Le nuove celle nei container ci costano 83mila euro a detenuto e sono inutili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2025 Il piano da 32 milioni del ministero della Giustizia prevede 384 posti distribuiti in 9 istituti. Una goccia nel mare del sovraffollamento che al momento conta 62.165 detenuti per una disponibilità di 51.323 posti. Il ministero della Giustizia qualche giorno fa ha annunciato l’avvio di una gara da 32 milioni di euro per l’ampliamento di nove istituti penitenziari mediante l’installazione di moduli detentivi prefabbricati. Nel gergo tecnico, si parla di “container”. L’obiettivo dichiarato è contrastare il sovraffollamento, con una procedura ristretta gestita da Invitalia che prevede la manifestazione d’interesse delle imprese entro il 10 aprile 2025. Tuttavia, un’analisi dettagliata del progetto rivela che i nuovi posti letto previsti sono appena 384, una goccia nel mare rispetto ai 62.165 detenuti attuali e ai 51.323 posti regolamentari (molti dei quali inagibili). Non solo: se mai venisse realizzato, dal documento emergerebbe uno stratosferico costo di 83.333 euro a posto letto, equivalente a quello di un piccolo appartamento in una cittadina italiana. Il piano di ampliamento delineato nel documento tecnico di Invitalia prevede l’installazione di 16 strutture denominate “Blocchi Detenzione”, ciascuna progettata per accogliere 24 detenuti. La distribuzione geografica degli interventi segue una logica tripartita: nel Nord Italia verranno realizzati 5 blocchi (120 posti letto) tra gli istituti di Alba, Milano e Biella; il Centro-Nord ospiterà 6 blocchi (144 posti) tra L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera; mentre il Centro-Sud vedrà l’aggiunta di 5 blocchi (120 posti) a Frosinone, Palmi e Agrigento. Con un costo di 2 milioni di euro per ogni singolo blocco, l’investimento totale ammonta a 32 milioni, destinati a moduli prefabbricati in calcestruzzo trasportabili, dotati non solo di celle e servizi igienici, ma anche di spazi comuni come palestre e biblioteche, oltre a impianti di sicurezza avanzati. I lavori, secondo le previsioni, dovrebbero iniziare a maggio 2025 con una durata stimata di 240 giorni (circa 8 mesi), ma i collaudi definitivi slitterebbero almeno al 2026, delineando tempi dilatati per un’operazione presentata come urgente. Spendere tanto per ottenere poco - Dalle specifiche tecniche di Invitalia emerge un dato emblematico: ogni posto letto nei nuovi moduli costerà allo Stato 83.333 euro, quasi quanto il prezzo di un monolocale. Il progetto, finanziato con 32 milioni, prevede la costruzione di 16 blocchi prefabbricati (24 posti ciascuno) per un totale di 384 posti aggiuntivi distribuiti in nove carceri. Una spesa esorbitante, considerando che l’intervento richiederà oltre 8 mesi di lavori, con collaudi non prima del 2026. I numeri della Relazione tecnico illustrativa preliminare di Invitalia parlano chiaro: 2 milioni a blocco per strutture in calcestruzzo trasportabile dotate di celle, servizi, spazi comuni e sicurezza; 32 milioni il totale per i 16 blocchi, suddivisi in tre lotti tra Nord, Centro-Nord e Centro-Sud. Il costo medio di 83.333 euro a posto letto (calcolato dividendo 2 milioni per 24 detenuti) solleva interrogativi sull’efficienza dell’investimento, specie se paragonato ad altre soluzioni abitative. Con la stessa cifra, ad esempio, si potrebbero acquistare 640 monolocali da 50.000 euro l’uno (prezzo medio in tante piccole cittadine italiane), offrendo un alloggio a oltre 1.500 persone. Nel contesto carcerario, invece, i 32 milioni serviranno per 384 detenuti. I numeri sono ancora più critici incrociando i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: 62.165 detenuti a fronte di 51.323 posti ufficiali, molti inagibili. Anche ipotizzando una capacità effettiva di 51.323 posti, l’aggiunta di 384 posti porterebbe il totale a 51.707, lasciando un deficit di 10.458 posti. Il documento specifica che i blocchi sono “trasportabili e smontabili”, sollevando dubbi sulla durabilità. Sebbene dotati di impianti avanzati (videosorveglianza, climatizzazione), i moduli replicano criticità delle carceri tradizionali: celle da 4 posti, spazi comuni ridotti, cortili limitati. Una soluzione emergenziale, non strutturale, rischiando di diventare definitiva senza piani a lungo termine. L’intervento, se realizzato, darebbe un lieve sollievo a singole strutture, ma non altererebbe il quadro nazionale. Con 384 posti aggiuntivi, il tasso di sovraffollamento rimarrebbe al 123% (62.165 detenuti vs 51.707 posti), vicino alla soglia che provocò la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Servirebbero politiche coraggiose, come richiesto dal deputato Roberto Giachetti (Italia Viva) e dall’associazione Nessuno Tocchi Caino, allineate alle raccomandazioni di Antigone, dell’osservatorio delle camere penali e dei garanti territoriali: potenziamento delle misure alternative, ampliamento della liberazione anticipata, amnistia. Si aggiunge il nodo delle risorse umane. Come ha dichiarato al Il Dubbio Gennarino De Fazio, segretario della UilPa Polizia penitenziaria: “Ma, al di là dei moduli prefabbricati, con quale personale?”. I telefoni entrano illegalmente in carcere soprattutto se i detenuti sono isolati dal mondo di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 28 marzo 2025 Viviamo in una società in cui Internet è onnipresente, ma in carcere non è concesso. Questo rende gli istituti di pena uno spaccato di pre-modernità, anche laddove non esistano o sussistano ragioni di sicurezza. I traffici di droga e telefoni nei penitenziari porta alcuni a chiedere più restrizioni per i detenuti. Tuttavia se si concedesse loro la possibilità di telefonare più spesso ai parenti o usare Internet si potrebbero prevenire queste illegalità. E ci si potrebbe concentrare su altre questioni. Il carcere ha bisogno di riforme. Lo scorso 25 febbraio la procura di Torino ha dato conto di un’indagine su 116 persone - sia già detenute, sia libere - per un traffico di sostanze stupefacenti all’interno del carcere cittadino e per l’ingresso di telefoni cellulari. Non si tratta della prima volta che ciò avviene. Capita diverse volte di imbattersi in sequestri di questo tipo negli istituti di pena. Fatti che vengono spesso utilizzati da alcuni per chiedere maggiori chiusure alla vita detentiva e maggiori restrizioni ai beni che da fuori possono entrare dentro, cosa avvenuta già in molti contesti. Ad esempio, in alcuni carceri, i familiari dei detenuti non possono portare ai loro cari certi tipi di cibo o di prodotti, oppure possono farlo presentandoli in modi specifici. Non tutti hanno accettato le disposizioni di buon grado. In qualche penitenziario siciliano sono avvenute delle proteste contro il divieto di introdurre capi di vestiario pesanti, nonostante siano indispensabili per affrontare l’inverno in strutture dove manca il riscaldamento. In altri casi i detenuti si sono lamentati contro una norma in base alla quale si possono portare formaggi e salumi già affettati: è un modo per evitare che nascondano altro, ma in questo modo gli alimenti deperiscono prima. I telefoni in carcere, non solo per le relazioni criminali, ma soprattutto familiari - La questione dei telefoni in carcere, invece, non può essere trattata in maniera separata dallo stato complessivo del sistema penitenziario italiano, partendo da una domanda tutt’altro che retorica: abbiamo un problema di legalità negli istituti di pena italiani? Verrebbe da rispondere di sì. Il “traffico” di cellulari è solo una delle dimostrazioni, che peraltro ci interroga anche sul perché le persone rischino una nuova indagine e una possibile nuova condanna. In alcuni casi, dicono i giudici, i telefoni sono utilizzati per mantenere relazioni criminali con l’esterno. Ma in altri - e questo viene sottolineato, ad esempio, anche nel comunicato della procura di Torino - servono soltanto a mantenere le relazioni familiari. Fino a poco tempo fa, con pochissime eccezioni, all’interno degli istituti di pena le persone detenute avevano a disposizione dieci minuti di telefonate a settimana. Dopo una serie impressionante di suicidi avvenuti nell’estate del 2023, il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva promesso un intervento e, dopo diversi mesi, si è passati da quattro a sei telefonate al mese (ognuna di dieci minuti). Un aumento minimo che certo non cambia la situazione di isolamento dei detenuti dai loro affetti. Estendere l’uso delle telefonate, anche a livello quotidiano, almeno per i detenuti di media sicurezza già sarebbe un ottimo modo per contrastare l’illegalità e ridurre il numero di cellulari da intercettare e sequestrare. Poi c’è ancora un altro tema. Sempre più spesso capita su alcuni social media, in particolare Instagram o TikTok, di vedere immagini riprese dentro le celle. Anche in questo caso, l’intento non è di certo criminale. Viviamo in una società in cui Internet è onnipresente, ma in carcere non è concesso. Questo rende gli istituti di pena uno spaccato di pre-modernità, anche laddove non esistano o sussistano ragioni di sicurezza tali da consigliare una stretta nell’accesso alla rete. Affrontare queste due questioni permetterebbe di concentrarsi di più nei controlli sui circuiti detentivi più “a rischio”, tentando di prevenire l’ingresso dei telefoni che nelle carceri, come ci raccontano le cronache riportate dalla stampa, sono introdotti a volte portati dai parenti delle persone detenute, a volte con droni, ma a volte anche da agenti penitenziari e altri operatori. Oppure utilizzando peraltro strumenti già in uso, come quelli che permettono di segnalare l’arrivo di droni e intercettarli. Ma, tornando alla domanda della legalità complessiva del sistema penitenziario, la questione del “traffico” di cellulari è solo una parte del tutto. Del resto, un luogo comune sul carcere agitato da più parti è legato all’essere una “fabbrica del crimine”. È un luogo comune che ha anche un’attinenza con la realtà se si guarda ai dati della recidiva, sempre prossima a circa il 70 per cento: su dieci persone che finiscono in cella, sette di loro una volta fuori tornano a commettere reati, con buona pace della finalità risocializzante della pena. Del resto è difficile costruire percorsi di reinserimento sociale in un luogo che ormai da venti anni non rispetta le norme sulla capienza, con tassi di sovraffollamento oscillanti, ma costanti: ci sono sempre più persone che posti disponibili. Che il sistema manchi di legalità, del resto, lo certificano anche i tribunali di sorveglianza che dal 2018 al 2022, in cinque anni, hanno condannato 19.570 volte lo Stato a risarcire le persone detenute o riconoscere loro sconti di pena proprio per i trattamenti “inumani e degradanti” a cui sono stati sottoposti. La legalità viene meno anche di fronte ai tanti procedimenti per violenze e torture cui sono soggetti decine di agenti penitenziari. Da quando, nel 2017, è stato introdotto il reato di tortura, è stato utilizzato quasi soltanto nei confronti di chi opera in carcere, a segnalare evidentemente un problema che riguarda questo specifico luogo in cui c’è una tensione sempre presente, come testimoniano anche le aggressioni di alcuni detenuti verso altri detenuti o verso gli stessi operatori. Per questo sarebbe un errore trattare il tema dell’introduzione dei telefoni dimenticando il contesto. Il carcere ha bisogno di riforme, di aperture, di superare incomprensibili preclusioni. L’intero sistema ha bisogno di essere riportato nella legalità per garantire alle persone detenute il rispetto dei loro diritti, così come i diritti di chi nei penitenziari lavora e costruire una maggiore sicurezza collettiva. *Responsabile comunicazione dell’Associazione Antigone Carcere: la strumentale contrapposizione di una occasione mancata camerepenali.it, 28 marzo 2025 La seduta straordinaria sull’emergenza carceraria tenutasi alla Camera dei Deputati il 20 marzo scorso si è svolta in un clima davvero surreale. Come se il continuo ripetersi di eventi drammatici all’interno delle carceri non ci appartenesse. L’occasione di una fissazione, a tamburo battente, da parte del presidente della Camera, su richiesta dei capigruppo di opposizione, di una seduta straordinaria sul diffuso degrado, oramai cronico, della vita in carcere, aveva davvero acceso uno spiraglio, pur flebile, di speranza. Il dibattito, però, è stato poco proficuo, molto rissoso, dimostrando, ancora una volta, l’assoluta insensibilità dei parlamentari, a parte le solite mosche bianche, rispetto al dramma che vivono i nostri detenuti. Scarsa conoscenza - quando non distorta - delle reali condizioni diffuse sul territorio nazionale, vicinanza di facciata non solo verso chi si trova ristretto in condizioni disumane, verso i loro familiari, ma soprattutto verso gli operatori, il personale, specie di polizia penitenziaria, tutti abbandonati ad un tragico destino. Eppure, senza soluzione alcuna di continuità con l’anno appena trascorso, i numeri di questi soli 80 giorni del nuovo anno offrivano già ai nostri rappresentanti uno spaccato drammatico delle condizioni, purtroppo di morte, in cui si trovano gli istituti penitenziari italiani. Alla data della seduta eravamo già a 21 suicidi, di colpo oggi diventati 24. Il 95% avvenuto in istituti con un elevato tasso di sovraffollamento (minimo 115%, massimo 212%). Il 79% in sezioni chiuse o in isolamento. Il 52% in custodia cautelare. 