Affettività in carcere, il Dap si oppone e perde di nuovo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2025 Dopo un anno di battaglia legale, il Tribunale di Bologna ha respinto il ricorso e conferma il diritto del detenuto in regime di alta sicurezza a colloqui intimi con la moglie. Una sentenza, la prima nel merito, ribadisce il primato dei diritti fondamentali sulla logica securitaria. Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha rigettato il reclamo presentato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), con l’ausilio della Procura di Reggio Emilia, contro l’ordinanza che consentiva a un detenuto in regime di alta sicurezza nel carcere di Parma di effettuare colloqui intimi con la moglie senza il controllo visivo della polizia penitenziaria. La decisione, da poco depositata, chiude una battaglia legale durata oltre un anno, condotta dall’avvocata Pina Di Credico, e segna un punto di svolta nell’applicazione della sentenza numero 10/2024 della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto il diritto all’affettività intramuraria come espressione della dignità umana. Una battaglia quasi infinita - Il detenuto, condannato per reati di associazione mafiosa con metodo camorristico e attualmente recluso nel carcere di Parma con fine pena previsto per il 23 novembre 2026, aveva presentato nel marzo 2024 una richiesta per colloqui intimi con la moglie. La direzione del carcere aveva opposto un diniego, motivandolo con l’assenza di linee guida operative da parte del DAP e con la presunta “pericolosità sociale” del detenuto, legata al suo passato criminale. Il 7 febbraio scorso, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, Elena Bianchi, aveva accolto il reclamo dell’avvocata Di Credico, ordinando alla direzione di consentire i colloqui entro 60 giorni. Una vittoria apparente, subito ostacolata dal DAP, che aveva presentato un’istanza di sospensiva (poi rigettata) e, infine, un reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, sostenendo che la decisione violasse i criteri di sicurezza e ignorasse la pericolosità del detenuto, corroborata da una nota della Direzione Distrettuale Antimafia (Dda di Napoli, nella quale, in realtà, non emergeva alcuna indagine attuale nei suoi confronti. Dunque, una “pericolosità” legata al reato che, tuttavia, sta finendo di scontare. Il Tribunale di Bologna, presieduto dalla dottoressa Maria Letizia Venturini, ha respinto tutte le argomentazioni del Dap e della Procura, confermando l’ordinanza del Magistrato di Reggio Emilia. Nel cuore della sentenza, estesa su dodici pagine di motivazioni, risuonano due principi cardine che ridisegnano i confini tra i diritti dei detenuti e le esigenze di sicurezza. Il primo atto della riflessione giudiziaria ha smontato la nebulosa nozione di “pericolosità” brandita dal Dap, operando un taglio netto tra due concetti spesso confusi: la pericolosità interna e quella esterna. La prima, ha spiegato il Tribunale, riguarda esclusivamente il rischio che un detenuto, durante i colloqui, possa minacciare l’ordine dentro le mura del carcere, ad esempio organizzando evasioni, passando oggetti illeciti non mantenendo la disciplina. La seconda, invece, si riferisce ai legami che il recluso mantiene con la criminalità organizzata al di fuori del penitenziario, elemento cruciale per valutare benefici come i permessi premio, ma irrilevante quando si discute di un diritto esercitato all’interno della struttura. Nel caso specifico, il Tribunale ha scandagliato ogni documento, trovando conferma in un dato incontrovertibile: in tredici anni di detenzione, l’uomo non ha mai macchiato la sua condotta. Partecipa a programmi di reinserimento, lavora regolarmente, versa contributi al fondo per le vittime di mafia e, attraverso un percorso spirituale con i Testimoni di Geova, ha manifestato un distacco tangibile dal suo passato camorrista. Le note della Dda di Napoli, citate dalla Procura di Reggio Emilia, pur dipingendo un ritratto cupo degli anni precedenti alla carcerazione, non hanno prodotto un solo indizio su presunti legami attivi con la camorra. Sostanzialmente, il carcere non è una condanna all’oblio, ma un luogo dove il cambiamento, se autentico, va riconosciuto. E questo vale anche per chi ha commesso delitti mafiosi. Il secondo pilastro della sentenza ha consacrato l’affettività come diritto costituzionale inalienabile, seppur modellato dalle esigenze detentive. Citando a più riprese la Corte Costituzionale - “Lo stato di detenzione non può annullare il diritto all’affettività” - e la Cassazione - “Coltivare relazioni familiari non è una mera aspettativa” -, i giudici hanno bollato il controllo a vista come “una compressione sproporzionata e un sacrificio irragionevole della dignità della persona”. Un’ingerenza ammissibile solo se sorretta da ragioni concrete di sicurezza, assenti in questo caso. Paradossi e contraddizioni - Il Tribunale ha smontato le tesi del Dap, evidenziando paradossi logici. Mentre il Dap definiva il detenuto “pericoloso” per i colloqui interni, aveva proposto di avviarlo a una sperimentazione esterna con permessi premio, un regime a maggior rischio. Il reclamo del DAP, accompagnato dalle osservazioni della Procura che citavano una nota della Dda, non riportava alcuna pericolosità attuale e ometteva la relazione del gennaio 2025 dell’équipe penitenziaria, che descriveva un detenuto che ha avuto una rivisitazione critica del suo passato, distaccatosi dal contesto criminale e impegnato in un percorso religioso con i Testimoni di Geova. Il Dap ha lamentato l’assenza di una “cornice normativa” per i colloqui, ma il Tribunale ha ribadito che, in attesa di leggi, spetta alle autorità garantire subito i diritti, adattando gli spazi esistenti. Raggiunta da Il Dubbio, l’avvocata Pina Di Credico ha commentato con rigore giuridico e passione civile la sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna: “Nelle mie valutazioni difensive ho chiesto esplicitamente al Tribunale di Sorveglianza di pronunciarsi sul concetto di pericolosità sociale ai fini della fruizione dei colloqui intimi, rimarcando come debba distinguersi la “pericolosità interna”, afferente al rischio che il detenuto possa pregiudicare l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto, dalla “pericolosità esterna”, desumibile dalle note della Dda, precisando che essa rappresenta un parametro di valutazione per la concessione dei permessi premio all’esterno. I colloqui intimi debbono avvenire all’interno del carcere, laddove occorre verificare solo che non vi siano ragioni per ritenere che le effusioni amorose tra il detenuto e la propria moglie o convivente possano costituire un pericolo per la sicurezza del penitenziario”. Prosegue la legale spiegando che il Tribunale di Sorveglianza ha recepito in toto le sue valutazioni, “chiarendo definitivamente il distinguo tra “pericolosità interna” e “pericolosità esterna” e ribadendo come, peraltro, nel caso di specie non vi sia neppure una pericolosità esterna, in quanto la pericolosità attuale di un detenuto non può desumersi dalla caratura criminale evincibile dalle sentenze di condanna intervenute prima dell’esecuzione della pena”. La sentenza ribadisce che la giustizia non può essere cieca di fronte al cambiamento. Se un uomo, pur segnato da un passato oscuro, dimostra di aver intrapreso un percorso autentico, lo Stato ha il dovere di riconoscerlo. Altrimenti, a cosa servirebbero i principi costituzionali? Al Dap non resta che il ricorso in Cassazione, ma forse bisogna arrendersi all’evidenza. L’affettività è un diritto che non può essere compresso basandosi su sentenze passate, motivo per il quale sta scontando la pena. Nel frattempo la Corte Europea ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla salute nel caso Niort c. Italia. Il detenuto, affetto da gravi disturbi psichiatrici aggravati in carcere, aveva tentato più volte il suicidio senza cure adeguate. Nel 2022, il Magistrato di Sorveglianza ne aveva disposto il trasferimento in una struttura idonea, ma la richiesta - erroneamente indirizzata al Dap anziché all’autorità sanitaria - rimase inevasa. La Cedu ha riconosciuto violazioni degli articoli 3 (trattamenti inumani) e 6 (accesso alla giustizia), su ricorso degli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e del docente Davide Galliani (Statale di Milano). Colloqui intimi in carcere: secondo ok dai giudici di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 29 marzo 2025 Reggio Emilia, tribunale di sorveglianza conferma: c’è il “diritto” del detenuto a vedersi con la moglie. La soddisfazione dell’avvocato Di Credico: “Recepite in toto le nostre valutazioni”. Un 44enne di origine campana, detenuto nel carcere di Parma in Alta sicurezza, vicino al clan dei Casalesi, in particolare al boss Francesco Schiavone detto ‘Sandokan’, ha fatto valere il proprio diritto, sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 26 gennaio 2024, di poter vivere con la moglie momenti di intimità, senza il controllo della polizia penitenziaria. Dapprima il magistrato di sorveglianza competente di Reggio, Elena Bianchi, aveva detto sì alla sua richiesta di avere un “colloquio intimo” con la donna, accogliendo il reclamo presentato dall’avvocato Pina Di Credico “contro la negazione del diritto all’affettività” che avrebbe esercitato il carcere di Parma. Il provvedimento, datato 7 febbraio, prescriveva che entro 60 giorni la struttura di via Burla dovesse allestire uno spazio adatto. Il detenuto aveva avanzato la domanda il 4 marzo 2024: il mese dopo la struttura penitenziaria rispose di no, dicendo di essere in attesa di determinazioni dagli uffici superiori, e poi, nel maggio 2024, di non avere gli spazi. L’uomo aveva però addotto un pregiudizio al diritto di non subire una pena contraria al senso di umanità e chiesto di poter mantenere un legame, “innanzitutto fisico”, con la moglie. La decisione è stata poi impugnata sia dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia dalla Procura reggiana, ma il tribunale della Sorveglianza ha confermato. In udienza il pubblico ministero aveva dato parere favorevole, ma poi, dopo aver acquisito ulteriori elementi, la Procura si è opposta. Ha sostenuto che la condotta carceraria regolare “è elemento neutro, in quanto connaturato all’atteggiamento dei mafiosi, specie di livello apicale”. E si è rifatta a una nota datata febbraio della Dda di Napoli, che parlava di “personalità obiettivamente pericolosa del detenuto, condannato due volte per associazione mafiosa anche con ruolo direttivo (....) forte del suo mai rescisso legame col vertice del clan Schiavone”, dove risulterebbe inserito anche il fratello della moglie, pluricondannato. Il tribunale della Sorveglianza ha “rovesciato” il ragionamento: “Sono proprio gli esiti dell’osservazione penitenziaria che consentono di confrontare il quadro ai tempi delle condanne con l’assetto attuale che ben può - e anzi dovrebbe, se la carcerazione ha un senso - restituire una persona che ha maturato un’evoluzione”. E ha specificato che non si tratta di ammetterlo a benefici esterni, ma di consentirgli l’esercizio di un diritto, “per giunta dentro il carcere, solo con modalità più umane”: “Impedire al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui familiari è disfunzionale rispetto alla finalità rieducativa della pena”. L’avvocato Di Credico esprime soddisfazione: “Il tribunale della Sorveglianza ha recepito in toto le mie valutazioni, chiarendo come la pericolosità attuale non possa desumersi dalla caratura criminale evincibile dalle condanne intervenute prima dell’esecuzione della pena e quindi prima che la detenzione fornisse gli adeguati strumenti per un’auspicata resipiscenza”. Nessun diritto alle cure tra le sbarre, la Cedu condanna ancora l’Italia di Domenico Cirillo Il Manifesto, 29 marzo 2025 Il caso di un detenuto malato psichiatrico. Una nuova sentenza. E ieri a Poggioreale il 23esimo suicidio dall’inizio dell’anno. Ancora una condanna per la condizione dei detenuti nelle carceri italiane. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto le responsabilità dello Stato italiano per la violazione del diritto alla salute e la negazione dell’accesso alle cure mediche di un giovane con problemi psichiatrici, Simone N., detenuto da quando aveva 19 anni e protagonista di innumerevoli tentativi di suicidio. Il caso era stato portato all’attenzione dei giudici europei da un pool di avvocati, tra i quali Antonella Calcaterra per la quale “la Corte ha ritenuto che le autorità italiane non abbiano dimostrato di aver valutato in modo sufficientemente rigoroso la compatibilità dello stato di salute di Simone con la detenzione, accertando la mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento del ricorrente in una struttura penitenziaria più adatta alle sue gravi condizioni”. Al detenuto non è stato consentito l’accesso a una struttura più adatta a una persona malata a causa di errori dell’amministrazione e per la carenza di strutture specifiche in Sardegna, dove era recluso, malgrado ripetuti atti di autolesionismo. Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “Sebbene non vi sia un obbligo generale di liberare una persona detenuta per motivi di salute, in certe situazioni il rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti, può imporne la liberazione o il trasferimento in una struttura di cura. Ciò si verifica - aggiunge Gonnella - in particolare quando lo stato di salute del detenuto è talmente grave da rendere necessarie misure di carattere umanitario, oppure quando la presa in carico non è possibile in un contesto penitenziario ordinario, rendendo necessario il trasferimento del detenuto in un servizio specializzato o in una struttura esterna”. E intanto ieri dal carcere di Poggioreale è arrivata la notizia del 23esimo suicidio di un detenuto in meno di tre mesi, dall’inizio del 2025. Un algerino di 32 anni, Harar H., si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo. Era da poco stato trasferito a Napoli da Benevento e aveva ricevuto la notifica di una nuova condanna. La notizia è stata data dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che ha riferito di aver parlato con i compagni del detenuto suicida, “che sono ben cinque in una cella piccola e con scarse condizioni igieniche e sanitarie”. Secondo Ciambriello nel carcere di Poggioreale “dalle sette di sera e fino alla mattina ci sono pochissimi agenti di polizia penitenziaria, a volte anche un solo agente per due piani. Va rafforzata anche nel pomeriggio e nella notte la presenza sanitaria per un pronto intervento, molte volte è questione di pochi minuti”. In tutta Italia sono ormai oltre 16mila i detenuti che eccedono il numero massimo di posti disponibili nelle carceri. Trattamenti “inumani e degradanti”: lo Stato italiano condannato per il calvario di Simone Niort di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 29 marzo 2025 Il detenuto sassarese in nove anni ha tentato di togliersi la vita più di venti volte e si è inferto almeno 300 lesioni: ora secondo la corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo dovrà essere risarcito. In nove anni di carcere ha tentato più di venti volte di togliersi la vita, si è inferto lesioni per almeno 300 volte e ha subito più di cento procedimenti disciplinari nei vari istituti penitenziari dell’isola e della penisola in cui è stato rinchiuso per scontare un cumulo di dieci anni di condanne. Quello di Simone Niort, detenuto sassarese di 28 anni, dietro le sbarre da quando ne aveva 19 e ritenuto - già dal 2019 - incompatibile con la condizione detentiva per via dei suoi problemi psichiatrici, è un calvario interminabile, ma dopo tanti anni di battaglie la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo gli ha dato ragione e ha condannato lo Stato italiano. I giudici di Strasburgo hanno accertato che il 28enne sassarese, detenuto dal 2017 in varie