di Napoli, che favorisce l’orientamento al lavoro e formazione per donne in percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Il 46 per cento dei tirocini avviati si è trasformato in contratti. “Ma non sempre le strutture hanno una voce di spesa nel budget legata ai tirocini” spiega Tiziana Fornito che per la cooperativa si occupa di orientamento al lavoro e formazione. Per esempio, a Casa Antigone a Salerno, grazie alla collaborazione con l’agenzia del lavoro Mestieri Campania, le ospiti sono aiutate a scrivere il curriculum, ma mancano percorsi di inserimento lavorativo strutturati. Un altro passo fondamentale è la ricerca dell’alloggio per le donne spesso impossibilitate a tornare nei quartieri d’origine per motivi di sicurezza. Olga è riuscita ad affittare un appartamento solo grazie al supporto economico della madre, mentre Giusy ha vissuto in una casa di semi-autonomia, alloggi temporanei in cui le ospiti possono autogestirsi senza costi per affitto e bollette e con operatrici a disposizione. Soluzioni intermedie il cui accesso è ancora molto limitato e su cui non esistono dati pubblici. A Napoli l’unica casa di semi-autonomia, quella che ha accolto Giusy, è stata chiusa per mancanza di fondi. “Nel dicembre 2023 l’Emilia-Romagna ha approvato una delibera per favorire l’assegnazione degli alloggi popolari, come già avviene a Bologna e Ravenna” spiega ancora Sudano. Un esperimento che potrebbe garantire una soluzione abitativa fuori dal mercato privato. Dall’ultimo report Istat emerge che più del 22 per cento delle donne termina il percorso senza autonomia economica e il 14 per cento senza una soluzione abitativa stabile. Ma in un terzo dei casi, non sappiamo dove queste donne finiscano o in quali condizioni affrontino il futuro. Migranti. Dal Cpr di Macomer al tentativo di suicidio sulla strada per l’aeroporto di Angela Gennaro Il Domani, 2 marzo 2025 La storia di Oumar. Dopo sei mesi nel Centro sardo, venerdì mattina lo hanno messo su un cellulare della Polizia penitenziaria per portarlo a Cagliari e rimpatriarlo. Ma ha ingoiato delle batterie e un anello, finendo al pronto soccorso. La battaglia della compagna per farlo uscire da quel luogo di degrado e violenza e l’assenza di dati sugli eventi critici durante le operazioni di rimpatrio forzato. “Piuttosto che tornare in Senegal mi ammazzo”. Oumar (nome di fantasia) ha 35 anni, da sei è in Italia. Per nulla al mondo, spiegava alla compagna Gabriella, sarebbe tornato da dove veniva. Gli ultimi sei mesi li ha trascorsi nel centro per i rimpatri di Macomer, in Sardegna. Un report di ottobre parla di botte, sedativi, degrado e violenza nell’unico Centro per i rimpatri dell’isola. La scorsa settimana in pochi giorni due persone avrebbero cercato di uccidersi, portando a sette il numero di tentativi per il 2025. Nel 2024 sono entrate nel Cpr di Macomer 251 persone, per una permanenza media di 55 giorni, racconta Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà personale: sono soprattutto uomini e ragazzi marocchini, tunisini e algerini. 81 venivano dal carcere, 25 - “un numero molto alto” - sono tossicodipendenti. I richiedenti asilo risultano 23. E 43 sono stati poi effettivamente rimpatriati nei paesi di origine. I casi di autolesionismo registrati nel corso dell’anno sono 30. “Non si registrano suicidi riusciti, per fortuna. Ma cinque tentativi sì: con questa brutta abitudine dell’amministrazione di chiamarli suicidi “simulati”“, dice la garante. Dentro i Cpr ci sono (o ci dovrebbero essere, per legge) i registri degli eventi critici, un quaderno che riporta tentati suicidi, atti di autolesionismo, accenni di rivolta. Fuori no. Non nel trasporto all’aeroporto, per esempio. Ecco perché nel 2022, per esempio, l’autorità nazionale garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà raccomandava un analogo strumento per “eventi critici verificatisi nel corso di un’operazione di rimpatrio forzato”: atti “di aggressione nei confronti del personale, casi di ricorso all’uso della forza e delle misure coercitive, interventi dei sanitari, verifiche di sicurezza compiute con modalità particolari, manifestazioni di protesta e tentativi di fuga, episodi di autolesionismo e istanze espresse dalle persone straniere”. Raccomandazione, ad oggi, disattesa. La storia di Oumar - “Lo sapevo”, dice disperata Gabriella al telefono mentre sfreccia da Sassari a Cagliari. Sono tre anni che stanno insieme. Convivono. “Ci vogliamo davvero bene. Volevamo sposarci”. Oumar si è visto rigettare più volte la richiesta di protezione internazionale: il Senegal è “paese sicuro”, fresco di piano Mattei e di un accordo di 5 milioni di euro per cooperazione agricola con l’Italia firmato a novembre. E la commissione non sembra neanche credere al racconto di quello che l’uomo avrebbe subito in patria. Racconta di essere arrivato in Europa via mare, con una di quelle piroghe che ci mettono una settimana nell’oceano per arrivare in Spagna, quando non naufragano lontano da occhi, soccorsi e testimonianze. Poi l’Italia, prima Torino e poi Sassari. Nel suo paese lo vogliono morto, dice, vogliono che paghi colpe non sue ma della sua famiglia di cui, nel frattempo, non resta più nessuno. E in Sardegna al mare non ci si avvicina. “È terrorizzato dall’acqua”, dice la sua compagna. È entrato nel Cpr di Macomer il 9 settembre 2024, dopo essere stato trovato per strada senza documenti. Gabriella, in quel momento, era al lavoro in albergo. “Sbarcava il lunario, riusciva a fare lavori ma solo in nero, faceva l’ambulante. Gli hanno sempre negato i documenti”. Da lì è partito l’incubo, ma anche la battaglia. “Nel Cpr di Macomer non c’è niente e i trattenuti non fanno nulla dalla mattina alla sera”, racconta la Garante. La struttura è quella di un ex carcere di massima sicurezza “e anche il paesaggio è angosciante”. “Non mangiavano nulla fino a poco tempo fa”, conferma Gabriella. “Razioni ridotte e non commestibili”. Per sei mesi fa su e giù da Sassari a Macomer una volta alla settimana: non può vedere il compagno ma può portare a lui e agli altri qualcosa da mangiare. All’inizio, Gabriella