Minori in carcere più che raddoppiati negli ultimi tre anni tgcom24.mediaset.it, 27 marzo 2025 Campania, Lombardia e Sicilia le regioni con più baby-detenuti. Dal 2021 al 2024, il numero degli adolescenti detenuti in un Istituto Penale per Minorenni è cresciuto del +124%. E considerando anche altre forme di restrizione della libertà, il fenomeno riguarda 1.498 giovani in tutta Italia. C’è un pezzo d’Italia che cresce dietro le sbarre di una cella, e non si tratta dei protagonisti di “Mare Fuori”. Perché oltre la finzione televisiva, e dentro i confini del nostro Paese, la realtà dei minori detenuti è molto più complessa. E non è scritta dagli sceneggiatori, ma dai numeri. In particolare, quelli dell’ultimo report del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Gruppo CRC), raccontano di un territorio dove l’infanzia può finire presto: nel 2024, gli adolescenti tra i 14 e i 17 anni rinchiusi negli Istituti Penali per i Minorenni (IPM) erano 311, più del doppio rispetto alla precedente rilevazione del 2021, quando i minori dietro le sbarre furono 139. Un fenomeno concentrato in poche aree - Numeri che, però, cambiano molto a livello regionale. Non a caso le prime quattro aree per minori detenuti negli IPM accolgono da sole quasi la metà del totale di loro. Alla data del 15 febbraio 2024, in Campania, risultavano detenuti 48 minori (erano 20 nel 2021), mentre in Lombardia 44 (contro i 23 della precedente rilevazione). La Sicilia, che occupa il terzo gradino del “podio”, ne contava 40 (erano 17 nel 2021), invece il Piemonte 39: nel 2021 erano la metà, 18. Confermando quasi sempre, peraltro, il trend di crescita nazionale. E, come segnala un’analisi approfondita del report effettuata dal portale studentesco Skuola.net, il quadro si fa ancora più allarmante se mettiamo nel calderone il dato aggregato sui servizi “residenziali” alternativi - che, oltre agli IPM, conta anche i Centri di prima accoglienza, le Comunità ministeriali e quelle private - arrivando alla seguente conclusione: i minori sottoposti a una qualche misura di detenzione, in Italia, sono ben 1.498. Alla luce di ciò, la triste classifica assume connotati ben diversi. Cosicché le regioni con il maggior numero di minori diventano la Lombardia e la Sicilia che, con 246 giovani incarcerati - o sottoposti a misure alternative - hanno un’incidenza sul totale nazionale pari al 16,42%. A stretto giro, segue la Campania, con 232 minori incarcerati e il 15,49% di incidenza sul totale nazionale: qui, oltre ai già citati 48 minori tra i 14 e i 17 anni detenuti in Istituti Penali per Minorenni, se ne aggiungono i 142 delle Comunità private. Qui il decreto legge 123/23 (cosiddetto Caivano, entrato in vigore nel settembre 2023 e convertito nella legge 159/23) potrebbe avere avuto un certo peso, visto l’ampliamento delle fattispecie per cui è previsto il ricorso al carcere in fase cautelare. Non si tratta, però, solo di una questione di numeri assoluti, ma anche di “peso” sulla comunità di riferimento. Alcune regioni - pur con una popolazione di adolescenti più ridotta - hanno un problema: il Piemonte, ad esempio, rappresenta da solo il 6,88% del totale nazionale. Lo stesso si può dire di Lazio e Puglia, che contano rispettivamente 121 e 112 ragazzi in stato di detenzione o sottoposti a misure alternative. Sul versante opposto, Valle d’Aosta, Molise e Umbria registrano i numeri più bassi, con pochissimi casi di detenzione minorile. In Umbria, nel 2024, erano appena 8; in Molise solo 1 mentre in Valle d’Aosta, addirittura, nello stesso anno non risultavano minori in stato di detenzione. Esempi virtuosi arrivano anche da Liguria, Abruzzo e Basilicata, dove il tasso di incidenza sul dato nazionale non supera un punto percentuale. Non c’è solo il carcere - Va poi fatta una distinzione in base al tipo di detenzione a cui si è sottoposti. C’è infatti chi può dirsi fuori dal carcere, ma comunque dentro al sistema. È esattamente il caso delle “comunità”: se ne parla meno, anche se accolgono una fetta consistente di questi adolescenti. Si tratta delle Comunità ministeriali e private dove i minori inseriti, in via alternativa alla detenzione, sono circa un migliaio su tutto il territorio nazionale. Il numero più alto, anche in questo caso, continua ad esprimerlo la Lombardia, con un totale di 180 minorenni in comunità private; segue la Sicilia, con 173 adolescenti che attualmente si trovano in una comunità sovvenzionata dallo Stato o da privati; poi la Campania, con 142. Io, donna trans in un carcere maschile di Luca Iacovone vita.it, 27 marzo 2025 Sono sei in Italia gli istituti penitenziari con sezioni riservate alle persone con disforia di genere. Ma c’è chi sceglie un percorso diverso. Come una persona in esecuzione penale nella Casa Circondariale di Matera, che ha preferito restare nella sua sezione, affrontando la convivenza, l’affermazione della propria identità e l’umanità possibile tra le mura di un penitenziario. Condivido la cella con altri uomini. Ci viviamo in quattro. Io ho il mio angolo, il mio letto, le mie cose. Non è facile, ci sono momenti d’imbarazzo, a volte anche difficili da spiegare. Ma qui, nonostante tutto, ho trovato rispetto. Anche da parte degli agenti: molti si rivolgono a me usando il femminile, e per me questo significa moltissimo”. Abbassa gli occhi, si guarda attorno. Le pareti sono completamente spoglie. La stanza, piccolissima, con solo una scrivania al centro e due sedie una di fronte all’altra, è quella riservata ai colloqui con gli avvocati, nella Casa Circondariale di Matera. Si sistema i capelli dietro le orecchie e continua: “Loro mi chiamano per cognome, mentre gli altri detenuti usano il mio nome, quello che mi sono scelta quando avevo diciotto anni. Anche se i miei documenti ancora riportano il vecchio nome maschile che i miei genitori avevano scelto per me”. Non è la normalità. Difficile capire quale sia la normalità nei penitenziari italiani per le persone transgender: ancora frammentaria, precaria e spesso invisibile. I dati più aggiornati, contenuti nel Rapporto Antigone 2023, parlano di circa settanta persone con disforia di genere recluse in Italia, collocate in sezioni protette riservate a persone transgender. Si tratta però di circuiti informali, non veri e propri regimi giuridicamente riconosciuti, distribuiti in sei istituti penitenziari: Rebibbia Nuovo Complesso, Como, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano, Ivrea e Belluno. “Sì, conosco quelle sezioni. Mi hanno proposto il trasferimento, ma io non voglio. Ho alcune amiche che vivono lì. Sulla carta, i padiglioni riservati sembrano una soluzione perfetta, un esempio di progresso. E forse potrebbero esserlo, un giorno. Ma chi li vive mi racconta di agenti che si sentono messi in trincea, mi raccontano di ambienti isolati e chiusi al resto del carcere. Invece io qui frequento i laboratori, partecipo a messa, vivo come tutti gli altri. Altrimenti, garantisci i diritti sulla carta, è vero, ma se non c’è un vero lavoro sulla comprensione reciproca, è tutto inutile”. “Non dico che la condizione di serenità che io sono riuscita a costruirmi qui possa essere la regola valida per tutte le persone. So bene che molto dipende anche dalla mia personalità, dal mio carattere forte: io non mi lascio calpestare da nessuno. Sono sempre stata una leader, fin dai tempi della scuola. Ma sono consapevole che una persona più fragile potrebbe essere vittima di abusi. Tuttavia, per come sono fatta io, qui riesco a vivere. Mi sento vista, e rispettata”. Questa testimonianza è stata raccolta all’interno della Casa Circondariale di Matera, grazie al lavoro del periodico S-Catenati, edito dall’associazione di volontariato Disma odv. Il giornale è realizzato in collaborazione con una redazione composta da persone in esecuzione penale all’interno dell’istituto penitenziario materano. I virgolettati pubblicati in questo articolo sono tratti da una delle storie contenute nel numero di marzo della rivista, che sarà