carceri italiane, ha subito trattamenti “inumani e degradanti”, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Nella sentenza in francese depositata ieri 27 marzo - in cui ha condannato lo Stato Italiano a risarcire Simone Niort - la Corte ha rilevato la mancanza di un adeguato trattamento medico e di una presa in carico da parte delle autorità competenti, nonostante la gravità accertata dei suoi disturbi psichiatrici. “In particolare, oltre a riconoscere la vulnerabilità di Simone Niort - spiegano i suoi difensori l’avvocato Marco Palmieri del foro di Sassari insieme agli avvocati Antonella Mascia e Antonella Calcaterra - la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non abbiano dimostrato di aver valutato in modo sufficientemente rigoroso la compatibilità del suo stato di salute con la detenzione”. La Corte ha inoltre accertato la violazione del diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, a causa della mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento di Niort in una struttura penitenziaria più adatta alle sue gravi condizioni. Infine, la Corte ha riscontrato la violazione dell’articolo 38 del regolamento della Corte per il mancato rispetto dell’obbligo, da parte dello Stato italiano, di fornire tutte le informazioni necessarie e richieste espressamente per accertare i fatti della causa. “Simone Niort dovrebbe uscire dal carcere nel 2026 - spiega i suoi difensori - ma già dal 2019, un consulente tecnico nominato d’ufficio, lo psichiatra Pasquale Tribisonna, aveva accertato - nell’istituto penitenziario di Nuoro - che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in cella, dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”. Dopo vari trasferimenti il suo difensore, insieme agli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e al docente di diritto pubblico dell’Università Statale di Milano Davide Galliani, si erano rivolti ai giudici di Strasburgo. Dopo innumerevoli tentativi di suicidio, automutilazioni e sanzioni disciplinari, nel 2020 l’Ufficio di Sorveglianza aveva ordinato un periodo di osservazione psichiatrica, come prevede l’ordinamento penitenziario per verificare se la condizione di Simone fosse compatibile con il carcere. I presupposti c’erano tutti, anche perché, nel 2019, in un procedimento penale, c’era già stata la consulenza fatta a Nuoro che sconsigliava la detenzione. “Simone dovrebbe essere curato - aggiunge l’avvocato Palmieri - e affidato a una struttura sanitaria”. Ma l’osservazione psichiatrica ultimata nel 2021 era rimasta riservata: né Simone né il suo difensore avevano avuto copia della documentazione. L’Ufficio di Sorveglianza dell’epoca invece era riuscita a leggerla e nel novembre 2022 aveva indicato che Simone Niort aveva un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo. Ciò nonostante, non solo non aveva deciso di trovare una sistemazione al di fuori del carcere, ma aveva ordinato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di individuare un istituto penitenziario idoneo a ospitare Simone e il suo bagaglio di sofferenza e disagio psichico. La richiesta era stata reiterata nel 2023, ma la risposta non era mai arrivata. Il motivo è semplice, la richiesta era stata rivolta all’amministrazione non competente. La Sorveglianza avrebbe dovuto chiedere non al Dap, ma all’autorità amministrativa sanitaria competente di identificare un percorso di cura alternativo al carcere. “Forse a causa della carenza strutturale di luoghi di cura in Sardegna per persone come Simone - spiega l’avvocata Antonella Mascia - forse per paura, la scelta è stata una non scelta o una scelta obbligata. Nel mentre il calvario era proseguito con tentativi di suicidio, ferite, i tagli, ingestioni di oggetti. Simone - prosegue l’avvocata Mascia - per anni è finito regolarmente in una cella “liscia” o di “transito” perché non fare del male a sé e agli altri. È rimasto isolato, non ha svolto attività educativa. Ma ai giudici di Strasburgo - si rammaricano i legali - il Governo non aveva trasmesso l’osservazione psichiatrica del 2021 da cui dovrebbe risultare che Simone è incompatibile con il carcere. E non era stata neppure presentata una relazione attestante la reale condizione di Simone, come avevano richiesto i giudici di Strasburgo”. Nonostante questo è arrivata la sentenza di condanna per lo Stato Italiano che ora oltre a dover risarcire il detenuto sassarese dovrà trovare per lui una sistemazione diversa dal carcere. “L’Italia condannata perché non ha curato mio figlio, se ora non lo scarcerano mi incateno” di Gianfranco Locci La Stampa, 29 marzo 2025 Per la Corte europea dei diritti dell’uomo Simone Niort (arrestato nel 2016 per aver picchiato la compagna) ha subito “trattamenti inumani e degradanti”. Il padre: “Non può stare ancora in cella, me lo stanno rovinando”. “Provo una gioia immensa, difficile da spiegare. Tuttavia, se entro 48 ore non mi restituiscono mio figlio riprendo a battagliare e mi incateno al ponte di Rosello, a Sassari”. Francesco Niort, operaio di 54 anni, è il padre di Simone, 28enne sardo che dal 2016 si trova in carcere, nonostante i suoi gravi problemi psichiatrici, con l’accusa di tentato omicidio per aver picchiato la compagna incinta. Ebbene, adesso una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo stravolge tutto. Per i giudici di Strasburgo il giovane ha subito “trattamenti inumani e degradanti”. Arriva così la condanna per lo Stato italiano per “la violazione del diritto alla salute e alle cure mediche di Simone Niort”. Francesco, dopo nove anni la sua famiglia ottiene giustizia? “La nostra gioia è indescrivibile. Mio figlio in tutti questi anni non è stato mai curato, sebbene sia stato dichiarato incapace di intendere e di volere. Oggi si trova nella casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”, da circa un anno. Prima, però, ha girato un po’ tutte le carceri sarde. Mi hanno rovinato il ragazzo, in tutto questo tempo. Ripeto, se entro 48 ore non riportano a casa mio figlio, sono pronto a denunciare nuovamente lo Stato italiano. La sentenza è stata emessa, ci dev’essere l’immediata scarcerazione: altrimenti sarebbe un sequestro di persona. Simone non può stare in carcere”. La detenzione di suo figlio è stata definita da più parti un “calvario”. Perché? “In tutti questi anni sono stati oltre trecento gli episodi bruttissimi di autolesionismo. Poi, ha tentato di togliersi la vita più di venti volte. Cagliari, Sassari, Nuoro, adesso Torino: nei confronti di Simone c’è stato un accanimento carcerario. Un aspetto era evidente a tutti, fin dal primo momento: mio figlio, con i suoi problemi di salute, non doveva stare in carcere. Era assolutamente incompatibile con la detenzione e doveva essere curato in centri specializzati per le sue patologie”. Per voi familiari da subito doveva essere individuato un percorso di cura alternativo al carcere? “La situazione di Simone era nota a tutti. Eppure nessuno interveniva. Hanno tergiversato, lo hanno rovinato. Sì, non lo hanno aiutato. Ecco perché ci siamo rivolti a Strasburgo, presi dalla disperazione. Sono state analizzate immediatamente le cartelle cliniche, dopo di che si è arrivati alla sentenza”. Lei parla di “accanimento” nei confronti di suo figlio Simone. Come spiega questa sua affermazione? “Da parte dello Stato c’è stata negligenza. Sono passati nove anni terribili, che nessuno restituirà più a mio figlio”. Oggi Simone ha 28 anni, quando è stato arrestato ne aveva appena 19. Oggi che ragazzo è? “Simone ha sofferto tantissimo ma ha ancora voglia di cambiare, di inserirsi nella società. La nostra famiglia è pronta ad aiutarlo. Noi lo amiamo, faremo di tutto per sostenerlo. Ora c’è una sentenza e devono riportare mio figlio a casa”. In che modo lo intendente curare? “Abbiamo dei centri di salute mentale, i Csm. Poi, una dottoressa del SerD di Sassari ci ha offerto da tre anni la sua disponibilità per seguire Simone. Voglio il ragazzo a casa”. Dunque, penserete voi alle sue cure? “Certo, non lo possono tenere in carcere. D’altronde, dove sono le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr)? Di queste strutture in Sardegna ne abbiamo solo una, nel Cagliaritano. Ora ci dobbiamo tutelare. Comunque, entro dopodomani voglio riabbracciare mio figlio. Non può continuare a stare in una cella. Almeno potrà essere curato, grazie alla sua famiglia”. Altrimenti? “Altrimenti la nostra battaglia continua. Sono pronto a incatenarmi”. Antigone: “Importante la sentenza che condanna l’Italia per la violazione del diritto di cura in carcere” Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2025 “Sebbene non vi sia un obbligo generale di liberare una persona detenuta per motivi di salute, in certe situazioni il rispetto dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. può imporne la liberazione o il trasferimento in una struttura di cura. Ciò si verifica, in particolare, quando lo stato di salute del detenuto è talmente grave da rendere necessarie misure di carattere umanitario, oppure quando la presa in carico non è possibile in un contesto penitenziario ordinario, rendendo necessario il trasferimento del detenuto in un servizio specializzato o in una struttura esterna”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a seguito della sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Niort c. Italia”. Una decisione con cui la Corte ha riconosciuto la responsabilità dello Stato italiano per la violazione del diritto alla salute e alle cure mediche di questa persona detenuta. In particolare il ricorrente era una persona affetta da importanti disturbi psichiatrici, appurati da una relazione compilata da un tecnico nominato d’ufficio che, dopo un periodo di osservazione psichiatrica aveva accertato che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in carcere dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”, come racconterà uno degli avvocati che ha curato il ricorso alla Cedu. Una relazione che rimane tuttavia riservata e che il ricorrente e il suo difensore non riusciranno a vedere. A leggerla fu invece l’ufficio di sorveglianza che nel novembre 2022 indica che Simone ha un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo, ordinando al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di di individuare un istituto penitenziario che potesse farsi carico e seguire il disagio psichico dell’uomo. Una richiesta che non riceve nessuna risposta, neanche nella sua reiterazione nel 2023, perché - spiegava ancora l’avvocato Antonella Mascia in un articolo su l’Unità del febbraio 2024 - era stata rivolta all’amministrazione non competente, cioè il Dap, mentre sarebbe dovuta essere inoltrata all’autorità amministrativa sanitaria competente. Nel frattempo il ricorrente aveva continuato a tentare il suicidio più volte e a commettere numerosi atti di autolesionismo. Una condizione che aveva portato il suo difensore, insieme agli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e al docente di diritto pubblico dell’Università Statale di Milano Davide Galliani, a rivolgersi ai giudici di Strasburgo che, ieri, hanno condannato l’Italia. “La Corte - dichiara l’avvocato Antonella Calcaterra - ha rilevato la mancanza di un adeguato trattamento medico e di una presa in carico da parte delle autorità competenti, nonostante la gravità accertata dei suoi disturbi psichiatrici. In particolare, oltre a riconoscere la vulnerabilità del ricorrente, ha ritenuto che le autorità nazionali non abbiano dimostrato di aver valutato in modo sufficientemente rigoroso la compatibilità del suo stato di salute con la detenzione. La Corte ha inoltre accertato la violazione del diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, a causa della mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento del ricorrente in una struttura penitenziaria più adatta alle sue gravi condizioni. Infine ha riscontrato la violazione dell’articolo 38 del regolamento della Corte per il mancato rispetto dell’obbligo, da parte dello Stato italiano, di fornire tutte le informazioni necessarie e richieste espressamente per accertare i fatti della causa”. I “blocchi di detenzione” per 384 persone costano 32 milioni, ma le celle resteranno affollate di Marta Rizzo La Repubblica, 29 marzo 2025 Il piano di ampliamento del Governo degli spazi nelle case di pena italiane. I 384 posti letto in più previsti con le nuove celle ricavate dentro container di cemento trasportabili - che costeranno al governo circa 33 milioni di euro - manterrebbero comunque al 123% il tasso di sovraffollamento nelle case di pena del nostro Paese. Sono attualmente circa 62.200 i detenuti, rispetto ai 51.707 che dovrebbero essere ospitati, con un deficit di oltre 10.400 posti in meno. Una sproporzione che è già valsa all’Italia una condanna della Corte Europea per i diritti dell’Uomo. Ma al di là dei numeri relativi a persone e spazi a disposizione, ci sono le parole di Gennarino De Fazio, segretario della UilPa Polizia penitenziaria: “Ma, al di là dei moduli prefabbricati, con quale personale?”. Le denunce e gli appelli, anche del presidente Mattarella. Non hanno dunque risposta le ripetute denunce della società civile, incarnate nei numerosi appelli da parte di di organizzazioni come Antigone e Nessuno Tocchi Caino, alle auqli s’è aggiunta quella del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Festa della festa della Polizia penitenziaria, quando ha palato di “Il sovraffollamento è grave e costringe gli agenti a fronteggiare quotidianamente situazioni di grande sofferenza”. Sedici “blocchi di detenzione” per 24 detenuti ciascuno. Il programma di ampliamento dei penitenziari si legge su un dossier di Invitalia, l’Agenzia nazionale nata per attrarre degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, costituita come società per azioni e partecipata interamente dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il documento contiene informazioni sui “Blocchi detenzione”, che saranno 16, ognuno destinato a 24 detenuti. Ne saranno realizzati 5 blocchi (120 posti letto) tra gli istituti di Alba, Milano e Biella; il Centro-Nord ospiterà 6 blocchi (144 posti) tra L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera; mentre il Centro-Sud vedrà l’aggiunta di 5 blocchi (120 posti) a Frosinone, Palmi e Agrigento. Tutto sarà finito nel gennaio 2026. I “Blocchi” comprendono oltre le celle, con relativi servizi igienici, anche spazi comuni, come biblioteche, spazi per fare ginnastica o per lavorare. L’installazione delle nuove strutture dovrebbe cominciare nel prossimo maggio e dovrebbe completarsi nel gennaio 2026, nonostante l’urgenza unanimemente riconosciuta. Mirabelli (Pd): “Nelle carceri situazione grave. Governo inerte, interessato solo all’aspetto securitario” agi.it, 29 marzo 2025 “Purtroppo, in questi anni, la situazione negli istituti di pena non è cambiata, se non in peggio. I dati sulla sovrappopolazione, quelli sui suicidi e sulla situazione degli istituti per i minori confermano che la situazione è grave, che spesso si registrano condizioni di detenzione non degne di un Paese civile e distanti dal dettato costituzionale. Tutto ciò avviene con l’indifferenza e l’inerzia del Governo. Nonostante le sollecitazioni, anche recenti, del Presidente della Repubblica e la convocazione straordinaria della Camera, voluta dalle opposizioni, sull’emergenza carcere, il Governo, come succede da anni, è rimasto sordo. Ma è ormai evidente che non si tratta di una sottovalutazione ma di scelte consapevoli figlie di una idea della funzione delle pene molto distante da quella riabilitativa prevista dalla Costituzione. Durante la recente discussione in Parlamento, di fronte ai dati che mostrano le condizioni di disagio all’interno degli istituti, con carceri che, come San Vittore, hanno il doppio dei detenuti rispetto alla capienza e il numero dei suicidi continua a aumentare, l’unico Ordine del Giorno presentato dalla maggioranza