ha fatto fuoco e fiamme perché convinta che a Oumar vengano dati sedativi e psicofarmaci. “Ora non più”, assicura. “Non a lui, almeno”. Da un paio di mesi i trattenuti hanno anche un telefono (non smartphone, solo per chiamare o ricevere chiamate, come pure accade in altri Cpr) con cui comunicare all’esterno. Per mesi Gabriella prova a far riconoscere la loro unione, per farlo uscire. A dimostrare l’autosufficienza anche per due, con una casa, un lavoro, una stabilità. Negli ultimi giorni la notizia: dopo sei mesi, finalmente, la prefettura la ha autorizzata a visitare Oumar nel Cpr in qualità di convivente. Mettendo quindi su documento ufficiale, nero su bianco, l’unione di fatto. Si sono riabbracciati dopo mesi. Ma soprattutto è con quel documento che Gabriella ricomincia la battaglia. Oltre al destino incerto di Oumar, infatti, “c’è il diritto all’affettività di Gabriella, cittadina italiana ed europea, che fino a questo momento non è stato tutelato”, spiega il suo avvocato Stefano Mannironi. “Finora quel che è accaduto a questa coppia disattende quanto sancito dalle Corti europee”: il diritto a restare di Oumar “deriva” da quello della sua compagna a vivere qui la vita che ha scelto. “Ero così certa della sua liberazione che stavo preparando tutto per il suo ritorno a casa”, dice Gabriella. “Avevo anche comprato i fiori”. Stretti tra disagio e paura: il mondo è preoccupato dall’aumento della violenza di Enzo Risso* Il Domani, 2 marzo 2025 La preoccupazione per la criminalità e la violenza è salita al primo posto dell’agenda dell’opinione pubblica globale, affiancando l’inflazione. Per gli italiani è al secondo posto, subito dopo il tema del lavoro. A livello globale la preoccupazione per la criminalità e la violenza è salita al primo posto dell’agenda dell’opinione pubblica, affiancando l’inflazione. Per gli italiani è al secondo posto, subito dopo il tema del lavoro. I paesi in cui il problema è al calor bianco il Cile (67 per cento) e il Perù (66). Seguiti a ruota un paese nordico, come la Svezia, in cui l’apprensione per la violenza è manifestata dal 65 per cento dell’opinione pubblica. A livelli molto alti troviamo messicani (59), sudafricani (52), argentini (49) e colombiani (42). Oltre al caso eclatante della Svezia (che ha registrato una crescita dell’apprensione per la violenza dell’8 per cento nell’ultimo anno), troviamo la Francia (38 per cento), con una crescita del 12 per cento negli ultimi dodici mesi; la Germania (36 per cento), con una lievitazione del tema di ben 16 punti; l’Italia (31 per cento), con un incremento di 6 punti e la Gran Bretagna (29 per cento), con un balzo di 8 punti. In fondo alla classifica ci sono Singapore e l’Ungheria (7 per cento), la Polonia (10), la Corea del Sud (14), la Spagna (18) e il Canada (19). Sono i dati rilevati da Ipsos global advisor nella sua indagine mensile su 29 paesi (Ipsos what worries the world survey). L’agenda delle apprensioni - Negli Stati Uniti il livello di tensione è al 28 per cento con un aumento di 2 punti negli ultimi 12 mesi, mentre in Giappone si registra un incremento di ben 11 punti nell’ultimo anno, che porta il tema al 24 per cento. Focalizzando l’attenzione sull’Italia, possiamo osservare che l’agenda delle apprensioni colloca al primo posto, da anni ormai, il tema del lavoro (34 per cento), seguito dall’ansia indotta dalla violenza quotidiana nei quartieri (31), dalle tasse (27), dalle preoccupazioni generate da inflazione e crescita delle povertà (entrambe al 26 per cento). Seguono l’immigrazione (21), il tema dei cambiamenti climatici (18), la corruzione (12), le guerre e il declino morale del paese (entrambi al 10 per cento) e la scuola (9 per cento). Se osserviamo i dati relativi alla qualità della vita percepita nel proprio quartiere e i fattori che creano disagio e paura, troviamo al primo posto i furti in casa (50 per cento); la presenza di rifiuti e spazzatura per strada e il susseguirsi di scippi, furti d’auto e danneggiamenti vari (tutti al 41 per cento); lo spaccio di droga e stupefacenti (40); l’agire della criminalità (38); la presenza di immigrati (37) e l’azione delle bande giovanili (32). Trasformazioni sociali e culturali - Ad accrescere la sensazione di un aumento generalizzato della violenza nella nostra società (il 73 per cento degli italiani afferma che oggi viviamo in una realtà più violenta rispetto al passato) sono diversi fattori avvertiti in aumento: i femminicidi (in crescita per il 56 per cento dell’opinione pubblica); i fenomeni di violenza gratuita e per futili motivi tra le persone (in aumento per il 33 per cento); la violenza nelle scuole e il bullismo (in ampliamento per il 41 per cento); la violenza intergenerazionale, dei giovani verso gli anziani (in aumento per il 25 per cento); le forme di violenza psicologica, specie all’interno delle famiglie (in crescita per il 35 per cento) e infine, le aggressioni verso il personale sanitario e scolastico (in ampliamento per il 28 per cento degli italiani). L’aumento dell’apprensione per la violenza e la criminalità nei diversi paesi europei non è solo il risultato di dati oggettivi (in Svezia, ad esempio, il tasso di crimini con armi da fuoco è tra i più alti d’Europa, con una media di una sparatoria al giorno per ogni 10 milioni di abitanti), ma è anche il portato lungo di trasformazioni sociali e culturali più ampie. La globalizzazione e l’aumento dell’incertezza esistenziale; la mediatizzazione della paura; l’aumento della povertà e delle disuguaglianze sociali; la cultura narcisistica della ricchezza facile; la narrazione mediatica che amplifica determinati fatti generando un senso di accerchiamento delinquenziale quotidiano; la crisi delle istituzioni, delle forme di rappresentanza e partecipazione civica; le tensioni legate alle migrazioni e la loro securitizzazione; l’iper-individualismo e le forme di isolamento che alimentano la rottura dei legami sociali: sono tutti fattori che contribuiscono alla crescita della sensazione di incertezza e violenza. Elementi che spingono l’opinione pubblica pericolosamente verso una cultura del controllo (che enfatizza, come dice Garland, le sanzioni penali e il ruolo punitivo della giustizia); che alimentano una dimensione di insicurezza ontologica (per dirla con Giddens) e di distopia quotidiana, che non affrontano alla radice i problemi della sicurezza, ma alimentano la ricerca di soluzioni semplificatorie a un tema che ha profonde radici sociali, legate alla rapida evoluzione delle società contemporanee. *Analista delle dinamiche valoriali, politiche, sociali e comunicative Effetto-Trump: la caduta della DEI (diversità, equità, inclusione) di Rita Querzè Corriere della Sera, 2 marzo 2025 La policy aziendale sta sparendo nelle aziende Usa, da Ford a McDonald’s, fino a Amazon e Meta. Europa e Italia seguiranno? Non è detto, perché i conti giocano a favore: includere fa guadagnare. Negli Stati Uniti è partito il fuggi-fuggi delle aziende dalle politiche di diversità, equità e inclusione. In sintesi: dalla DEI. Contrordine compagni! Prima, tutti a sbandierare ai quattro venti le policy linguaggio inclusivo e equa presenza di donne, immigrati, disabili, comunità Lgbtq+. Ora basta: troppo faticoso, costoso, persino controproducente dopo la fatwa lanciata da Musk: “DEI must DIE”, la DEI deve morire diceva con un tweet del dicembre 2023 . La domanda sorge spontanea: che ne sarà della DEI a casa nostra? Su queste politiche gli Stati Uniti avevano fatto da apripista: saremo in grado di non accodarci all’inversione di rotta? Negli Usa le prime a rinunciare alla Dei sono state aziende dai marchi notissimi anche in Europa come Harley Davidson e Jack Daniel’s, insieme con altri meno familiari ma vere potenze Oltreoceano come Tractor Supply (catena di negozi per ranch e aziende agricole), Molson Coors (multinazionale delle bevande alcoliche), John Deere (macchinari agricoli). In questi casi dietro la marcia indietro ci sarebbero le pressioni della maschia clientela, costituita in larghissima parte da uomini bianchi dell’America profonda vicini alle idee della destra trumpiana. Ben presto la fuga dalla DEI si è - allargata dal settore delle aziende con consumatori conservatori per coinvolgere anche realtà più generaliste come Ford nell’automotive, Walmart nella grande distribuzione, i grandi magazzini Lowe’s, Starbucks, Jp Morgan Chase, McDonald’s. Fino a contagiare anche le aziende tecnologiche della Silicon Valley, che fino a ieri avevano fatto della tutela della diversità una bandiera. Tra le marce indietro più sorprendenti quelle di Amazon e Meta (Instagram, Facebook, WhatsApp). All’inizio di febbraio anche Google e Accenture hanno “ceduto” al diktat di Trump e Musk. Torniamo allora a bomba alla questione iniziale: che ne sarà adesso in Italia e in Europa delle politiche DEI? “Rompere, tramortire, sdoganare: questa è l’azione che mette in campo il presidente americano”, analizza il tema la pubblicitaria Annamaria Testa. “Rompere valori dati per acquisiti e considerati politicamente corretti, tramortire i cittadini con un effetto spiazzamento, sdoganare ciò che prima non si sarebbe potuto dire in pubblico, cambiando, con ciò, il paesaggio cognitivo delle persone. E il gioco sta riuscendo”. Detto questo, secondo Testa non ci saranno conseguenze immediate in Europa sul fronte della DEI: “Prima di tutto per un motivo: l’insediamento di Trump è arrivato a gennaio quando le aziende avevano già deciso i budget per il 2025. Nel medio termine è possibile che alcune cose cambino, ma è difficile dire adesso come andrà a finire. Siamo in una fase di passaggio turbolenta. Alcune aziende potrebbero decidere di distinguersi al contrario, rivendicando con orgoglio le proprie politiche DEI. E dire: continuiamo sulla nostra strada. Anche questo è un modo per diversificarsi e delineare la propria identità”. “Qualcosa del genere sta avvenendo in Germania dove Baiersdorf, storica multinazionale di prodotti per la cura della persona (suo tra gli altri il marchio Nivea; ndr) ha riaffermato con forza le politiche di diversità e inclusione, facendone un tratto distintivo”, si inserisce nel ragionamento Sonia Malaspina, direttrice relazioni istituzionali di Danone e presidente del comitato scientifico di Winning Women Institute. E in Italia? “Le aziende vanno avanti, basta vedere la velocità con cui stanno investendo sulla certificazione di genere”, risponde Malaspina. Il fattore base di cui tenere conto è che le politiche DEI attuate in Europa, in particolare in Italia, sono molto diverse da quelle Usa. Meno ideologiche, più basate sulla valorizzazione del merito. E poi il nostro Paese ha stabilmente da decenni il più basso tasso di occupazione femminile in Europa. Le donne hanno retribuzioni più basse e contratti più precari. La “DEI all’italiana” è stata finora per il 90% costituita da azioni per l’equità di genere e solo per il restante 10 da interventi a favore dell’inclusione di immigrati, disabili e comunità Lgbtq+. Il fatto che sia necessario un più equo coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro in Italia non è messo in discussione da nessuna parte politica, nemmeno a destra. “Aggiungerei un punto”, interviene Annamaria Testa. “Le donne sono le maggiori responsabili degli acquisti, dagli alimentari passando per la cura della persona e arrivando fino alle auto. Difficilmente un’azienda può permettersi di far proprie politiche che penalizzano le donne”. Se si vuole un termometro di quanto le imprese sono interessate a coinvolgere di più le donne, una cartina di tornasole la si trova parlando con Luca Semeraro, amministratore delegato LHH Italia. “L’esigenza di coinvolgere di più le donne è talmente sentita che le imprese sono disposte a pagare un extra prezzo quando siamo in grado di proporre loro, per una certa posizione, una candidata donna con le caratteristiche giuste”, racconta Semeraro. “Anche io sono convinto che sulla inclusione di genere non si faranno passi indietro. Questo non significa che vada tutto bene. Il punto è che oggi la DEI in Italia è molto meno diffusa di quanto non lo fosse negli Usa fino a ieri, oltre a essere sbilanciata sulla questione di genere. Secondo una nostra indagine, meno di una