70 morti complessivi “in e di” carcere, il numero più alto degli ultimi cinque anni. 1.131 atti di aggressione, 2.413 atti di autolesionismo, 408 tentativi di suicidio, 2.412 manifestazioni di protesta individuale, 281 di protesta collettiva. Per non parlare del cronico sovraffollamento, con 62.165 (al 28 febbraio) detenuti presenti a fronte di una capienza effettiva di 46.890 posti. Circa 16.000 detenuti in eccesso. Dinanzi a numeri così impietosi, ci saremmo aspettati un dibattito ricco di profonda riflessione, di spunti, proposte e magari vibranti proteste. E invece, abbiamo assistito ad uno stucchevole ed ignobile gioco delle parti. Con le opposizioni, tranne pochissime lodevoli eccezioni, pronte a rinfacciare alla maggioranza la responsabilità dell’attuale degrado, dimenticando che la vergognosa e disumana condizione carceraria affonda le proprie radici in tempi lontani e che tutte le maggioranze, di qualunque colore, alternatasi negli anni al governo del Paese, hanno sulle proprie spalle un pesante fardello di responsabilità politica. Con i rappresentanti della maggioranza, a ranghi ridotti, pronti ad erigere uno scudo blindato attorno al Governo, al Ministro e ai Sottosegretari della Giustizia, nonostante la loro colpevole inerzia, così deformando, non sappiamo quanto in buona fede, la realtà delle carceri, presentata come l’Eden della rieducazione e della sicurezza o addirittura volgendo le loro apparenti attenzioni ai soli detenuti in custodia cautelare. Gli uni e gli altri, consapevoli di dover parlare solo alle loro fazioni, sono giunti, in ragione delle rispettive tifoserie, in maniera schizofrenica a votare contro talune affermazioni e proposte, sol perché contenute nella mozione degli avversari, per poi ribadirle nella propria mozione. L’ennesima dimostrazione, purtroppo, di come anche il carcere, nonostante il suo odore di morte, venga utilizzato come strumento di lotta politica. L’ennesimo schiaffo agli oltre 62.000 detenuti, ai 31.000 agenti di polizia penitenziaria, agli oltre 1.000 educatori, ai 4.000 funzionari amministrativi, alle centinaia di migliaia di familiari che ruotano attorno al carcere, ai principi fondamentali della nostra civiltà giuridica. Un’occasione sprecata, bruciata sull’altare della contrapposizione e della propaganda a buon mercato, mentre invece c’è il bisogno sempre più crescente di una visione davvero costituente, per recuperare il terreno della legalità costituzionale, smarrito oramai da troppo tempo nelle nostre ignobili prigioni. La Giunta dellUCPI L’Osservatorio Carcere UCPI Suicidi in carcere, l’appello dei cappellani del Triveneto lavitacattolica.it, 28 marzo 2025 “Strategie e risorse per fronteggiare la crisi attuale e mantenere la funzione rieducativa”. L’allarmante numero dei suicidi in carcere e la grave situazione di sovraffollamento delle strutture detentive è al centro di un appello dei cappellani delle carceri del Triveneto, riuniti al Centro Pastorale di Zelarino (Venezia) il 26 marzo 2025 insieme all’arcivescovo di Gorizia Carlo Maria Redaelli, incaricato per la pastorale penitenziaria del Triveneto. Una preoccupazione comune a tutti gli istituti di questo territorio, che induce i cappellani a rinnovare in modo unanime l’appello alla comunità ecclesiale e civile e alle istituzioni perché siano messe in atto tutte le strategie possibili, con risorse umane ed economiche e soluzioni giuridiche alternative, per fronteggiare in modo adeguato e duraturo la crisi attuale del sistema penitenziario. Tali iniziative, se promosse in modo sinergico, avrebbero - a detta dei cappellani - un sicuro effetto positivo sia sulla popolazione carceraria, spesso ristretta in situazioni limite, sia sul personale, sempre più oberato da molteplici emergenze. I cappellani rilanciano le parole e l’invito di papa Francesco affinché “si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria così che la vita sia sempre degna di essere vissuta”. Tali parole, unite a quelle del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (“C’è bisogno di una risposta al sovraffollamento carcerario e al numero dei suicidi in carcere ed è indispensabile affrontare tutto questo con urgenza”), esortano tutti, secondo i cappellani delle carceri del Triveneto, all’impegno affinché il carcere mantenga la propria funzione rieducativa. Un tema e un ambiente, quello del carcere, sul quale la Chiesa di Trento sta investendo molte energie, sia sul fronte della sensibilizzazione comunitaria sia con una presenza stabile come cappellano di un prete diocesano, don Mauro Angeli (nella foto) e una costante presenza dei volontari Caritas attivi con il “progetto carcere” sostenuto anche dai fondi dell’8Xmille. Edoardo Albinati: “Il carcere afflittivo di oggi è puro autolesionismo” di Paolo Morelli Corriere di Torino, 28 marzo 2025 “Le carceri dovrebbero essere amministrate meglio, soprattutto facendo ricorso alle forme alternative alla detenzione, che resta una extrema ratio”. C’è quella vecchia e mai sopita percezione che vorrebbe il carcere come dimensione esclusivamente punitiva, quando l’obiettivo è la rieducazione prima del reinserimento in società. La realtà delle carceri italiane mostra condizioni difficili, sovraffollamenti, a volte situazioni lontane dalla dignità. Di questo tema delicato parlerà Biennale Democrazia con una serie di appuntamenti, tra cui uno in carcere e poi l’evento “Vagli a spiegare che è primavera. Il carcere tra giustizia e vendetta”, oggi alle 16.30 al Teatro Carignano di Torino. All’incontro, condotto dalla docente di Diritto costituzionale Valeria Marcenò, interverranno la scrittrice Daria Bignardi e lo scrittore, per 29 anni docente di Lettere a Rebibbia, Edoardo Albinati. Ora in libreria con “Figli dell’istante” (Rizzoli), negli anni ha tenuto incontri in una quindicina di carceri in Italia. Albinati, il carcere è visto come punitivo o rieducativo? “Dovrebbe essere anche rieducativo, ma nella sua sostanza è afflittivo. La carcerazione com’è adesso non prevede forme di risocializzazione, a parte qualche iniziativa che viene quasi sempre dall’esterno, come ad esempio la scuola”. Cosa dice il carcere della nostra società? “Rispetto agli anni 90, quando ho iniziato a lavorarci, verifico una stagnazione che è poi lo specchio della nostra società: se le cose rimangono sempre uguali, vuol dire che peggiorano. Peraltro gli slogan “chiudiamoli e buttiamo la chiave” o “lasciamoli marcire in galera” sono autolesionismo allo stato puro. Le persone detenute prima o poi tornano libere e senza bisogno di esercitare nessun “buonismo” dovrebbe convenire alla società stessa che non tornino peggiori di prima. Infine, coloro che fanno della legalità la propria bandiera dovrebbero fare in modo che legalità ci sia anche all’interno del carcere”. Le carceri sono sovraffollate, dovremmo costruirne altre o trovare pene diverse dalla detenzione? “Dovrebbero essere amministrate meglio, soprattutto facendo ricorso alle possibili forme alternative alla detenzione, che resta una extrema ratio. Le prigioni in Italia sono tutte diverse, un po’ come i nostri ospedali: a un malato può capitare di essere assistito in maniera magnifica o di finire parcheggiato in un corridoio, dipende da come caschi. E puoi cascare male. Qualche anno fa, alcuni detenuti crearono ironicamente una “Guida Michelin” delle carceri italiane, dove al posto delle stelle o dei cappelli avevano messi dei manganelli. Lascio intendere il perché”. Da insegnante in carcere, posso chiederle che rapporto si crea con i detenuti? “Talvolta si creano rapporti duraturi, nella mia scuola il corso è di cinque anni. Tu cerchi di svolgere il tuo lavoro, ma vista la carenza di tutto il resto a volte ti trovi a esercitare altre funzioni, che però non devono mai prevalere su quella principale. Diventi assistente sociale, psicologo, confessore”. In passato ha detto che il vantaggio della scuola in carcere è che non ci sono le famiglie. Perché? “La pressione asfissiante delle famiglie è una delle piaghe della “scuola esterna”. In galera non averle tra i piedi è uno dei pochi vantaggi, insieme all’assenza dei telefoni cellulari. Naturalmente ci sono infiniti ostacoli, è insomma una scuola di frontiera, con mezzi limitati. Io trovo però che siano ben più coraggiosi quelli che insegnano in una periferia urbana qualsiasi. Per quanto duro, l’ambiente carcerario è al riparo da molti guai della scuola di fuori”. I detenuti cosa dicono? “Quando davo come esercizio la descrizione di una giornata in prigione, i loro resoconti erano monotoni: c’era ben poco da raccontare, una scansione di ore vuote, sempre uguali. La verità è che i detenuti sono impegnati a sopravvivere, semmai sono curiosi, anzi, affamati di sapere qualcosa della vita di fuori. Cercano di assorbirla per interposta persona”. Giustizia, anche le toghe di destra non mediano più con Nordio di Francesco Grignetti La Stampa, 28 marzo 2025 Scontro totale con il Governo al convegno di Magistratura Indipendente. I politici promettono modifiche successive alla riforma ma non convincono. Se era un tentativo di compromesso nel perimetro vicino al centrodestra, è fallito. La corrente più moderata delle toghe italiane, infatti, Magistratura Indipendente, forte di un successo nelle recenti elezioni interne, due giorni fa ha chiamato attorno a un tavolo i capicorrente della magistratura più alcuni politici influenti che masticano davvero di giustizia. Un’occasione lontana dalle luci della ribalta per parlarsi a cuore aperto. Ma l’incontro è servito solo a prendere atto che le distanze sono incolmabili. Restano nell’aria le parole definitive del leader di MI, Claudio Galoppi: “Questa separazione delle carriere è una riforma sgangherata tecnicamente, ipocrita sui mezzi e sui fini, e punitiva. E netta l’impressione che sia stata impostata come regolamento di conti tra politica e giustizia”. L’incontro di mercoledì prevedeva un parterre bipartisan con i senatori Giulia Bongiorno (Lega) e Pierantonio Zanettin (Forza Italia) più le deputate Maria Elena Boschi (Italia viva) e Debora Serracchiani (Pd). I veri interlocutori, ovviamente, erano i due esponenti del centrodestra. Era da essi che quelli di Magistratura indipendente, a cominciare da Galoppi e dalla presidente Loredana Micciché, volevano capire se ci sono ancora margini di compromesso. Tanto più che tutti avevano letto le parole sfuggite al sottosegretario Andrea Delmastro, meloniano tra i più puri, che nei giorni scorsi ha espresso seri dubbi su questa riforma. Ma sono stati gelati sul nascere. Zanettin ha rimarcato che la riforma si farà, rapidamente, e che non si cambia di una virgola. Anche Bongiorno ha chiuso a ogni modifica in corsa. Se mai ci sarà qualche aggiustamento, hanno assicurato i due senatori del centrodestra, si faranno a riforma costituzionale approvata - quindi dopo che si sarà tenuto anche il referendum - attraverso le leggi ordinarie di attuazione. Ma ciò è appunto quello che Magistratura indipendente sperava di non sentire. Tutti hanno provato a mostrarsi dialoganti, compreso il nuovo presidente dell’associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi, che esce dalle file della stessa corrente: “Diciamo spesso tra noi che abbiamo bisogno di recuperare immagine e credibilità. La via è il dialogo interno tra noi ed esterno da noi”. I magistrati della corrente moderata, spesso accusati dai colleghi di “collateralismo” con il governo Meloni, si sono però resi conto che c’è poco da dialogare. Ogni ipotesi di modifica alla riforma è rinviata dalla maggioranza agli anni prossimi, E Giulia Bongiorno ha dato questa spiegazione: “Parlando più da avvocato che da politico - ha detto la presidente della commissione Giustizia del Senato - il dato al momento irreversibile è il crollo di fiducia da parte dei cittadini nella giustizia. Ma questa sfiducia non giova a nessuno. Non a voi, non ai politici, e neanche agli avvocati. Perché se il cittadino-imputato si convince che il suo processo è politicizzato, allora a che serve un bravo avvocato? A nulla. Per questi motivi di fondo occorre la riforma”. Non per recuperare efficienza o rapidità, insomma, ma per fare una sorta di elettrochoc all’opinione pubblica. C’è poi il nodo dei pubblici ministeri. A chi insiste che non ora, tra qualche anno, però l’esito finale sarà che il pubblico ministero verrà sottoposto all’esecutivo, Giulia Bongiorno ha sfiorato il politicamente scorretto: “No, scusate, questo nella riforma non c’è e non ci sarà mai. Per un ragionamento molto semplice. Io rabbrividisco al solo pensare che il pm sia un sottoposto del ministro della Giustizia. Mi fa paura questa prospettiva. Dico, oggi abbiamo come ministro un fior di garantista come Carlo Nordio ma non avremo Nordio per sempre, peri prossimi trentacinque anni. E se invece in futuro vincesse le elezioni un partito che non rispetta il garantismo, un nuovo Cinquestelle? E se in quel futuro diventasse ministro un loro esponente come, per dire, il senatore Roberto Scarpinato, che tanto garantista non è? Ecco la ragione per cui il pm non è e non sarà mai sottoposto al governo: perché noi che questa riforma la stiamo portando avanti, con un ministro Scarpinato non ci sentiremmo garantiti”. Reazione palpabile in sala, dove c’erano soltanto magistrati e l’ex pm Scarpinato lo conoscono bene. Risatine di alcuni. Disappunto di altri. E quando qualcuno ha fatto notare alla presidente Bongiorno che forse spendere il nome di Scarpinato non era opportuno, lei ha voluto precisare: “Potrei citare allora il professor Franco Coppi, che è stato il mio maestro, e che anche lui è contrarissimo a questa riforma”. Ma mica aveva detto che teme Coppi come ministro. Lei teme quell’altro. Giorgio Spangher: “Le pene aumentano, la difesa è indebolita: è ora di fermarsi” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2025 Il Senato a gennaio ha dato il prima via libero al disegno di legge costituzionale che inserisce la tutela delle vittime di reati nella Carta costituzionale; l’ 8 marzo il Consiglio dei Ministri ha approvato la legge che istituisce il reato di femminicidio con annesso ergastolo; il 18 marzo le Sezioni Uniti penali (presidente Cassano, relatore Aprile) hanno depositato una sentenza per “la quale è illegittimo il provvedimento di diniego del giudice delle indagini preliminari a fronte della richiesta di assumere in via anticipata la prova orale proveniente o dal testimone minorenne o dalla vittima - anche maggiorenne - quando si tratti di delitti contro la persona connotati da violenza”. La tendenza è quella di tutelare sempre più la presunta parte offesa a discapito dei diritti dell’indagato. Ne parliamo con il professor Giorgio Spangher, emerito di procedura penale. Professore partiamo da quest’ultima sentenza delle SS UU penali. Ce la può spiegare meglio? Viene creato volutamente un automatismo tra tipologia di reati, ad esempio violenza sessuale e maltrattamenti, e la presunzione di vulnerabilità e di non differibilità dell’assunzione della prova. La richiesta del pubblico ministero diventa vincolante per il gip che in pratica perde l’autonomia in merito alla richiesta di incidente probatorio. E la difesa si trova a “subire’” l’incidente probatorio. Con questa sentenza le SS. UU. hanno accolto l’orientamento minoritario contrario a quello maggioritario il quale consentiva al giudice di valutare i contrapposti interessi, le contrapposte visioni di tutela della vittima e di garanzie del diritto di difesa. Adesso, invece, trova un esplicito riconoscimento la tutela della persona offesa in considerazione del riferimento alla cosiddetta vittimizzazione secondaria e anche in relazione alla protezione delle dichiarazioni in