presentato al pubblico giovedì 27 marzo alle ore 20, presso l’auditorium di Cristo Re a Matera, durante un reading teatrale dedicato. La lettura scenica sarà a cura di Barbara Scarciolla di IAC - Centro Arti Integrate. Mancano le coperture, il Ddl Sicurezza deve tornare alla Camera di Valentina Stella Il Dubbio, 27 marzo 2025 Il Ddl Sicurezza dovrà tornare alla Camera per una terza lettura. Ciò a causa di alcuni rilievi della Ragioneria di Stato su sei articoli del provvedimento già approvato a Montecitorio e atteso ad inizio aprile nell’Aula del Senato. In pratica, come richiesto dalla Commissione Bilancio, vanno aggiornati i fondi per le coperture finanziarie, originariamente indicati a partire dal 2024, mentre ora con i correttivi dovranno iniziare dal 2025. La relazione della Ragioneria cita, ad esempio, le modifiche richieste al secondo comma 2 dell’articolo 5, sui benefici per i superstiti delle vittime della criminalità organizzata, per cui saranno stanziati fondi dal 2025 fino al 2028 (precedentemente si fermavano al 2027) riducendoli, in questo caso, per ogni anno e complessivamente. Per l’articolo 17, che prevede l’assunzione di personale di polizia locale nelle città metropolitane siciliane, i fondi decorrono da quest’anno e fino al 2026. All’articolo 21 sulle videocamere alle forze di polizia, le coperture partiranno dal 2025 e fino al 2027 (si fermavano al 2026) dettagliandone diversamente la ripartizione tra polizia, carabinieri, finanza e polizia penitenziaria. A queste modifiche se ne potrebbero aggiungere altre sul merito, da presentare direttamente quando comincerà l’esame in Aula di palazzo Madama. In particolare riguarderebbero le detenute madri, l’introduzione del reato di resistenza passiva in carcere e il divieto di acquisto di una sim a chi non ha il permesso di soggiorno: tre punti sui quali il Quirinale avrebbe fatto una moral suasion. Tutto dipenderà dalle intenzioni della Lega. Mentre Fratelli d’Italia e Forza Italia sarebbero pronte ad accogliere queste modifiche, anche per non irritare il Colle, il Carroccio, al contrario, avrebbe voluto approvare senza pit stop e cambiamenti il disegno di legge promosso dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - di concerto con i colleghi Nordio e Crosetto - e già approvato a Montecitorio il 18 settembre 2024. Considerato però che adesso il terzo passaggio è obbligatorio, gli altri due azionisti di maggioranza potrebbero spingere per fare quelle modifiche con emendamenti o dei relatori o del Governo. Proprio ieri le Commissioni hanno votato a maggioranza il mandato ai relatori Marco Lisei (Fdi) e Erika Stefani (Lega) a riferire in aula. Per il resto se ne discuterà nei prossimi giorni. A dimostrazione della posizione aperta del partito della premier Giorgia Meloni sono arrivate le dichiarazioni del ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, intervistato ad Agorà su Rai3: “Ci riserviamo di fare qualche piccolo intervento in aula. Si tratta di piccoli interventi di natura chirurgica, di qualche ritocco che non mette in discussione l’impianto di un provvedimento molto atteso”. Nel mentre esultano le opposizioni: “Grazie alla determinazione del Pd e delle altre forze di opposizione che hanno messo in luce le contraddizioni e i limiti del testo il Ddl sicurezza tornerà alla Camera per una terza lettura. Siamo di fronte ad una destra pasticciona che non sa nemmeno fare i conti e si è dimenticata di garantire le coperture future. Per fortuna c’è il Parlamento. A questo punto il testo sarà modificato e nella discussione riproporremo i nostri emendamenti che cercheranno di rispondere alle preoccupazioni del Presidente Mattarella per migliorare un testo propagandistico e sbagliato” ha dichiarato il senatore Andrea Giorgis, capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama. Soddisfatto anche il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo Misto di palazzo Madama: “Grazie all’ostruzionismo di Avs e delle altre forze di opposizione il ddl sicurezza tornerà alla Camera dei Deputati. Erano talmente convinti di approvare questa legge liberticida entro il 2024 che non avevano previsto il finanziamento per gli anni successivi, ma non hanno fatto i conti con il Parlamento. L’approvazione in commissione ha fatto scavallare l’entro il 2024 e quindi il ddl va modificato in Aula e poi rimandato alla Camera per essere approvato definitivamente. Il tutto è certificato dalla commissione Bilancio del Senato che ha appena approvato il parere al ddl sicurezza chiedendo modifiche sulle coperture Avs continuerà l’opposizione anche in Aula presentando centinaia di emendamenti”. L’Aula della Camera boccia la sfiducia a Nordio. Il Ministro: toni da inquisizione di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 27 marzo 2025 Con 215 no, respinta la richiesta delle opposizioni per la liberazione del generale libico Almasri. Duro scontro in aula. Schlein: lei ha scarcerato un torturatore. Nessuna sorpresa. Com’era prevedibile, stante la compattezza della maggioranza nel difendere l’operato del Guardasigilli Carlo Nordio, l’Aula della Camera ha respinto la mozione di sfiducia presentata nei suoi confronti dalle opposizioni per la vicenda del generale libico Osama al-Najeem, detto “Almasri” (l’egiziano), inizialmente arrestato in Italia perché ricercato dalla Corte penale internazionale per omicidio e torture a migranti ma poi liberato e riportato in patria da un aereo della Presidenza del Consiglio. Nel dettaglio, I voti contrari alla sfiducia sono stati 215, quelli a favore 119. Non ha partecipato al voto il gruppo di Azione, che pur condividendo la sostanza delle valutazioni della mozione, ha detto di non essere favorevole all’uso della mozione di sfiducia. Nordio: contro di me toni da inquisizione, avanti con la riforma - Nel suo intervento di replica alla mozione di sfiducia, Nordio ha continuato a tenere la linea già esposta in Parlamento, sostenendo ad esempio che l’atto della Corte penale internazionale che richiedeva l’arresto di Almasri”era così sbagliato che la stessa Corte lo ha mutato” e affermando di essersi preso 48 ore di tempo “per cercare di capire gli aspetti delle accuse ad Almasri”. Un tempo, ha detto, “non dedicato a favorire la fuga, l’uscita o la liberazione” del ricercato, ma “un atto dovuto da parte del ministro di rapportarsi con chi di competenza per capire se questo atto dovesse avere un seguito”. Poi Nordio è passato al contrattacco: “Le osservazioni dell’opposizione ricordano i libelli dell’inquisizione dei secoli scorsi, mancano solo l’accusa finale di simonia e bestemmia e siamo a posto”, ha incalzato, rinfacciando alle opposizioni di aver tirato in ballo anche altri temi, come “il numero dei suicidi in carcere, del sovraffollamento carcerario, dei magistrati fuori ruolo, del panpenalismo, della salute nelle carceri, della crociata contro le intercettazioni, del dossieraggio dei parlamentari”. Ha punzecchiato il parlamentare Roberto Giachetti, “rimasto deluso della denuncia da lui avanzata contro di me come concorrente del reato per i suicidi in carcere, che non ha avuto seguito”. E ha continuato a sferzare le opposizioni “esasperate nel linguaggio e nei toni” e sostenendo che tutte le frecciate “che arrivano nei modi più sciatti e fasulli, danno la sensazione che si tratti di un attacco programmato per evitare la riforma della separazione delle carriere e il sorteggio per l’elezione del Csm”. Quali che siano gli attacchi,”giudiziari, di stampa o parlamentari”, ha avvertito, “noi non vacilleremo e non esiteremo: la riforma va avanti e più saranno violenti impropri e sciatti gli attacchi, più saremo determinati. E se voi farete del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio”. ?La difesa compatta della maggioranza - Nelle dichiarazioni di voto, le forze politiche che sostengono il governo hanno fatto scudo in difesa del ministro, addebitando alle opposizioni l’intenzione, attraverso la mozione, di colpire un esecutivo che sta portando