parlava di droni e interventi contro le rivolte. Insomma, conta solo l’aspetto securitario e scompare la funzione riabilitativa e il tema della sofferenza nelle carceri. Carceri che vorrebbero separate e impermeabili dalla società, lontane da ogni tipo di controllo e di supporto per i percorsi di lavoro e formazione”. Lo ha detto il senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato, all’incontro “Carceri in Italia. Non c’è più tempo. Suicidi, minori, sovraffollamento”, in corso a Milano, organizzato dal Dipartimento Giustizia e Carcere del PD Milano Metropolitano, a cui sono intervenuti anche il senatore Alfredo Bazoli, Valentina Alberta, Francesco Maisto, Don Gino Rigoldi e i rappresentanti delle associazioni Amici della Nave ODV e Le Crisalidi. “L’idea, sbagliata, è quella di illudere che i cittadini siano più sicuri riempiendo e chiudendo le carceri. Non è così e a dimostrarlo ci sono i dati sulle recidive, che indicano come siano molte meno quante più sono le opportunità di incontro e formazione, più il carcere funziona come dovrebbe funzionare secondo la Costituzione. - ha spiegato Mirabelli - L’idea della pena come punizione e sofferenza ispira anche altri provvedimenti del Governo. Il Decreto Caivano ha aumentato il numero dei minori reclusi, portando al collasso gli IPM e ora a Bologna trasferiscono i minori nel carcere della città allestendo un reparto dedicato. È evidente che così viene meno quell’attenzione al recupero dei minori che delinquono, che ha sempre qualificato il nostro sistema penale. Anche in questo caso si sacrifica il ruolo rieducativo della pena a favore della mera dimensione securitaria. Tutto ciò si aggiunge alla vacanza, che dura ormai da mesi, del capo del Dap, e alla mancanza di molti direttori, solo a Milano sono senza testa San Vittore, Opera e il Beccaria. Sembra quasi, anche qui, che non interessi dare stabilità a chi deve, prima di tutto, garantire salute, lavoro e formazione nelle carceri. Questi fatti fanno pensare che l’inerzia di fronte ai gravi problemi degli istituti di reclusione sia voluta, conseguenza di una scelta politica. Dice uno dei protagonisti del film ‘Le ali della libertà’: “Quando pensano a noi, pensano solo a muri, celle e sbarre”. E pare proprio questa la strada scelta dal Governo, non certo quella indicata dalla nostra Costituzione”. “Violati i diritti di migranti e detenuti. Nordio la smetta di fare la vittima” di Angela Stella L’Unità, 29 marzo 2025 “Le prigioni versano in condizioni drammatiche, finora il ministro ha solo nominato un commissario. Alla seduta straordinaria della Camera i banchi del governo erano vuoti”. Cpr in Albania? “Un fallimento”. Le carceri? “incostituzionali”. Nordio? “Tenta di passare per vittima senza prendersi le sue responsabilità”: questo e molto altro in questa lunga intervista a Michela Di Biase, deputata del Partito democratico e membro della Commissione Giustizia. In occasione nel 208° anniversario di fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria il presidente Mattarella ha parlato di “grave fenomeno di sovraffollamento in atto” e “assai critiche condizioni del sistema carcerario”. Mentre Nordio nello stesso giorno ha rivendicato la politica penitenziaria messa in atto fino ad ora. Che lettura dà Lei? Il Presidente Mattarella, nel ringraziare il corpo della polizia penitenziaria per il prezioso lavoro che svolge all’interno degli Istituti, ha saggiamente sottolineato la grave condizione del sovraffollamento all’interno delle carceri italiane. Ricordo che in alcuni istituti si supera il 200%, una situazione che determina condizioni di vita inumane e serie difficoltà per gli agenti nell’espletamento della loro funzione. Dal Ministro Nordio abbiamo ascoltato la solita propaganda tesa a nascondere il problema e il continuo rimando al fantomatico piano carceri di cui ad ora abbiamo visto la sola nomina del commissario straordinario. Non so di quali soluzioni parli il Ministro, io verifico che le nostre carceri versano in condizioni drammatiche: spesso mancano i riscaldamenti, le condizioni igieniche sono precarie, i detenuti vivono ammassati in celle di pochi metri quadri, manca il personale tanto della polizia penitenziaria quanto quello degli altri operatori, gli spazi per le attività sono stati ridotti per far spazio a nuovi posti letto. Queste condizioni determinano la mancata attuazione dell’articolo 27 della Costituzione che ci dice come le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Sempre il 25 marzo il Guardasigilli ha detto: “‘Poco meno di una settimana fa il parlamento si è espresso chiaramente, in una seduta straordinaria della Camera dei deputati dedicata alla situazione delle carceri italiane, per chiedere al governo di proseguire in modo duraturo con le iniziative già intraprese”. Lei è intervenuta duramente proprio per denunciare l’assenza del Governo... Avevamo chiesto una seduta straordinaria per parlare della condizione delle carceri e ci siamo trovati davanti i banchi vuoti del Governo. La scelta operata di mandare una sottosegretaria che non si è mai occupata della materia è stato davvero un brutto segnale: ciò ha reso impossibile un confronto reale sulle politiche penitenziarie da attuare e sulle possibili soluzioni da mettere in campo, per non parlare del ruolo del Parlamento oramai completamente esautorato. La maggioranza ha fatto valere i numeri approvando una mozione in cui dice al Governo di andare avanti con le iniziative già intraprese, che dal nostro punto di vista sono del tutto insufficienti. Non una parola su misure alternative alla detenzione e sul fatto che questo Governo in poco più di due anni ha creato cinquanta tra nuovi reati e aumenti di pena. Nella sua autodifesa in occasione della mozione di sfiducia sul caso Almasri sempre il responsabile di Via Arenula ha detto: “il Ministro è stato accusato di essere responsabile del numero dei suicidi in carcere, delle nomine del Garante e del Capo del DAP, del sovraffollamento carcerario, dei magistrati fuori ruolo, dell’obbligatorietà dell’azione penale, di un panpenalismo, del problema delle madri detenute, della salute nelle carceri, della crociata contro le intercettazioni, del dossieraggio dei parlamentari e via dicendo”…. “la sensazione - ha proseguito Nordio - è che si tratti di un attacco programmato e duraturo per evitare quella che, secondo noi, è la madre di tutte le riforme, quella sulla separazione delle carriere”. Come commenta? Mi chiedo, chi altro dovrebbe rispondere delle scelte operate nel campo della giustizia se non il Ministro Nordio? Le nostre osservazioni sono sempre state nel merito dei singoli provvedimenti e reputiamo grave che il ministro anziché rispondere punto per punto decida ogni volta di sfuggire al dibattito. Non una parola sullo stato di attuazione del piano carceri, non una sull’interesse supremo del minore, che viene violato, perché il carcere non è un luogo in cui un minore dovrebbe vivere. Una ossessione comprovata dai numeri rispetto agli aumenti di pena e nuovi reati, il sistema giustizia nel suo complesso versa in una profonda crisi che viene alimentata in un continuo scontro con la magistratura. La separazione delle carriere è ideologica e rappresenta l’ennesima riforma sbagliata della giustizia. Un quadro preoccupante davanti al quale ho trovato assurdo il tentativo del Ministro Nordio di provare a passare come vittima dopo che tutte queste scelte sono state compiute proprio da lui. Secondo lei a Via Arenula chi comanda: Nordio o il sottosegretario Delmastro? Una domanda che mi sentirei di girare al Ministro perché vede, dal Nordio giurista al Nordio ministro abbiamo assistito ad un cambio di rotta incredibile. Le motivazioni mi paiono abbastanza chiare. Sembra esserci all’interno della maggioranza una spaccatura sul ddl sicurezza: da un lato Forza Italia e Fratelli d’Italia disponibili ad accogliere la moral suasion del Capo delle Stato su alcuni punti (detenuti madri, sim per i migranti, resistenza passiva in carcere) dall’altro lato la Lega contraria a qualsiasi modifica. Chi la spunterà? Il ddl sicurezza è un provvedimento sbagliato, dall’inizio alla fine. Ci auguriamo che venga fermato l’iter e ritirata la proposta. È del tutto evidente però che le norme in discussione, a cui aggiungerei anche la limitazione delle libertà di manifestazione in strada, non sono solo sbagliate ma rappresentano una grave violazione di diritti e principi costituzionali. Attendiamo per conoscere gli esiti, ma è certo che il ddl sicurezza sia impostato su principi repressivi che sono contrari allo stato di diritto. Ieri in Cdm è approdato il decreto per riconvertire in centri per il rimpatrio di migranti irregolari le strutture realizzate dal governo in Albania. Che ne pensa? Siamo davanti ad una spesa folle del Governo decisa per inseguire i propri slogan. Mai visto nella storia d’Italia centri per il rimpatrio costati quasi un miliardo di euro. Non riusciranno a nascondere il fallimento di questa scelta, la toppa mi pare peggiore del buco. Che bilancio fa di questo Governo dal punto di vista dei diritti dei migranti, dei detenuti, degli oppositori? Un bilancio fallimentare. Le misure del governo hanno reso più difficoltoso il salvataggio di vite umane in mare e hanno smantellato il sistema di accoglienza diffusa, compromettendo diritti e dignità dei migranti. Notiamo una tendenza a delegittimare le opinioni e le critiche, in alcuni casi arrivando a tensioni tali da minare il necessario equilibrio tra i poteri dello Stato, penso in particolare alle tensioni con la magistratura rispetto alle decisioni sui migranti detenuti in Albania. Il mio viaggio su un furgone che toglie il respiro di Gioacchino Calabrò* L’Unità, 29 marzo 2025 Un paio di mesi addietro avevo visto e ascoltato in TV l’esternazione di un politico il quale parlava dei nuovi mezzi di trasporto per i detenuti al 41 bis, i quali non dovevano neanche respirare con facilità nella traduzione da un carcere all’altro. Lui provava “una immensa gioia” di questa sofferenza inflitta, cioè per questa nuova forma di tortura applicata a dispetto della nostra Costituzione. L’Articolo 2 dice: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. L’Articolo 3 aggiunge: “Tutti i cittadini hanno pari dignità”. L’Articolo 27 conclude: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. In tutta sincerità, il sottoscritto, detenuto da quarant’anni, pensava, a torto, che il suddetto politico avesse esternato in forma esagerata la sua opinione. Qualche giorno dopo avevo visto e ascoltato, sempre alla TV, un magistrato che, intervistato da un giornalista proprio su questo argomento, rispondeva: “Beh, tale politico ha esagerato dato che non è possibile non far respirare i detenuti poiché è la stessa aria che respirano gli agenti di custodia sul mezzo che trasportano e scortano i vari detenuti”. Poi, nel discorso di fine anno, il nostro amato Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pur non facendo il nome di nessun politico, ha usato le sue stesse parole, pari pari ma all’incontrario, specificando che i detenuti devono poter respirare una nuova aria, fresca, pulita e anche diversa da quella malsana che era quando avevano sbagliato, proprio perché l’aria era torbida e inquinata. Un discorso esemplare, eccezionale e ammirevole. Detto ciò, adesso mi piacerebbe far sapere alle persone perbene, e a chi di dovere, che le cose stanno diversamente. Erano anni che non prendevo un furgoncino per le traduzioni e il giorno 24 gennaio 2025 mi chiamano per una visita ospedaliera. Non era proprio uno di quelli moderni destinati ai detenuti speciali al 41 bis, ma un furgoncino composto da due cellette per i detenuti “normali”, separate l’una dall’altra, di circa 60 centimetri per 60. La salita avviene tramite una porta scorrevole laterale, poiché le cellette sono ubicate dove di solito c’è il bagagliaio e vi si entra tramite una piccola porticina di circa 40 centimetri per 100, anche questa scorrevole, munita originariamente di 10 barrette di ferro alla distanza di circa 2,5 centimetri una dall’altra. Anche se striminzita e scomoda, il progettista l’aveva concepita tutto sommato in modo passabile, poiché l’aria, pur se poca, era la stessa di quella che respiravano gli agenti. Ma, udite, udite, adesso quella piccola apertura striminzita è stata lastricata da uno spesso plexiglass, dove vi hanno fatto, li ho contati, 50 buchini di appena 4 millimetri. Non si respira più. Ecco, quel politico può gioire del fatto che anche nei furgoni con due cellette come quello che ho preso io i detenuti non respirano. Inoltre, proprio perché non si respira, il plexiglass si appanna per la condensa e perciò gli agenti non vedono bene il detenuto, quindi vi hanno installato una telecamera per vedere meglio le sofferenze delle persone che si disperano in quella piccola, asfissiante celletta. Tant’è che appena ho avuto la possibilità di rimanere da solo con uno degli agenti di custodia, ho intavolato un discorso sul perché di quel plexiglass installato, credo abusivamente o meglio fuori norma. L’agente era mortificato e amareggiato. Insomma, era cosciente che quella era un’aberrante indecenza, tanto che lui “non ci avrebbe trasportato neanche i suoi cani in quel modo”, anche perché col disegno di legge del 2022 è stato introdotto nell’articolo 9 la protezione degli animali. E poi mi raccontava che non era il solo agente a pensarla così, ma purtroppo nessuno di loro esprimeva lamentele poiché altri agenti la ritenevano appropriata. E, poi, l’ordine di installare il plexiglass era stato imposto dall’altro. Perciò, ai parlamentari che visitano gli istituti penitenziari dico: appena vi sarà possibile, visitate anche e provate a sedervi su un furgone come quello che ho appena descritto e immaginate una traduzione con un mezzo simile e immaginate poi quella sui furgoni che tolgono il respiro ai detenuti al 41 bis. Ditelo al garante, ditelo a chi può evitare questa istigazione a fare del male e a farsi del male. Ditelo a chi crede ancora nella Costituzione italiana. *Ergastolano detenuto nel Carcere di Opera L’Anm scrive ai Gruppi parlamentari: “Vediamoci” di Mario Di Vito Il Manifesto, 29 marzo 2025 La lettera delle toghe sulla riforma, che continua a correre tra Camera e Senato. Aspettando il referendum. La richiesta è inconsueta, quasi irrituale. La giunta dell’Anm ha scritto a tutti i presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato per programmare al più presto un incontro, con tanto di invito a “esprimere la propria preoccupazione riguardo alle recenti proposte di riforma costituzionale”. Il tema è la separazione delle carriere (e lo sdoppiamento del Csm e il sorteggio dei suoi membri e l’istituzione di un’alta corte disciplinare), con le toghe che avevano già lasciato intendere che le avrebbero provate tutte per fermare i piani del governo. Dopo l’infruttuoso incontro con la premier dell’inizio del mese e dopo quello molto più cordiale al Quirinale con Mattarella di tre giorni fa, l’associazione dei magistrati bussa alle porte delle forze politiche. Un po’ per aprire un dialogo e un po’ con la speranza che ai prossimi passaggi parlamentari della riforma (il palleggio tra Camera e Senato necessario per ogni cambiamento di natura costituzionale finirà non prima del prossimo autunno o forse ancora più in là) ci sia un dibattito più corposo rispetto a quanto avvenuto sin qui. Cioè il nulla: quando a gennaio la Camera ha dato il suo primo ok, infatti, la discussione è stata una pura formalità. Il testo era blindato, le opposizioni si sono limitate a qualche intervento di prammatica e la maggioranza ha portato a casa il risultato senza particolari patemi d’animo. I rapporti di forza, del resto, sono quelli che sono e la strada resta strettissima. Anche mercoledì scorso, quando è stato a Montecitorio per fronteggiare la mozione di sfiducia contro di lui, Nordio ha ribadito che sulla riforma il