quanto rese nel momento più vicino ai fatti, perché sarebbero maggiormente attendibili rispetto a quelle che potrebbero essere svolte successivamente. Quali svantaggi avrà la difesa dell’indagato? Innanzitutto il pm potrà condizionare fortemente il contenuto dell’incidente probatorio sotto il profilo difensivo in relazione al momento della richiesta - può essere un momento iniziale, intermedio, o successivo - se si considera che le dichiarazioni rese durante l’incidente probatorio mettono un peso fondamentale sullo sviluppo dibattimentale perché questo tipo di dichiarazioni non sono suscettibili della rinnovazione nella fase dibattimentale. Mentre invece quando la richiesta dovesse venire della difesa questa possibilità non c’è, quindi il pm può condizionare fortemente il contenuto dell’incidente probatorio. Inoltre esiste un altro limite per la difesa. Quale? Riguarda le modalità: trattandosi di persone vulnerabili naturalmente si tende a proteggere la personalità, il carattere, la vulnerabilità del soggetto che viene ascoltato, non consentendo un contraddittorio che sia connotato anche dal canone dell’immediatezza. L’ascolto del minore o della vittima di violenza nel corso dell’incidente probatorio è assistito, certo, dalle garanzie del contraddittorio ma non dal concetto di immediatezza: quel materiale probatorio non verrà svolto davanti al giudice del dibattimento. Perché questo è importante e svilente per la difesa? L’articolo 111 della Costituzione è vero che parla di contraddittorio, ma dinanzi al giudice che stabilirà il giudizio di responsabilità, collegato al principio di immediatezza. Il libero convincimento del giudice si basa sulla immediata osservazione degli elementi della cognizione. Cosa pensa invece nell’introduzione nel codice del reato di femminicidio rispetto sempre ai limiti del diritto di difesa? Questo governo tende a moltiplicare le fattispecie incriminatrici e ad aumentare le pene. Vuole mandare un messaggio senza però raggiungere una maggiore sicurezza. In generale poi gli ergastoli stanno aumentando mentre gli omicidi sono esattamente gli stessi di prima. Il problema dell’ergastolo è un problema pure della magistratura che tende a punire comminando questa pena e se non lo fa rischia il linciaggio mediatico. Nel caso specifico della sua domanda mi concentrerei appunto proprio sul profilo sanzionatorio. Il femminicidio viene punito con l’ergastolo. E la ricaduta processuale è che la difesa non può accedere al rito abbreviato. Quindi il problema non è tanto il nuovo reato, quanto le conseguenze sui diritti dell’imputato. “All’articolo 24 della Costituzione, dopo il secondo comma, è inserito il seguente: La Repubblica tutela le vittime di reato”. Qual è il suo giudizio in merito? Noi avevamo finora la parte civile e la persona offesa. Quest’ultima non aveva particolari diritti, tanto è vero che se voleva l’incidente probatorio o voleva impugnare doveva chiederlo al pm. Pian pianino, sulla base anche delle direttive europee, che scaturiscano anche da altre situazioni giudiziarie, non necessariamente nel modello italiano, si sono progressivamente rafforzati i diritti della persona offesa, quella che sopravvive il minore abusato, la moglie maltrattata, la stalkerata, etc. Questi soggetti qui hanno conquistato un loro percorso processuale. Se li inserisci in Costituzione è chiaro che devi costruire intorno a loro tutto un percorso processuale di garanzie. Le faccio un esempio. Prego... L’articolo 24 della Costituzione sancisce il diritto di difesa. Ma questo non significa dire solo avvocato. Vuol dire tempo, facilitazione, nullità, avvisi, congruità del termine, traduzione linguistica. Quindi, cosa intende dire? Che quando si mette una garanzia in Costituzione, quella norma costituzionale si espande, diventa una specie di elemento intorno al quale si costruisce un percorso di processo. E siccome i poteri all’interno del processo non sono infiniti, più si espande uno e più si ridimensiona l’altro, in questo secondo caso quello dell’indagato e dell’imputato. Lucia Annibali: “Il ddl femminicidio è simbolo del populismo penale di questo Paese” di Michela Bompani La Repubblica, 28 marzo 2025 L’avvocata tiene incontri nelle scuole: “Le vittime sono sempre più giovani, mi chiedono aiuto consegnandomi dei bigliettini”. “Il ddl sul femminicidio è il simbolo del populismo penale di questi tempi e, così com’è, grida vendetta. Riduce la violenza sulle donne al solo femminicidio e poi pensa in modo securitario e punitivo, senza alcun investimento di risorse sulla prevenzione”, Lucia Annibali, avvocata, da dodici anni non smette di combattere a fianco delle ragazze che incontra nelle scuole, delle donne con cui parla nelle carceri, alle presentazioni dei suoi libri, mentre il suo corpo ha continuamente bisogno di interventi chirurgici. Attacca l’ultima misura del governo che introduce il reato di femminicidio. E spiega: “Si punisce il fatto, ma non si lavora a disgregare, polverizzare, l’ideologia che lo provoca. Il risultato sarà nei tribunali ingolfati di una pena in più, le carceri più piene, ma ciò che lo innesca, trionfa”. Ha dovuto ricominciare da sé, Annibali, dopo che il 6 aprile 2013 due uomini l’hanno aggredita lanciandole dell’acido sul volto. Il mandante è stato il suo ex, anche lui avvocato, Luca Varani, che non si rassegnava alla fine della storia, poi condannato a 20 anni (i due esecutori, Rubin Ago Talaban e Altistin Precetaj, hanno avuto una pena, ciascuno, di 12 anni). Nel 2014 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’ha insignita del titolo di Cavaliere al merito, nel 2016 è stata eletta alla Camera con il Pd, è poi entrata in Italia Viva. Da due anni è difensore civico della Regione Toscana. Dopo il primo libro Io ci sono. La mia storia di non amore (Rizzoli), da cui è stato tratto l’omonimo film tv, Lucia Annibali ha da poco pubblicato per Feltrinelli Il futuro mi aspetta. Ho scelto di rinascere, scritto con Daniela Palumbo. Come è nato questo secondo libro? “Da una sollecitazione della casa editrice Feltrinelli, affinché raccontassi a un pubblico giovane la mia storia, è un racconto aggiornato rispetto al primo libro, più maturo e decantato”. E tiene conto del grande lavoro che lei fa nelle scuole su diritti e violenza di genere: qual è la temperatura? “È un impegno faticoso, fisicamente e emotivamente, ma necessario perché sono sempre più giovani le ragazze che mi raccontano di vivere o aver vissuto esperienze di violenza. Le vedo che si commuovono quando parlo, poi mi portano bigliettini con dentro la loro storia. E poi è grande il peso delle piattaforme social, dove subiscono discriminazioni e violenze. Si parla molto di educazione all’affettività, di educazione sessuale, ma questo tema non è davvero affrontato”. Il sistema del welfare pubblico, a partire dai consultori, è smontato, almeno la scuola sostiene le ragazze? “Proprio perché il tema della violenza di genere riguarda, oltre alle adulte, sempre di più le giovanissime, la politica dovrebbe investire di più. Nelle tante scuole che visito, trovo buone pratiche affidate a iniziative sporadiche di docenti o presidi, ma spesso tutto è affidato al caso e non ci sono gli strumenti per intercettare e dare supporto. Il ddl sul femminicidio è la riprova: si riempiono tribunali e carceri, ma non c’è un soldo sulla prevenzione, che deve partire proprio dalle scuole”. Sabato presenterà a Genova il suo libro e ci sarà anche la candidata sindaca del centrosinistra Silvia Salis, vicepresidente del Coni ed ex atleta olimpica: che ne pensa? “Non ci siamo ancora incontrate, ma se la sostengono le mie care amiche di Italia Viva (la presentazione è organizzata dalla coordinatrice nazionale di Italia Viva, Raffaella Paita, al Bibi service di via XX Settembre, alle 17, ndr), allora non vedo l’ora di conoscerla”. Continua a dover sottoporsi a interventi chirurgici? “Sono arrivata all’operazione numero 27, a settembre scorso: ho fragilità alle palpebre”. Nel titolo ha messo la parola “futuro”: come riesce a evitare che sia il passato a determinarlo? “Il mio passato, al di là dell’aggressione, è molto importante, mi ha dato una forza granitica, la capacità di sostenere la fatica e mi ha dato sicurezza in me stessa, per cui è il mio bagaglio che porto, tutto, nel mio futuro”. Troppe deviazioni nei Servizi segreti: non sono solo mele marce di Luigi de Magistris Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2025 E ora si prevede ci concedere loro un’ampia licenza di delinquere. In un momento in cui imperversano le violazioni della segretezza delle conversazioni con abusi del potere, si approvano norme pericolose. La democrazia per essere difesa ha bisogno anche dei servizi segreti. I servizi di sicurezza, quelli militari e quelli interni, sono costituiti da donne e uomini, come ogni istituzione dello Stato. E sostenere che i servizi sono infedeli e deviati significa dire il falso, si fa torto alle tante persone oneste, preparate e coraggiose che ne fanno parte. Uno per tutti Nicola Calipari, ucciso da soldati americani per salvare in una missione la vita di Giuliana Sgrena. E non sempre, anzi quasi mai, si conoscono le buone operazioni dei servizi. Ma dobbiamo riconoscere che le deviazioni dei servizi, nella storia della Repubblica, sono talmente tante che non si può parlare in questi casi di singole persone deviate nei servizi segreti, perché vertici dei servizi, unitamente a forze politiche eversive e non di rado a servizi di altri Stati, hanno contribuito a condizionare in maniera occulta e criminale la nostra fragile democrazia per mutarne il corso politico e istituzionale. Dalla strage di piazza Fontana a Milano sino a Gladio, dal Piano Solo alla Rosa dei venti, dal golpe Borghese alle stragi di piazza della Loggia a Brescia sino alla più devastante di Bologna, dal sequestro e l’uccisione di Aldo Moro alla P2 di Gelli, dal caso Cirillo agli assassini eccellenti, dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, quest’ultima forse il più grave depistaggio della storia della Repubblica; in tutti questi casi e in altri ancora il ruolo di vertici inquinati dei servizi hanno condizionato con bombe, assassini e depistaggi la storia della Repubblica. Quindi quella dei servizi è storicamente materia da maneggiare con moltissima cura, stando molto attenti allo stretto rapporto organico tra potere esecutivo, il governo appunto, e i servizi. Con un Parlamento sempre più esautorato dai suoi poteri di centralità nella democrazia e una magistratura estromessa da funzioni di controllo, c’è da temere non poco. Il disegno di legge 1660 cosiddetto Sicurezza, approvato da un ramo del parlamento, garantisce in realtà la sicurezza del potere e in parte la sua impunità, ma per nulla assicura la sicurezza delle persone, anzi le mette in pericolo accentuando anche una forte repressione del dissenso. A proposito dei servizi, poi, in un momento in cui imperversano le violazioni della segretezza delle conversazioni con abusi del potere, intercettazioni fuori dal controllo della magistratura, si approvano norme pericolose. L’obbligo per le pubbliche amministrazioni, scuole ed università comprese, di comunicare ai servizi informazioni che incidono sulle libertà personali di dipendenti e studenti, comprese notizie su idee politiche, frequentazioni, condotte anche di natura privata. La possibilità, poi, di commettere in talune circostanze, descritte in maniera molto generica e discrezionale, reati da parte di appartenenti ai servizi senza la possibilità di essere perseguiti e sottoposti al controllo di giustizia. Si prevede un’ampia licenza di delinquere con la garanzia dell’impunità, ad esempio in materia di terrorismo e di sicurezza nazionale. In un Paese in cui almeno fino al 1994 alti vertici dei servizi sono stati coinvolti in fatti gravissimi e in epoca più recente si sono ricostruiti coinvolgimenti nella realizzazione della nuova fase di criminalità istituzionale, senza bombe ma con proiettili istituzionali, non c’è da stare tranquilli. ?E chi decide quale sia il pericolo per l’interesse nazionale o il terrorismo? Il governo? Quelli che hanno il busto di Mussolini a casa o la fiamma post-fascista nel simbolo di partito? Quelli che considerano sovversivi i pacifisti che protestano contro il genocidio dello Stato d’Israele nei confronti della Palestina e del suo popolo? Quelli che considerano eco-terroristi le ragazze e i ragazzi che protestano contro i cambiamenti climatici? Quelli che considerano partecipanti a bande armate chi difende il territorio da opere pubbliche dannose, inutili e criminali? Per piazza Fontana dopo aver accusato falsamente gli anarchici avrebbero magari sostenuto che le bombe erano il fine che giustifica il mezzo: fermare la lotta di classe. La magistratura autonoma e indipendente viene esonerata dal controllo di legalità e di giustizia ed è il governo, con la mano dei servizi, ad incidere su libertà fondamentali. Un paese è democraticamente solido e uno stato di diritto è forte quando non deve temere chi dovrebbe operare sempre per la difesa della Costituzione, la sicurezza nazionale dello Stato e prima ancora del suo popolo e dei suoi diritti fondamentali. Padova. La prima direttrice della Casa di Reclusione: “Ascolto, passione e legami di fiducia” di Marta Randon Il Mattino di Padova, 28 marzo 2025 Maria Gabriella Lusi, 56 anni, ha diretto diversi istituti del Nord Italia, tra cui Brescia. È nipote d’arte. “Per fare bene questo lavoro servono prima di tutto un bell’equilibrio personale e molta serietà”. Fin da ragazzina sapeva che si sarebbe occupata di Stato. Figlia di medici, nipote di medici, il nonno paterno era Giovanni Caso, deputato Dc dell’Assemblea Costituente. La passione per l’umanità arriva da lontano, da quel nonno mai conosciuto “ma di cui mi parlavano benissimo: la serietà, la dedizione verso il prossimo. Sono cresciuta con il senso delle istituzioni”. Maria Gabriella Lusi, 56 anni, di Capua (Caserta), una figlia di 19, dal 12 febbraio è la prima donna a dirigere la casa di reclusione Due Palazzi. “Direttore, direttrice, non imposta come vengo chiamata - sorride nel suo ufficio - spero di essere prima di tutto una professionista”. Minuta, elegante, filo di perle al collo, è l’uno e l’altra, direttore e direttrice insieme, attenta al dettaglio, equilibrata “indispensabile per fare questo lavoro”, poi alza la cornetta, il tono cambia, si fa autorevole. Niente di costruito, forzato, solo sicurezza e mestiere. Lusi lavora nell’amministrazione penitenziaria dal 1997. Ha girato la gran parte delle