avanti una riforma della giustizia chiesta dagli elettori al centrodestra. “La mozione di sfiducia non c’entra nulla sulla vicenda Almasri. Sareste voi dell’opposizione a dovervi dimettere, non eravate dalla parte dei torturati quando sottoscrivevate il memorandum nel 2017 con la Libia, rinnovato da Conte?”, ha osservato Galeazzo Bignami, capogruppo di Fdi, ritenendo che “nel momento in cui si vara la riforma della giustizia, qualcuno si sente toccato nel vivo. Il problema non è Almasri, è il fatto che andiamo a scardinare il malsano rapporto tra politica e magistratura”. Valutazioni che sono riecheggiate anche in altri interventi della maggioranza, che ha scandito con diversi applausi le parole pronunciate in Aula dal Guardasigilli. L’ira delle opposizioni: lei ha liberato un torturatore - Dal canto loro, le forze di opposizione hanno più volte rumoreggiato in segno di protesta. Per la segretaria del Pd Elly Schlein, sul capo del ministro ricadono forti responsabilità, perché avrebbe potuto “far rimanere in carcere un torturatore, ma non lo ha scelto. Mi chiedo come possa dormire la notte, io non ci riuscirei. E chi le ha chiesto di stare fermo, è stata Meloni? Deve dirci la verità. Sono costretta a chiedere ancora una volta dov’è la premier? Perché fugge? Lei non può continuare a ricoprire il ruolo di ministro perché poteva e doveva evitarlo e ha scelto di non farlo ha scelto la ragione di partito”. Duro anche l’intervento dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, deputato di M5s: “In una vicenda così grave e importante lei ha violato la legge e la Costituzione, poi è venuto in Aula ad affermare cose risultate completamente destituite di fondamento - ha detto, rivolto al ministro. Quando lei ci parla di incoerenze, contraddizioni, opinioni dissenzienti, è smentito da ciò che dice il mandato d’arresto. Lei non è stato leale con questa assemblea, ha parlato di cose diverse rispetto alla verità”. Taglienti anche gli altri interventi delle opposizioni, con Angelo Bonelli di Avs (“Lei ha coperto un boia, un criminale, uno stupratore, anche di minorenni e perciò chiediamo le sue dimissioni, a nome di quelle vittime”), Riccardo Magi di +Europa (“Lei ha avuto un’enorme responsabilità e l’ha assunta per motivi politici, avrebbe dovuto eseguire il mandato di cattura internazionale con una procedura di consegna”) e l’ex ministra Elena Boschi, di Italia Viva: “Lei ha mentito a quest’Aula ed è per questo che secondo noi deve dimettersi. Non crediamo che si debba dimettere per un’inchiesta, perché siamo garantisti, ma perché non ha detto la verità in Parlamento sul caso Almasri”. ?Azione non partecipa al voto - Nel dibattito parlamentare, si è distinta la posizione di Azione, il partito guidato da Carlo Calenda, che ha scelto di non partecipare al voto. Pur condividendo le critiche al ministro, ha precisato il deputato Antonio D’Alessio, “manifestiamo totale perplessità rispetto all’efficacia della mozione di sfiducia, che diventa un boomerang perché cementa la maggioranza. La nostra decisione è di non partecipare al voto”. Nordio e la solitudine dell’azzeccagarbugli di Alessandro De Angelis La Stampa, 27 marzo 2025 L’annuncio di tempi rapidi per la madre di tutte le riforme è una via di fuga rispetto al calvario libico ma l’autodifesa del Guardasigilli è pasticciata ed entra in contraddizione con le precedenti versioni. Deve aver imparato le abitudini della casa il guardasigilli Carlo Nordio. Che, dopo una sonnacchiosa mezz’ora di incomprensibili cavilli, suona la carica sulla “madre di tutte le riforme” - quella della giustizia - con coraggio temerario rispetto alla scaramanzia semantica. L’altra “madre” - il premierato - non ha avuto una fortuna commisurata all’enfasi dell’annuncio. Desaparecida. Un sussulto gladiatorio per reagire nell’arena a metodi da “inquisizioni” e “attacchi smodati e programmati”, anche a mezzo stampa. Ci mancano solo, per completare i topoi del melonismo ardito e irriducibile, la “schiena dritta” e la “testa alta”, contro chi vuole fermare il cambiamento. In fondo c’è da capirlo Nordio, perché nel sussulto ci sono tante cose. C’è la riaffermazione, o almeno la parvenza, di un ruolo da ministro della Giustizia, rispetto a un bilancio finora piuttosto scarno, se si esclude il gioco di distrazione di massa della produzione di nuovi reati. È uno sfolgorante esempio di logica rovesciata rispetto a quando l’aspirante Cesare Beccaria della Laguna predicava contro il panpenalismo. C’è l’annuncio, incorporato, di tempi rapidi sulla riforma, in un giorno in cui tutto racconta di un’accelerazione: la commissione al Senato licenzia il testo e il ministro Luca Ciriani spiega in tv che, tecnicamente, si può andare a referendum entro la fine dell’anno. Che tradotto significa: dibattito chiuso e testo inemendabile. E c’è, ca van san dire, la via di fuga rispetto al calvario libico, oggetto della mozione di sfiducia dall’esito scontato. Lì i “titoli” di giornata sono assai più fiacchi, complice una difesa d’ufficio assai debole politicamente su un caso ampiamente metabolizzato, nel bene e nel male. Guardatela, questa fotografia di giornata, il particolare che spiega il tutto, inteso come fuga dalle proprie responsabilità. Carlo Nordio, quando prende la parola, è solo tra i banchi del governo. L’unico che arriverà è proprio Ciriani, che per funzione (i Rapporti col Parlamento) è un po’ come la Croce Rossa: non può sottrarsi al soccorso, sempre e comunque. E non è una bella giornata per il governo perché, c’è poco da fare, i gladiatori non scappano, e quell’accusa di codardia, rivolta dalle opposizioni, è particolarmente urticante nell’immaginario di quel mondo. Che poi è questo il vizio d’origine della storia: la fuga, il non aver spiegato, politicamente e, come si ama dire “mettendoci la faccia”, quali erano le ragioni di sicurezza nazionale per cui si è scelto di rimpatriare Almasri, rivendicandole. È una storia di strambe ricostruzioni, di tentativi di spostare il bersaglio sui giudici, di assenza della premier dal Parlamento. Se possibile, l’ennesima difesa in Aula (di Nordio) è solo un ulteriore e ultimo sfoggio sofistico, che a debolezza politica aggiunge confusione di merito. Da raccontare, oltre alla solitudine, c’è la postura da Azzeccagarbugli di pretura, con “codesto suo latinorum”, per citare l’originale letterario, e esempi pescati tra una ridda di fogli sul tavolo tra un “cionondimeno” un “ai sensi del comma bis”. Alla fine l’effetto è di un guardasigilli “lost in cavillo”. Che, rispetto alle precedenti e altrettanto sofistiche arringhe, si perde nelle contraddizioni delle versioni. Aveva sostenuto che via Arenula non era stata informata, ora afferma che “non poteva fare il passacarte” della Corte d’Appello. Quindi era stato informato, ma doveva fare “un’istruttoria”. Resta da spiegare perché, in attesa della fine dell’istruttoria, Almasri sia stato liberato, se non per quella scelta politica che però non si ammette. Poi: aveva sostenuto che l’atto della Corte penale internazionale era “viziato”, “praticamente nullo” e non tradotto in italiano. Ora ribadisce, citando la dissenting opinion della giudice Lieria, che ci sarebbe un difetto formale sulle date, ma non mette in discussione che Almasri è un criminale conclamato dal 2015: e dunque non si capisce perché è stato liberato se non si spiega che c’era un’esigenza superiore di sicurezza nazionale. Infine: viene rivendicato il diritto a non cooperare con la Cpi ma non per ragioni politiche. Anche qui: citazioni di giuristi, ognuno con la sua scuola di pensiero su questo o quell’aspetto. Insomma, un pasticcio. Fine dell’ultimo atto. Il Ministro e la trincea delle carriere separate. È lì che Meloni si gioca la vittoria alle Politiche di Errico Novi Il Dubbio, 27 marzo 2025 Se il Governo perdesse il referendum, si presenterebbe azzoppato al voto del 2027. Un passaggio dice tutto. Carlo Nordio ha iniziato da poco la propria “dichiarazione spontanea”. È l’imputato del processo