azienda su cinque dice di avere programmi specifici. Il tessuto imprenditoriale nel nostro Paese è fatto nella stragrande maggioranza di piccole o piccolissime imprese che semplicemente non hanno preso in considerazione queste azioni. E per l’integrazione lavorativa degli immigrati di seconda e terza generazione si fa ancora troppo poco”. Il principale motivo per andare avanti con la DEI dovrebbe essere il seguente: le aziende con maggiore diversità e inclusione hanno migliori risultati sul mercato. Questo evidenzia un’indagine di Credit Swiss Research, in cui si mostra come le aziende dove le donne sono meglio rappresentate nel management hanno anche performance migliori in Borsa. Un report McKinsey del 2023 dice che le società con i più alti livelli di equità di genere hanno il 39% di possibilità in più di avere performance finanziarie migliori della media. Questo il piatto della bilancia relativo ai vantaggi. Ma l’inversione di rotta culturale in atto negli Usa impone anche di guardare al piatto degli svantaggi: chi ha negli Stati Uniti un mercato di riferimento potrebbe avere qualche problema. Trump non va per il sottile. La sua amministrazione - per dare l’idea - ha dato due settimane di tempo a scuole e college americani per eliminare i programmi di inclusione verso afroamericani, latinos, disabili, gay e transgender: altrimenti perderanno i contributi federali. Interessante sarà osservare come si muoveranno le nostre realtà che hanno più interessi negli Usa, da Ferrero a Stellantis. “Alcune multinazionali saranno spinte a riconsiderare le proprie strategie DEI in linea con le richieste del governo Usa; altre, al contrario, rafforzeranno il loro impegno, consapevoli che la valorizzazione delle unicità non è solo una questione etica ma un valore strategico per la competitività e la crescita”, dice Barbara Falcomer, direttrice generale di ValoreD. “Come associazione ribadiamo la necessità di non arretrare su questi principi”. A conti fatti, la migliore deterrenza in Italia rispetto a passi indietro sulla DEI è legata al tema dell’attrattività. Detto in modo brutale: se hai bisogno di un ingegnere e non lo trovi maschio e bianco, possono andare benissimo una donna, uno straniero o un gay. Anche i clienti di marchi come Ferrari, Ducati, Lamborghini sono in gran parte maschi e bianchi come quelli di Harley, ma nessuno si è mai sognato finora nella Motor Valley emiliana di fare passi indietro sulla DEI. In Federmeccanica è stata addirittura istituita una vicepresidenza per la Cultura di genere per Claudia Persico: “Difficile per me comprendere come negli Usa le imprese cambino di colpo rotta su un input dell’amministrazione pubblica”, dice. “A casa nostra le aziende danno attenzione a questo tema perché lo ritengono importante per favorire la crescita. Prima di tutto per l’attrattività rispetto ai talenti. Non abbiamo cambiato idea”. Sulla stessa lunghezza d’onda Maria Anghileri, vicepresidente di Confindustria e rappresentante dei Giovani: “Creare un ambiente di lavoro in cui le persone sono valutate per il valore che creano e non per le caratteristiche che hanno è importantissimo. Nella mia squadra di presidenza ci sono tanti uomini quante donne. L’inclusività non è solo una questione culturale, ha anche un valore economico”. A questo punto cruciali nella partita potrebbero essere due attori fondamentali: consumatori e finanza. I primi quando fanno la spesa possono premiare le aziende anche in funzione dei valori sposati. La seconda deve decidere se investire sull’equità resta un valore. I prigionieri di guerra ucraini tornano dai Centri di detenzione russa e parlano di torture di Micol Flammini Il Foglio, 2 marzo 2025 Mosca ha 180 campi di detenzione in tutta la Federazione, nella Repubblica di Mordovia si trova uno dei più duri. “L’ordine di torturare viene dall’alto”. L’Ucraina lavora per il ritorno dei soldati catturati, ha la mappa dei campi di detenzione sul territorio della Russia che invece per riavere indietro i suoi fa poco. Racconto degli scambi di prigionieri dal centro di Kyiv che li negozia da tre anni. “È stato inghiottito, da quattro mesi non so nulla di lui”, Vika regge una bandiera con il numero della brigata in cui combatteva suo marito, la brigata di fanteria motorizzata di Mariupol numero 56. Sotto la bandiera, ha il telefono che sblocca in continuazione, serve a mostrare il volto di Ilja che sorride indicando un cuore con i colori dell’Ucraina appuntato sul giubbotto antiproiettile. Ilja è stato inghiottito nel Donetsk, l’ultima volta il suo cellulare è stato rilevato nell’oblast di Luhansk. Vika è arrivata a Kyiv da Zaporizhzhia e dopo nove ore di treno si è appostata davanti al Centro di coordinamento per i prigionieri di guerra con una sua amica, anche lei moglie di un soldato. Sono giovanissime, truccatissime, bellissime. Tra le bandiere e i volti con l’elmetto che spuntano dalle foto, sono due delle tante donne che fanno la fila per sapere cosa ne è stato dei loro mariti, figli, fratelli caduti nelle mani dell’esercito russo. Il tormento di Vika è iniziato da quattro mesi, quello di altre signore di ogni età va avanti anche da tre anni. E’ un tormento lungo quanto l’invasione. A. ha addirittura ricevuto una telefonata: “Mamma sto bene, ma sono gli ucraini che non mi vogliono, fa’ qualcosa. Ti richiamo presto”. La chiamata non è mai più arrivata. Anche il figlio di A. è stato inghiottito e mentre al telefono lei gli sentiva dire che i russi lo trattavano bene ed era soltanto colpa di Kyiv se non tornava a casa, “non gli ho creduto. Gli hanno permesso di chiamarmi solo per mentirmi. Anche la menzogna è una tortura”. La lunga fila delle donne in attesa conduce alla porta del Centro di coordinamento per i prigionieri di guerra, il quartier generale da cui vengono negoziati gli scambi di soldati con il nemico. Finora sono stati sessantuno, negoziati a ritmi diversi e ognuno con un numero di prigionieri liberati che variava a seconda del periodo. I primi scambi avvenivano lungo il confine orientale, con un cessate il fuoco, per due volte violato da Mosca, di un paio d’ore, quanto