carceri del nord Italia: fino al 2007 è stata vicedirettrice a Bergamo, Bollate, Parma, poi direttrice a Brescia, Voghera, Cremona, Piacenza: “Per fortuna sono sempre stata mobile”. Perché per fortuna? “Questo lavoro richiede molta esperienza sul campo. Si fa bene nella misura in cui l’approccio è sistemico e aperto. Ogni istituto vive per come vive il suo territorio”. Vuole dire che ogni carcere è lo specchio della società in cui si trova? “Sì. Chi guida questa complessa macchina organizzativa de-ve essere capace di costruire rapporti di fiducia, di corretta trasparenza. Rapporti di costruzione finalizzati alla rieducazione”. Cosa rappresenta per lei il detenuto? “Una persona da accompagnare per essere rieducata con l’esempio di tutti i professionisti che lavorano all’interno del carcere, direttore compreso. Il detenuto va instradato anche attraverso la relazione”. Ha incontrato personalmente i detenuti? “Non ho ancora avuto il tempo di farlo individualmente, ma è in programma. Mi piace relazionarmi con loro, è una forma di rispetto. Bisogna farsi vedere, ascoltarli, assisterli, leggerne i bisogni”. Si può sentire la vita con piacere anche in carcere, come cita Pellico ne “Le mie prigioni”? “Qui a Padova sì. È un carcere che non punta alla sopravvivenza, ma alla vita. Il presupposto del cambiamento è sentirsi vivi, vitali, utili”. Il rapporto con il Terzo Settore è il fiore all’occhiello del Due Palazzi… “La ricchezza delle collaborazioni con istituzioni, enti, società sportive, scuola, cappellania, associazioni di ogni tipo, fa di questa realtà un luogo speciale. Parto da una posizione privilegiata. Dopo un mese posso dire che è un carcere che rispetta un territorio molto vivace, dinamico. Adoro la spinta all’evoluzione, mi piace quando un carcere è in movimento, verso nuove sfide e possibilità. Qui il rischio suicidio di certo non è legato all’ozio, alla noia, la possibilità di vivere una giornata impegnata è assicurata”. L’associazione “Antigone” denuncia problemi di sovraffollamento anche a Padova… “Qui a Padova non parlerei di sovraffollamento. Siamo nei parametri. I detenuti totali sono 571, 436 la capienza regolamentare. Fino a 738 è tollerabile. Significa cioè che il detenuto sta bene e non si lede la sua dignità”. Il suo predecessore Claudio Mazzeo ha annunciato 50 nuovi posti letto con doccia in camera nel settimo blocco che possono salire a 100. Sono pronti? “Sono in fase di collaudo, a breve i detenuti potranno occuparli. Ci sono altri lavori in corso. L’obiettivo è il rinnovamento e la riqualificazione degli spazi detentivi”. Essere la prima donna che dirige il Due Palazzi che cosa significa per lei? “Per dirigere una macchina così complessa serve soprattutto un bell’equilibrio personale e di conseguenza professionale. Bisogna essere seri, perché la superficialità non è concessa quando si ha a che fare con le persone. Equilibrio e serietà sono caratteristiche che mi risulta facile abbinare al genere femminile. Bisogna essere attenti al contesto umano, organizzativo e ambientale. Credo molto nella cura dei locali, i colori hanno una forza infinita. Il luogo chiuso ha bisogno di una costante attenzione. Non riuscirei a fare questo lavoro con il sorriso se non vivessi in un luogo bello e curato”. Nonno Giovanni sarebbe orgoglioso? “Mia madre dice di sì, l’importante è che io sia felice”. Avellino. Detenuti vittime di traumi, intesa su accertamenti medico-legali di Paola Iandolo ottopagine.it, 28 marzo 2025 Un protocollo d’intesa in materia di accertamenti medico-legali in caso di eventi traumatici ai danni di detenuti ristretti presso gli istituti penitenziari ricadenti nel territorio di competenza dell’Asl di Avellino è stato firmato oggi negli Uffici della Procura generale di Napoli tra il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli Aldo Policastro, il procuratore di Avellino Domenico Airoma, il procuratore di Benevento Gianfranco Scarfò, il provveditore regionale dell’ Amministrazione penitenziaria Lucia Castellano e il direttore generale dell’Azienda Sanitaria Locale di Avellino Mario Nicola Vittorio Ferrante. Obiettivo del protocollo è quello di creare linee guida operative per il personale medico penitenziario e per il personale di polizia penitenziaria al fine di gestire in maniera coordinata e con la massima tempestività ed efficienza, gli eventi lesivi/traumatici verificatisi in carcere. Le linee guida riguardano sia la presa in carico sanitaria e la cura della salute dei detenuti, sia il profilo investigativo, al fine di permettere al pubblico ministero di assumere la direzione delle indagini in nell’immediatezza dell’accaduto. Con il protocollo siglato oggi - spiega un comunicato - si sono individuate le procedure che occorre siano seguite in ogni caso in cui sia riscontrato che il detenuto abbia subito aggressioni o altre forme di sopraffazione, condotte che evidentemente allontanano la sanzione penale dalle finalità costituzionali per le quali viene irrogata e che anzi perpetuano un circuito di illegalità, alimentando una spirale negativa suscettibile di ingenerare nel detenuto forme di destabilizzazione e di disagio psicologico ulteriore rispetto allo status proprio della condizione in cui si trova, che, in non rari casi, possono spingersi fino a estreme conseguenze e a condotte auto o etero lesionistiche. L’efficace raccordo tra l’intervento sanitario e quello della polizia penitenziaria, nonché, tramite quest’ultima, degli Uffici delle Procure competenti consentirà auspicabilmente anche di superare il clima di rassegnata accettazione e di acquiescenza alla violenza negli ambienti carcerari che porta le stesse vittime a non denunciare gli eventi lesivi ovvero a riferirli a inverosimili cause accidentali. Il protocollo siglato oggi, spiega la nota, “è il frutto del positivo impatto riscontrato all’esito dell’adozione di analogo protocollo di intesa raggiunto tra la Procura di Napoli, l’Asl Napoli 1 e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e di cui la Procura generale, apprezzatone i contenuto e nell’ambito del Tavolo tematico sul carcere che ha attivato, ha ritenuto di proporre l’estensione agli istituti penitenziari della provincia di Avellino, attraverso l’interlocuzione con i titolari degli Uffici, nell’esercizio del potere dovere di promozione della diffusione di buone prassi di cui all’articolo 6 decreto legislativo 106-2006 e grazie al contributo offerto dall’ Avvocato generale Simona Di Monte, e del sostituto procuratore generale Valter Brunetti, addetto al Coordinamento distrettuale ex art 6 citato”. Analogo impegno la Procura generale intende intraprendere con le rispettive ASL e con i procuratori di Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord e Benevento, per gli istituti penitenziari delle province di Benevento e Caserta. Genova. Spostamento Marassi, il Garante: “Contatterò il Ministero per ulteriori chiarimenti” di Riccardo Olivieri telenord.it, 28 marzo 2025 Nella giornata di ieri Doriano Saracino, Garante regionale, e il suo omologo genovese Stefano Sambugaro hanno incontrato il Sindaco facente funzioni Piciocchi. Il Garante regionale dei detenuti Doriano Saracino contatterà il Ministero di Giustizia e il Commissario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio per chiedere ulteriori chiarimenti sull’ipotesi dello spostamento del carcere di Genova da Marassi alle aree ex Colisa: è questo che emerge dall’incontro tra il garante stesso, il suo omologo genovese Stefano Sambugaro e il sindaco facente funzioni Pietro Piciocchi, accompagnato dai tecnici del Comune. La competenza del progetto (che, è bene sottolinearlo, ancora non è partito: siamo nel campo delle ipotesi) è tutta del Ministero mentre al Comune spetta il compito di indicare l’area, per cui i due enti sono ancora in fase di interlocuzione. Raggiungibilità - La zona individuata dal Comune è appunto quella delle aree ex Colisa di Coronata, oggi campo base del cantiere della Gronda. “Voglio chiedere chiarimenti e avere più informazioni, parliamo di un progetto che ha un orizzonte di 8-10 anni quindi voglio prendermi un po’ di tempo per capire meglio la situazione ma al momento continuo a non ritenerla una collocazione adatta” spiega Saracino, raggiunto telefonicamente da Telenord. Il garante infatti aveva già espresso dubbi sulla raggiungibilità dell’area, decisamente diversa da quella di Marassi che si trova nel cuore della città. Per raggiungere l’attuale penitenziario, oltre alle linee 12-13-14-37-47-480-482 dell’autobus, si possono utilizzare anche i treni fermandosi alla vicina stazione di Genova Brignole o l’autostrada, dato che la struttura si trova nei pressi dell’uscita di Genova Est dell’A12. Al momento tutta l’area ex Colisa è decisamente meno collegata ma va sottolineato che il facente funzioni Piciocchi ha garantito il potenziamento del servizio, in caso di spostamento del carcere, perché la struttura sia facilmente accessibile a tutti. “I problemi di raggiungibilità però li abbiamo anche dal carcere Pontedecimo - sottolinea Saracino -, qui le persone che vogliono fare visita ai detenuti sono costrette a percorrere una lunga salita a piedi: per questo ho chiesto di attivare un Drinbus”, ovvero il servizio a chiamata di Amt prenotabile con almeno mezz’ora di anticipo tramite app o numero verde gratuito. Teatro - Il carcere di Marassi è l’unico in Italia e il primo in Europa ad essersi dotato di un teatro, il Teatro dell’Arca, un autentico fiore all’occhiello per la struttura che ha ricevuto numerosi riconoscimenti. In platea possono accedere anche gli spettatori esterni alla struttura e i detenuti in passato sono andati in scena anche su palchi al di fuori del carcere. “Ma i teatri nelle periferie fanno più fatica, come testimoniano le storie del Govi e del Verdi (rispettivamente a Pontedecimo e Sestri Ponente), sarà più difficile farlo vivere rispetto ad oggi”. A rafforzare i dubbi di Saracino c’è anche una considerazione urbanistica più capillare: il Govi e il Verdi sono nel cuore dei loro quartieri, facilmente raggiungibili per gli abitanti, ma lo stesso difficilmente si potrebbe dire di un teatro nell’ex Colisa. Ad ogni modo, tra le informazioni che Saracino intende raccogliere è compresa anche la valutazione degli spazi, “non so se ci sia spazio anche per strutture per il tempo libero come campi da calcio o per i luoghi di lavoro”. Orvieto (Pg). Presentato “Voci e colori di speranza. Lo sguardo al futuro dei detenuti” di Irene Grigioni orvietonews.it, 28 marzo 2025 Si è svolta martedì 25 marzo al Museo “Emilio Greco” l’annunciata presentazione del volume “Voci e colori di speranza. Lo sguardo al futuro dei detenuti della Casa di reclusione di Orvieto per l’Anno Santo 2025”: un volume che raccoglie le opere di pittura e scrittura realizzate dai detenuti nel corso di due rispettivi laboratori artistici. La mattinata è stata aperta da monsignor Gualtiero Sigismondi, vescovo della Diocesi di Orvieto-Todi, il quale ha narrato la sua contemplazione di fronte al volume presentato e la ricchezza dei tanti incontri avuti con i detenuti della Casa di Reclusione di Orvieto. Con questi ultimi il Vescovo ha avuto l’opportunità di dialogare sul tema della speranza che - citando Papa Francesco - “non illude né delude”. Tra racconti di vita e confidenze custodite nel cuore, il Vescovo ha raccontato che cosa è la speranza per uno dei detenuti di Orvieto: “che almeno i miei figli, quando finirò di scontare la pena, tornino a guardarmi negli occhi con benevolenza, come prima dell’arresto: questa è la mia più ragionevole speranza che accompagna i miei giorni in cella, ove il silenzio è un nemico”. La direttrice della Casa di Reclusione di Orvieto, la dottoressa Annunziata Passannante, ha poi ricordato che il carcere è un quartiere della città, il quale deve saper offrire, anche attraverso laboratori artistici come quelli che hanno dato vita al volume, opportunità capaci di far ravvedere quanti hanno commesso errori, mantenendo un atteggiamento che imiti quello del Signore, che sempre si è fermato accanto agli ultimi. La Direttrice ha poi passato la parola al comandante della Polizia penitenziaria della Casa di reclusione, Enrico Gregori, ricordando il motto della Polizia penitenziaria stessa “Despondere spem est munus nostrum” (garantire la speranza è il nostro compito) che proprio oggi celebra il 208° anniversario della fondazione. Il Comandante ha sottolineato l’importanza di promuovere una “sicurezza integrata” per i detenuti, la quale è frutto di collaborazioni e alleanze educative che coinvolgono quanti, a diverso titolo, partecipano al percorso educativo di detenuti. Il dottor Paolo Maddonni, capo area educativa della Casa di Reclusione, ha ribadito l’importanza della collaborazione tra istituzioni e soggetti attivi in istituto, per permettere ai detenuti di uscire da esso come cittadini capaci di compiere scelte consapevoli e per il bene comune. Il dott. Maddonni ha poi sottolineato la necessità di “offrire specchi” ai detenuti attraverso le diverse forme di espressione artistiche, affinché ciascuno possa scoprire nuovi aspetti di sé e riscoprirsi capace di produrre bellezza. Tutti i partecipanti hanno poi potuto ascoltare le testimonianze dei detenuti autori degli scritti e dei quadri riportati nel volume presentato grazie ad un video realizzato da Manuela Cannone insieme con i detenuti stessi. Ascoltare la loro voce nel narrare poesie e scritti e nel raccontare la storia di ogni dipinto è stata per ciascuno l’opportunità di guardare oltre le parole e i colori, per toccare emozioni di storie di vita con trame di sofferenza e di speranza. Le parole di un detenuto presente alla presentazione, partecipante del corso di pittura e ora in misura alternativa, sono state ricche di riconoscenza verso la Casa di reclusione per l’opportunità offertagli di sperimentarsi con l’arte e, anche grazie ad essa, riflettere intorno alla speranza che - ha detto un detenuto - chiede di essere coniugata solo al presente e spinge a dare senso a ogni avvenimento della vita. Anna Crispino e Salvatore Ravo, conduttori del laboratorio di scrittura (la prima) e di quello di pittura (il secondo) svolti nella Casa di reclusione, hanno raccontato la bellezza, le emozioni e la preziosità dei percorsi realizzati insieme ai detenuti attraverso i laboratori da loro proposti. Don Marco Gasparri, direttore della Caritas diocesana, ha poi concluso l’incontro ringraziando la Casa di reclusione per la collaborazione avuta, che ha dato vita a un progetto capace di raccontare la bellezza e dare