allestito a Montecitorio. Parte con un inciso in apparenza fuorviante. Anziché di Almasri, parla di carcere. Delle accuse che gli sono state rivolte per il sovraffollamento e i suicidi che ne sarebbero conseguenza. Cita Roberto Giachetti e la denuncia che il deputato di Italia viva - nonché segretario d’Aula incaricato, pochi istanti prima, di leggere il resoconto della seduta precedente - ha presentato, con Nessuno tocchi Caino, l’estate scorsa, e nella quale lui, il guardasigilli, è indicato come “concorrente nel reato di omicidio per i suicidi in carcere. Evidentemente”, chiosa l’imputato Nordio, “il collega Giachetti ha invocato l’articolo 40, secondo comma, del codice penale, secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo di evitare equivale a cagionarlo. Ebbene, se il ministro della Giustizia fosse responsabile penalmente dei suicidi in carcere, allora la situazione sarebbe molto più complessa”. Perché? Nordio lo spiega: “Se anche uno solo dei suicidi che sono avvenuti negli anni precedenti fosse stato imputabile al ministro della Giustizia”, cioè a uno dei predecessori, “allora avremmo dovuto avere tutta una serie di processi nei loro confronti”. Ma “per tutti i suicidi accaduti negli anni passati, i pubblici ministeri avrebbero dovuto instaurare l’azione penale, e se non lo hanno fatto, e non lo hanno fatto, e avessero dovuto farlo, secondo l’assunto dell’onorevole Giachetti, sarebbero incorsi in quel reato di omissione di atti d’ufficio per il quale, tra l’altro, questo stesso ministro si trova oggi o domani a essere indagato davanti al Tribunale dei ministri”. Niente male: più che ai trascorsi da procuratore aggiunto a Venezia, Nordio sembra ispirarsi alla tradizione forense dei propri familiari: arringa, o meglio autodifesa, da maestro. Un attimo dopo farà notare a Giachetti, e in realtà all’intera opposizione, che “la spada della giustizia ferisce anche chi la brandeggia in modo improprio, come è accaduto in questo caso”. Allude chiaramente alla zappa che il deputato renziano e radicale si sarebbe dato sui piedi con la denuncia per i suicidi in carcere, tragedia correlata appunto a una potenziale gravissima omissione degli stessi magistrati, e cioè della parte con cui il centrosinistra sembra schierato, nella contesa sulla separazione delle carriere. “Ve la prendete con me ma non loro”, è come se avesse voluto dire il ministro che vuole il “divorzio” tra giudici e pm. È la sottile e, nello stesso tempo, plastica certificazione del significato che Nordio attribuisce alla sfiducia presentata nei suoi confronti: un attacco rivolto alla prima linea del governo nella battaglia con l’Anm sulla riforma della giustizia. Il guardasigilli, nell’introdurre la propria autodifesa, chiama non casualmente in causa la vera controparte, la magistratura (dalla quale peraltro lui stesso proviene). Pochi istanti dopo renderà ancora più esplicita la consapevolezza del senso politico che ha assunto l’assedio: “Volete fermarmi, ma non ci riuscirete: il vostro è un attacco programmato per evitare quella che, secondo noi, è la madre di tutte le riforme, la separazione delle carriere”. Fino alla citazione churchilliana: “Se voi farete del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio”. Nordio raccoglie la dichiarazione di guerra. E si professa consapevole della posta in gioco. Come ieri si è ricordato dalle pagine di questo giornale, la sfiducia tentata ieri dalle opposizioni è il primo di una lunga serie di attacchi a chi, come Nordio, della riforma sui magistrati è il simbolo. Nulla di nuovo. Ma c’è un dettaglio non trascurabile: il guardasigilli è la primissima linea ma è anche il meno “politico” dei protagonisti in campo. Eppure è tutta politica la prospettiva della contesa. Che non riguarda tanto il divorzio fra giudici e pm: il Pd, per dire, non potrebbe accogliere come una catastrofe l’entrata in vigore della riforma. Il punto è che se il referendum sulle carriere separate finisse male per l’Esecutivo, ne deriverebbero pesanti e più generali conseguenze per Giorgia Meloni innanzitutto. Secondo le previsioni più realistiche, la consultazione sulla riforma Nordio si celebrerà nella primavera del 2026. Se il centrodestra ne uscisse sconfitto, la premier si troverebbe azzoppata a poco più di un anno dalle nuove Politiche, che saranno probabilmente anticipate a inizio giugno 2027. Un disastro dalle proporzioni incalcolabili. Nordio è dunque il frontman di una battaglia in cui il centrodestra si gioca qualcosa di diverso dal riassetto costituzionale della magistratura: in ballo c’è la permanenza al governo. Ecco perché sul guardasigilli incombe una responsabilità politica pesantissima. Ecco perché ieri il ministro ai Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, non a caso di FdI, ha definito “tecnicamente realizzabile” uno sprint che anticipi il referendum sulle carriere alla fine di quest’anno: il più lontano possibile, cioè, dall’altro voto, quello per il rinnovo del Parlamento. È l’ulteriore prova, casomai ce ne fosse bisogno, di quanto a Palazzo Chigi comprendano il pericolo che sulla giustizia corre non solo Nordio ma l’intero centrodestra. “No alla Riforma”, le toghe da Mattarella di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2025 Incontro cordiale nella forma, tuttavia dai contenuti di forte preoccupazione, quello, svoltosi ieri, tra l’Associazione nazionale magistrati e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Certo ogni nuova giunta Anm, e questa, esito del voto di fine gennaio è appena stata rinnovata, si presentata come da protocollo al Capo dello Stato, ma il momento di elevatissima tensione tra politica e magistratura l’ha comprensibilmente fatta da padrone. Al centro la legge di riforma costituzionale di separazione delle carriere tra giudici e pm (che ieri ha incassato il parere favorevole della commissione Giustizia del Senato), dove, ha ricostruito il presidente Anm Cesare Parodi, sono state esposte “le ragioni per cui non possiamo condividere questo intervento, dando anche le spiegazioni sintetiche dal punto di vista tecnico per argomentare. Abbiamo fatto presente l’importanza in questo momento dell’unità associativa che è un fatto non scontato e che invece ha molta importanza per noi, anche come lettura politica”. Sul punto l’Anm ha messo in evidenza di volere procedere nella mobilitazione di tutta la magistratura, graduandone comunque l’intensità anche sulla base dell’agenda dei tempi parlamentari. Ma, oltre alla separazione delle carriere, al centro dell’incontro c’è stata anche la preoccupazione delle toghe per i continui e ripetuti attacchi ricevuti dalla politica in occasione delle più “sensibili” e recenti pronunce, da quelle sui migranti al caso Almasri. “Abbiamo poi rappresentato - ha infatti proseguito Parodi - il nostro disagio quando alle volte un magistrato è attaccato con l’idea che abbia fatto una sentenza politica e non invece fondata su principi di diritto - prosegue - perché è una cosa che dà una grande sofferenza ai magistrati ed era giusto rappresentare questa sofferenza al presidente”. E intanto è saltato l’incontro in agenda per oggi tra Anm e il ministro della Giustizia Carlo Nordio per affrontare i temi dell’efficienza della giurisdizione. “Intercettazioni, giustizia e privacy vanno bilanciati. Basta con gli abusi dei pm” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 marzo 2025 Il senatore Zanettin sostiene la riforma per archiviare il rito cartolare nel processo penale e difende la proposta contro la digitalizzazione eccessiva della giustizia. “Se non vogliamo che l’avvocato sia sostituito dall’algoritmo è urgente tornare all’oralità del processo”, afferma il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama e promotore di un disegno di legge, a firma anche della leghista Erika Stefani, che punta ad “archiviare” il rito cartolare nel processo penale. Il provvedimento, in particolare, riscrive l’articolo 598- bis c.p.p., “Decisioni