basta per procedere a far passare i prigionieri da una parte all’altra. Poi la procedura è stata spostata in Bielorussia, un confine più sicuro. Il Centro è stato aperto nel 2022, quando dall’inizio dell’invasione Kyiv si è resa conto che il fenomeno degli scambi sarebbe aumentato, quindi era necessario creare un unico organo di collegamento che unisse le forze della Guardia di frontiera, della Guardia nazionale e dei servizi di sicurezza interno e militare, l’Sbu e il Gur. “La data di nascita del Centro è l’11 marzo - dice al Foglio Petro Jatsenko, scrittore convertito alla vita militare con l’inizio dell’invasione - c’era un solo computer, un tavolo e fuori già una fila lunghissima di famiglie. Nell’estate del 2022 abbiamo creato lo stesso centro in altre regioni. Ci occupiamo di parlare con le famiglie e soprattutto di portare avanti i negoziati per gli scambi”. La regola è: più scambi possibili nel tempo più breve possibile. I negoziati però si fanno in due e dall’altra parte, in Russia, la voglia di trattare non è altrettanto forte. Se c’è un argomento che Kyiv e Mosca non hanno smesso di discutere è proprio quello dei prigionieri di guerra: gli scambi sono stati l’unico canale rimasto aperto, ma a singhiozzo. Kyiv ha creato una struttura apposita per la mediazione e i negoziati, mentre per Mosca i colloqui sono estemporanei: non c’è un centro di coordinamento e non c’è una squadra negoziale. La maggior parte dei colloqui si svolge tra russi e ucraini, occasionalmente aiutati da paesi terzi, in modo particolare dagli Emirati Arabi Uniti, “bravi facilitatori, con buone connessioni sia con noi sia con i russi”. Gli ucraini portati in salvo fuori dai campi di detenzione russi sono stati finora 4.131, di questi centosettanta sono civili, “le famiglie fanno pressione, la società fa pressione. Noi abbiamo creato una struttura che cerca di essere efficiente, ma il problema è che Mosca spesso non è interessata agli scambi”. Jatsenko non rivela quanti sono in tutto i soldati russi nelle mani dell’esercito ucraino, ma se all’inizio dell’invasione, Kyiv aveva un solo campo di detenzione per prigionieri di guerra nella regione di Leopoli, nel 2023, dopo che Mosca aveva bloccato gli scambi e l’Ucraina continuava a prendere prigionieri, “ne abbiamo aperti altri quattro: sono di nuovo pieni”. La trafila è sempre la stessa: i soldati russi vengono catturati al fronte, alcuni conoscono dei codici da usare con i droni: se mostrano un foglio o un pezzo di stoffa bianco, il drone gli indica la strada per mettersi in salvo. I soldati catturati vengono prima condotti nelle città più grandi dell’Ucraina dove vengono interrogati, poi trasferiti nei campi di detenzione per prigionieri di guerra. Dall’altra parte del confine, in Russia, i campi di detenzione sono oltre centottanta, dispersi per tutto il territorio della Federazione. Alcuni si trovano vicino all’Ucraina, nelle regioni di Rostov o di Voronezh, altri sono in Siberia, e questa dislocazione crea dei problemi nel momento degli scambi perché spostare i prigionieri attraverso un territorio tanto vasto complica e rallenta la procedura. Nessun campo di detenzione russo è stato creato appositamente per i prigionieri di guerra: sono posti per detenuti comuni in cui però, racconta Jatsenko, i soldati e i civili ucraini vengono sottoposti a un trattamento efferato “e l’ordine parte dalle autorità”. Chi è tornato dai campi di prigionia in Russia racconta poco, parla di torture, di posti peggiori di altri, ma c’è il non detto, il non ammesso che emergerà in futuro: le violenze sessuali, la castrazione, la privazione di tutto. “Civili e militari soffrono allo stesso modo, per i russi spesso anche i civili sono combattenti: basta un passato nella polizia per essere etichettato come soldato. Negli scambi quindi pretendono di trattarli come militari e anche durante la detenzione patiscono lo stesso trattamento, tornano denutriti, con i segni delle torture esattamente come i soldati. Un militare ci ha raccontato che i russi danno un tempo prestabilito per i pasti: due minuti per la colazione, tre per il pranzo, due per la cena. In questo lasso di tempo il detenuto deve prendere il rancio, mangiarlo e riportare il piatto. Spesso il cibo è bollente e la tortura sta nello scegliere tra l’ustione e la fame, tra mandare giù il cibo ancora caldo o non toccarlo. Anche la doccia spesso è associata alla tortura: i detenuti vengono mandati a lavarsi e poi sentono avvicinarsi i carcerieri con i taser per le scariche elettriche. Dopo un po’, il solo sentire il rumore, crea delle contrazioni muscolari che danneggiano per sempre la struttura fisica”. L’elenco delle torture è lungo, è soltanto l’inizio di una lista di racconti, tanti dei quali ancora sepolti, che inizieranno a emergere tra molto tempo, ma che già arrivano alle famiglie di chi aspetta un segnale di vita, di sopravvivenza da oltre il confine. “Io sono stata uccisa nel campo di detenzione in Russia”, ha detto una prigioniera liberata, era stata catturata assieme al reggimento Azov. Più iniziano a formarsi i racconti dalla detenzione, più Kyiv ha fretta, sa per certo che l’ordine di torturare gli ucraini viene dall’alto, ma non ha leve da sfruttare per evitare che queste torture avvengano: “Dovrebbe farlo la Croce Rossa che visita i prigionieri, ma spesso non riesce, teme di perdere l’accesso limitato che ha per visitare alcuni detenuti. Questo però non è un atteggiamento proattivo”. Kyiv si trova spesso sotto minaccia, anche il fatto che Mosca tratti militari e non allo stesso modo e pretenda, per liberare i civili, di riavere indietro i suoi soldati, è un atteggiamento negoziale difficile da governare: “Se iniziamo a scambiare i civili con i militari russi che abbiamo nei nostri campi di detenzione, allora metteremo in pericolo tutti gli ucraini che vivono nei territori occupati: per Mosca basterà arrestare chiunque per pretendere indietro i suoi soldati, lasciando i nostri in detenzione. Non è semplice trovare il modo di riavere i civili senza mettere in pericolo la vita di altri ucraini”. Oltre alle minacce, da governare nei