governo andrà avanti come un treno, “e più saranno duri gli attacchi, più noi saremo determinati”. Enfasi a parte, non c’è motivo di dubitare che le cose andranno esattamente così come annunciato dal ministro. E però qualche crepa, a destra, c’è e si vede. La confessione fatta dal sottosegretario Andrea Delmastro al Foglio (Testuale: “L’unica cosa figa della riforma è il sorteggio del Csm”) segnala che non tutto è calmo e tranquillo come si vuole far credere. Provare a ri-parlamentarizzare il dibattito è un modo per battere su queste crepe e vedere se c’è la possibilità che si allarghino. O comunque sarà una possibilità per l’Anm di proseguire sulla sua strada di opposizione ai piani del governo in vista del referendum (che verosimilmente arriverà la prossima primavera). Cioè: parlare, parlare, parlare. Il più possibile. Ovunque. Comunque. È convinzione diffusa, tra i magistrati, che la propaganda del governo abbia una certa efficacia in termini di comunicazione e l’obiettivo è provare a pareggiarla, o quantomeno a restringere il gap. “Riteniamo - si legge nella lettera inviata dalle toghe ai gruppi parlamentari - che sia di fondamentale importanza instaurare un dialogo costruttivo tra le istituzioni e la magistratura per garantire che il dibattito nel paese sulla riforma della giustizia avvenga in modo pacato, equilibrato e argomentato, così come riteniamo importante contribuire con le conoscenze proprie degli operatori del diritto a migliorare effettivamente il servizio reso ai cittadini”. La mossa, insomma, è parte di un percorso: quando l’iter parlamentare sarà concluso, prenderà il volo il già annunciato “comitato per il no” e lì la partita diventerà seria. Per le toghe, certo, ma anche per il governo: un referendum costituzionale può facilmente diventare un quesito di gradimento sull’esecutivo. E a quel punto il tema non conta più di tanto perché l’unica cosa importante è avere il cinquanta percento più uno dei voti. E sono tanti. Tutte le bufale di Gratteri & Co. sulle intercettazioni. Parla il procuratore di Parma di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 marzo 2025 “Sulla riforma che introduce un tetto di 45 giorni alle intercettazioni si è sviluppato un allarmismo ingiustificato, con messaggi sbagliati al pubblico”, dice Alfonso D’Avino. “Falso che non si potrà più intercettare sui sequestri di persona”. “Attorno alla riforma delle intercettazioni si è sviluppato un allarmismo ingiustificato, che rischia di far arrivare all’opinione pubblica messaggi sbagliati”. Lo dice al Foglio il procuratore di Parma, Alfonso D’Avino, riferendosi alla riforma delle intercettazioni approvata nei giorni scorsi dal Parlamento, a prima firma Pierantonio Zanettin (Forza Italia), che fissa a 45 giorni il limite per poter intercettare. L’approvazione della riforma è stata duramente criticata da diversi magistrati, come il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, quello di Prato Luca Tescaroli e il pm Nino Di Matteo. Eppure, sottolinea D’Avino, “sono almeno tre i messaggi sbagliati” che sono stati veicolati in questi giorni. “Primo, che non si potranno svolgere intercettazioni per più di 45 giorni. Non è vero”, afferma il procuratore di Parma. “Oggi, con la legge attuale, l’intercettazione può essere richiesta quando esistono gravi indizi di reato e quando sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. Dopo i primi 15 giorni può essere richiesta la proroga delle intercettazioni per un numero indefinito di volte, ovviamente entro i termini delle indagini preliminari, qualora permangano i presupposti iniziali dei gravi indizi di reato e dell’assoluta indispensabilità. E’ una formula vaga. Tant’è che l’accoglimento da parte del gip della richiesta di proroga del pm è diventato quasi un automatismo. Così oggi spesso si va avanti con le intercettazioni per mesi e mesi”. “La riforma approvata dal Parlamento - prosegue D’Avino - richiede semplicemente che l’assoluta indispensabilità delle intercettazioni debba essere ‘giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti’. In altre parole bisogna dimostrare che sia emerso in concreto qualcosa che consenta di proseguire con le captazioni”. “Il secondo messaggio sbagliato che è passato dal dibattito di questi giorni è che questa riforma non consentirebbe intercettazioni in casi gravi, ed è stato più volte riportato l’esempio del sequestro di persona a scopo di estorsione. Questo esempio è assolutamente destituito di fondamento. Qualcuno ha sostenuto che ora i sequestratori, conoscendo le nuove norme, faranno la telefonata per chiedere il riscatto al 46esimo giorno, per evitare di essere di essere intercettati, laddove in precedenza la telefonata poteva arrivare anche dopo sei mesi. A prescindere dalla circostanza che mi chiedo dove siano tutti questi sequestri a scopo di estorsione (non siamo mica più agli anni Settanta), il sequestro di persona è uno di quei reati - come quelli di mafia, di terrorismo, di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti - per i quali si applica non già la disciplina ordinaria, ma quella prevista dall’art. 13 della legge n. 152/1991, e dunque non è affatto previsto il limite dei 45 giorni. Non c’è quindi nessuna ragione di allarmare l’opinione pubblica”, spiega il procuratore D’Avino. “Il terzo messaggio sbagliato è che la riforma finirà per proteggere i potenti e i colletti bianchi. Anche questo è falso, perché i reati più gravi contro la Pubblica amministrazione, puniti con pena massima non inferiore a cinque anni, rientrano anch’essi nelle deroghe previste dalla legge 152/1991”, aggiunge D’Avino. Detto ciò, prosegue D’Avino, “si potrebbe legittimamente ritenere non sufficiente il termine dei 45 giorni, ma mi sembra assurdo dire ‘no’ a priori e alzare le barricate. Ritengo giusto che, trascorso un periodo di tempo, che può essere di 45 o di 60 giorni, a un certo punto si tracci una riga e si veda se dalle intercettazioni siano emersi elementi utili. L’alternativa è che si passi mesi e mesi a intercettare senza raccogliere alcuno spunto di indagine”. “Noi magistrati non dobbiamo usare le intercettazioni andando alla pesca, sprecando energie lavorative, oltre che soldi, nella speranza che prima o poi qualcosa esca”, dice D’Avino, ammettendo che tra diversi colleghi “si è diffusa una concezione sbagliata delle intercettazioni come mezzo di prova e non come mezzo di ricerca della prova, come previsto dal codice”. Insomma, la riforma non determina nessun via libera ai delinquenti e nessuna fine del mondo per i pm. “Si è cercato di riportare l’intercettazione nel suo giusto binario di strumento di ricerca della prova. Con qualche intercettazione in meno, magari fatta meglio, e con lo svolgimento di attività di indagine collaterali, come osservazioni, pedinamenti e controlli, si possono raggiungere gli stessi risultati investigativi”, conclude D’Avino. Giustizia penale, un gioco di equilibrismo tra algoritmo e umanità di Maria Vittoria Ambrosone* Il Riformista, 29 marzo 2025 Nel corso degli ultimi anni, il fenomeno dell’Intelligenza Artificiale (IA) ha fatto ingresso - anzi, oserei dire irruzione - in numerosi settori del vivere quotidiano, da ultimo in quello giuridico, suscitando sentimenti spesso contrastanti. Un misto di speranza e diffidenza. Da un lato, l’IA potrebbe rendere più efficiente il sistema giustizia, permettendo una gestione più rapida e mirata dei procedimenti, attraverso l’automazione di compiti amministrativi. Dall’altro, il rischio di delegare la giustizia a un sistema automatizzato, senza un adeguato controllo umano, apre a scenari preoccupanti. In Italia, infatti, l’accostamento di IA e giustizia penale solleva numerosi interrogativi, così riassumibili: è davvero possibile applicare algoritmi e apprendimento automatico a un settore tanto sensibile senza comprometterne i princìpi di equità e giusto processo che lo governano? Partiamo dal quadro normativo europeo, che ha iniziato a delineare i confini di questa delicata interazione. Il Regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI Act) dell’Unione europea del 13 marzo 2024, pur non affrontando nello specifico il tema della giustizia penale, ha stabilito linee guida cruciali per l’utilizzo dell’AI in vari settori, evidenziando i rischi associati all’uso di tecnologie automatizzate in un ambito così delicato. L’AI Act pone una serie di obblighi di trasparenza e responsabilità per le applicazioni di AI, soprattutto quando si tratta di decisioni che potrebbero influenzare i diritti fondamentali delle persone. La finalità è garantire che le tecnologie impiegate non solo rispettino i diritti umani, ma che siano anche comprensibili e controllabili. Sulla scia tracciata dal quadro normativo europeo, la scorsa settimana il Senato italiano ha approvato un disegno di legge sull’Intelligenza Artificiale, che passa ora all’esame della Camera dei deputati. Il testo, suddiviso in 26 articoli, attribuisce al Governo la delega per adottare, entro un anno, uno o più decreti legislativi finalizzati ad armonizzare la normativa nazionale con quella europea. L’art. 14 del DDL, però, precisa che l’algoritmo può essere usato esclusivamente per la ricerca giurisprudenziale, dottrinale, mentre restano in capo al magistrato l’interpretazione della legge, la valutazione dei fatti e delle prove e la finale adozione del provvedimento. L’AI Act e il DDL di delega al Governo forniscono una cornice normativa che, purtroppo, non risolve gran parte delle questioni etiche e pratiche sollevate dall’integrazione dell’IA nel settore giustizia, e in particolare in quello penale. Le voci di Magistratura Democratica (MD) e dell’UCPI sollecitano un approccio prudente e riflessivo, che preservi la giustizia da rischi di disumanizzazione e bias tecnologici. MD, uno dei gruppi della magistratura associata italiana, ha pubblicamente espresso preoccupazioni sul ruolo dell’AI nel sistema giudiziario, per le derive che potrebbe comportare. Pur riconoscendo il potenziale di innovazione di questa tecnologia, MD sottolinea i pericoli legati alla meccanicizzazione del processo decisionale: la giustizia non può ridursi a un calcolo algoritmico che non tiene conto della complessità dei singoli casi. La posizione dell’associazione mette in guardia dall’introduzione indiscriminata dell’AI nei procedimenti penali, evidenziando la necessità di proteggere l’autonomia del giudice, che non può essere sostituito da un sistema che manca della sensibilità e delle competenze, anche morali, proprie dell’essere umano. Anche l’Unione delle Camere Penali Italiane, attraverso la sua Carta dei Valori, ha affrontato in maniera critica l’ingresso delle nuove tecnologie nel mondo della giustizia penale. Ci si è espressi con fermezza sulla necessità di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, ponendo l’accento sulla protezione della libertà personale e sul rispetto dei princìpi del giusto processo, “con i suoi corollari della presunzione di innocenza, del principio del contraddittorio, della possibilità di confutare le prove, dell’obbligo di motivazione della decisione, del principio in dubio pro reo, del controllo di legalità e di logicità della motivazione della sentenza”. L’associazione favorirà la conoscenza degli errori e delle distorsioni cognitive che possono emergere nel processo decisionale, promuovendo l’adozione di modelli e procedure idonei a mitigare l’incidenza di tali distorsioni, foriere di errori giudiziari. È evidente che il ruolo dell’Intelligenza Artificiale nella giustizia penale italiana è ancora in fase di definizione, e il dibattito su come bilanciare innovazione e tutela dei diritti fondamentali è più che mai aperto. La chiave per un uso responsabile dell’Intelligenza Artificiale nella giustizia penale italiana sembrerebbe risiedere nell’individuazione di un delicato equilibrio. Se da un lato l’AI può rivelarsi uno strumento utile per ottimizzare le risorse, ridurre i tempi processuali e migliorare l’efficienza del sistema giudiziario, dall’altro non possiamo ignorare le sue potenziali derive: la giustizia è umana, e tale deve rimanere. *Avvocato penalista Non sussiste l’imputabilità se manca solo una delle due capacità di intendere e volere di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2025 Il vizio di mente è totale e non parziale se il soggetto ha azzerato una delle due attitudini mentali e non rileva che la mancata gestione degli impulsi che lo determinano ad agire sia dovuta alla volontaria sottrazione alle cure. Il presupposto fondamentale per punire chi commette un reato è la sussistenza della sua imputabilità, che è esclusa in caso di vizio totale di mente. Il vizio è totale quando manchi la capacità di intendere e volere che è affermabile solo quando il soggetto possegga entrambe le attitudini anche se in maniera scemata. Infatti, l’esclusione anche di una sola delle due componenti di tale capacità fa venir meno il presupposto primario dell’imputabilità della persona di fronte alla giustizia penale. Così la Corte di cassazione - con la sentenza n. 12283/2025 - ha annullato la condanna di un soggetto molestatore affinché sia accertata con certezza la sussistenza della capacità di volere pur non essendo in discussione quella di intendere. L’imputato era stato, infatti, sottoposto a perizia dall’ausiliario del giudice e da questa era emersa la malattia mentale di tipo paranoide che comprometteva totalmente la possibilità da parte del soggetto di determinarsi contro gli impulsi a cui non poteva resistere. Ma il giudice d’appello aveva confermato la condanna affermando la presenza di un vizio solo parziale di mente dovuto anche alla resistenza del soggetto a sottoporsi alle dovute terapie psichiatriche. La Cassazione rileva un errore nel ragionamento dei giudici di merito dove non avevano valorizzato l’affermazione peritale secondo cui il disturbo psichiatrico dell’imputato impediva la presa di coscienza della malattia e quindi determinava la mancata considerazione dell’utilità del trattamento terapeutico da parte della persona. Non poteva quindi il giudice far discendere la parzialità del vizio di mente dalla considerazione che se il soggetto si fosse sottoposto alle necessarie cure non sarebbe stato totalmente incapace di volere. Si tratta di un ragionamento ellittico che non risponde all’esame preliminare sull’imputabilità del reo che richiede la contemporanea esistenza tanto della capacità di intendere quanto di quella di volere. Esclusa completamente una delle due capacità il vizio è da considerarsi totale con la conseguente impossibilità per il giudice di elevare la punizione contro il soggetto non imputabile. Napoli. S’impicca nella sua cella con una corda, il dramma nel carcere di Poggioreale di Andrea Aversa L’Unità, 29 marzo 2025 La strage senza fine continua nella totale indifferenza delle istituzioni. Le dichiarazioni del Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. Ancora un suicidio in carcere, il secondo del mese avvenuto nel penitenziario di Poggioreale a Napoli. Il detenuto che si è tolto la vita, secondo quanto comunicato dal Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello, si chiamava Harar Houssem - 32enne algerino - che si è ucciso impiccandosi con una corda. Ad oggi sono 24 i suicidi avvenuti nelle carceri italiane nel 2025. Ciambriello, all’uscita dalla Casa Circondariale di Poggioreale, ha dichiarato: “Ieri, nella tarda sera, Harar Houssem algerino di 32 anni si è tolto la vita nel bagno della sua stanza. I compagni di cella, 5 detenuti in una stanza piccola e con scarse condizioni igieniche sanitarie, mi hanno mostrato la corda utilizzata da Harar realizzata con un lenzuolo intrecciato. Il ragazzo era stato trasferito da un paio di mesi nel carcere di Poggioreale da Benevento, in questi giorni aveva ricevuto la notifica di una nuova condanna. Ho parlato con tutta la comunità penitenziaria fatta di detenuti, detenenti, direzione, agenti