in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti”, introdotto dalla riforma Cartabia. La norma attualmente prevede che “la corte provvede sull’appello in camera di consiglio. Se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall’articolo 127, essa giudica sui motivi, sulle richieste e sulle memorie senza la partecipazione delle parti. Fino a quindici giorni prima dell’udienza, il procuratore generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica”. La “cartolarizzazione” del giudizio penale di appello, ovvero la previsione di un rito non partecipato per la trattazione “scritta” dei processi, è stata una delle tante conseguenze della legislazione emergenziale per il contrasto alla pandemia da Covid-19. Senatore Zanettin, ieri, su questa riforma, avete udito in Commissione l’avvocato Francesco Petrelli, presidente delle Camere penali, e il dottor Cesare Parodi, presidente dell’Anm. Perché bisogna tornare al contraddittorio orale? Il motivo è molto semplice: il contraddittorio orale fra le parti non può non valorizzare la collegialità della decisione. Collegialità che rischia invece di essere compromessa se la decisione di appello è adottata solo in base alla sintesi degli atti processuali di primo grado e dell’impugnazione che viene condivisa dal relatore con gli altri componenti del collegio. Il rito cartolare deve essere l’eccezione. Il Parlamento ha approvato la scorsa settimana la modifica delle intercettazioni telefoniche, stabilendone la durata in 45 giorni... Sì, e purtroppo si sono scatenate polemiche fuori luogo, accompagnate da una massiccia campagna mediatica di disinformazione. Dopo 45 giorni i telefoni non saranno spenti? Assolutamente no. Il tetto di 45 giorni alle intercettazioni non è una “tagliola” come dice qualcuno. Semplicemente, per prorogare gli ascolti si dovrà motivare. Oggi si reiterano le intercettazioni sulla base di richieste a “stampone”. La polizia giudiziaria fa la richiesta, il pm la fa propria con il tradizionale “copia e incolla”, e lo stesso fa il gip che poi autorizza le intercettazioni. E così si va avanti per anni ed anni. Adesso cosa cambia? Se di proroga si deve parlare, questa deve essere di volta in volta motivata. Il procuratore di Napoli Nicola Gratteri in uno dei suoi interventi sui media è arrivato addirittura a dire che questa riforma “aiuta i criminali” e “rende complicato cercare le prove”. “Dopo 45 giorni”, è l’accusa di Gratteri, anche gli autori di “un omicidio potranno parlare a ruota libera”... È falso. Nel motivare la richiesta di proroga degli ascolti i pm dovranno indicare i motivi specifici che emergono dalle indagini perché non si può pensare di continuare ad avere un sistema di intercettazioni a strascico “sine die” come quello odierno. Troppe volte ci si dimentica dell’articolo 15 della Costituzione che dice come corrispondenza e conversazioni siano inviolabili. Con questa riforma si è voluto bilanciare due valori di rango costituzionale: da una parte, la necessità di indagare e trovare i responsabili dei reati. Dall’altra, la tutela delle intimità dei cittadini nella loro privacy. E tale punto di equilibrio è stato individuato con questa norma. Per il professor Gian Luigi Gatta, ex super consulente dell’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia, la riforma sarebbe invece “anticostituzionale”... Ogni volta che il centrodestra fa una riforma ecco arrivare l’accusa di incostituzionalità. Dove viene violata la Costituzione nel tutelare la privacy ed imporre l’obbligo di motivazione a pm e gip? Me lo devono spiegare. Si può dire che le intercettazioni da mezzo di ricerca della prova del reato erano diventate mezzo di ricerca del reato? Certo. Le cronache sono piene di casi del genere. Si individua il bersaglio e si aspettano settimane, mesi, anche anni, come nel caso di Giovanni Toti in Liguria, per cercare un reato che poi magari neanche si trova. Nessuno poi comunque ricorda che sono esclusi dal tetto dei 45 giorni i reati gravi, come mafia e terrorismo. Nei partiti di maggioranza ci sono sensibilità diverse su questi temi. Lei è espressione dell’ala più garantista... Il garantismo fa parte del mio Dna. Faccio l’avvocato e sono liberale da quando avevo 17 anni: per me viene prima di tutto la tutela del cittadino. Quale è il bilancio in materia di giustizia fino ad oggi? Penso sicuramente positivo e sono contento di essere fra i protagonisti di questo importante percorso riformatore. Le riforme che abbiamo varato sulle intercettazioni, ad esempio, viaggiano su tre gambe, su tre disegni di legge che ho presentato al Senato. Il primo, già approvato, ha riguardato il divieto di intercettare le conversazioni tra gli indagati e i propri avvocati. Pare una cosa normale ma non era così normale nel nostro Paese. Quando ho proposto questo disegno di legge, qualche collega, in particolare il senatore pentastellato Roberto Scarpinato, arrivò ad affermare che ci sono avvocati collusi con la mafia. È un modo di ragionare inaccettabile. Intercettare avvocati e assistiti è illegale in tutte le parti del mondo e doveva esserlo anche in Italia. La seconda gamba della riforma delle intercettazioni ha riguardato, come detto, la loro proroga. È una delle più importanti riforme della giustizia degli ultimi 30 anni. Le intercettazioni torneranno ad essere uno strumento di investigazione così come sono state concepite a suo tempo. Infine, la terza gamba riguarderà il sequestro dello smartphone e lo smartphone connesso al virus Trojan. Tutto sempre per tutelare la privacy dei cittadini. A che punto siamo con questa riforma? Attendiamo che il ministro Carlo Nordio ci faccia sapere. Il testo è pronto. Abbiamo fatto anche le audizioni. Da via Arenula hanno fatto però sapere che presenteranno una loro proposta. Speriamo in tempi rapidi. Semilibertà revocata per un “forse”: la Cassazione stronca le illazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2025 Le misure alternative non possono essere negate sulla base di congetture, ma richiedono una verifica rigorosa dei fatti e delle condizioni oggettive. La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 9936, ha accolto il ricorso di Ciro Urciuoli, 64 anni, ergastolano condannato nel 2004 per associazione a delinquere, omicidio e altri reati, annullando l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino che gli aveva negato il ripristino della semilibertà. Al centro della sentenza una critica netta alla nozione di “ragionevole certezza” utilizzata dal Tribunale per presumere che Urciuoli fosse al corrente delle attività illecite del figlio, nonostante l’assenza di elementi concreti. Urciuoli, in regime di semilibertà dal 2018, lavorava nella carrozzeria gestita dal figlio Davide a Torino. Nel febbraio 2024, l’arresto del figlio per traffico di stupefacenti portò alla revoca della misura alternativa, giustificata dalla perdita dell’opportunità lavorativa. A marzo 2024, il Tribunale confermò la decisione, aggiungendo un elemento chiave: la “ragionevole certezza” che Urciuoli, per la frequentazione quotidiana col figlio, sapesse delle sue attività criminali, pur senza prove dirette. A settembre, lo stesso Tribunale respinse una nuova richiesta di semilibertà legata a un’offerta di lavoro presso la cooperativa sociale Dorcas, definendo il ruolo “inappropriato” e sostenendo che avrebbe consentito a Urciuoli di muoversi senza controlli. I difensori di fiducia, gli avvocati Daniela Maria Rossi e Mauro Scaramozzino, hanno quindi presentato ricorso per cassazione avverso l’indicata ordinanza, articolando un unico motivo con il quale deducono il vizio della motivazione del provvedimento impugnato. La Prima Sezione Penale della corte suprema ha stroncato le argomentazioni del tribunale di sorveglianza, definendole “illogiche e contraddittorie”. I giudici hanno sottolineato come il Tribunale abbia basato il diniego su mere presunzioni, nonostante avesse ammesso l’assenza di condotte colpevoli di Urciuoli e l’impossibilità di pretendere una denuncia contro un