negoziati con Mosca c’è anche il vuoto, il buco nero delle informazioni. Le donne fuori dal Centro vogliono sapere, vogliono una storia, una verità. Sanno la data della scomparsa, vorrebbero avere quella del rilascio o di morte: vogliono un dato, un numero, una collocazione geografica, invece a Kyiv non arrivano informazioni di alcun genere da parte di Mosca, e con le poche informazioni raccolte, il Centro ha creato un database in cui divide i prigionieri dai dispersi. I nomi dei prigionieri li ha ricevuti o da soldati liberati in scambi già avvenuti o dalla Croce Rossa. I dispersi vengono trattati come possibili prigionieri di guerra, fino a quando non c’è un dato, e si cerca di includerli nelle trattative. La storia degli scambi di prigionieri in tre anni è stata altalenante. Ogni scambio ha avuto i suoi tempi, le sue richieste, ogni volta Kyiv si è dovuta adattare o imporre a una nuova linea di Mosca: “Ogni scambio è unico, la negoziazione più breve è stata di due settimane ed è accaduta lo scorso anno, dopo l’inizio dell’operazione Kursk. A quel punto la Russia era disposta a negoziare più in fretta perché avevamo fatto prigionieri diversi coscritti, per i quali da parte della società russa c’è molta pressione. Quindi l’esercito deve dimostrare di essere in grado di liberarli”. Non si comporta allo stesso modo con altri soldati, per esempio con i detenuti mandati a combattere con la promessa di estinguere la pena: “Di loro Mosca non vuole sapere nulla, non è interessata e non li rivuole indietro”. Lo stesso principio vale per i mercenari: cubani, malesi e anche nordcoreani, che Mosca tratta come qualsiasi altra categoria di mercenari anche se la loro partecipazione alla guerra è inquadrata in un accordo con il dittatore Kim Yong Un. “Il problema è che non soltanto non li rivuole la Russia, ma neppure i paesi di origine li vogliono. Sono nei nostri campi, li nutriamo, li curiamo e non sappiamo come mandarli via. Un cubano ci ha detto di essere partito per soldi e le condizioni del campo di detenzione in Ucraina con tre pasti al giorno gli piacciono molto”. La negoziazione più lunga tra Mosca e Kyiv è stata nel 2023: è iniziata il 7 agosto e ha portato a uno scambio il 3 gennaio dell’anno seguente, cinque mesi per uno degli scambi più grandi, che tuttavia non ha battuto il più massiccio di tutti che ha avuto luogo nel 2024 e ha portato alla liberazione di oltre duecento prigionieri. “Noi siamo pronti a scambiare tutti per tutti, lo faremmo subito. Mosca non ne ha intenzione”. La Russia è più incline a negoziare quando si trova in difficoltà sul campo di battaglia, la pressione la fa smuovere. Nel 2022, dopo le grandi controffensive ucraine nelle regioni di Kharkiv e di Kherson, gli scambi erano più frequenti. Quando invece Mosca domina in battaglia, usa i prigionieri di guerra per creare tensione nella società ucraina. Le famiglie ricevono chiamate e video in cui i soldati accusano Kyiv di non voler portare avanti gli scambi e quindi chiedono di compiere atti di sabotaggio: protestare, bruciare mezzi militari. Altre volte le famiglie vengono contattate con l’offerta di ricevere chiamate o immagini dei prigionieri in cambio di informazioni sensibili sull’esercito. “La guerra psicologica è un elemento persistente che però in tre anni non è riuscito a creare rivolte dentro alla società ucraina. Se si confronta con il contesto in medio oriente, l’uso che Mosca fa dei prigionieri per creare tensioni tra ucraini e governo è molto simile al metodo di Hamas con gli ostaggi israeliani”. Sulle famiglie resta il peso della consapevolezza che chi entra in un campo di prigionia russo ne uscirà distrutto, devastato o senza vita. Nella mappa dei campi di detenzione in Russia, Kyiv è in grado di tracciare quelli in cui i soldati vengono sottoposti a trattamenti più efferati di altri: nella repubblica di Mordovia, nella parte occidentale della Russia, c’è un campo che è riconosciuto come uno dei più pericolosi, con torture quotidiane, prigionieri costretti a stare in piedi per diciotto ore e se cadono la punizione è collettiva - “per chi è stato sottoposto a questa tortura, a volte è necessaria l’amputazione” - violenze sessuali, elettroshock continui. Lo stesso avviene nel campo di Taganrog, nella regione di Rostov, dove si pensa siano passati almeno cinquecento ucraini. In alcune strutture vige la “procedura di invito”, un rito di ingresso da cui spesso non si esce vivi: “Appena gli ucraini arrivano, sono costretti a passare attraverso un corridoio ai cui lati sono disposti settanta soldati russi armati di mazze di ogni materiale. Gli ucraini passano e loro picchiano, accanendosi contro chi cade per terra”. Nei campi di detenzione si deve parlare russo anche tra prigionieri, a volte l’accento ucraino che esce mentre un soldato è costretto a cantare una canzone patriottica di Mosca o a recitare una poesia diventa motivo di ripercussioni per tutta la cella. Mosca rivuole indietro i coscritti, i piloti, è stata disposta a negoziare anche per il politico ucraino filorusso Viktor Medvedchuk, per il quale ha liberato centocinquanta soldati. Non si muove per gli ex detenuti e a volte neppure per i militari semplici: “Un russo è da noi dall’inizio dell’invasione, viene da Saratov e comandava una piccola unità di otto uomini. I suoi sottoposti sono stati liberati tutti, ma lui, Mosca non lo include negli scambi. Lui vuole tornare, ma non c’è nulla da fare. Gli abbiamo chiesto cosa sapeva dell’Ucraina prima della guerra e lui ha risposto che aveva dei vicini di casa ucraini e aveva sentito parlare dell’Ucraina in qualche film sovietico”, si è lanciato in una guerra contro una terra confinante e per lui sconosciuta e adesso non trova la via di casa. Kyiv, Zaporizhzhia, Odessa, Kharkiv, Leopoli, per tutta l’Ucraina le manifestazioni per chiedere la liberazione dei prigionieri di guerra sono quasi quotidiane. In ogni città c’è una scritta “Free Azovstal”, che si riferisce ai difensori di Mariupol, ma è ormai una sineddoche: si parla del reggimento Azov per riferirsi a ogni soldato ucraino in prigionia. Mosca non è riuscita a usare