voce alla speranza anche laddove potrebbe sembrare difficile vedere il bello e sperare. Non possiamo non ringraziare il dottor Andrea Taddei, presidente dell’Opera del Duomo di Orvieto, per l’ospitalità e la disponibilità mostrata nell’accogliere e promuovere questo appuntamento di promozione umana e di sensibilizzazione della cittadinanza. Un grazie particolare, poi, si deve al giornalista Gabriele Anselmi, che ha brillantemente moderato l’incontro, e al pianista Riccardo Cambri che, insieme alla cantante Anna Crispino, ha offerto ai presenti emozionanti intermezzi musicali. Come Caritas diocesana ringraziamo i tanti volontari che con spirito di servizio hanno offerto il loro aiuto perché anche l’appuntamento di oggi potesse essere curato in ogni dettaglio e riuscire al meglio, per essere anch’esso un’occasione di testimonianza dell’amore del Padre verso ogni suo figlio che, ha ricordato il Vescovo, al di là dei suoi possibili errori, possiede la “firma di Dio”. Stati Uniti d’Europa, non c’è alternativa di fronte all’abisso di Franco Corleone L’Espresso, 28 marzo 2025 Rileggere Rossi e Rosselli: rappresentano ancora l’unica lucida via d’uscita alla catastrofe. Donald Trump, con consueta brutalità, ha affermato che l’Unione europea è stata costruita per “fregare” gli Stati Uniti. Questo approccio obbliga a fare i conti con un mondo che si sta ridisegnando in modo imprevedibile. La guerra commerciale è solo il primo tassello di una politica di potenza e la questione degli armamenti rischia di essere lo spartiacque per il destino dell’Europa e dei singoli Paesi, destinati a essere un vaso di coccio tra sudditanze inedite, soprattutto in assenza di un pensiero alto e ambizioso. Forse per recuperare memoria e radici, molti hanno evocato lo spirito del Manifesto di Ventotene: da Corrado Augias a Sergio Fabbrini, da Raphael Glucksmann a Gustavo Zagrebelsky. Il testo con il titolo “Problemi della Federazione Europea”, indicava come autori A.S. e E.R. (Altiero Spinelli e Ernesto Rossi) e fu pubblicato nel gennaio 1944 a Roma con la prefazione non firmata di Eugenio Colorni. Efficacemente venivano sintetizzati gli obiettivi del Movimento federalista per un ideale che poteva apparire “lontana utopia ancora qualche anno fa”, e rappresentava invece un’impellente, tragica necessità proprio per le caratteristiche e le conseguenze della guerra mondiale, dal rimescolamento di popoli provocato dall’occupazione tedesca alla ricostruzione dell’economia distrutta, dai confini politici alle minoranze etniche. Stabiliva i punti essenziali di una libera Federazione Europea elaborati da un Movimento che aveva operato nella clandestinità sotto l’oppressione fascista e nazista e impegnato nella lotta armata per la libertà: esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli Stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica. Colorni venne assassinato nel maggio di quell’anno feroce. Contemporaneamente, Ernesto Rossi pubblicava a Lugano (Nuove edizioni di Capolago) - dedicandolo a Leone Ginzburg e a Eugenio Colorni, capi del Movimento Federalista Europeo - un saggio intitolato “Gli Stati Uniti d’Europa”, che andrebbe riletto per le precise indicazioni sull’organizzazione federale, sul rapporto con la Germania e l’Inghilterra, sulla posizione della Russia e indicava il nucleo ristretto iniziale promotore. Anche la critica del corporativismo e dei monopoli di Ernesto Rossi è di estrema attualità. Ma vi è un altro saggio che andrebbe ripubblicato: “Europeismo o fascismo” del maggio 1935 di Carlo Rosselli, che di fronte al trionfo nazista proponeva di trovare “un’altra passione più potente, giusta e lucida”. Occorreva indicare alle masse un grande obiettivo positivo: “Fare l’Europa. Ecco il programma. All’infuori di ciò non esiste possibilità di vera pace e disarmo”. Invitava la sinistra europea a impadronirsi di questo tema e prospettava la convocazione di un’assemblea continentale, composta da delegati eletti dai popoli per elaborare la prima costituzione federale europea, nominare il primo governo europeo, fissare i principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzare frontiere e dogane, organizzare una forza al servizio del nuovo diritto europeo e dare così vita agli Stati Uniti d’Europa. La sua conclusione era lapidaria: “In questa tragica vigilia, non esiste altra salvezza. Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è flatus vocis. Il resto è la catastrofe”. Oggi siamo a un bivio e si deve ripartire dai giganti. Istruzioni d’uso per il Manifesto dei confinati di Loredana Lipperini L’Espresso, 28 marzo 2025 Un classico del pensiero socialista e l’esperienza nell’isola un addestramento ideale alla Resistenza. Tra i due film di Paolo Virzì ambientati a Ventotene passano 28 anni e parecchi fallimenti sintetizzabili in due battute: nel primo, Ferie d’agosto, il patriarca dei nuovi barbari che scoprono l’isola dice alla civile, ispirata parte antagonista: “Voi intellettuali v’atteggiate tanto, parlate così sofistici, state sempre a analizza, a criticà, a giudicà... Ma la sa qual è la verità? La verità è che non ce state a capì più un c…o!”. Nel secondo, Un altro ferragosto, gli eredi dei barbari ghignano: “Noi cavalchiamo er flame. La fiamma!”. È vero, sembra l’anticipazione dell’ultima polemica innescata dalla presidente del Consiglio verso l’opposizione, ovvero le citazioni tratte, con un certo disprezzo, dal Manifesto di Ventotene. Per capirle bisogna però ripescare un libro che è stato scritto tra i due film, L’isola riflessa di Fabrizia Ramondino, dove la scrittrice descrive con amarezza l’oblio caduto su Ventotene, con la distruzione delle baracche dei confinati per lasciar spazio a nuove case per turisti: “Finché si nascondono non solo le vittime ma anche le loro tombe, è certo che presto ci saranno altre vittime e tombe”. Lasciarsi alle spalle la storia dei confinati e tirarla fuori quando serve rientra proprio nella generale mancanza di memoria. Ora, se si adottasse il principio che il ministro Valditara applica allo schwa, bisognerebbe vietare la citazione del Manifesto di Ventotene a chi non l’ha letto e contestualizzato: non amando i divieti e trovandoli, in questo caso, risibili, occorrerà almeno sottolineare che non è utile ricordarsi di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni (e di Ada Rossi e Ursula Hirschmann, magari) e visitare tombe solo in funzione di un comunicato stampa. Perché il Manifesto, dimenticato per anni, ha avuto in sorte il paradossale destino di essere tirato in ballo solo quando c’è da attribuirgli il nucleo fondativo dell’attuale Unione Europea, lontanissima da quell’utopia, e dimenticando per giunta che quel testo va letto per quello che è: un classico del pensiero socialista. Accadde, per esempio, nel 2016, quando un altro presidente del Consiglio, Matteo Renzi, convocò un vertice al largo dell’isola invitando Merkel e Hollande sulla portaerei Garibaldi. Anche qui dimenticando un particolare: uno degli autori, Eugenio Colorni, fu assassinato il 28 maggio 1944 dai fascisti della banda Koch, e Ventotene, e siamo daccapo con l’oblio, è stata per i confinati e gli estensori del Manifesto soprattutto un addestramento ideale alla Resistenza. Ma non lo ricorda quasi nessuno, come quasi nessuno ricorda la lunga decadenza dell’ex carcere di Santo Stefano, abbandonato fra sterpi e immondizia per decenni e che solo nel 2022 ha visto l’avvio dei lavori per la messa in sicurezza. Per questo le cose preziose di oggi sono tre: ovvero i tre volumi usciti fin qui nella collana 99 celle delle edizioni Ultima Spiaggia (dal nome della libreria di Fabio Masi a Ventotene). Sono Uccidi il tiranno, storia e imprese di Acciarito, Mariani e Zaniboni, attentatori rinchiusi a Santo Stefano di Pier Vittorio Buffa, Bruno Manfellotto, Anthony Santilli, Fuga da Santo Stefano. Le evasioni dall’ergastolo borbonico di Vittorio Buongiorno, Novantanove celle. L’ergastolo di Santo Stefano in Ventotene ancora di Buffa e Santilli. Perché i simboli vanno maneggiati con cura: se si citano a casaccio, si rischia di trovare un avversario astuto che li usa a proprio vantaggio, e diventa persino difficile smentirlo, guarda caso. La ripartenza del Terzo settore di Gianni Credit ilsussidiario.net, 28 marzo 2025 Il disco verde europeo alla riforma fiscale del Terzo settore contiene più di un segnale importante per una realtà viva italiana. Il via libera dell’Ue alla riforma fiscale del Terzo settore sembra valere in misura di leva più che doppia. Segnala che l’Europa - quella delle sue radici pacifiche e solidali - è viva: anche in questo accidentato avvio del quinquennio “von der Leyen-2”, in questi giorni concentrato sul riarmo. Ma è uno stimolo forte e benefico anche agli altri settori dell’economia e della società italiana (europea): in un sistema-Paese è un caso di studio internazionale sulla valorizzazione di sue risorse strategiche - imprenditorialità e lavoro - sul terreno della sussidiarietà. Che è ormai divenuta una cifra costituzionale consolidata sia in Italia che in Europa. Una più piena attuazione del Codice del Terzo settore - già in vigore dal 2017 - viene ora realizzata con una tecnicalità tributaria articolata. Spicca la defiscalizzazione degli utili ri-destinati allo svolgimento dell’attività statutaria e al rafforzamento patrimoniale degli enti. Ma non sono trascurabili né una serie di nuovi incentivi fiscali specifici, né - soprattutto - l’introduzione di nuovi strumenti di finanza sociale. Ai nuovi “titoli di solidarietà” verrà applicata la stessa aliquota agevolata riservata ai titoli del debito pubblico. Se osservato su uno sfondo evolutivo ampio di finanza pubblica e privata - quello dell’accelerazione Ue sugli eurobond e sulla mobilitazione del risparmio - il disco verde Ue al Terzo settore italiano indica una ripartenza di portata più generale. Sembra sollecitare fra l’altro un aggiustamento della mira anche nella fase finale del Pnrr: se a maggior ragione la radicale sterzata in corso delle macro-politiche Ue dovesse suggerire una rifocalizzazione delle politiche-Recovery elaborate in risposta civile all’emergenza-pandemia, non alle successive emergenze geopolitiche/militari. Il Terzo settore italiano - colpito dalla pandemia non meno del valore aggiunto e nell’occupazione - si è mostrato in ripresa graduale nelle ultime cifre diffuse dall’Istat a fine 2024. In fase di uscita dal Covid - a fine 2022 - la popolazione degli enti (360mila) risultava ancora in leggero calo, mentre i dipendenti (919mila) erano in crescita, con un dinamismo più pronunciato al Sud che al Nord. Sarà ora interessante osservare il “progress” statistico anche nelle diverse famiglie (associazioni, fondazioni e cooperative sociali). Ma il terreno di gioco appare arato e seminato di fresco. Democrazia non è solo “legalità e sicurezza” di Luigi Testa Il Domani, 28 marzo 2025 Le nostre democrazie non moriranno di attacchi volenti. Moriranno avvelenate. Lentamente agonizzanti per un veleno che il loro corpo avrà assorbito poco a poco, goccia a goccia, con dosi dissimulate, nascoste, non riconoscibili. Era per questo che l’avvelenamento, il veneficio, era più grave di un semplice omicidio - e ancora resta una forma aggravata di omicidio: modalità subdola di esecuzione; azione occulta e dissimulata; difficoltà nel contrasto; dolore e sofferenza prolungata. Tanto che è difficile rintracciare poi quale è stata la dose mortale, dopo che il veleno lo si è lasciato cadere goccia dopo goccia. Un mese fa, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è intervenuta alla Conferenza dei prefetti e dei questori d’Italia. “Ci ho tenuto a partecipare a questa iniziativa - ha spiegato -, seppure brevemente”, ma poi il suo intervento è durato diciannove minuti. Ed è nel finale che forse si annida il passaggio più sinistro: “La legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni altra cosa”. È, da manuale, lo slogan con cui la nostra destra vince le elezioni: il messaggio arriva subito alla pancia del paese, parlando al primitivo bisogno di autoconservazione. Legalità e sicurezza; che, poi, il primo è assorbito dal secondo, in una voragine di pulsione securitaria. Nei diciannove minuti del suo intervento, la premier di immigrati irregolari e criminalità organizzata ha parlato - e dunque di immediate minacce alla sicurezza - mica di altro. Veleno per la democrazia - Slogan come questi sono il peggiore veleno per la democrazia, perché parlano al nostro istinto e dunque trovano una prima, immediata - e a volte anche più che prima e immediata - accoglienza: tutti siamo spaventati dalla mancanza di sicurezza, e una promessa securitaria, istintivamente, ci rassicura. Ma, così, il corpo della democrazia assimila gradualmente uno spirito che gli è contrario, e questo spirito, lentamente, la corromperà, la svuoterà dall’interno, come il più letale dei veleni. Perché non è vero che la legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni altra cosa. Non è assolutamente vero. Non è questa la democrazia liberale. Non è questo lo stato di diritto. Se per legalità si intende il rispetto della legge, in una democrazia liberale non è questo che viene prima di ogni altra cosa. Perché quella legge è sempre e solo la volontà espressa dalla maggioranza, e la democrazia non è il regime in cui comanda la maggioranza, ma quello in cui sono tutelate le minoranze. Nel gioco delle parti c’è che la legge sia espressione della volontà della maggioranza, ma quella legge - e dunque: quella maggioranza - non può andare contro i principi della dignità della persona e i suoi corollari così come fissati nell’assiologia costituzionale. E dunque non è il rispetto della legge - e dunque la legalità - che viene prima di ogni altra cosa, ma il rispetto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fissati in Costituzione. Si potrà al più dire - ma anche qui ci può essere qualche dubbio - che a venire prima di ogni altra cosa sia il rispetto del diritto, ma questa è un’altra cosa, ed è proprio quello che qui si sta dicendo. Con la medesima tenacia con cui la nostra destra somministra sempre lo stesso veleno alla nostra democrazia, è necessario che si compia una eguale azione contraria, egualmente costante e quotidiana, che smascheri le dissimulazioni e le falsità, e non lasci che passi l’idea per cui la volontà della maggioranza viene prima della garanzia dei diritti. È esattamente l’inverso: è solo nel rispetto dei diritti, che la volontà della maggioranza è legittima. Una maggioranza politica che compromette il pactum unionis