e educatori voglio rimarcare che dalle ore 19:00 fino alla mattina ci sono pochissimi agenti di polizia penitenziaria, a volte anche un solo agente per due piani. Va rafforzata anche nel pomeriggio e nella notte la presenza sanitaria per un pronto intervento, molte volte è questione di pochi minuti per salvare una vita”. Le dichiarazioni del Garante Samuele Ciambriello - Il tragico bollettino delle carceri italiane: 378 già i tentativi di suicidi; in Campania ad oggi sono 2 i suicidi avvenuti e 8 i tentativi di suicidio solo nel carcere di Poggioreale, ed 1 suicidio nella REMS di San Nicola Baronia. Ha concluso il garante Ciambriello: “I numeri sono dati allarmanti di un problema che si trascina da decenni. Oltre alla carenza di personale di agenti di polizia penitenziaria, mancanza di figure sociali di ascolto, mancanza di condizioni dignitose della pena, di spazi di socialità, di attività trattamentali, si resta chiusi in cella 20 ore su 24. La politica continua a proporre la costruzione di nuovi fabbricati dimentica invece di garantire condizioni dignitose della pena”. Firenze. Magistratura Democratica denuncia condizioni disumane nel carcere di Sollicciano di Stefano Brogioni La Nazione, 29 marzo 2025 Magistratura Democratica chiede la chiusura degli spazi detentivi del carcere di Sollicciano per gravi carenze igienico-sanitarie. Una lettera indirizzata all’amministrazione penitenziaria centrale ma anche alle istituzioni locali: Magistratura Democratica alza la voce per le condizioni del carcere di Sollicciano. Dopo il sopralluogo dei giorni scorsi, in cui sono emerse le solite e ancora gravissime carenze igienico-sanitarie e strutturali (pozze d’acqua per terra, muffa e umidità che cola dai muri, cimici), un gruppo di magistrati (Sergio Affronte, Franco Attinà, Alessandro Azzaroli, Angela Fantechi, Anna Favi, Filippo Focardi, Lisa Gatto, Simone Silvestri e Simone Spina), con il sostegno dell’associazione Antigone e degli avvocati della Camera Penale, ha firmato una lettera che ieri, nel corso di una conferenza stampa, è stata consegnata a Paolo Becattini, responsabile dell’ufficio di segreteria del governatore Eugenio Giani. Lettera che si conclude con una richiesta pesante: “disporre la chiusura degli spazi detentivi fino alla loro completa ristrutturazione”. La visita dei magistrati, accompagnati dal presidente del tribunale di sorveglianza, ha attraversato corridoi, celle e locali docce riservati ai detenuti, ma anche alcuni spazi in cui opera la polizia penitenziaria. “Risulta difficile esprimere a parole l’orrore provato, non solo da chi accedeva a detti locali per la prima volta, ma anche da chi vi era già stato nel 2022, nel vedere le condizioni materiali in cui lo Stato italiano fa vivere persone che ricadono completamente sotto la sua responsabilità”, si legge nella lettera inviata a Dap, Regione e Palazzo Vecchio. “In varie aree dell’istituto, le più critiche tra quelle visitate sono l’Area Transito e la Quarta Sezione del settore giudiziario, le infiltrazioni d’acqua sono ovunque: rivoli scendono lungo le pareti; acqua gocciola continuamente da alcune botole presenti nei corridoi; molte celle si presentano coi muri (originariamente bianchi) parzialmente o totalmente neri per la muffa che pervade le stanze; nei corridoi l’acqua scorre a terra o crea grosse pozze nelle quali detenuti e operatori sono costretti a camminare o stazionare. L’aria è talmente intrisa di umidità da risultare densa e fetida”. “A ciò si aggiunga - prosegue Md - che molti bagni delle camere di detenzione presentano gli scarichi modificati artigianalmente, che l’illuminazione in intere aree (corridoi e celle attigue) è molto scarsa, che in alcuni settori l’acqua dei locali docce esce solo bollente, mentre nei bagni delle camere di detenzione manca l’acqua calda. Nei corridoi di varie sezioni erano scoperti diversi cavi elettrici. I detenuti hanno rappresentato che le camere sono infestate dalle cimici e che giornalmente usano il gas dei fornelletti nella loro disponibilità per allontanare tali insetti dai propri materassi”. “In sintesi - concludono i magistrati -, i detenuti sono costretti a vivere in condizioni disumane e il personale della Polizia Penitenziaria e gli altri operatori a lavorare in ambienti insalubri. Si tratta di una situazione inaccettabile che investe le responsabilità delle Istituzioni, tutte le Istituzioni, locali e nazionale, che devono farsene carico in ragione delle proprie competenze specifiche, ma anche delle responsabilità che derivano dall’essere espressione della collettività e del territorio. Nessuno - può consentire che una simile situazione si protragga ulteriormente, risultandone altrimenti minata, insieme alla dignità delle persone, la stessa legittimità della potestà punitiva e cautelare”. Firenze. Carcere di Sollicciano, lettera dei magistrati: “Va chiuso e ristrutturato” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 29 marzo 2025 “A Sollicciano i detenuti vivono e camminano nell’acqua, dormono sui materassi infestati da cimici, circondati da muri ricoperti di muffa nera. Il carcere va chiuso fino alla completa ristrutturazione”. A lanciare l’appello alle istituzioni, al presidente della Regione in particolare, è Filippo Focardi segretario regionale di Magistratura democratica, la corrente progressista delle toghe, che nei giorni scorsi con un drappello di magistrati insieme ai volontari dell’Associazione Antigone ha fatto visita alla casa circondariale del capoluogo toscano. È un segnale forte, perché finora la situazione fatiscente di Sollicciano e del suo triste primato (“in lizza con Regina Coeli”) era stata denunciata nei provvedimenti e nelle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. Ieri alla conferenza stampa è intervenuto Paolo Becattini, il responsabile della segreteria della giunta Toscana. Nessuna foto, niente video: il Dap non ha autorizzato Md e Antigone a riprendere la situazione di celle corridoi e spazi comuni del carcere, “retto da un facente funzione in scadenza, ma ancora senza direttore, dopo la mancata conferma della dirigente Antonella Tuoni”, ricorda Focardi. “Risulta difficile esprimere a parole l’orrore provato nel vedere le condizioni materiali in cui lo Stato italiano fa vivere persone che ricadono completamente sotto la sua responsabilità - ha detto Focardi - è indispensabile che le istituzioni facciano un accesso nel carcere per rendersi conto della drammatica condizione in cui vivono detenuti e agenti della penitenziaria”. Il personale di polizia si trova a lavorare in locali ammalorati, in barba alle norme sui livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro. “A Sollicciano la pianta organica dovrebbe essere di 500 unità. In realtà - precisa Volpi di Antigone - sono invece presenti 314 agenti. Ma senza poliziotti, il detenuto non può uscire dalle sezioni per seguire corsi di istruzione e di formazione professionale. Inoltre sono quasi sempre loro, in assenza di psicologi, personale paramedico e operatori specializzati a farsi carico, pur non avendone le competenze, di attività di mediazione tra detenuti, lavorando in una condizione di ulteriore stress. Non è possibile più attendere”. Ancona. Nessuno tocchi Caino: “Siamo entrati nel carcere di Montacuto, condizioni disumane” di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 29 marzo 2025 Un carcere pieno “con un sovraffollamento pari al 130%” e in condizioni definite “inumane” perché in cella “si sta in 5 quando l’accoglienza sarebbe di 3, con pavimenti e muri sporchi”. Non porta buone notizie il sopralluogo che l’associazione Nessuno tocchi Caino ha fatto ieri mattina nella casa circondariale di Montacuto insieme alla Camera Penale di Ancona, presente con la presidente Francesca Petruzzo e gli avvocati Massimiliano Belli ed Andrea Marini. “Il governo pensa ad aumentare solo l’edilizia carceraria - ha spiegato Petruzzo - ma sono soluzioni a lungo termine. Ci vuole qualcosa di più immediato perché il sovraffollamento incide anche su chi in carcere ci lavora”. I dati attuali parlano di 337 detenuti a Montacuto a fronte di una capienza di 256. “Il sovraffollamento è del 130% - ha osservato Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino - superiore a quello della media nazionale che è del 125%. Già la strada che porta al carcere annuncia la fatiscenza del luogo, della serie lasciate ogni speranza voi che entrate. Il sovraffollamento provoca disagio non solo ai detenuti ma anche agli operatori penitenziari, la forza operativa non è adeguata a trattare una mole di numero così alti. C’è l’overbooking. Ci sono due parole fondamentali, amnistia e indulto ma non si possono pronunciare, sono tabù ma almeno una liberazione anticipata come quella che abbiamo proposto con Nessuno tocchi Caino aiuterebbe e non è una resa dello Stato come dice il ministro Nordio”. D’Elia è entrato in una cella dei nuovi giunti, “le chiamano stanze di pernottamento - ha detto - ma sono gattebuie, luoghi sporchi, la luce naturale filtra poco, ci sono i neon costantemente accesi”. “Lì dovrebbero stare al massimo 15 giorni, ma c’erano detenuti che ci stavano da tre mesi e mezzo. Ad un nuovo arrivato hanno dato solo un lenzuolo e una coperta, niente cuscino, non ci sono armadi per tutti, una finestra era tappata da un cartone e la perdita d’acqua della doccia risolta con delle bottiglie per non far allagare il bagno”. Bergamo. Agenti e detenuti abbandonati a loro stessi: la politica non c’è di Wainer Preda primabergamo.it, 29 marzo 2025 Sovraffollamento e carenza di personale. La presenza di tanti stranieri e “giovani adulti” rende difficilissimo il lavoro e la rieducazione, con un alto tasso di recidiva. Oltre seicento detenuti, di 44 etnie diverse. Basterebbero questi due numeri a spiegare la situazione oltremodo complessa del carcere di Bergamo. Il record, purtroppo negativo, è stato toccato nel weekend del 22-23 marzo: quota 606. Non era mai accaduto nella casa circondariale di via Gleno, che ha la capienza di circa la metà (319 posti in tutto). Il che aumenta a dismisura le difficoltà di convivenza fra i carcerati e complica il lavoro di chi è deputato alla loro custodia e rieducazione. Lo ha detto chiaramente il comandante della Polizia penitenziaria Daniele Alborghetti, mercoledì 26 marzo, durante il suo intervento per il 208° anniversario del Corpo: “Operare in queste condizioni è davvero difficilissimo”. Il problema del sovraffollamento delle carceri non è solo bergamasco. Sono sessantamila i detenuti in Italia, 190 le case circondariali, a fronte di circa 40 mila agenti di Polizia penitenziaria. Ma da noi c’è anche un altro dato allarmante, relativamente nuovo: la composizione della popolazione carceraria. Una netta preponderanza di detenuti stranieri, per lo più “giovani adulti”. “Sono maggiorenni per l’anagrafe, ma adolescenti per mentalità ed emozioni” ha detto la direttrice del carcere Antonina D’Onofrio. Ovvero, in quella fascia d’età, dai 19 ai 25 anni, dove non si è più ragazzi ma allo stesso tempo non si è nemmeno uomini. Il che significa che la privazione di libertà, per loro, oltre a essere inconcepibile provoca reazioni di rabbia, ribellione. O al contrario di depressione profonda fino a situazioni estreme. Se poi aggiungiamo che buona parte dei carcerati ha dipendenze da droghe e problemi di natura psichica o psichiatrica, si può facilmente immaginare che antro infernale possa diventare un carcere. Roma. Dai libri in prestito al lavoro, i servizi che aiutano il reinserimento dei detenuti radiocolonna.it, 29 marzo 2025 L’obiettivo degli accordi siglati è migliorare la condizione delle persone detenute nella Capitale. Poter richiedere libri in prestito all’interno delle biblioteche circondariali, accedere a servizi di orientamento al lavoro e alla formazione. Un servizio di ascolto per i detenuti che non hanno i familiari o agevolare l’erogazione dei servizi anagrafici. Tutte queste attività, nei cinque carceri di Roma, sono previste da quattro protocolli operativi, firmati nell’ottobre 2023 tra Roma Capitale e il ministero di Giustizia - Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, presentati oggi in Campidoglio. Alla conferenza stampa sono intervenuti, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, l’assessora alle Politiche sociali di Roma, Barbara Funari, l’assessore alla Cultura di Roma, Massimiliano Smeriglio, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Giacinto Siciliano e la garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone. L’obiettivo degli accordi siglati è migliorare la condizione delle persone detenute nella Capitale e aiutare il percorso di reinserimento sociale. Gli ambiti di applicazione dei protocolli sono divisi per competenza: sociale, orientamento al lavoro, biblioteche, servizi anagrafici e di stato civile. Con questi protocolli Roma Capitale mette a sistema tutti i servizi offerti in favore della popolazione reclusa nei cinque istituti penitenziari della Città: Rebibbia reclusione, Rebibbia Nuovo complesso, Rebibbia femminile, Terza casa e Regina coeli. “Non presentiamo solo un programma futuro - ha sottolineato il sindaco Gualtieri - ma anche un lavoro in corso per rafforzare il supporto che Roma Capitale può offrire affinché la pena sia anche un percorso di inserimento sociale, lavorativo e culturale”. Prima della sottoscrizione dell’Intesa “era tutto lasciato all’improvvisazione. Ora è stata attivata una rete di semplificazione”, ha concluso Gualtieri. “Per noi è importante che chi vive nelle carceri romane abbia accesso a tutti i diritti di cittadinanza - ha osservato l’assessora Funari -. Questi protocolli operativi mettono in campo un percorso che possa anche garantire che dopo, quando si esce da un carcere, non si rimanga disorientati e senza risposta ma si cominci anche nel periodo di detenzione a costruire un futuro possibile”. Per questo motivo, il fronte culturale è rilevante sia dal punto di vista dell’orientamento formativo sia professionale. “Si lavora verso la realizzazione di un Sistema di biblioteche interno alle Case circondariali dando anche possibilità lavorative e di miglioramento. Ora nelle 16 biblioteche all’interno delle carceri ci sono oltre 50 mila titoli presenti, ed è possibile richiedere dei libri in prestito”, ha precisato l’assessore Smeriglio. Inoltre, la formazione professionale per i detenuti è utile allo scopo di prevenire le recidive e strutturare piani individuali più adeguati. “Troppo spesso i percorsi si interrompono perché non c’è chiarezza sulle competenze - ha sottolineato Siciliano -. I nuovi protocolli ci aiutano a definire ambiti di azione nei percorsi di reinserimento”. Con queste novità “per la prima volta si schematizzano una serie di servizi, e adesso possiamo cominciare a lavorare sul serio”, ha concluso la garante Calderone. Monza. Gli studenti del liceo entrano in carcere: “Dietro i reati ho scoperto che ci sono esseri umani” di Dario Crippa Il Giorno, 29 marzo 2025 Parla Camilla, 16 anni: “Da grande spero diventare una scenografa e prendere in mano la vita. Mi ha colpito incontrare detenuti poco più grandi di noi e sentire le loro vicende”. Camilla è una ragazza di 16 anni, studia al Liceo Artistico Nanni Valentini di Monza e da grande vuole fare la scenografa. Intanto, però, vuole conoscere il mondo in cui si trova. È così che l’altro giorno c’era anche lei fra gli 80 studenti che hanno varcato per la prima volta in vita loro i cancelli della casa circondariale di Monza. E hanno assorbito come spugne la realtà di un mondo che per molti di loro fino a quel momento non esisteva o se esisteva - distorto - era soltanto attraverso quanto raccontato da film e serie Tv. Dall’ingresso all’immatricolazione dei nuovi detenuti fino all’arrivo nella sezione cui vengono assegnati e alle celle, l’approccio alla casa circondariale di via Sanquirico è tutto una scoperta. Camilla lo racconta passo dopo passo. “Ci