i militari catturati per istigare ribellioni contro il governo o l’esercito, ma la storia degli inghiottiti nella guerra, degli scomparsi nella mappa immensa dei centri di detenzione di Mosca, una costellazione della tortura fisica e mentale, è un chiodo fisso, un lamento che ammette poca speranza per le famiglie che aspettano. Molti si consolano guardando i soldati che tornano: i corpi smunti, gli sguardi che mostrano tutto il trauma, i visi scavanti. Senza capelli, senza speranze, solo ricordi violenti. Sono talmente irriconoscibili che potrebbero essere chiunque. Caso Trentini, cento giorni senza notizie. Digiuno a staffetta per la sua liberazione di Anna Maselli Corriere del Veneto, 2 marzo 2025 Cooperante veneziano arrestato in Venezuela: si parte mercoledì. Foto online e 77 mila firme. Un digiuno a staffetta per Alberto Trentini, il cooperante veneziano arrestato lo scorso 15 novembre in Venezuela con l’accusa di terrorismo e di cui non si hanno più notizie, se non che si troverebbe in carcere a Caracas in “buone condizioni di salute”. Più di cento giorni di logorante attesa per la famiglia, per mamma Armanda e papà Ezio, che dalla loro casa del Lido di Venezia attendono quanto meno una telefonata del loro unico figlio. E mentre prosegue a testa bassa la difficile trattativa con il Paese del presidente Nicolás Maduro, da mesi nel caos dopo le contestate elezioni del 28 luglio, gli amici di Trentini lanciano una nuova iniziativa: a partire da mercoledì, giorno delle Ceneri, e per tutto il mese di marzo sarà possibile digiunare a turno, per 24 ore. “Alberto è stato fermato in Venezuela mentre svolgeva una missione umanitaria in favore delle persone con disabilità - ricorda l’amico Luca Tiozzo -. Da allora non ha potuto ricevere nessuna visita, neppure consolare, né chiamare casa. Vi chiediamo di unirvi a noi per far sapere a tutti che Alberto non è solo”. Uno sciopero della fame lungo un giorno, una goccia nel mare del silenzio in cui è confinato il cooperante, ma tante gocce, dopotutto, possono formare un mare. “Alberto è una persona buona, onesta, un professionista serio e preparato con oltre vent’anni di esperienza nel campo della cooperazione internazionale”, ribadivano gli amici di una vita l’8 febbraio, durante la fiaccolata organizzata davanti la chiesa di Sant’Antonio, al Lido di Venezia, non distante dal condominio dove vivono i genitori. Un grido che ha raggiunto varie parti del mondo, lì dove Trentini ha lavorato, in oltre quindici anni di cooperazione da ultimo come responsabile di campo per Humanity & Inclusion. Sempre al fianco delle persone più fragili e emarginate, dall’Africa all’Asia all’America latina. La campagna per chiedere la sua liberazione prosegue anche con l’iniziativa “Alberto Wall of Hope”, letteralmente muro di speranza, lanciata sul sito “miro.com”: più di 300 persone di ogni età si sono scattate un selfie con in mano un foglio che raffigura l’immagine del cooperante e la scritta “Alberto Trentini libero”. Un muro virtuale in cui si riconoscono i volti di tanti lidensi come Piero, Nicola, Sebastiano e Barbara, ma l’appello è stato raccolto anche da chi vive a Bologna, come Bianca e Paolo, o a Trento, come Alessandra e Arianna. Un collage di storie che valica i confini nazionali e raggiunge il sud America: Nidua, Aisha e Yaretzi dall’Ecuador, presumibilmente mamma, figlia e nipotina, chiedono il ritorno di Trentini. Assieme a loro, ma dall’altra parte dell’Atlantico, sono Michele, Alborosie, Andrea e Rosalba dall’Etiopia a stringersi attorno al quarantacinquenne. Hanno aderito anche Paola Deffendi e Claudio Regeni, i genitori del ricercatore rapito e ucciso in Egitto nel 2016, con la loro avvocata Alessandra Ballerini che segue anche il caso di Trentini. L’invito è quello di condividere la foto sui propri canali social con l’hashtag “#albertowallofhope”. In parallelo, la petizione sul sito “Change.org” ha superato le 77 mila firme. L’affetto e la vicinanza nei confronti di Alberto si manifestano anche con gli striscioni affissi sui palazzi di alcuni municipi d’Italia: Bari e Bologna, ad esempio, e la sede della Municipalità del Lido. “Rispettiamo le indicazioni della famiglia e dell’avvocata di voler tenere un basso profilo per non ostacolare la trattativa - dice il presidente Emilio Guberti -. Siamo loro vicini e auspichiamo una risoluzione del caso e che Alberto possa presto riabbracciare la sua famiglia”. Per partecipare alla staffetta del digiuno è sufficiente compilare il modulo sul sito “bit.ly/digiuno-alberto-trentini” indicando i propri dati e il giorno in cui si desidera aderire. “In Cambogia chi si oppone va in carcere o muore. Ma in Occidente nessuno ci ascolta” di Lorenzo Lamperti La Stampa, 2 marzo 2025 “È giunto il momento di stabilire una legge che definisca qualsiasi persona o gruppo che pianifica o cospira per creare un movimento estremista, causare caos e insicurezza nella società, provocare conflitti con altri Stati e tentare di rovesciare il governo legittimo, come terroristi”. Così ha parlato Hun Sen, il “leader eterno” della Cambogia, lo scorso 7 gennaio durante le celebrazioni per l’anniversario della “vittoria sul genocidio”. Tradotto: la caduta del regime di Pol Pot. Quello stesso 7 gennaio, a Bangkok, Lim Kimya è stato ucciso a colpi di pistola da un sicario a bordo di una motocicletta. La vittima era uno dei leader dell’opposizione e Mu Sochua, presidente dello Khmer Movement for Democracy e candidata al Nobel per la pace nel 2005, lo conosceva bene. “Era un collega e un amico che ha sempre lottato per la giustizia. Nelle settimane precedenti al suo assassinio, ha continuato a spingere per il cambiamento, denunciando il governo sui social media per l’assalto all’opposizione. Il regime lo vedeva come una minaccia”, dice a Specchio Mu Sochua, una delle principali figure dell’opposizione cambogiana ed esiliata da anni all’estero. “Anche dove vivo, negli Stati Uniti, mi preoccupo della mia sicurezza. Gli sforzi del regime per mettere a tacere i critici non hanno limiti”. Lo spazio per il dissenso si è via via sgretolato negli ultimi anni. Al potere