familiare. Non è “emerso alcun concreto elemento che consentisse anche solo di sospettare che il ricorrente fosse a conoscenza dell’attività delittuosa perpetrata dal figlio”, si legge nella sentenza. Di fatto, la mera frequentazione non può sostituire la prova di una consapevole partecipazione. La Cassazione ha inoltre criticato la superficialità con cui il Tribunale ha liquidato la nuova proposta lavorativa presso la cooperativa Dorcas, senza valutarne i dettagli organizzativi (orari definiti, tracciabilità degli spostamenti) e ignorando che Urciuoli, in passato, aveva già svolto mansioni analoghe in semilibertà senza violazioni. Da ultimo, è stato rilevato come lo stesso Tribunale, pochi giorni dopo il diniego, avesse concesso a Urciuoli un permesso premio di due giorni, contraddicendo la propria valutazione sulla sua affidabilità. La sentenza ribadisce un principio cardine: le misure alternative non possono essere negate sulla base di congetture, ma richiedono una verifica rigorosa dei fatti e delle condizioni oggettive. In sintesi emerge che il diniego di semilibertà non si fonda su violazioni commesse dall’interessato, ma su un presupposto lavorativo venuto meno. Spettava al Tribunale accertare l’effettiva idoneità della nuova proposta, non svilirla a priori. La sentenza della Corte Suprema riaccende il focus sul bilanciamento tra reinserimento e controllo: per la Cassazione, il rigore non deve tradursi in un’applicazione punitiva delle presunzioni, soprattutto quando il condannato ha dimostrato, attraverso relazioni psicologiche e precedenti esperienze, un percorso di riabilitazione. Ora, toccherà al Tribunale di sorveglianza di Torino riesaminare la richiesta, alla luce delle indicazioni della Suprema Corte. Intanto, per Ciro Urciuoli si riapre una speranza, mentre la giustizia ricorda che la “certezza” - ragionevole o meno - non può prescindere dalle prove. Piemonte. Fratelli d’Italia “punta” sulle carceri, le mire del partito sui Garanti di Andrea Gatta La Repubblica, 27 marzo 2025 FdI rivendica la nomina del successore di Mellano, appello di 24 esperti che chiedono di scegliere un nome per merito e competenza sul campo. Ventiquattro garanti ed ex garanti dei detenuti delle città che ospitano carceri scrivono alla Regione per chiedere “una trasparente valutazione dei candidati” in vista della nomina del nuovo titolare regionale della carica. L’attuale garante, il radicale Bruno Mellano che fu votato dal centrosinistra e confermato nel primo quinquennio Cirio, non può più essere indicato perché ha terminato i mandati a disposizione. Nel gioco interno del centrodestra, la designazione spetta a Fratelli d’Italia che la rivendica fin dal post elezione, anche su spinta della vicepresidente Elena Chiorino. Non solo: recentemente, all’interno del gruppo regionale (la nomina è di competenza del Consiglio), si è discusso anche del nome dell’ex magistrato Antonio Rinaudo, per altro già in corsa per l’Orecol, l’organismo anti-corruzione del Grattacielo. A presentare il curriculum, nel bando che si è chiuso una settimana fa, sono stati in 19. Fra questi, quattro sono attualmente garanti territoriali: Nathalie Pisano a Novara, Raffaele Orso Giacone a Ivrea, Pietro Luca Oddo a Vercelli, Michela Revelli a Fossano. Cinque sono persone che hanno ricoperto l’incarico in passato: Sonia Caronni a Biella, Rosanna Degiovanni a Fossano, Alessandro Prandi ad Alba, Bruna Chiotti a Saluzzo, Roswitha Flaibani a Vercelli. Ci sono queste nove firme, insieme ad altre 15 di garanti ex garanti (fra cui l’attuale responsabile di Torino Monica Gallo), in calce alla lettera aperta inviata all’ufficio di presidenza del Consiglio regionale e alla commissione nomine che dovrà decidere il successore di Mellano. Il senso della missiva è chiaro: la politica scelga guardando merito e competenze e non in base ad altre logiche. “La rete regionale dei Garanti ha potuto portare avanti e sollecitare un sempre migliore approccio verso le condizioni di detenzione, per l’attuazione di una vera risocializzazione delle persone ristrette e per la tutela della dignità e dei diritti dei cittadini ristretti” scrivono, ricordando che il Piemonte “è l’unica regione italiana che ha registrato l’istituzione e la nomina di un garante comunale per ciascuna delle 12 città sede di carcere”. La lettera, aggiungono, contiene “una pubblica esortazione alla commissione nomine del Consiglio regionale, affinché proceda a un’attenta valutazione di coloro che in questi giorni hanno presentato la propria candidatura, con l’intento collaborativo di sottolineare come il lavoro che una o uno di loro sarà chiamato a svolgere necessita di un’approfondita conoscenza dei vari ambiti di privazione o limitazione della libertà e in particolare del sistema penitenziario nel suo insieme e dei singoli istituti di pena in specifico”. Il ruolo dunque, “non può in alcun modo essere equiparato ad una semplice valutazione di titoli”, e la scelta andrà compiuta “non solo sulle carte, ma anche considerando il background” e la “formazione culturale, sociale ed empatica nei confronti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà e della comunità penitenziaria, fatta di detenuti e detenenti”. Emilia Romagna. “Le Comunità educanti per carcerati riducono recidiva e sovraffollamento” riminitoday.it, 27 marzo 2025 Le Consigliere regionali Alice Parma ed Emma Pettiti presentano un ordine del giorno sul tema delle comunità educanti carcerarie: “Hanno un ruolo fondamentale e meritano il pieno sostegno della Regione”. “Oggi più che mai è necessario riconoscere l’importanza di un sistema penitenziario che promuova un’effettiva rieducazione e il reinserimento dei detenuti nella società, proprio come delinea l’articolo 27 della Costituzione. In questo contesto, le Comunità educanti carcerarie (Cec) giocano un ruolo di fondamentale importanza che merita il pieno sostegno della Regione Emilia-Romagna”. Inizia così la riflessione alla base dell’ordine del giorno sottoscritto dalle consigliere regionali Alice Parma ed Emma Petitti (Partito Democratico), che qualche settimana fa sono state in visita alla comunità educante per i carcerati “Casa madre del perdono”, gestita dalla Papa Giovanni XXIII a Montefiore Conca. Con le consigliere dem, anche l’assessora Isabella Conti, la sottosegretaria Manuela Rontini e la consigliera regionale Valentina Castaldini. “Le recenti dichiarazioni del garante dei detenuti hanno nuovamente messo in luce il sovraffollamento delle carceri, con una presenza media di 3.339 detenuti e un tasso di sovraffollamento che ha raggiunto il 114% - dicono Parma e Petitti -. In questo scenario, molte persone in stato di detenzione sono in attesa di un processo o potrebbero beneficiare di misure alternative. Tuttavia, la mancanza di risorse e strutture adeguate rende difficile la loro reintegrazione sociale. In questo senso le Comunità educanti carcerarie offrono una risposta innovativa, che pone l’accento sulla dignità e sull’umanità, lavorando sulla reintegrazione dei detenuti nel tessuto sociale emiliano-romagnolo”. “Queste comunità riescono a ridurre significativamente il tasso di recidiva, che nelle carceri italiane raggiunge il 70%, mentre nelle Cec si attesta al 15% - proseguono -. Si tratta di un modello che ha dimostrato di ridurre il costo delle detenzioni (35 euro al giorno per detenuto contro i 140 euro in carcere) e che può essere una risorsa fondamentale per il nostro sistema penitenziario e in generale per la nostra comunità. Per questo, attraverso un atto collegato al documento di Economia e finanza della Regione, abbiamo garantito l’impegno a supportare economicamente e in modo adeguato i percorsi di esecuzione penale esterna promossi delle Cec presenti sul territorio regionale, proponendo alla Conferenza unificata Stato-Regioni il modello emiliano-romagnolo delle Comunità educanti carcerarie come soluzione alternativa al sovraffollamento del sistema di detenzione carcerario”. Lecce. Tenta il suicidio in carcere, aperta