contenuto nell’assiologia costituzionale è una maggioranza politica illegittima. Sicurezza sociale - Quanto invece all’altro polo degli slogan - la sicurezza - certo, sì, è chiaro che viene prima di tutto. Attenzione, però, che la sicurezza non sia ridotta alla mera tutela dell’integrità fisica delle persone, che ne rappresenta certamente la misura minima, ma non esclusiva. Perché questa sicurezza può essere garantita anche in un regime autoritario, anche in un regime oppressivo, anche in una situazione esattamente contraria alla democrazia. Si può essere sicurissimi, da quanto punto di vista, anche in un regime di privazione assoluta della libertà. La sicurezza cui punta la nostra democrazia è invece un’altra cosa; è la sicurezza sociale; quella, in fondo, di cui parla l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. E di questa sicurezza, chi ne parla più? Rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti e sicurezza sociale, questo veramente viene prima di ogni altra cosa, presidente Meloni. Se manca questo, potremmo anche continuare a tenere in piedi le nostre liturgie elettorali, ma saremmo diventati altra cosa da una vera democrazia. Ci resterebbero solo le manette e i distintivi da sceriffo: quod Deus avertat. Aborto, basta steccati ideologici. Le parole violente rivolte alle donne violano la Costituzione di Alessandra Kustermann* La Stampa, 28 marzo 2025 Nei racconti riportati dalla campagna di “Medici del Mondo” frasi preoccupanti contro le pazienti che chiedono di interrompere la gravidanza. Gli italiani hanno voluto la legge 194. Le frasi molto preoccupanti, riportate nell’installazione di “Medici dal Mondo” a Torino, sono un esempio di “scoraggiamento attivo” della richiesta di interruzione della gravidanza. Sono parole talmente violente e crudeli da fare sperare che siano false. Ma se anche una sola di queste parole fosse stata pronunciata in un ospedale, in un consultorio pubblico o accreditato con il Sistema sanitario nazionale da un medico, da un infermiere o da un operatore di un centro di Aiuto alla Vita dovrebbero essere chiesti i danni a chi l’ha pronunciata. “Ti sei divertita, eh? Ora paghi” o “Bastava usare il preservativo”. Sono frasi inaudite, oltre che frutto di un’ignoranza abissale sull’efficacia dei diversi metodi contraccettivi. Solo la pillola estroprogestinica ha un’efficacia contraccettiva di poco superiore al 99%, il condom ne è ben lontano, per non parlare del coito interrotto o dell’astinenza periodica dai rapporti sessuali. Obbligare una donna ad ascoltare il battito cardiaco del feto, quando richiede di interrompere la gravidanza è un’usanza inaccettabile, in contrasto con la deontologia professionale. Inoltre, non si è mai dimostrata efficace nel far cambiare idea a una donna. Se quella gravidanza non si sente in grado di affrontarla, se non può o non vuole diventare madre di quel feto in quella fase della propria vita, se non può permettersi di non abortire, paragonarla ad un’assassina non modificherà la sua scelta. Riuscirà solo ad indirizzarla di nuovo ad un aborto clandestino che aumenterà i suoi rischi di perdere la vita o la salute come avveniva prima dell’entrata in vigore della legge 194 del 1978. Un aborto sicuro è un diritto che la legge garantisce, che i cittadini italiani hanno confermato nel 1981 con un referendum che vide un’affluenza del 79,4% e con un 68% di italiani che votarono contro l’abrogazione della legge. Le parole che devono accogliere una donna che richiede di interrompere una gravidanza sono ben diverse e devono tenere conto della dignità della persona che si rivolge a qualunque ospedale o consultorio sul territorio italiano. Le parole riferite dalle donne entrano in contrasto con la nostra Costituzione in particolare con l’art 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” e l’art.32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo…. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” e non ultimo l’art.54: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Inoltre, i professionisti che lavorano nel Sistema sanitario devono sottostare a codici etici di comportamento nei verso gli utenti, oltre che alle regole del Ordine professionale. Forse è ora di parlare di come trasmettere speranza nel futuro, di gentilezza, empatia verso chi attraversa un momento di fragilità, di quali siano i valori fondanti di una comunità, piuttosto che erigere steccati ideologici. La vita degli esseri viventi va difesa, ma la compassione non va mai dimenticata. *Ginecologa, fondatrice del primo centro antiviolenza in Italia Migranti. Cittadinanze facili, freno allo ius sanguinis. Via libera oggi in Cdm al decreto Albania di Francesco Malfetano La Stampa, 28 marzo 2025 Premierato, Albania e sicurezza. Giorgia Meloni prova a ripartire da alcuni dei suoi capisaldi politici, approntando anche una stretta sul conferimento della cittadinanza italiana ai discendenti residenti all’estero. Mentre il governo fibrilla sotto il peso della politica estera e delle intemperanze di Matteo Salvini, al giro di boa della legislatura scoccato ieri, la premier sposta l’attenzione innanzitutto sulla “madre di tutte le riforme”. Con un video, ieri, Meloni si è auto-celebrata sui social rimarcando “la stabilità” del governo, ora sul podio dei cinque più duraturi della storia repubblicana, e indicando i volti alle sue spalle di coloro che l’hanno preceduta: “Pochissimi di questi uomini sono rimasti al governo per oltre due anni”. Il testo che Meloni concepisce come lo strumento per rendere “più forte” l’Italia, è però fermo in commissione Affari Costituzionali, alla Camera, con il prossimo step segnato sul calendario solo per metà maggio. Un rallentamento arrivato anche su input dell’esecutivo. Dopo l’approvazione al Senato il premierato attende che al suo percorso si appai l’altra riforma simbolo: la separazione delle carriere dei magistrati (l’Autonomia, invece, è ferma al palo nonostante il pressing leghista). Se questa - cara a FI - dovrebbe arrivare alle urne entro il 2026, il governo ha invece in mente di completare l’iter parlamentare del provvedimento meloniano entro la fine della legislatura, lasciando che il referendum si tenga dopo le Politiche del 2027. Una scelta conservativa, per la premier. E anche un ripiego. Così come lo è il decreto che oggi sarà varato in cdm per consentire l’uso delle strutture di Gjadër e Shëngjin come Centri per il rimpatrio. Sul tavolo c’è la norma che permette ai centri italiani in Albania di occuparsi dei migranti per cui il magistrato ha già convalidato l’istanza di rimpatrio e non più coloro che sono in attesa di accedere alle procedure rapide di riconoscimento. Non solo. Il governo mette nel mirino anche le cosiddette cittadinanze italiane “facili”, ottenute da discendenti residenti all’estero grazie allo ius sanguinis. Una stretta - di fatto un allungamento dei tempi di gestione della pratica ed un maggior screening tra i richiedenti - dettata dalla necessità di preservare i consolati dei Paesi a più alta emigrazione ed evitare l’effetto moltiplicazione che, spiegano fonti di rilievo nell’esecutivo, ha portato “migliaia di discendenti senza alcun legame con il Paese ad ottenere il nostro passaporto solo per approfittarne. Ad esempio per farsi curare in Italia”. Per concludere, nonostante non compaia nell’ordine del giorno, ai vertici del governo non escludono che in cdm possa approdare un ulteriore misura. Ovvero lo stralcio dal Ddl sicurezza della tutela legale degli agenti delle forze dell’ordine. La contestata norma con cui lo Stato, in sostanza, si impegna a fornire assistenza legale e occuparsi di eventuali risarcimenti per i reati commessi dagli agenti nell’esercizio delle proprie funzioni. Un decreto caro a FdI che Meloni è determinata a cavalcare per scacciare l’aria di crisi che nelle ultime settimane si respira all’interno del governo. Migranti. Arriva il decreto sui Cpr in Albania. I dubbi delle opposizioni di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 28 marzo 2025 In Cdm approda il testo per riconvertire in Centri per il rimpatrio di migranti irregolari le strutture realizzate dal Governo. Ma per M5S un dl non basta, serve un nuovo protocollo con Tirana. Le ultime esitazioni si sono sciolte in serata. Fino al pomeriggio infatti, nella scaletta del pre-Consiglio dei ministri, la bozza del nuovo “decreto Albania” non c’era. Ma intorno alle 20, da Palazzo Chigi è arrivato l’ordine del giorno del Cdm odierno, con la conferma della presenza di un o “schema di decreto legge” con “disposizioni urgenti per il contrasto all’immigrazione irregolare”. Dei contenuti si è saputo poco. L’intenzione dovrebbe essere quella annunciata nei giorni scorsi dal titolare del Viminale Matteo Piantedosi: le due strutture per trattenere i migranti salvati in mare, costruite dall’Italia in Albania, potrebbero essere “riconvertite” in altrettanti Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), in cui trasferire e ospitare immigrati giunti in Italia irregolarmente e che hanno già ricevuto un provvedimento di espulsione, convalidato dalla magistratura. Trattenimenti fino a 18 mesi - Attualmente le due strutture - la cui realizzazione e gestione è costata un miliardo di euro - sono vuote, in attesa di vedere cosa deciderà a fine primavera la Corte europea di giustizia sulle istanze in materia di “Paesi sicuri” sottoposte dai tribunali italiani. La prima, quella portuale di Shengjin, contiene solo un hotspot per l’identificazione, senza posti letto., e pertanto nel caso dovrebbe essere attrezzata con ulteriori spese. La seconda, a Gjader, è invece attrezzata con 880 posti per richiedenti asilo, 140 in una sorta di Cpr e altri 20 in un mini-penitenziario. Quest’ultima, a stare alle valutazioni del ministro Piantedosi, potrebbe dunque essere attivata “nei tempi più stretti possibili”. Una volta varato il decreto legge (efficace per 60 giorni, pena la decadenza se non convertito dal Parlamento entro quel termine), i migranti irregolari su cui pende una misura di espulsione potrebbero essere trasportati da navi militari italiane in Albania e collocati nelle due strutture, per un periodo massimo di 18 mesi, cercando di organizzare il loro effettivo rimpatrio nei Paesi d’origine (sempre che con quegli Stati ci siano accordi bilaterali in vigore e concretamente applicati). Tre mosse in una per difendere la linea - Negli auspici del governo, il maquillage delle due strutture avrebbe almeno tre obiettivi: il primo, sul piano politico, di difendere - agli occhi dell’elettorato nostrano ma anche degli Stati Ue e della Commissione, che si stanno incamminando verso la creazione di hub per migranti in Paesi terzi - la linea dell’esternalizzazione, inaugurata col Protocollo fra Roma e Tirana firmato dai due premier Giorgia Meloni ed Edi Rama e di mostrare che i centri (onerosi per lo Stato ma al momento vuoti, come da mesi sottolineano le opposizioni) possano tornare buoni per un utilizzo secondario, nella speranza che la sentenza dei giudici europei consenta poi di ridestinarli ai richiedenti asilo soccorsi in mare; sul piano pratico, stante la volontà dell’esecutivo di aumentare ancora la quota di rimpatri effettivi, avere la possibilità di affiancare ai 10 Cpr in funzione (Gradisca d’Isonzo a Gorizia; via Corelli a Milano; Torino, appena riaperto; Ponte Galeria a Roma; Bari Palese; Restinco a Brindisi; Palazzo San Gervasio a Potenza; Macomer a Nuoro; Milo a Trapani; Pian del Lago a Caltanissetta) altre due strutture fuori dall’Italia; e infine, sul piano mediatico, usare la notizia come grancassa per trasmettere all’estero l’idea che i “rimpatriabili” possono intanto essere trasferiti fuori dai confini italiani. I dubbi delle opposizioni: non basta un decreto legge - Ma sulla mossa si addensano le perplessità delle forze di minoranza. “Sui centri in Albania Piantedosi fa il gioco delle tre carte - argomenta il deputato di M5s Alfonso Colucci -. Attualmente il governo non può portare in Albania persone già ospitate dai Cpr in Italia. Per farlo deve riscrivere il Protocollo con l’Albania e farlo approvare dai Parlamenti dei due Paesi. Inoltre, non potrebbe mai rimpatriarli direttamente da lì”. Per Colucci, è solo un “accanimento su un progetto ormai chiaramente fallimentare, che ha sprecato un miliardo di euro degli italiani e, se riconvertito, comporterebbe altri sprechi”. La pensa così anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi: “Servirebbero altri soldi, oltre al miliardo già stanziato”. Un decreto anche in materia di cittadinanza - Nell’odg del Consiglio odierno, figura anche un altro schema di decreto legge, con “disposizioni urgenti in materia di cittadinanza”. Secondo alcune fonti, potrebbe contenere restrizioni per frenare l’eccesso di richieste fatte da discendenti di cittadini italiani residenti all’estero. Inoltre, in uno dei provvedimenti potrebbero trovar collocazione alcune norme traslate dal ddl sicurezza per garantire ulteriori tutele alle forze dell’ordine. Il ddl sicurezza verso la terza lettura - Proprio il controverso ddl sicurezza infatti resta al vaglio del Senato. Ora procede verso l’esame in Aula e, con ogni probabilità, verso una terza lettura alla Camera. A determinarlo è stato l’ostruzionismo delle opposizioni, che nei mesi scorsi hanno depositato nelle commissioni oltre 1.500 emendamenti, sommato a un’obiezione della Ragioneria generale, che ha evidenziato un bug del testo: per alcune misure la previsione di coperture di bilancio era attribuita ai fondi del 2024, ma siccome l’esame si è protratto dovrà essere aggiornata al 2025. Pertanto il ddl dovrà comunque passare di nuovo alla Camera. Un allungamento dei tempi che soprattutto la Lega, nella maggioranza, fatica a digerire. Ma che darebbe la possibilità al centrodestra di presentare in Aula emendamenti che possano correggere norme (come quella sulle detenute-madri) su cui si erano appuntati i rilievi degli uffici legislativi del Quirinale. Dal canto loro, quando la seduta sarà calendarizzata, le opposizioni ripresenteranno in Aula molti emendamenti: “Adesso non c’è più ragione per non riaprire il confronto - osserva Andrea Giorgis, senatore del Pd - e per riscrivere in Aula un testo illiberale, pieno di strafalcioni giuridici e disposizioni di dubbia legittimità, che non garantisce ai cittadini più sicurezza, ma toglie loro un po’ di libertà”. Migranti. Marjan Jamali torna in libertà in attesa della fine del processo di Marika Ikonomu Il Domani, 28 marzo 2025 Il tribunale ha revocato i domiciliari. È fuggita dall’Iran “per cercare