siamo ritrovati alla fine in una stanza molto lunga ma stracolma dopo il nostro arrivo”. Perché eravate lì? “Siamo andati per partecipare al programma che ci era stato offerto, dal titolo “Diritto e una seconda possibilità”. Siamo andati per conoscere da vicino nella sua concreta applicazione l’articolo 27 della Costituzione. Un articolo fondamentale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “La Costituzione è la cosa più bella che sia mai stata inventata, siano andati a toccare con mano cosa viene percepito… e… mi ha colpito tantissimo”. Cosa in particolare? “Davanti a me c’erano delle persone, non i reati che avevano commesso. E devo ammettere che non me lo aspettavo. Pensavo che il carcere fosse un ambiente freddo e invece no, la sezione dei semiliberi a cui siamo stati ammessi ci ha mostrato una cosa fondamentale: il carcere ha due facce. Ci sono da un lato le cose positive, le iniziative di reinserimento studiate per i detenuti e dell’altro c’è l’isolamento, la privazione della libertà. Ecco, trovare un equilibrio è una delle cose più difficili”. Un mondo nuovo. “Di cui la società spesso ha paura a parlare, perché il carcere è quasi un tabù, c’è quasi un processo di normalizzazione che deriva dall’immagine che ci arriva appunto da film e serie Tv. Abbiamo parlato tanto di questo equilibrio che ci dovrebbe essere ma non è facile da raggiungere”. Chi avete incontrato? “C’erano tre detenuti in particolare che parlavano con noi, tra loro anche un ragazzo di appena 20 anni: mi ha impressionato il fatto che avesse quasi la nostra stessa età. A parte quelle tre persone le celle erano aperte ed erano tanti i detenuti che uscivano ad ascoltare. Ci hanno raccontato le loro storie, da cui si capiva spesso quali fossero i reati e i problemi che li avevano portati fino a lì, la tossicodipendenza, i furti, le rapine, lo spaccio. È stato un momento importante, ci hanno parlato della loro famiglia che li attende oltre le sbarre e dei legami affettivi”. Voi chiedevate... e loro? “C’era uno scambio reciproco, anche se da parte loro più che domande arrivavano spunti di riflessione. Mi ha colpito ad esempio un detenuto che ha spiegato come stare in carcere gli avesse dato soprattutto tanto tempo, tempo per pensare a se stesso e alla propria storia”. Perché avete scelto di venire proprio qui? “Questa opportunità ci era stata presentata a ottobre, e consentiva di ricevere crediti per i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCT, ex alternanza scuola-lavoro, ndr), ma la verità, almeno per la sottoscritta, è che non sono andata solo per questo. I miei punti già li avevo maturati, non ne avevo bisogno, ma ho voluto andare perché tengo tanto alla nostra storia e ad approfondire quello che ci ha dato la Costituzione: si trattava di un’occasione per parlare di temi di attualità che a scuola spesso non si ha il tempo di affrontare. Un modo di stare davvero nel presente. Fra non molto sarò maggiorenne, potrò andare a votare e prendere in mano la mia vita. Toccherà anche a me e mi sto rendendo conto dell’importanza di diritti che non tutti hanno e di cui a volte non ci si rende conto. È stato bello conoscere una realtà lontana dal cuore e della nostra quotidianità”. Roma. Lettura e riscatto sociale: quando una biblioteca può essere casa di Martina Bagnoli Il Domani, 29 marzo 2025 In occasione delle celebrazioni per i dieci anni di FuoriRiga, associazione di volontariato che mantiene e gestisce la biblioteca di Casal de Marmo, una delle ragazze che sconta una pena in quell’Istituto per minori ha scritto una lettera-omaggio alle stanze che custodiscono libri: “Entrando in biblioteca posso far cadere la mia maschera, spogliarmi della mia armatura ed essere semplicemente J.” Durante un intervento al Consiglio dei ministri della Cultura dell’Unione europea, qualche mese fa il ministro Giuli ha ricordato l’importanza delle biblioteche cogliendo l’occasione per annunciare uno stanziamento di 30 milioni per il settore. Quel piano di finanziamento denominato Olivetti riconosce alle biblioteche un ruolo importante nella formazione delle generazioni future anche nell’ambito dell’alfabetizzazione digitale. È fuori ogni dubbio che in Italia negli ultimi anni il dibattito culturale ha spesso ignorato le biblioteche previlegiando musei, mostre ed eventi. Forse perché il successo delle biblioteche è difficilmente misurabile con le metriche usate per suggellare il successo di mostre e musei: numeri di visitatori, incassi dai biglietti e concessioni. Ciò non toglie che libri, biblioteche e lettura continuino ad essere importanti e come detto dallo stesso ministro Giuli nel suo discorso all’Unione europea: “Rappresentano uno straordinario capitale sociale per la loro capacità di inclusione e di educazione civica a beneficio di tutti e in particolare dei giovani e dei meno abbienti”. A testimonianza di questa affermazione vale la pena citare la lettera di J., una ragazza minorenne che sconta una pena nell’Istituto penale per minori Casal del Marmo di Roma. La lettera è stata scritta in occasione delle celebrazioni per i dieci anni di FuoriRiga, associazione di volontariato che mantiene e gestisce la biblioteca di Casal de Marmo nella convinzione che garantire il diritto alla lettura delle persone minori prive di libertà sia parte integrante del loro percorso di riabilitazione e che la cultura sia il punto di partenza del riscatto sociale. Il testo di J. si intitola “La biblioteca è la mia casa” e vale la pena riportarne ampi brani: “Mi chiedo spesso come sarebbe stata la mia vita senza la lettura. Penso che senza libri non sarei stata meno educata, meno curiosa, meno istruita, conosco persone estremamente brillanti che non hanno mai aperto un singolo romanzo. Ciò che credo è che senza libri sarei stata semplicemente più sola. Leggevo da bambina perché non riuscivo a capire gli altri. Da ragazzina leggevo perché qualcosa del mondo pensavo di averlo capito, ma il mondo non sembrava particolarmente interessato a comprendere me. Crescendo ho trovato un equilibrio tra me stessa e le altre persone, ma in qualche modo tra le pagine di un buon romanzo riesco a trovare quel qualcosa in più. Nei libri trovo i sorrisi che non mi vengono rivolti, gli abbracci che non mi stringono, gli schiaffi che a volte merito, gli elogi e le critiche di cui ho bisogno. Ho lasciato che gli autori mi parlassero, ho creato un dialogo, un sogno, un’amicizia (…)”. “Quando sono stata arrestata pensavo che la magia fosse finita, che sarei rimasta sola, questa volta per davvero. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che il mio primo approccio con una delle ragazze di FuoriRiga fu con Alessandra (bionda), ormai quasi due anni fa; chiesi se mi avrebbero potuto portare I Fiori del Male di Baudelaire e Il Gabbiano di Cechov. La biblioteca è diventata il mio posto sicuro: quando tutto va a rotoli, quando la realtà del carcere mi fa sentire sopraffatta, quando ho bisogno di un’amica, di ridere o anche solo un po’ di “normalità”, mi basta varcare le porte della biblioteca. Ognuno di noi ha bisogno di costruirsi una maschera, che tiene su per buona parte del giorno e non toglie se non si sente davvero al sicuro. Entrando in biblioteca posso far cadere la mia maschera, spogliarmi della mia armatura ed essere semplicemente J.. FuoriRiga sa di Casa nel senso migliore che possiamo dare al termine, è una meravigliosa famiglia allargata, in cui ognuno viene accettato per quello che è senza aspettative (...). In biblioteca forse non c’è abbastanza spazio per tutti i libri che vorremmo, ma c’è e ci sarà sempre posto per le storie, i racconti, le personalità e le vite delle persone che la animano. FuoriRiga è talmente grande da trascendere lo spazio e le barriere. È l’unico posto in cui, sinceramente, hanno trovato posto anche per me”. Che dire di più? Viene in mente Melchor Marin, il mitico ispettore di Javier Cercas e la sua rinascita in carcere attraverso la lettura. La biblioteca di Casal del Marmo è una stanza con poco più di 7000 libri ma per chi la frequenta è un mondo, una vita ancora da vivere, speranza nel dopo e conforto nel mentre. Una stanza calda e accogliente quella di Casal del Marmo, che ci ricorda dell’importanza delle biblioteche e di quanto sia necessario dare a tutti la possibilità di leggere, anche se a farlo sono in pochi. Offrire a mille per salvarne uno, ecco la mission impossible delle biblioteche perché, come ebbe a dire lo scrittore francese Daniel Pennac, il verbo leggere non “sopporta” l’imperativo: legge solo chi ha voglia, quando ha voglia, l’importante è che lo si possa fare sempre. Daria Bignardi con i detenuti: “Il carcere non sia inutile e dannoso” di Paolo Morelli e Teresa Cioffi Corriere Torino, 29 marzo 2025 Quelle porte che sbattono, porte che dividono i padiglioni, i corridoi. La Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, ieri pomeriggio, ha ospitato un incontro con Daria Bignardi e Valeria Verdolini, nell’ambito di Biennale Democrazia, dal titolo Ci sta il mare attorno. Il carcere e noi. Il concetto è che Ogni prigione è un’isola, dal titolo dell’ultimo libro di Daria Bignardi, pubblicato da Mondadori, da cui è partito l’incontro. Porte che sbattono fortissimo, mentre nel teatro del carcere circa una settantina di detenuti, tra cui una decina di donne (fatto eccezionale e positivo), hanno ascoltato gli interventi prima di parlare. “La cosa più importante - ha detto Bignardi - è riuscire ad agganciare le persone fuori. Succede spesso che quei pochi che si interessano del carcere ne parlino solo fra loro”. Il carcere ha una funzione di rieducazione e reinserimento nella società, ma se chi sta dentro è svilito, disumanizzato, quando esce potrebbe stare peggio di prima. Altro che reinserimento. “I casi mediatici ci penalizzano - dice una detenuta - ma noi siamo già stati giudicati da un giudice”. E poi, “i politici stanno innescando un sentimento che ci fa apparire peggio dei lebbrosi”, dice un altro. Altre porte che sbattono. “È fondamentale il lavoro in carcere - spiega Antonio Genovese, avvocato e consigliere dell’ordine degli Avvocati, co-organizzatore dell’incontro - affinché siano i detenuti a lavorare e mandare soldi alle famiglie, non viceversa. L’altro problema è la magistratura di sorveglianza che impiega troppo tempo a prendere delle decisioni”. Scatta l’applauso, si apre il vaso di Pandora. Le richieste dei permessi, per visite o lavoro, restano bloccate per mesi: non c’è abbastanza personale per gestire tutto. “Il mio avvocato - denuncia un detenuto - mi esorta a chiedere un permesso. Potrei aspettare anche un anno per una risposta, ma fra un anno uscirò, quindi è inutile chiedere”. Il dialogo con Daria Bignardi vira verso lo sfogo. C’è anche chi si è fatto convincere dalla figlia a frequentare la scuola, ma per seguire le lezioni perde l’ora d’aria, perché gli orari si sovrappongono. Sono detenute e detenuti che vogliono scontare le giuste pene e ripartire. Bignardi, del resto, nel suo libro cerca di raccontarlo. “Conviene a tutti che il carcere serva a qualcosa - aggiunge - altrimenti è anche dannoso. Nel libro cerco di far mettere chi legge nei panni di chi vive in carcere. Le parole più forti, tra le persone che ho intervistato, sono arrivate da chi ci lavora. Un ispettore mi ha detto: il carcere è inutile”. Occorre potenziare i progetti di lavoro e istruzione, come sottolinea Rocco Sciarrone, docente di sociologia delle mafie all’università di Torino che per l’ateneo, insieme a Marta Dotti, si occupa dei corsi di laurea in carcere (più di 150 iscritti fra 20 corsi in diverse prigioni piemontese). Serve anche un intervento della politica per mettere la magistratura nelle condizioni di sveltire le pratiche. Anche il personale è oberato, incapace di ascoltare perché sommerso dalla burocrazia. Il carcere “delle Vallette”, come si continua a chiamare anche da chi lo vive, ha oltre 1.500 detenuti di tutti i circuiti, dalla massima sicurezza alle mamme, è la struttura “più complessa d’Italia”, secondo Simona Grabbi, presidente dell’ordine degli Avvocati di Torino. “Questi momenti - dice Elena Lombardi Vallauri, direttrice del carcere - danno senso e illuminano il pensiero sulla quotidianità”. Le mani si stringono, gli occhi si inumidiscono, sorrisi, parole, si cerca di fare arrivare fuori quello che succede dentro. Da quelle persone che chiedono solo la possibilità di ripartire. L’incontro finisce, è una bella giornata di sole. Le porte sbattono. Daria Bignardi e la vita dentro il carcere di Miriam Massone La Stampa, 29 marzo 2025 La scrittrice e volontaria ieri al Lorusso e Cutugno di Torino per Biennale Democrazia: “Mio suocero Sofri era al Don Bosco di Pisa quando gli portai mia figlia di 3 mesi”. “Il carcere non porta voti”: suona come un epitaffio, in realtà è un incipit, per Daria Bignardi. Appurato che alla politica la questione non tange - “Sul miglioramento del sistema detentivo non mi aspetto nulla da questo governo, così distante da me e dalla mia storia, mi sarei aspettata invece qualcosa da quelli precedenti, ma più ci si avvicina a un ministero e più i bravi politici spariscono” - ci si deve, allora, kennedianamente chiedere “cosa ognuno di noi può fare”, (ri)partendo da una nuova narrazione, più empatica, anche più leggera, sicuramente meno autoreferenziale e scevra di toni e contenuti moralistici, che hanno un pauroso effetto domino collaterale: “Annoiano, spaventano e allontanano”. Amplificando l’emarginazione. Sembra (solo) forma, invece è (anche) sostanza. Chi non conosce non vuole conoscere, arroccandosi in un circolo vizioso di pensieri ricorrenti e ignoranti (nel senso etimologico del termine) traducibili in quelle frasi fatte che Bignardi cita come il ritornello di un cacofonico rap: “Buttiamo via la chiave”, “lasciamoli marcire in galera”, e il tremendo “a me non può capitare”: “A me, invece, è capitato: mio suocero (l’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri, ndr) era in carcere, al Don Bosco di Pisa, quando gli ho portato a conoscere mia figlia Emilia di tre mesi che gattonava sul banco del parlatorio, proprio come la bimba di Gaetano, detenuto a Saluzzo per reati mafiosi, che nel mio libro si è immedesimato e la cui storia ora racconto appena posso”, anche qui, anche nel teatro senza finestre e con le luci blu della casa circondariale torinese Lorusso e Cutugno, davanti a un centinaio di detenuti, uomini e donne, italiani e stranieri, molti iscritti all’università o al liceo, altri ai corsi di alfabetizzazioni, altri a nulla, distratti solo da partite a scacchi, rabbia e demoni. Il parallelismo tra Daria e Gaetano diventa allora un archetipo, la concretizzazione di quel “transfer” emotivo che a Bignardi serve anche a tradurre e comunicare la solitudine e il senso di isolamento di chi dentro ci vive: “Alla fine mi porto a casa molto di più rispetto a quello che do e ho dato in questi scambi”. Il festival Biennale Democrazia ha voluto Bignardi qui, per la prima volta, con il suo libro Ogni prigione è un’isola (Mondadori), proprio per stabilire e corroborare quel contatto dentro-fuori che lei ricerca da 30 anni, “da quando nel 1997 ho cominciato a frequentare San Vittore e da allora non ho più smesso, ma già a 18 scrivevo lettere a un detenuto nel braccio della morte in Texas”. Oggi Bignardi è un “articolo 78”, autorizzata cioè a partecipare alle attività culturali nelle carceri: “Un ragazzo un giorno mi ha detto “Daria, mi sembra che il carcere ti riguardi”. Lo penso anch’io, sarà per sensibilità personale o perché mia mamma soffriva di ansia ossessiva e mi ha fatto vivere come in una prigione fino ai 15 anni”. I detenuti la ascoltano, la applaudono, la leggono. Approvano quando cita Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore, con cui Bignardi ha lavorato per anni, e il magistrato Roberta Cossia, secondo i quali le soluzioni per salvare le carceri sono due: “L’amnistia e