un’inchiesta per l’ipotesi insabbiamento di Francesco Oliva La Repubblica, 27 marzo 2025 A Lecce il tribunale di sorveglianza ha trasmesso gli atti alla Procura: sotto la lente il caso di un uomo di 38 anni con problemi psichiatrici che andava monitorato costantemente. Si dovrà accettare se agenti penitenziaria hanno fatto sparire verbale con le dichiarazioni del compagno di cella perché li avrebbe messi nei guai. L’ipotesi di un tentativo di suicidio insabbiato nel carcere di Lecce. Il tribunale di sorveglianza vuole approfondire il caso e ha disposto la trasmissione degli atti in procura per accertare quanto accaduto nella notte tra il 4 e il 5 febbraio scorso nel penitenziario di borgo “San Nicola” quando un uomo di 38 anni residente nel capoluogo salentino, ha tentato di togliersi la vita all’interno della sua cella. Salvato soltanto dall’immediato intervento di un compagno in attesa dell’arrivo degli agenti di polizia penitenziaria, che sarebbero giunti con notevole ritardo. Una ricostruzione dei fatti confermata anche davanti al tribunale di sorveglianza, nell’udienza in cui è stata discussa la richiesta di scarcerazione del 38enne, e che ha convinto il presidente Stefano Sernia a disporre la trasmissione degli atti in procura. Gli accertamenti dovranno soffermarsi anche sul sospetto che il verbale di ascolto del compagno di cella del 38enne sia stato fatto sparire per evitare guai con la direzione per la mancata sorveglianza 24 ore su 24 di un recluso con problemi psichiatrici compatibili con quelli di cui soffre il detenuto. Il 38enne aveva iniziato a espiare la pena dietro le sbarre nel novembre 2024. A causa delle sue patologie sia psichiche che fisiche la detenzione in carcere è risultata incompatibile. Così come accertato anche dal consulente di parte, lo psichiatra Elio Serra che ha ritenuto che la patologia rientrasse “nelle categorie più esposte al rischio suicidario soprattutto in condizione di restrizione della libertà”. Il tribunale di sorveglianza ha così disposto una consulenza d’ufficio con cui il perito ha sostenuto che la condizione clinica accertata fosse compatibile con lo stato detentivo “a condizione che il servizio sanitario penitenziario continuasse a garantire il monitoraggio del quadro clinico ed una costante assistenza infermieristica e medico specialistica”. Tuttavia nella notte tra il 4 e il 5 febbraio scorso, l’uomo ha tentato il suicidio. I suoi legali, informati dalla moglie, hanno subito depositato una memoria per informare il tribunale di sorveglianza inoltrando una dichiarazione resa dal compagno di cella in cui dichiarava di aver soccorso il 38enne e che il personale penitenziario, seppur allertato tempestivamente, sarebbe giunto solo dopo qualche decina di minuti. Lo stesso ragazzo è stato successivamente ascoltato anche in tribunale come testimone e ha confermato “con una deposizione dettagliata e scevra di contraddizioni” - come riportato nell’ordinanza - tutto quanto già dichiarato nello scritto indicando anche che un agente penitenziario, dopo aver raccolto a verbale le dichiarazioni, sarebbe stato invitato da altro personale sanitario del penitenziario a farle sparire. Dopo l’udienza il Tribunale ha disposto la scarcerazione del 38enne sostituendo la detenzione in carcere con quella domiciliare e, soprattutto, ha disposto agli inquirenti di approfondire quanto accaduto in carcere nella notte tra il 4 e il 5 febbraio scorsi. Teramo. Detenuto morto a Castrogno, ci sono tre indagati per omicidio colposo certastampa.it, 27 marzo 2025 Tre indagati per la morte in carcere di Domenico Di Rocco, 46enne di Mosciano, ritrovato nel letto della sua cella a Castrogno martedì mattina, secondo le prime indagini per un arresto cardiocircolatorio. Nella cella di Di Rocco intervennero, dopo l’allarme degli agenti di turno: il medico di turno e i due infermieri con l’ipotesi di reato di concorso in omicidio colposo. Sono loro, adesso, che la procura, come atto dovuto in questa fase, ha iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo in attesa che oggi si svolgerà l’autopsia. L’episodio sarebbe successo intorno all’una meno un quarto tra lunedì e martedì notte. Gli inquirenti vogliono fare chiarezza ed escludere eventuali responsabilità da parte degli operatori sanitari del carcere e verificare se davvero sia stato fatto tutto il possibile per evitare la morte, pur se dovuta ad un infarto. I familiari di Di Rocco, la mamma e il fratello, hanno presentato un esposto. L’avvocato Gianfranco Di Marcello, legale di Di Rocco aveva avanzato richiesta di trasferimento per detenzione alternativa al carcere in due comunità, era in attesa dell’udienza fissata per il prossimo 5 aprile. Salerno. Detenuto morto, indagato per omicidio colposo il medico del carcere salernotoday.it, 27 marzo 2025 Domani mattina verrà affidato l’incarico per l’autopsia, il cui esito sarà determinante per chiarire le cause del decesso e consentire il rilascio della salma. Svolta nelle indagini sulla morte di Renato Castagno, il 37enne salernitano deceduto mercoledì scorso dopo un malore nel carcere di Fuorni. La Procura di Salerno, infatti, ha iscritto nel registro degli indagati il medico del servizio di sanità penitenziaria di turno in quel momento nell’istituto di via del Tonnazzo. L’ipotesi di reato avanzata dal pm Katia Cardillo è di omicidio colposo. L’autopsia - Domani mattina verrà affidato l’incarico per l’autopsia, il cui esito sarà determinante per chiarire le cause del decesso e consentire il rilascio della salma, attualmente sotto sequestro presso l’obitorio dell’ospedale “Ruggi”. I legali della famiglia e del camice bianco indagato potranno nominare un consulente tecnico di parte. Non è escluso che, a seguito di ulteriori accertamenti, possa aumentare nei prossimi giorni il numero degli indagati. Pavia. Violenza sessuale in carcere, il compagno di cella di Jordan Tinti a processo di Maria Fiore La Provincia Pavese, 27 marzo 2025 Sarà a giugno il processo per la presunta violenza sessuale avvenuta in cella ai danni del trapper Jordan Tinti, noto come Jeffrey Baby, morto suicida a 26 anni il 12 marzo 2024. A dicembre il giudice Luigi Riganti aveva respinto la richiesta di archiviazione della procura e accolto l’opposizione del legale dei familiari del ragazzo, Federico Edoardo Pisani. Il giudice, quindi, ha riaperto il caso restituendo gli atti al pubblico ministero e ordinando l’imputazione coatta per il compagno di cella, un 50enne ancora detenuto. Le motivazioni - Il giudice, a differenza del magistrato della procura che aveva chiesto di archiviare, il sostituto procuratore Paolo Mazza, ha tenuto in considerazione la testimonianza di un terzo detenuto presente nella cella, che aveva raccolto a caldo la reazione di Jordan Jeffrey Baby. Il giovane trapper gli aveva confidato subito di essere stato molestato mentre era sul suo letto che dormiva, sotto l’effetto di un farmaco tranquillante. L’episodio, così come denunciato, si colloca nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 2023. Il giovane stava dormendo nel letto quando aveva percepito di fianco a lui la presenza del compagno. Secondo l’accusa il detenuto lo avrebbe toccato nelle parti intime. Il giovane si sarebbe subito ritratto e avrebbe chiamato l’agente di guardia quella notte, chiedendogli di allontanare il compagno. Avrebbe però riferito solo in un secondo momento l’accaduto e proprio questo ritardo aveva convinto il magistrato a chiedere l’archiviazione. Il giudice Riganti, però, ha tenuto in considerazione la testimonianza di un terzo detenuto presente nella cella, che era stato subito svegliato da Jordan Tinti e messo al corrente di quanto successo. Il testimone aveva anche subito chiesto al detenuto 50enne se fosse vero quello che il giovane gli stava dicendo, ricevendo una risposta affermativa. Gli altri filoni di indagine - Resta ancora aperta invece l’indagine per chiarire le circostanze del suicidio del giovane trapper, mentre si è chiuso pochi mesi