un posto sicuro in cui crescere mio figlio”, ha raccontato in udienza parlando in italiano, denunciando violenza domestica dal suo ex partner e anche una violenza sessuale durante la traversata. La donna, dopo la decisione del tribunale della Libertà, attenderà la fine del processo in libertà. Locri - “Mi chiamo Marjan Jamali”. La donna iraniana agli arresti domiciliari con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ha scelto di parlare in italiano e inizia così il suo esame davanti al collegio del tribunale di Locri. “Ho aspettato 17 mesi per parlare con i giudici, sono stanca”. Jamali aveva voglia di spiegare in una lingua che non è la sua, ma che è quella di chi è chiamato a giudicarla e a decidere se rimetterla o meno in libertà. “Vorrei chiedere di togliere la misura del braccialetto elettronico. Non è mia intenzione scappare, vivo con mio figlio e si spaventa quando i carabinieri vengono alle tre di notte”, ha detto ai giudici. Dal 27 ottobre 2023 al 16 novembre 2024 “non ho mai parlato con una persona nella mia lingua”, ha detto in udienza, spiegando che non aveva capito il perché dell’arresto. La donna è stata arrestata il 28 ottobre 2023, poco dopo aver toccato il territorio italiano, per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, perché accusata di aver aiutato chi guidava la barca salpata dalle coste turche. “Vivevo una situazione molto brutta in Iran con il mio ex marito, mi picchiava”, ha raccontato Jamali, che - ha spiegato - dopo cinque anni di matrimonio ha deciso di divorziare. La donna ha poi detto ai giudici di essere finita in ospedale per 13 giorni per un’aggressione da parte dell’ex partner, che continuava a perseguitarla. “Mi diceva: “Non ti lascerò vivere tranquilla”“. La donna ha spiegato in udienza che la legislazione iraniana prevede, in caso di divorzio, che l’affidamento del figlio spetti al padre dopo gli 8 anni. Ha quindi deciso di lasciare l’Iran “per cercare un posto sicuro in cui crescere mio figlio”, pagando “9mila euro per me e 5mila per il bambino”, ha aggiunto. Da Teheran a Istanbul Jamali e il figlio hanno viaggiato in aereo. Dopo un mese, ha raccontato, sono stati portati con un’altra decina di cittadini iraniani a Marmaris, dove si sono imbarcati con altre cento persone verso l’Italia. Le accuse- Le accuse a Jamali si basano sulle dichiarazioni di tre passeggeri su 102 che, appena sbarcati, hanno sostenuto che la donna avesse il ruolo di raccogliere i cellulari prima della partenza. Per la procura avrebbe svolto “mansioni meramente esecutive e di collaborazione nell’operazione coordinata da trafficanti attivi sul territorio turco”. Ma l’uomo che ha materialmente guidato la barca, che ha patteggiato la pena ed è stato chiamato dalla difesa come teste, ha detto in udienza: “L’imputata era una migrante come tutti gli altri, non c’entrava niente con l’organizzazione”. Jamali viaggiava con il figlio di 8 anni e, secondo il racconto del testimone, è stata con tutti gli altri sottocoperta. “Saliva ogni tanto per prendere una boccata d’aria perché non si sentiva bene”, ha continuato l’uomo. Davanti ai giudici la donna ha raccontato di aver subito una violenza sessuale durante il viaggio: “Mentre dormivo ho sentito delle mani che mi toccavano in diverse parti”, e ha indicato la guancia, l’inguine e il seno. Proprio su questi racconti è stata basata la denuncia per violenza sessuale presentata dalla donna a febbraio 2024. Diritto di difesa - Sbarcata in Italia, è stata subito accusata dai tre uomini di essere un membro dell’equipaggio. Tre persone su 102, le stesse che si sono poi rese irreperibili e non sono più state rintracciate né sentite nel processo. Non è stata interrogata, né ha potuto parlare con un mediatore che parlasse il persiano. “Mi chiedevo: perché sono qua?”. Ai giudici Jamali ha spiegato che le avevano detto che sarebbe stata solo per una notte “nella stanza della polizia” e che il giorno dopo avrebbe rivisto il figlio. Non è stato così, è stata reclusa nel carcere di Reggio Calabria per 7 mesi, lontana dal bambino. Fino al 31 maggio, quando le è stata modificata la misura con quella del braccialetto elettronico e del divieto di comunicazione. Il 27 marzo è fissata un’udienza di appello del riesame. Mentre il processo dovrebbe concludersi il 28 maggio. L’articolo 12 - Marjan Jamali è imputata per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, previsto dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione. Rischia fino a sedici anni di carcere e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo. “L’articolo 12 prevede sanzioni per chi facilita l’ingresso irregolare di stranieri, senza però distinguere tra chi lo fa per profitto e chi agisce in situazioni di emergenza”, spiega Francesca Corbo di Amnesty International. Nel 2023 erano 1.216 le persone che come Jamali erano recluse per questo reato. Lo stesso per cui è stata imputata Maysoon Majidi, l’attivista curdo-iraniana, detenuta per oltre 300 giorni, poi liberata e infine assolta lo scorso febbraio per non aver commesso il fatto. Il decreto approvato dal governo dopo la strage di Cutro, che ha aumentato la pena, per Corbo ha rafforzato “l’approccio criminalizzante del governo”, inasprendo le pene, “senza però considerare le vere cause del traffico di esseri umani e cioè la mancanza di canali di accesso legali e sicuri”. Amnesty chiede che “l’articolo 12 venga adeguato al protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, adottato nel 2000 e ratificato dall’Italia, che riconosce il traffico di esseri umani solo quando vi è un vantaggio economico”. E, inoltre, che vengano introdotti “canali di accesso legali e sicuri in mancanza dei quali i viaggi irregolari e il contatto con i trafficanti sono le uniche vie possibili per chi cerca di fuggire da contesti di crisi, esattamente come successo Marjan Jamali”. Cacciari e Ferraris: “Ora il mondo ha paura. La politica non lasci il dominio alla tecnica” di Cesare Martinetti La Stampa, 28 marzo 2025 I filosofi: “L’Occidente è in crisi perché ha sacrificato la società alla finanza e alla tecnocrazia”. Non stiamo assistendo tutti a un film dell’orrore, ma è semplicemente la politica. Una politica oggi dominata dalla paura e orientata da una casta economica che si è impossessata della tecnologia. Elon Musk con il cappellino in testa e il figlio sulle spalle che maltratta nello Studio ovale il presidente degli Stati Uniti è l’emblema di questo processo. L’Europa che dichiara di riarmarsi senza avere una vera idea comune di come farlo ne è il controcanto. Putin che vagheggia il suo sogno imperiale, ma in tre anni non ha vinto la guerra è l’altro protagonista di un mondo in decadenza che ha perso ogni orizzonte di speranza, che non progetta un futuro e che è destinato al vero scontro finale che sarà con la Cina. Spietati e disincantati i filosofi Massimo Cacciari e Maurizio Ferraris hanno dato vita ieri sera al Circolo dei Lettori di Torino, per Biennale Democrazia, nel ciclo delle Muse Sapienti di Politecnico e Università, a un confronto nel quale si sono lodevolmente spalleggiati per mettere insieme brandelli di speranza e provare ad abbozzare un orizzonte di futuro. Per Cacciari è la politica che “deve governare e indirizzare tecnica e tecnologia che oggi offrono nuove e grandi possibilità di liberazione, un’utopia che può portarci in un bel posto, ma può anche trasformarsi in una tremenda distopia. Siamo arrivati al fondo, si può soltanto rimbalzare”. Per Maurizio Ferraris “bisogna smetterla di guardare all’intelligenza artificiale come un qualcosa fuori di noi che ci minaccia. È un prodotto potentissimo dell’umanità e l’uomo per primo deve prenderne coscienza e metterla al suo servizio”. Questo finale è parso però a tutti come l’esercizio di un dovere da parte dei due filosofi, una dichiarazione di ottimismo della volontà, dopo che tutta la serata era invece stata dominata dal pessimismo della ragione. Lo stato del mondo, d’altra parte, è quello che è. Cacciari: “Trump non è che il punto di arrivo di una lunga tendenza che rivela una crisi forte dei sistemi democratici incapaci di stare al passo con la rivoluzione tecnologica e col potere finanziario. Trump rappresenta questo processo e non è per niente folkloristico, ma l’espressione di un’America in grande difficoltà. Di qui la politica dei dazi, con una società spezzata in centomila sette e che realizza politiche economiche per difendersi dalla competitività cinese. Se guerra ci sarà, e temo che ci sarà, sarà tra America e Cina non con la Russia. Le politiche protezionistiche sono sempre sintomo di debolezza e non è una buona notizia per l’Occidente”. Vecchia politica dominata dalla paura, lo stato d’animo più diffuso. Ferraris: “È uno strumento di governo, che viene spinto anche da Musk deformando le funzioni dell’intelligenza artificiale. Sembra un film dell’orrore, ma non è così. Quando il potere si sente debole, agita la paura. Non c’è niente di nuovo. Le analogie storiche sono sempre sbagliate, ma non si può non pensare a Hitler che striglia il presidente austriaco prima di annettere l’Austria. All’epoca, però, tutti avevano una speranza: il comunismo, il New Deal e anche il nazismo per i tedeschi era una speranza. In fondo Hitler, prima di fare la guerra, aveva fatto un miracolo risollevando il Paese. Oggi risulta completamente assente qualunque forza progressista. Tutto quello che promettono questi governi è il ritorno al passato, la Russia, l’America, anche l’Italia. Fanno sognare il ritorno all’età dell’oro”. E c’erano anche altre forme di esprimere il potere: “C’era più pudore - dice Cacciari - oggi c’è un’impudicizia che si esprime in una caduta di ipocrisia ma mette a nudo la crisi dei sistemi democratici. O riconosciamo la realtà o diventerà sempre più esplicita l’impotenza della politica, e la maggioranza dei cittadini penserà che la soluzione sia la Cina o Putin”. Ci sarebbe l’Europa, parola che si pronuncia e si ascolta ormai da tempo con diffidenza, spesso con sospetto. Ma sentendo parlare di difesa comune non si può non pensare alla storia della costruzione europea. Cacciari: “Tutti gli europeisti hanno affermato la necessità di unione politica nella quale la difesa comune doveva avere un ruolo fondamentale: doveva essere il ponte che connette le due sponde dell’Atlantico, l’Oriente e il Mediterraneo. Questa era la strategia di tutti gli europeisti veri. È clamorosamente fallita. Nei primi anni del XXI secolo abbiamo assistito a una formidabile sinergia tra le politiche dei NewCon americani con il sogno del riscatto imperiale della Russia, perfettamente combinati nel formare le tragedie che stiamo vivendo. Un doppio sogno, il nuovo secolo americano, combinato con la Russia che ritorna agli antichi splendori. Doppio sogno che si è tramutato in una sola tragedia”. È in grado l’Europa di uscirne? Ancora Cacciari: “È l’unico destino che può avere, non può più sognare un primato economico o scientifico, è in una crisi demografica spaventosa, indice di debolezza e anche mancanza di speranza. Si può discutere a lungo se la moneta unica sia stata una serie di errori. Ma quelli che l’hanno realizzata erano una classe politica che buttava il cuore oltre l’ostacolo, che ha pensato che l’euro avrebbe costituito un’accelerazione verso l’unione politica. Ma poi c’è stato l’allargamento dell’Unione fatto senza discernimento. Come si poteva pensare a un’unione politica con governi e Paesi nazionalisti e sovranisti? È stata la manifestazione di una élite politica molto debole che dipende dalla potenza dei meccanismi economici finanziari, ontologicamente più debole di quella degli anni Ottanta-Novanta”. In tutto, in Europa, come in America, la sinistra è stata subalterna e dunque responsabile. Ferraris: “Si è concentrata sulla tutela dei diritti dei pochi invece di occuparsi del progresso dei molti, spinti così sulla via del regresso. Non credo che gli elettori di Meloni o Trump siano più stupidi, semplicemente cercano risposte che non trovano a sinistra. Non le troveranno neanche a destra ma vengono rassicurati. È urgente e necessario costruire una narrazione di futuro”. Stati Uniti. Per una volta, simpatia per gli avvocati di Alessandro De Nicola La Stampa, 28 marzo 2025 Negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, gli avvocati non sono la categoria più popolare del mondo e la quantità di barzellette e sfottò loro dedicati ne è prova (indiziaria, si affretterebbero a dire). A Donald Trump è sembrata quindi una buona idea lanciare un’offensiva contro quello che in America è chiamato Big Law, il gruppo di 200 studi legali con bilanci di centinaia di milioni di dollari e in molti casi di miliardi, di cui ha già riferito Alan Friedman su La Stampa. Trump ha esercitato una vera e propria vendetta contro i giuristi che a suo giudizio gli erano stati ostili, difendendo o aiutando gratuitamente i suoi avversari come il procuratore speciale Jack Smith, Hillary Clinton o i procuratori che indagavano sul Presidente o appoggiando cause contro i dimostranti che invasero Capitol Hill il famigerato 6 gennaio 2021. Ma andiamo con ordine. Dal 25 febbraio al 14 marzo l’amministrazione repubblicana ha emanato 3 ordini esecutivi diretti ad altrettanti studi legali con accuse simili tra loro. In primo luogo si accusano le law firm di svolgere attività che “danneggiano le comunità, appesantiscono le imprese, limitano la libertà e degradano il processo elettorale” oppure di aver intrapreso un’attività “disonesta e pericolosa”, addirittura per decenni, rendendosi complici delle campagne denigratorie lanciate da Hillary Clinton. Il secondo biasimo riguarda le politiche di “Diversity & Inclusion”. Secondo l’amministrazione, le politiche degli studi legali che stabiliscono quote di neo assunti o di promozione a soci di minoranze etniche o di genere o di altre categorie (ad esempio LGBTQ) violano il Civil Rights Act del 1964. Sì, esattamente quella legge approvata nel 1964 sotto il presidente Johnson per far cessare le discriminazione e la segregazione razziale che colpiva i neri soprattutto negli stati del Sud. Ora il linguaggio della norma, che proibisce alcun favoritismo in base al colore della pelle, etnicità o genere, viene ritorta contro chi adotta politiche di affirmative action (inserimento di quote minime) a favore di minoranze in quanto discriminatorie nei confronti non solo dei bianchi, ma anche degli asiatici (la Corte Suprema ha ritenuto tali procedure adottate dalle università americane incostituzionali, proprio perché svantaggiavano soprattutto gli Asian-American, pochi