l’indulto”. E rumoreggiano quando si parla di permessi premio e tempi della giustizia. In seconda fila c’è Angela, sconta una pena da due anni, tra non molto uscirà, è lei ad aver consigliato la lettura di Ogni prigione è un’isola alla sua educatrice Simona: “Le ho detto di leggerlo perché ora sono addetta alla biblioteca e questo libro parla di noi senza pregiudizi, è coinvolgente”. Il carcere è malato? “No. Sa cosa le dico? Io qui dentro ho fatto un percorso e sono stati gli anni migliori della mia vita, se sai coglierlo come un’occasione diventa un valore aggiunto”. E Simona in quel libro ha trovato ascolto e conforto: “Prima anch’io scrivevo, avevo un ideale, ora si è affievolito, di fronte a troppa sofferenza e fatica. Siamo pochi, siamo stanchi: lavorare qui è davvero come stare su un’isola. Ma questo non è un muro del pianto”. Eppure a Piero le lacrime escono davvero. Si commuove, quaderno per gli appunti in mano, raccontando che a 68 anni, senza averne più ragione per motivi anagrafici (“che senso avrebbe ormai?”) si è iscritto al liceo “perché me l’ha detto mia figlia. Epperò se seguo la lezione di inglese o di matematica perdo l’ora d’aria. Dicono che il carcere dev’essere rieducativo, ma a volte mi sembra diseducativo”. Invoca più istruzione anche Raffaele, diplomato al Conservatorio prima di inciampare: “Per me è stato un trauma adattarmi alla prigione, senza il mio violino, senza mai aver sbagliato nulla prima di quel reato, nel 2016”. Si alza il “ladro di biciclette”, così si presenta, “per l’ultima che ho rubato ho preso 5 anni e 4 mesi. Vorrei solo occupare il mio tempo. Se ci sono i muri del carcere scrostati datemi la calce e ve li risistemo io”. Il reinserimento lavorativo è un leit motiv: “Come faccio a trovare un’occupazione se non mi concedono il permesso perché dicono che sono pericoloso per una rapina commessa nel 1978?” si accalora Angelo, 32 anni di carcere, evidenziando il cortocircuito che non riesce a disinnescare. I tempi della giustizia - per vedersi accettare o respingere un permesso - sono il nervo scoperto all’interno di una struttura che tutto sommato i detenuti assolvono (“Non ci possiamo lamentare, è migliorata”): “Entri qui dentro ed è come partecipare a una gara d’auto - dice uno studente al suo nono anno di detenzione per omicidio -: ti danno benzina per 1000 chilometri, tu guidi bene ma poi ad ogni tappa non ti fanno fare rifornimento, anche se studi, e ti comporti bene, e alla fine vai a sbattere ai 200 all’ora senza casco contro la magistratura di sorveglianza: io aspetto da 9 mesi una risposta”. Bignardi non argina quelle straripanti testimonianze e spontanee denunce, nemmeno quando Valeria Verdolini dell’Università di Torino, coordinatrice del dialogo, vorrebbe metterci ordine. E dice: “Il carcere è tutto questo, è sfogo, rabbia, fatica, è frustrazione, ma è anche desiderio e speranza di superare i problemi: io guardo quella piccola luce”. Il carcere sono le storie che nessuno mai racconta. “Dice Pagano: “Più un carcere è aperto, meglio è per tutti”. Mettiamo in circolo, allora, questa umanità compressa là dentro. Diventiamone i megafoni. Più 007, meno libertà di stampa. L’incubo può diventare realtà di Vitalba Azzolini* Il Domani, 29 marzo 2025 Una norma del ddl Sicurezza spazza via ogni ostacolo alla conoscibilità di dati, informazioni e notizie se richiesti dai Servizi, quindi sostanzialmente da Palazzo Chigi, usando il passepartout della “sicurezza nazionale”. Un rischio per le fonti dei giornalisti. Sta passando quasi sotto silenzio una norma che spazza via ogni ostacolo alla conoscibilità di dati, informazioni e notizie se richiesti dai Servizi, quindi sostanzialmente da Palazzo Chigi. Usando il passepartout della “sicurezza nazionale”, essi potrebbero entrare in una serie di amministrazioni ed enti, superando paletti posti dalla legge a tutela di qualunque forma di riservatezza. La norma del ddl - La legge 124 del 2007 (art. 13), che disciplina i servizi di informazione, attualmente prevede che gli organismi del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, al fine di adempiere alle proprie funzioni istituzionali, possano chiedere collaborazione alle pubbliche amministrazioni e ad enti che erogano servizi di pubblica utilità. A tale fine, possono stipulare convenzioni di collaborazione con tali soggetti, nonché con università ed enti di ricerca. Il disegno di legge Sicurezza (art. 31) interviene su queste previsioni con alcune modifiche: da un lato, rende cogente la collaborazione - e anche l’assistenza - richiesta dagli organismi di sicurezza a pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati; dall’altro lato, specifica che tale richiesta va finalizzata alla tutela della sicurezza nazionale; inoltre, dispone che le convenzioni di collaborazione possano prevedere anche la comunicazione di informazioni in deroga a vincoli di riservatezza previsti da discipline di settore, superando così ogni forma di segreto, professionale e non. Le conseguenze - In buona sostanza, pubbliche amministrazioni ed enti indicati nella norma non potranno effettuare alcun bilanciamento tra gli interessi coinvolti nell’attività che essi svolgono e quelli perseguiti dai Servizi. L’espressa previsione della deroga a normative a garanzia della riservatezza e il richiamo alla tutela della sicurezza nazionale, che gode di protezione prioritaria, sta a significare che il bilanciamento è fatto a monte dal legislatore, con un’assoluta preminenza della sicurezza su ogni altro diritto o interesse. Per cui è preclusa alle amministrazioni la possibilità di esonerarsi discrezionalmente dall’assolvere a quanto richiesto da organismi del Sistema di informazione. Le norme in tema di riservatezza menzionate dal ddl, come ha rilevato il Garante per la privacy in audizione, non sono quelle generali sulla protezione dei dati personali, rispetto alle quali già opera la regolazione derogatoria prevista dal Codice della privacy a garanzia della “sicurezza nazionale”. Il riferimento del ddl va inteso, invece, come possibilità di derogare a qualunque norma di settore che imporrebbe segretezza alle amministrazioni e agli altri soggetti indicati. Una delle specifiche discipline che potrebbero essere travolte dalla richiesta dei Servizi riguarda la tutela delle fonti di giornalisti che lavorino presso aziende rientranti nell’ambito della nuova disposizione. E siccome tale tutela, assicurata dalla legge (l. n. 69/1963), costituisce il fondamento della libertà di stampa, garantita costituzionalmente, è agevole comprendere gli impatti che potranno derivarne. Le fonti dei giornalisti - Anche oggi può essere richiesto al giornalista di rivelare l’identità delle sue fonti, ma solo nel caso in cui ciò sia assolutamente necessario per le indagini in corso. In particolare, devono ricorrere due condizioni: l’indispensabilità della rivelazione della fonte informativa ai fini della prova del reato e l’impossibilità di accertare altrimenti la notizia in possesso del giornalista (art. 200 del codice di procedura penale). In sintesi, il giudice deve bilanciare l’esigenza di accertare fatti e responsabilità con la necessità di preservare il diritto del giornalista a proteggere le sue fonti. Se verrà approvata la norma del ddl Sicurezza, invece, in nome della sicurezza nazionale potrà essere superata qualunque garanzia delle fonti senza alcun preventivo controllo dell’autorità giudiziaria. Ciò è contrario a quanto previsto dal regolamento “European Media Freedom Act”, pienamente operativo a partire dall’agosto 2025, che prevede l’intervento del giudice e il diritto del giornalista di fare ricorso. Inoltre, come ha scritto l’Usigrai, organizzazione sindacale dei giornalisti Rai, il regolamento Ue vieta anche di ricorrere a “metodi coercitivi per fare pressioni su giornalisti e responsabili editoriali e costringerli a rivelare le loro fonti”. In conclusione, per acquisire dati e notizie riservati non sarà necessario ricorrere a spyware: basterà chiedere, e non potranno essere rifiutati. Uno scenario da incubo, che potrebbe diventare realtà. *Giurista Migranti. Il Cpr albanese sarà una “anticamera per le espulsioni” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 marzo 2025 Piantedosi: “Decisione condivisa con Bruxelles, che sulle politiche migratorie è d’accordo con noi”. Imigranti irregolari in Italia potranno essere portati anche nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Gjader in Albania, come in qualsiasi altro Cpr italiano. Al termine di un confronto durato due ore, il Consiglio dei ministri ha approvato ieri, tra gli altri interventi, anche il decreto legge con “Disposizioni urgenti per il contrasto dell’immigrazione irregolare”. Un decreto snello di un solo articolo, oltre a quello che disciplina l’entrata in vigore per rilanciare l’operazione Albania. Si tratta, ha spiegato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi durante la conferenza stampa, di un provvedimento “molto semplice”, che “interviene sulla legge di ratifica del protocollo”, siglato da Giorgia Meloni ed Edi Rama il 6 novembre 2023, ma “non sul contenuto del protocollo, rendendo possibile utilizzare la struttura già esistente anche per persone trasferite dall’Italia e non solo per quelle trasferite all’esito di procedure di soccorso in mare. Ciò ci permette l’immediata riattivazione di quel centro che non perde le sue funzioni già previste e non viene snaturato”. In pratica il presidio albanese verrà utilizzato “anche” come luogo di detenzione amministrativa dei migranti che dovranno essere espulsi, e non solo di quelli tratti in salvo nelle acque internazionali del Mediterraneo dalle navi militari, e provenienti dai cosiddetti “Paesi sicuri”, ai quali applicare le procedure accelerate di frontiera. Il decreto che sarà entro oggi in Gazzetta Ufficiale prevede pertanto che gli stranieri potranno rimanere lì per 18 mesi massimo, in attesa che i Paesi di origine li riaccolgano. Sul primo trasferimento dal Cpr di Gjader “non abbiamo ancora una data, ma stiamo già programmando un primo viaggio”, ha detto ancora il responsabile del Viminale. Che ha poi specificato: “Il centro era già previsto, non cambia nulla, è già attivo per 48 posti”, e si arriverà a “oltre a 140 a risorse già date. Non costerà un euro in più né per la realizzazione né per le espulsioni”. Non sarà dunque necessario modificare la destinazione d’uso, si è spiegato ai cronisti. Nella Relazione del Dl si parla anche di interlocuzione con la Commissione Ue: “Confermo che il contatto con l’Unione europea c’è stato - ha detto l’ex prefetto di Roma - e che il provvedimento non è stato ritenuto lesivo” dell’ordinamento eurounitario. “Noi tocchiamo la legge di ratifica, non il trattato tra Italia e Albania - ha chiarito -. Applicheremo il provvedimento convinti che si tratti di un provvedimento sostenibile da un punto di vista giuridico e poi vedremo”. Dopo il fallimento del Protocollo Italia- Albania, a causa di tre diverse decisioni dei giudici civili italiani, il governo sceglie dunque di correre ai ripari - ancora non si sa bene con che modalità - e di riempire quei luoghi rimasti vuoti in tutti questi mesi, senza attendere neanche il pronunciamento, da parte della Corte di Giustizia Ue, sulla “discrezionalità” del governo nell’individuare i Paesi di provenienza dei migranti come “sicuri” e, dunque, idonei al rimpatrio. Su quella decisione dei giudici di Lussemburgo, che dovrebbe arrivare a maggio, Piantedosi si è espresso così: “Siamo abbastanza fiduciosi, riteniamo di essere dalla parte giusta e, per come si sta componendo il nuovo quadro in Europa, confidiamo che questo sia l’ultimo step per la ripresa dell’espansione dei centri in Albania”. “Abbiate fiducia, i centri in Albania funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo”, disse a dicembre, nella giornata conclusiva di Atreju, Giorgia Meloni. Con il decreto passato ieri si tenta di dare seguito alle parole della premier. Ma non sono mancate le polemiche da parte delle opposizioni. Secondo il segretario di + Europa Riccardo Magi, “la cosa peggiore è che in Albania replicheranno il modello dei Cpr presenti sul territorio italiano, dove avvengono abusi, violenze, azzeramento del diritto e della dignità degli esseri umani. In più, nel caso dei Cpr in Albania, verrà cancellato il diritto di difesa effettiva per le persone che dall’Italia andranno a Gjader, con l’impossibilità di avere contatti diretti con i legali e con la difficoltà di un monitoraggio effettivo da parte di parlamentari e soggetti della società civile”, o del Garante dei detenuti. Secondo l’eurodeputato Alessandro Zan, responsabile Diritti nella segreteria nazionale del Pd, “il governo Meloni fa il gioco delle tre carte, e con un decreto legge trasforma le strutture in Cpr. Ma c’è un problema: la normativa europea attuale non prevede la possibilità di istituire Cpr in Paesi terzi. Le norme Ue su asilo e rimpatri sono chiare e si fondano sul rispetto dei diritti fondamentali, che Meloni e Piantedosi calpestano in nome della propaganda, buttando al vento quasi un miliardo di euro degli italiani”. Sempre per permettere un riavvio immediato delle “partenze” per l’Albania, il governo ha anche approvato la relazione al Parlamento con la validazione annuale dell’elenco dei 19 Paesi di origine dei migranti da ritenersi “sicuri” che era stato aggiornato nel 2024 stavolta con legge nazionale. Si tratta di Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia- Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Migranti. Albania, il Governo ci riprova: Gjader come Guantanamo di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 marzo 2025 Con il nuovo decreto possibili i trasferimenti degli “irregolari” dal territorio nazionale. Ma l’esecutivo non chiarisce come avverranno. “In parlamento il governo ha detto che nei centri c’è la nostra giurisdizione ma non è territorio italiano. La modifica è fuori dalla direttiva rimpatri”, afferma Riccardo Magi (+Europa). I Centri in Albania non sono territorio italiano, anzi sì. Ci mandiamo i richiedenti asilo per scoraggiare nuove traversate, anzi no. Se non basta il protocollo facciamo una legge di ratifica. Se i giudici non ci danno ragione trasferiamo la competenza. E ieri la giostra dell’accordo Roma-Tirana ha fatto un altro giro. Un ennesimo decreto per trasformare le strutture di Shengjin e Gjader nella Guantanamo italiana. Giusto due settimane dopo che la Guantanamo vera è stata svuotata da Trump: costava troppo ed era inutile. Proprio come la nostra. Evidentemente per Giorgia Meloni una photo opportunity con i centri albanesi finalmente pieni val bene l’ennesimo spreco di risorse e la costruzione di un meccanismo di trasferimenti andata/ritorno ancora più farraginoso e crudele del precedente. Il decreto varato ieri modifica in due punti la legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana per spedire oltre Adriatico gli stranieri “irregolari” dal territorio nazionale. Nel primo elimina l’avverbio “esclusivamente” dal comma che diceva “nelle aree del Protocollo possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale”. Nel secondo stabilisce che il trasferimento non fa venire meno il titolo di trattenimento, non produce effetti sulla procedura, né richiede una nuova convalida del giudice (quello competente sugli “irregolari” è il giudice di pace). Si tratta di un totale stravolgimento degli obiettivi iniziali con cui era stato pensato il progetto Albania. Fino a ieri in quei centri dovevano andare i richiedenti asilo provenienti dai “paesi sicuri” secondo una finzione giuridica che li considerava non ancora entrati nel territorio nazionale e dunque sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Per il governo questo meccanismo avrebbe avuto un effetto dissuasivo sulle traversate scoraggiando chi rischiava di finire a Gjader invece che in Italia. Sorprendentemente durante la conferenza stampa di ieri