dal 1985, Hun Sen ha operato una stretta a partire dal grande spavento del 2013, quando alle elezioni fu quasi sconfitto da Sam Rainsy. Da allora decise che non poteva più mettere a rischio la sua posizione, soprattutto mentre iniziava a programmare la successione col figlio Hun Manet, poi avvenuta dopo le elezioni del 2023. Ma, nel frattempo, l’opposizione è stata di fatto sradicata. Il Candlelight Party è stato estromesso dal voto con la scusa di problemi burocratici. I due leader rivali erano già stati messi fuori gioco. Kem Sokha è stato condannato nel 2022 a 27 anni di carcere per tradimento: l’accusa è quella di aver organizzato un presunto complotto per rovesciare il governo. Rainsy si trova invece in autoesilio all’estero e non potrà candidarsi per altri due decenni. Il Partito popolare ha conquistato il 96% dei seggi dell’Assemblea nazionale, col restante 4% a una forza monarchica che non ha mai messo in discussione la leadership. “Questo esercizio elettorale testimonia l’incrollabile resistenza della democrazia cambogiana, dimostrando l’impegno del Paese a sostenere i principi democratici e a promuovere la partecipazione politica”, hanno commentato nei giorni successivi i media statali. E agli scettici di una successione dinastica quasi in stile nordcoreano, sono stati citati i precedenti dei Bush negli Stati Uniti o dei Lee a Singapore. Dopo il passaggio formale del potere al figlio, Hun Sen è comunque rimasto presidente del Senato, ruolo da cui pare deciso a eliminare ogni possibile rischio per l’erede, prima di ritirarsi. Negli ultimi mesi, la stretta sui diritti si è estesa al di là dello spettro politico. A luglio, 10 membri di un gruppo ambientalista cambogiano, Mother Nature Cambodia, che si battevano contro i progetti infrastrutturali distruttivi e la presunta corruzione, sono stati condannati a sei anni di carcere con l’accusa di cospirazione contro lo Stato. A novembre, è finito in manette anche Ouch Leng, il più celebre degli attivisti climatici del Paese. Nei mesi precedenti, lui e i suoi collaboratori avevano documentato più volte un aumento della deforestazione illegale all’interno del Parco nazionale Veun Sai-Siem Pang, situato vicino a una concessione economica di terreni. Arrestato e poi rilasciato su cauzione anche Mech Dara, giornalista di fama mondiale che ha documentato il business dei centri delle truffe online che si sono moltiplicati in Cambogia, spesso con la connivenza di politici locali e nazionali. Il governo nega il coinvolgimento nell’omicidio di Lim Kimya, dopo aver catturato il presunto colpevole, un ex ufficiale della marina thailandese. “Se fosse stato il governo a orchestrare l’assassinio, per quale ragione avremmo arrestato il killer e poi inviato in Thailandia?”, ha chiesto Hun Manet. Di certo, non mancano i casi di repressione transnazionale. Nei mesi scorsi, una donna cambogiana residente in Malaysia è stata estradata dopo aver pubblicato post sui social in cui definiva il premier un “essere spregevole”. Non si tratta del primo caso. “Ogni volta che una persona viene espulsa o arrestata per i suoi commenti sui social media, che un giornalista viene detenuto per i suoi servizi o che un membro dell’opposizione viene ucciso, noi ci rivolgiamo ai politici di tutto il mondo per ricordare loro perché la nostra è una lotta a cui devono partecipare”, dice Mu Sochua. Con il passaggio di poteri da Hun Sen al figlio, però, l’attenzione globale sui diritti dei cambogiani pare essersi ridotta. Dopo la nomina, Hun Manet è stato in visita in diversi Paesi occidentali, tra cui la Francia. “L’attuale risposta della comunità internazionale non è efficace. Se lo fosse, i cambogiani di tutto il mondo potrebbero tornare a casa. Continueremo a chiedere di rispettare gli impegni assunti in passato, come l’Accordo di pace di Parigi del 1991 o la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti umani”, dice Mu Sochua. Tra chi lavora per unire gli oppositori cambogiani all’estero, c’è anche Samady Ou, fellow della Human Rights Foundation Freedom. “La parte più difficile è sempre la prima volta che tu o la tua famiglia siete minacciati. Non si sa cosa fare o a chi rivolgersi. È la comunità che ci aiuta a resistere”, dice. “Sapere che altri hanno affrontato la stessa cosa e l’hanno superata, che la paura è solo una tecnica che funziona se le si lascia modo di farlo. I social sono importanti per diffondere il messaggio che questa comunità esiste, aiutano a unire i gruppi della diaspora in tutto il mondo”. D’altronde, spiega Mu Sochua, “la sfida principale è rimanere uniti anche di fronte a piccole differenze. Se ci si blocca sulle questioni più piccole, si dimentica il terreno comune ed è questo che vuole chi governa”. Nel frattempo, il governo di Hun Manet sta provando a darsi un volto business friendly, in modo da attrarre investitori internazionali, oltre ai turisti che giungono nel Paese per visitare luoghi celebri come il tempio di Angkor Wat. Il figlio del leader eterno ha studiato a New York e Bristol con un dottorato in economia, prima di tornare in madrepatria e fare carriera nelle forze armate. Il principale partner resta sempre la Cina, che tra le altre cose sta finanziando il nuovo canale Funan Techo, destinato a deviare il corso del Mekong per creare un nuovo sentiero commerciale. Phnom Penh spera che il canale riduca i costi di spedizione delle merci verso l’unico porto d’alto mare del Paese, Sihanoukville, e riduca la dipendenza dal Vietnam. Il canale dovrebbe entrare in funzione nel 2028 con due corsie e una larghezza di cento metri. E la sua destinazione finale sarebbe non lontana dalla controversa base navale della marina cambogiana di Ream, dove i lavori di ammodernamento finanziati dalla Cina stanno per essere completati. In alcune zone della Cambogia si teme invece per la sicurezza di bambini e agricoltori, dopo che la sospensione degli aiuti esteri decisa da Donald Trump ha bloccato le operazioni di sminamento degli ordigni inesplosi retaggio di una guerra le cui ferite non si sono ancora rimarginate. Ma questa è un’altra storia. O, forse, non del tutto.