rispetto alla popolazione ma ammessi in massa per merito). Le sanzioni sono devastanti, in quanto tutti gli avvocati degli studi sono stati privati dell’accesso agli edifici federali se ciò costituisce una “minaccia la sicurezza nazionale” e dei visti di sicurezza per accedere a materiale sensibile. Peggio ancora, tutti i contratti di consulenza con la pubblica amministrazione sono risolti ove legalmente possibile e comunque non se ne possono fare di nuovi. In un caso anche i contratti del governo federale con i clienti dello studio sono messi sotto osservazione. Una law firm è scesa a patti e ha abolito le sue politiche di diversity, promettendo 40 milioni di dollari di lavoro gratis a favore di cause care al governo. Una seconda ha scelto il silenzio, essendo meno bersagliata e sperando che passi la tempesta, mentre la terza ha fatto ricorso al giudice chiedendo l’annullamento del provvedimento governativo. Tre rapide considerazioni. La prima è che soprattutto dopo la pronuncia della Corte Suprema, l’accusa di “discriminazione” da parte dell’amministrazione ha qualche fondamento giuridico. Ma se una legge è stata interpretata per 60 anni in modo diverso, ricorrere a un ordine esecutivo accompagnato da sanzioni per mettere fine alle pratiche di promozione della diversità, assume l’aspetto di un abuso di potere: si instaura un procedimento regolare che riguarda tutti, non bastonando uno per educarne 100. Ancor più dannosa è la ritorsione per punire l’assistenza ai clienti sgraditi, violando le elementari garanzie dello stato di diritto per le quali tutti hanno diritto a un avvocato e questo non deve essere intimorito a causa della sua difesa a meno che non commetta reati (ma qui nessuno ha provato la commissione di reati). Infine le sanzioni: quand’anche uno studio legale ottenesse una decisione giudiziaria favorevole, esse sono devastanti perché avvocati e clienti tenderanno ad andarsene per paura di perdere i contratti federali. Come ha detto il presidente dello studio che si è accordato (non proprio un nanerottolo: 1250 avvocati, fatturato di 2, 63 miliardi di dollari, profitto medio per socio di 7, 54 milioni di dollari) “è molto probabile che il nostro studio non sarebbe in grado di sopravvivere a una lunga battaglia con l’Amministrazione”. Un’ulteriore lezione, che dovrebbe far riflettere i tanti democratici statalisti, è che quando lo Stato si intromette molto nell’economia, può facilmente interferire anche con le libertà politiche e civili. Come ricordava il grande economista von Mises: “A cosa serve la libertà di stampa se tutte le tipografie sono in mano al governo?”. Insomma, per quanto impopolare sia, quando l’avvocatura è messa sotto attacco ci ricordiamo come essa sia una garanzia di libertà. I Rolling Stones cantavano “Sympathy for the Devil”, il diavolo; noi possiamo almeno fischiettare la nostra sympathy for the lawyer. Costa d’Avorio. Maurizio Cocco, il caso dell’ingegnere italiano detenuto arriva in Parlamento di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 marzo 2025 Maurizio Cocco, l’ingegnere italiano che da due anni in carcere in Costa d’Avorio. La moglie: è malato, bisogna fare presto. “Quali opportune e tempestive iniziative, per quanto di competenza, intende assumere per garantire assistenza e supporto al nostro connazionale affinché abbia un giusto processo in tempi celeri e condizioni di detenzione adeguate e in linea con il rispetto dei diritti umani?”. Il parlamentare dem Matteo Orfini, chiede conto così al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in una interrogazione parlamentare, di cosa il governo intenda fare per riportare a casa Maurizio Cocco: ingegnere italiano che si proclama innocente ma è detenuto, da oltre due anni e mezzo, in un carcere lager di Abijan, in Costa d’Avorio, dove rischia la vita per condizioni di salute molto critiche, denunciate dal Corriere. Nell’interrogazione parlamentare presentata giovedì assieme al collega Fabio Porta, l’ex presidente del Pd ripercorre le tappe della vicenda: a partire dall’arresto con l’accusa di narcotraffico, poi caduta alla fine di due anni trascorsi in custodia cautelare in condizione disumane: “Arrestato in Costa d’Avorio nel maggio del 2022 con accusa di presunto traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere e percosse e, in seguito alla caduta delle accuse precedenti, per riciclaggio, è attualmente detenuto in un carcere della capitale ivoriana”. Segnala che “le condizioni di detenzione di Maurizio Cocco risultano essere particolarmente critiche anche a causa del sovraffollamento dell’istituto penitenziario che ne hanno compromesso lo stato di salute”. Cita le dichiarazioni del legale di Cocco, Mario Cicchetti: “Ha perso metà del suo peso, ha contratto la malaria e una quantità di virus che in Europa nemmeno conosciamo e ha avuto un ictus”. E sottolinea l’assurdo giuridico della mancata scarcerazione: “Il 7 maggio 2024 si è tenuto un processo durante il quale sono cadute tutte le accuse che erano state mosse al nostro connazionale, ma è stato condannato, in tale sede, per frode fiscale per un periodo pari a quello già trascorso in detenzione e cioè due anni. Dunque ne era stata prevista la scarcerazione ed il rientro in Italia, ma tale evento non è avvenuto”. Ma c’è di più: “La giustizia locale ha risposto rilanciando con una nuova accusa di riciclaggio che lo tiene ancora in carcere in attesa della sentenza di un procedimento che è attualmente ancora in fase di indagine”, spiega Orfini. Parla di “dinamiche non chiare” anche sulla possibilità di libertà su cauzione: a Cocco è’ stata chiesta inizialmente un milione e mezzo di euro di cauzione, poi via via ridotta a 150mila euro, di cui comunque l’ingegnere, che ha subito anche il sequestro dei conti bancari, non dispone. E aggiunge che, sebbene l’ambasciata abbia partecipato come osservatore al processo ed effettuato visite consolari, “resta tuttora in condizioni di detenzione critiche e senza la possibilità di poter scontare la propria pena ai domiciliari”. Il 31 ottobre ci sarà l’udienza per l’appello di un processo che Cocco, attraverso il difensore, definisce “una farsa. Senza prove e con dichiarazioni inventate”. Cosa si intende fare per aiutarlo? Egitto. La battaglia di Laila Soueif contro il regime di Al Sisi di Ahmad el Fakharany Internazionale, 28 marzo 2025 L’attivista e matematica egiziano-britannica è in sciopero della fame per chiedere la liberazione del figlio Alaa Abdel Fattah, ingiustamente detenuto. In una stanza d’ospedale dove il tempo ha perso significato, Laila Soueif è distesa a letto in un apparente atteggiamento di resa. Ma dietro la sua immobilità c’è una resistenza silenziosa che si oppone al cedimento. Il volto, conosciuto per la sua forza e la sua resistenza, è pallido, come se i lunghi giorni di sciopero della fame le avessero portato via fino all’ultimo briciolo di energia. Le braccia pendono mollemente lungo i fianchi, segnate dal lungo digiuno, mentre gli occhi scavati fissano in alto verso un punto invisibile, in cerca di qualcosa di perduto, forse l’ombra del figlio, Alaa Abdel Fattah; una prova che la sua assenza non è l’unica verità rimasta. Da più di cinque mesi Soueif rifiuta di mangiare. Non è una resa, ma un tentativo di costringere il mondo a prestare attenzione. Quando le autorità e i regimi ti ignorano, quando ogni appello è ridotto a sorde procedure burocratiche, il corpo stesso diventa uno strumento di protesta. La fame diventa il linguaggio finale con cui esprimersi di fronte a un mondo che insiste sul tuo silenzio. Ma questa non è una novità per Laila Soueif. Ha trascorso la vita muovendosi tra università, manifestazioni, carceri, con un libro in una mano e uno slogan nell’altra, tra una mente matematica che amava la logica e un cuore politico consapevole che la logica da sola non è mai bastata. In matematica c’è sempre una risposta corretta, un’equazione che porta a una soluzione. Ma nella politica egiziana le equazioni sono riscritte come vogliono le autorità e i risultati sono determinati non dalla logica, ma dal potere. Dove le leggi non gli bastano, il regime usa la repressione. Laila Soueif da giovane era convinta che la conoscenza volesse dire prendere una posizione, che non fosse neutrale. Non è stata solo una studiosa che osservava a distanza, ma ha fatto parte di un movimento di sinistra che considerava la scienza e il pensiero strumenti di cambiamento, non solo spazi per un dibattito astratto. Naturalmente, questa convinzione l’ha portata a scontrarsi con l’autorità, ma forse non immaginava che questa battaglia non sarebbe mai finita, che sarebbe diventata una battaglia eterna, non solo per le sue idee, ma anche per i suoi figli. Alaa Abdel Fattah non è solo uno dei tanti nomi nella lista dei prigionieri politici: ha incarnato il dilemma di uno stato che teme più le parole delle minacce armate. Dal 2011 è stato sballottato da un carcere all’altro. Le accuse possono anche cambiare, ma il crimine resta lo stesso: aver fatto sentire la sua voce. In un sistema in cui il silenzio è considerato la chiave per la stabilità, il semplice fatto di avere una voce è considerato una trasgressione, un imperdonabile gesto di sfida. Quando Abdel Fattah ha finito di scontare la sua ultima condanna nel settembre 2024 avrebbe dovuto essere rilasciato, ma non tutti quelli che scontano una pena in Egitto poi escono di prigione. Questa volta non c’è stato nessun processo, nessuna incriminazione, solo la decisione di tenerlo in carcere, senza spiegazioni. La burocrazia, che dovrebbe essere un meccanismo amministrativo, è diventata uno strumento punitivo. Non c’erano documenti ufficiali a confermare che la sua detenzione doveva continuare, nessun chiaro passaggio legale, solo una semplice realtà: Alaa Abdel Fattah non sarebbe uscito. E quando lo stato ha manipolato la legge, Laila Soueif ha deciso di giocare secondo le sue regole. Se loro avevano tolto la libertà a suo figlio, lei si sarebbe privata dell’unica cosa su cui aveva il controllo assoluto: il suo stesso corpo. Quando Soueif ha deciso di smettere di mangiare non si è trattato né di un gesto simbolico né di un tentativo di attirare l’attenzione. Non ha cercato di suscitare emozioni o d’invocare la compassione di un regime indifferente alle tragedie personali. Sapeva che lo stesso sistema insensibile alle suppliche di migliaia di prigionieri e delle loro famiglie per più di dieci anni non si sarebbe fatto facilmente impressionare dalla vista di una madre sempre più debole con il passare dei giorni di digiuno. Soueif non ha mai scommesso sulla pietà o sull’empatia del regime, ma sul metterlo di fronte alla verità delle sue azioni. Voleva spingerlo fino al punto di non potersi più nascondere dietro la retorica giuridica, costringendolo a riconoscere - anche in silenzio - che quello che stava accadendo non era l’applicazione della legge, ma una calcolata vendetta politica. Nei regimi fondati sulla repressione i dissidenti imparano presto che il corpo è l’ultima risorsa, l’ultimo rifugio di resistenza. Quando tutte le altre vie non portano a nulla - cortei, dichiarazioni, piattaforme - il corpo stesso diventa uno strumento di protesta, un campo di battaglia aperto che le autorità non possono fermare o soffocare con le leggi convenzionali. Uno sciopero della fame non è solo una rinuncia a mangiare; è un rifiuto della logica del potere, di un sistema che riduce i prigionieri a numeri, che considera i detenuti moneta di scambio, e liquida le madri addolorate come un semplice rumore da attutire e ignorare finché non sparisce. Ma Laila Soueif non è una prigioniera, ed è questo che rende diversa la sua battaglia. Il regime sa come mettere a tacere chi sta dentro la cella di un carcere, ma non sa come affrontare una madre che si espone allo scoperto, usando il suo corpo come arma, privando le autorità del lusso di farla sparire dietro le sbarre. L’attuale regime, più dell’opposizione organizzata, teme gli individui che diventano simboli. Ed è proprio per questo che Soueif è un problema. Non sta combattendo solo per sé, ma per tutte le madri e tutti i padri che hanno perso i figli nel labirinto della repressione; e rifiuta di accettare che il silenzio sia per loro l’unica scelta possibile. In Egitto le autorità non temono le grandi manifestazioni, perché possono disperderle con la forza, reprimerle con le leggi o screditarle sui mezzi d’informazione. A suscitare davvero preoccupazione sono le storie personali, che penetrano silenziosamente nella coscienza pubblica. Queste non si dimenticano facilmente né possono essere cancellate con l’approvazione di una legge. Che ne sia consapevole o meno, Soueif sta ridefinendo la protesta politica in Egitto, non attraverso gli slogan o la folla, ma con il suo corpo fragile, il più debole strumento di resistenza, eppure il più potente per le sue conseguenze. La domanda fondamentale ora non è quanto a lungo Soueif potrà portare avanti lo sciopero della fame, ma quanto a lungo il regime potrà continuare a ignorarlo. Potrà rimanere in silenzio mentre la salute di una madre in lotta per suo figlio peggiora inesorabilmente? O il silenzio, come è avvenuto molte altre volte in passato, sarà parte di una strategia per logorarla fino al suo crollo definitivo? Gli scioperi della fame non sempre raggiungono il loro scopo o portano alla vittoria. A volte si concludono con la morte. Altre volte terminano con un intervento sanitario forzato che restituisce al corpo la vita ma non la dignità. E in alcuni casi le luci dei riflettori a poco a poco si spengono, rendendo quel calvario l’ennesimo capitolo di un archivio delle tragedie che non hanno cambiato nulla. Ma anche se il successo o la vittoria non arrivassero direttamente, quello che ha fatto Soueif ha lasciato un marchio indelebile. Ha costretto il regime a prendere una posizione - anche se quella posizione è il silenzio - e ha fatto in modo che quello di Alaa Abdel Fattah resti un caso che non può essere chiuso facilmente. Eppure, una domanda più grande aleggia al di là di questo momento: quanto a lungo un regime può governare solo attraverso la paura? La storia dice che non è possibile, il presente invece dice che può farlo, per lo meno molto più a lungo di quanto molti si aspettavano. E man mano che passano i giorni, Laila Soueif continua il suo sciopero e il suo corpo esausto è la testimonianza di una battaglia che non riguarda più solo suo figlio, ma qualcosa di più grande: può la verità, anche quando è portata da un corpo fragile, prevalere sull’oppressione?