il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha detto: “Quando salgono sulla nave italiana usata per il trasferimento entrano in territorio nazionale”. Innegabile, se non fosse che fino a giovedì l’esecutivo aveva sostenuto il contrario. In attesa del verdetto della Corte di giustizia Ue sui “paesi sicuri”, da cui la maggioranza spera di avere il via libera per trattenere in Albania i richiedenti asilo, le modifiche permetteranno di trasferire oltre Adriatico anche gli “irregolari”. Ovvero i destinatari di provvedimenti di espulsione, già rinchiusi o da rinchiudere in un Cpr italiano. Come questo avverrà resta da capire. Teoricamente dovrebbero essere portati con una nave italiana che fa scalo a Shengjin, mentre sembra più complicata l’ipotesi di voli su Tirana e conseguente trasferimento via terra. Ma a questo punto è lecito aspettarsi qualsiasi cosa. In ogni caso, ha detto Piantedosi, si tratterebbe al massimo di 140 persone, la capienza del Cpr di Gjader adiacente ma distinto dalla struttura di trattenimento per i richiedenti. Queste persone sarebbero sottoposte a una disciplina diversa dalle procedure accelerate di frontiera che prevedono il trattenimento per massimo un mese: potrebbero restare “parcheggiate” in Albania fino a un anno e mezzo. Poi riportate in Italia e da lì rimpatriate, ammesso ci siano accordi con i paesi di origine. L’illogicità di tutto il meccanismo è evidente: se la deportazione è fattibile non serve attendere in Albania, altrimenti andare e venire è solo uno spreco economico (e umano). Ma tant’è. A monte resta un’ambiguità giuridica che potrebbe dar vita a contenziosi. L’avverbio “esclusivamente” non era stato inserito a caso, ma in seguito a un’interlocuzione con la Commissione Ue. Per non sancire l’illegittimità del protocollo ai sensi delle direttive procedure e accoglienza, l’istituzione guidata da Ursula von der Leyen era arrivata a una posizione pilatesca quanto spericolata: se i migranti non sono entrati nel territorio Ue non ci riguardano. I centri erano quindi stati presentati come luoghi di giurisdizione italiana in territorio albanese. Su questa base la Corte costituzionale di Tirana aveva dato il via libera all’accordo respingendo il ricorso dell’opposizione di Sali Berisha. “Ha stabilito che non c’è una cessione di sovranità. In caso contrario il protocollo avrebbe dovuto firmarlo il presidente della Repubblica Bajrom Begaj e non, come avvenuto, il primo ministro Edi Rama. Inoltre secondo la legge albanese sarebbe dovuto essere sottoposto a referendum”, spiega da Valona il giurista Erjon Hitaj. Ma se non è territorio italiano e dunque europeo, trasferire in Albania i migranti da uno Stato membro viola la direttiva rimpatri? In una risposta scritta dello scorso 5 febbraio il commissario agli Affari interni e immigrazione Magnus Brunner aveva detto che, in base a quella norma, si possono mandare in paesi terzi cittadini irregolarmente presenti sul suolo comunitario solo se quelli lo accettano “volontariamente”. Piantedosi ha vantato il via libera dell’Unione, ma sull’applicazione della norma ci sono pareri discordanti. Per l’avvocato Andrea Saccucci, esperto in diritti umani e diritto Ue, “la direttiva non regola questo caso. Siccome in quei territori l’Italia esercita una giurisdizione pressoché esclusiva non si tratta di un ostacolo insormontabile per il piano del governo, che ha ben altri problemi”. Di diverso avviso la giurista Enrica Rigo: “È pacifico che quello non è territorio italiano, sebbene sovranità e giurisdizione siano concetti in parte sovrapponibili. In ogni caso il trasferimento violerebbe la direttiva rimpatri e l’articolo 13 della Carta, se avvenisse senza una nuova convalida del giudice sarebbe palesemente incostituzionale”. Dello stesso avviso il segretario di +Europa Riccardo Magi: “In parlamento il governo ha sempre detto che nei centri in Albania c’è la nostra giurisdizione ma non è territorio italiano. La modifica è fuori dalla direttiva”. Migranti. Il decreto Albania è illegale: il diritto europeo non autorizza a gestire un Cpr fuori dall’Ue di Gianfranco Schiavone L’Unità, 29 marzo 2025 Il diritto europeo non autorizza un paese membro a collocare e gestire uno proprio Cpr al di fuori del territorio dell’Ue. Gli stranieri trattenuti devono poter incontrare familiari, avvocati, autorità consolari, ong. I parlamentari come il garante dei detenuti, devono poter effettuare visite ispettive. La modifica della legge 14/24 di ratifica del Protocollo tra Italia e Albania stravolge del tutto l’originaria finalità del Protocollo, prevedendo che non siano portate in Albania solo persone soccorse in acque internazionali. Il nuovo decreto varato ieri dal governo introduce la possibilità di utilizzare la struttura del centro di Gjader, come un qualsiasi altro Cpr italiano trasportandovi stranieri che nulla hanno a che fare con le operazioni di soccorso in mare ma si trovano in Italia e il cui trattenimento era già in atto. Il Governo afferma che non è necessario modificare il Protocollo tra Italia ed Albania ma ciò equivale a rivendicare una sorta di truffa delle etichette dal momento che le finalità del Protocollo vengono profondamente modificate. Il dibattito parlamentare dovrà tenere in massimo conto tale distorsione. Può uno Stato membro dell’Unione Europea collocare uno straniero di cui è stata già decisa l’espulsione coattiva da attuarsi attraverso il trattenimento amministrativo in una struttura ubicata fuori dal proprio territorio, in un paese terzo, assicurando comunque il rispetto delle procedure e degli standard previsti dal diritto europeo sugli allontanamenti forzati? Può quindi decidere di aprire una tale tipologia di centro oggi in Albania e domani magari altrove, ad esempio nello Zimbabwe, o in Nuova Guinea, o magari negli USA? Sono queste in fondo le domande cui va data una risposta per valutare la legittimità o meno della decisione assunta dal Governo italiano. Come la protezione internazionale, anche la materia dei rimpatri dei cittadini stranieri che non sono in regola con le norme sul soggiorno in uno stato membro dell’Unione è regolata (seppure in modo ben più scarno rispetto al diritto di asilo) dal diritto dell’Unione Europea sulla base della Direttiva 115/08/CE oggetto di una proposta di riforma presentata pochi giorni fa dalla Commissione Europea e che ho analizzato sull’edizione dell’Unità del 13 marzo 2025. Nella Direttiva 115/08/CE sui rimpatri per “allontanamento” si intende “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro” (art 3 par. 5) e per “rimpatrio” si intende “il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente” (par.3). Il rimpatrio normalmente si conclude nel paese di origine, ma secondo la Direttiva potrebbe concludersi anche in un paese terzo che svolge la funzione di “paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese” (par.3 seconda parte). In tale caso il paese terzo si assume interamente la responsabilità della condizione giuridica della persona espulsa e il processo di rimpatrio realizzato dallo Stato membro dell’Unione si conclude con l’allontanamento della persona in tale Paese terzo. Non sembra, a parere di chi scrive, che il diritto dell’Unione autorizzi in alcun modo la collocazione e la gestione da parte di un Paese UE di una propria struttura di trattenimento al di fuori del territorio UE. Non si tratta di dare del testo della norma europea un’interpretazione meramente letterale bensì sostanziale e teleologica: ben lontano dalle esasperazioni politiche che agitano il nostro oscuro presente, il diritto UE non ha finora mai contemplato la possibilità che centri di trattenimento europei possano venire aperti a piacimento in giro per il mondo e prevede che il trattenimento per eseguire l’espulsione dal territorio di uno Stato membro dell’Unione può essere applicato solo come ultima ratio, se non “possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive” e “soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento” (art. 15 par. 1), inteso, come sopra indicato, come il trasporto fisico fuori dal territorio UE. “Il trattenimento deve essere il più breve possibile, deve essere periodicamente riesaminato per valutare in concreto se ci sono le ragioni per proseguirlo e se non c’è alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi … il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata” (art. 15 par. 4). Gli stranieri trattenuti devono avere la possibilità “di entrare in contatto, a tempo debito, con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti” (art. 16 par. 2) nonché con organizzazioni non governative di tutela, le quali “hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea” (art. 16 par.4). L’accesso a tali diritti deve essere effettivo, non può solamente essere sancito ma non essere concretamente esercitabile, come avverrebbe in caso di strutture ubicate al di fuori del territorio dello Stato membro dell’UE. Il familiare non può in concreto incontrare chi è trattenuto se il centro di detenzione si trova in Zimbabwe o in Kazakhistan e sarebbe del tutto privo di ogni logica sostenere che l’Albania non presenta problemi perché in fondo è geograficamente vicina, giacché l’effettività dell’esercizio dei diritti garantiti ai trattenuti non è questione di chilometraggio. A ben guardare neppure le visite ispettive svolte da parlamentari e le stesse funzioni di monitoraggio e controllo svolte dal Garante nazionale per le persone private della libertà personale potrebbero essere svolte in modo efficace in strutture ubicate al di fuori del territorio nazionale. Nei centri di detenzione ubicati al di fuori degli Stati dell’Unione non risulta dunque possibile attuare il trattenimento dei trattenuti “nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali (considerando n. 17) e semmai ben si può ritenere che le persone che vi verrebbero rinchiuse assomiglierebbero ad ostaggi di un potere arbitrario”. Ma, si potrebbe obiettare, l’esistenza di un Cpr all’interno del centro polifunzionale di Gjader non era già prevista proprio dalla stessa legge 14/24 di ratifica del Protocollo tra Italia ed Albania che viene modificata, anche se limitatamente ai richiedenti asilo trasportati in Albania dopo il soccorso in acque internazionali e la cui domanda di protezione era stata respinta? Certamente sì, ma ciò non vuol dire che si trattasse di per sé di una previsione legittima. Il contenzioso giudiziario sui centri in Albania si è sviluppato attorno all’idea (di cui lo stesso Governo ha celebrato il funerale, pur negando di averlo fatto) che fosse possibile trasportare coattivamente in Albania il maggior numero possibile di persone soccorse in acque internazionali che chiedono asilo all’Italia, applicando un’interpretazione del tutto ardita della nozione di paese di origine sicuro, e comunque prevedendo un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo nella parte del centro di Gjader destinata ad hotspot. Di come la vicenda si sia evoluta ne ho scritto più volte e non ci ritorno; mi limito ora solo ad osservare che la nuova decisione di trasformare parte o tutta la struttura di Gjader in un centro di trattenimento per il rimpatrio apre a nuove e gravi questioni giuridiche di conformità con il diritto dell’Unione che finora erano rimaste quiescenti. Stati Uniti. Pena di morte per asfissia, prima esecuzione con gas azoto dopo 15 anni di moratoria di Sergio D’Elia L’Unità, 29 marzo 2025 Il 18 marzo 2025, dopo una pausa di 15 anni, lo Stato americano della Louisiana ha ripreso le esecuzioni e per la prima volta ha usato il metodo della morte per asfissia tramite il gas azoto. È stata la quinta volta negli Stati Uniti dopo quattro esecuzioni con lo stesso sistema avvenute tutte in Alabama. Jessie Hoffman Jr è stato dichiarato morto alle 18:50 ora locale presso il penitenziario di Angola, dopo che l’azoto puro era fluito per 19 minuti nel suo corpo attraverso una maschera facciale a tenuta stagna. Il rito funebre della morte per asfissia è avvenuto in una camera piastrellata di bianco, illuminata di luce al neon e asettica come una sala operatoria. Il condannato è stato steso su una barella imbottita di pelle nera. Cinque fila di cinghie hanno avvolto il suo corpo. Dalla maschera che gli ha tappato la bocca non poteva filtrare nemmeno un alito di ossigeno da respirare, ma il suo nemico mortale, l’azoto per asfissiare. Appena sotto la testa due braccia aperte del lettino lo hanno fatto sembrare una croce. E, così, dopo duemila anni, da simbolo di pace e amore universale, la “croce” è tornata a essere, come al principio della storia, lo strumento tremendo di un supplizio capitale. I testimoni dell’esecuzione hanno detto che Hoffman sembrava tremare involontariamente o avere “qualche attività convulsiva”. Ma i tre testimoni che hanno parlato, tra cui due membri dei media, hanno concordato che, in base al protocollo e a quanto appreso sul metodo di esecuzione, nulla sembrava fuori dall’ordinario. La reporter Gina Swanson ha descritto l’esecuzione dal suo punto di vista come “clinica” e “secondo protocollo”. Un funzionario della prigione l’ha definita un’esecuzione “impeccabile”. Nessuno dei presenti che hanno commentato il fatto, ha considerato l’ipotesi che sia l’esecuzione capitale in quanto tale il peccato originale, il danno che danna per sempre non solo l’autore del delitto ma anche l’esecutore del castigo, con ciò tradendo l’umanità di tutti e il fine nobile del rendere giustizia. Pare che Hoffman abbia rifiutato un ultimo pasto sul quale in America spesso si favoleggia prima di ogni esecuzione. Non sappiamo se prima di entrare nella camera della morte per asfissia gli sia stato concesso, prima dell’azoto, di aspirare il fumo di un’ultima sigaretta che non si nega mai a un condannato a morte. Una volta legato al lettino a forma di croce, Hoffman ha rifiutato di rilasciare una dichiarazione finale. Forse avrà solo pensato: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Gli avvocati di Hoffman si erano rivolti alla Corte Suprema degli Stati Uniti nella speranza di fermare l’esecuzione. Avevano sostenuto senza successo che la morte per asfissia provocata dall’azoto puro viola l’Ottavo Emendamento della Costituzione americana, il quale vieta le punizioni crudeli e inusuali. In un ultimo disperato ricorso, i suoi difensori hanno anche sostenuto che il metodo avrebbe violato anche la libertà di Hoffman di praticare la sua religione, in particolare la respirazione buddista e la meditazione nei momenti che precedono la morte. La Corte Suprema degli Stati Uniti, come Ponzio Pilato, se n’è lavata le mani e ha deciso 5 contro 4 di non bloccare l’esecuzione con l’azoto sul letto a forma di croce. Hoffman è morto a 46 anni. Ne aveva 18 quando a New Orleans nel 1996 ha ucciso Mary “Molly” Elliott che di anni ne aveva 28. Da allora ha trascorso il resto della sua vita in una prigione della Louisiana rurale nel sud-est dello Stato, dove è stato giustiziato. Il procuratore generale della Louisiana Liz Murrill ha detto che si aspetta che almeno quattro persone siano asfissiate quest’anno nello Stato. Dopo l’esecuzione di Hoffman, ha affermato che la giustizia era stata ritardata per troppo tempo e, dopo quello degli uomini, ora Hoffman “avrebbe affrontato il giudizio finale, il giudizio davanti a Dio”. Al procuratore generale Murrill andrebbe ricordato che il Dio dell’Antico Testamento pose su Caino un segno perché non lo toccasse chiunque l’avesse incontrato. Alla cattolicissima Liz andrebbero ricordate anche le parole di Papa Francesco: “Quando si usa violenza non si sa più nulla su Dio, che è Padre, e nemmeno sugli altri, che sono fratelli. Si dimentica perché si sta al mondo e si arriva a compiere crudeltà assurde”. La crudeltà assurda di chi ha commesso un male irreparabile, quello del reato, ma anche quella di chi a quel male risponde con un male opposto ed egualmente irreparabile, quello della pena.