fa un altro procedimento per maltrattamenti. Per questa accusa era stato condannato a ottobre il trapper Gianmarco Fagà, conosciuto come Traffik, il giovane di origini romane che aveva partecipato insieme a Jeffrey Baby, secondo quanto hanno stabilito i processi, all’aggressione a un operaio a Carnate. Entrambi i trapper erano finiti in carcere, a Pavia, e qui, secondo l’accusa, Jeffrey Baby sarebbe stato vittima di maltrattamenti e vessazioni da parte dell’amico, di insulti e aggressioni fisiche, anche di notte. Il filone di indagine più importante riguarda comunque la morte del trapper in cella. La famiglia non crede all’ipotesi del suicidio e ha sollevato dubbi anche sulle condizioni della detenzione: il giovane aveva già dato segnali di disagio e tentato due volte il suicidio. Nonostante questo era senza sorveglianza. Era rientrato a Torre del Gallo una decina di giorni prima della sua morte, dopo una perentesi di alcuni mesi trascorsi in affidamento in una comunità terapeutica. Perugia. “Dare un senso al tempo dei detenuti”, la funzione del carcere di Alessandro Villari zetaluiss.it, 27 marzo 2025 Restituire significato alle vite trascorse dietro le sbarre non è cosa da poco. Un’importante iniziativa a riguardo arriva da Perugia. “La peggior sensazione che dà il carcere è quella di trascorrere una vita vuota: se passi giorni e giorni senza nessun senso la tua disperazione ti porta al suicidio”, sono le parole di Emilio Santoro, professore di Filosofia del diritto dell’università di Firenze e presidente del comitato scientifico dell’associazione L’altro diritto. Secondo l’organizzazione Antigone, nel 2024 sono state ottantotto le persone che si sono tolte la vita nei penitenziari: un dato che ha superato il triste record del 2022, quando i casi sono stati ottantacinque. Dall’inizio dell’anno fino al 15 marzo invece, i morti per suicidio negli istituti di pena sono già stati diciassette. In questa situazione, restituire significato alle vite trascorse dietro le sbarre non è cosa da poco. Un’importante iniziativa a riguardo arriva da Perugia: il 14 febbraio scorso, l’assessore allo Sport Pierluigi Vossi ha proposto nella giunta comunale di arrivare alla sottoscrizione di un protocollo che consenta alle persone coinvolte in procedimenti penali, detenuti compresi, di partecipare alle attività sportive e di svolgere lavori socialmente utili all’interno di questi contesti, compresi quelli legati alla cura delle disabilità e presso la Croce Rossa. L’assessore ha unito le sue due passioni: lo sport e il diritto. Avvocato da ventisette anni, fa parte del Consiglio nazionale forense, ma da ragazzo ha giocato nelle giovanili del Perugia fino ad arrivare in Serie C e ora è vicepresidente vicario dell’Associazione italiana allenatori di calcio. “Ho sentito l’esigenza, anche con gli altri colleghi dell’Ordine di Perugia, di redigere un protocollo dove emerge la volontà di andare a prendere quelle fragilità, tra adulti e minori, e farle immergere in una realtà, come quella sportiva, che magari non hanno mai frequentato”. Lo scopo è quello di imparare a riconoscersi nei valori della competizione: sacrificio, bellezza e sano agonismo. Uno degli aspetti centrali dell’accordo è la possibilità di applicare misure alternative alla detenzione, come il lavoro di pubblica utilità favorendo percorsi educativi che rafforzino il senso di responsabilità individuale e tentino di dare un’ancora di salvezza per chi è in cella: “Lo sport dà la possibilità di sfogarsi e liberare energie positive. L’iniziativa segue l’esempio di Milano e Roma che hanno già lavorato in questa direzione e si potrebbe anche esportare il modello a livello nazionale”, commenta l’assessore. La vera importanza di progetti del genere consiste nel ridare un senso alla vita, nel concepire in maniera costruttiva la detenzione e di “restituire valore al tempo buttato via, sensazione che rende avvilente l’esistenza del singolo”, commenta Santoro. E si può raggiungere questo scopo istituendo nelle carceri corsi di alfabetizzazione in italiano o qualunque altra possibilità che tenga impegnato in maniera assennata il detenuto. Ed è proprio sul concetto di responsabilità che insiste il professore facendo un distinguo tra la nostra cultura e quella del nord Europa: “Noi stiamo continuando a parlare di carcere-rieducativo, invece in altri Paesi ha attecchito la definizione di carcere-responsabilizzante che consiste nell’autonomizzare i prigionieri e non renderli dipendenti dall’istituzione”. Da quelle parti, racconta Santoro, il carcere è organizzato come se fosse una specie di college o di residenza universitaria, perché i detenuti hanno perfino dei soldi da amministrare e sono organizzati con le cucine in comune dove possono prepararsi i pasti. In Norvegia, le prigioni sono strutturate ad albero come un paese del Far West con una strada principale che divide da una parte le diverse attività da svolgere e dall’altra le celle. Nel secolo precedente ci sono stati alcuni tentativi di migliorare la situazione. Nel 1940 il sociologo americano Donald Clemmer pubblicò un saggio, The Prison Community, in cui sosteneva che le carceri non creano socializzazione, ma prigionizzano e abituano le persone alla vita carceraria che è del tutto diversa rispetto a quella esterna. In ambienti di questo tipo risulta quasi impossibile impedire l’effetto distruttivo del socializzante annichilimento della detenzione. Uno dei maggiori architetti italiani del XX secolo, Giovanni Michelucci, che ha progettato anche la stazione di Firenze Santa Maria Novella e la chiesa di San Giovanni Battista, sognava una città in cui l’istituto penitenziario non fosse inteso né come concetto né come luogo. Diceva di voler rendere il penitenziario una parte del paese e far diventare la vita dei detenuti il più possibile simile a quella esterna: quando ha costruito un giardino dentro il carcere Sollicciano di Firenze lo ha chiamato il “Giardino degli incontri” proprio per questo motivo. Purtroppo, l’approccio carcerario dominante in Italia è figlio della cultura lombrosiana: Cesare Lombroso è stato un medico, antropologo, filosofo, giurista e criminologo italiano. Influenzato dalla fisiognomica, dal darwinismo sociale e dalla frenologia, è il fondatore dell’antropologia culturale. Le sue teorie si fondano sul concetto del criminale per nascita: le origini del comportamento criminoso sono connaturate nelle caratteristiche anatomiche di una persona ed è quindi la genetica a determinare la differenza tra un delinquente e un bravo cittadino. L’unico approccio utile per redimerlo era far ricorso al trattamento clinico-terapeutico. “Da questo orientamento è derivata la concezione secondo cui se un criminale è autonomo commette i reati e quindi bisogna togliergli l’autonomia. Il concetto stesso di rieducazione è figlio dell’idea che esista un criminale da rieducare”. Sono anni che le associazioni per i diritti dei carcerati si battono affinché la situazione nelle carceri cambi, ma “finché ci sarà un sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia che dice di provare gioia nel togliere il respiro ai detenuti in regime di massima sicurezza è inutile dire qualsiasi cosa”. Il professore si riferisce alla frase che Andrea Delmastro Delle Vedove di Fratelli d’Italia ha pronunciato durante la presentazione dell’autovettura blindata del Dipartimento dell’autorità giudiziaria (Dap) che ha suscitato non poche polemiche. La politica è simbolica e il diritto penale è simbolico per eccellenza: “Le manifestazioni in piazza non sono la soluzione, bisogna ridare un senso al tempo che i detenuti passano nelle carceri e responsabilizzarli”. Mantova. Dalle proteste dei detenuti ai suicidi: in un anno 101 eventi critici in carcere di Igor Cipollina La Gazzetta di Mantova, 27 marzo 2025 Operano quotidianamente sul filo teso tra fermezza e umanità, disciplina e comprensione, impegnati “a difendere e diffondere luce e speranza”. In un luogo pieno di ombre, dove la missione del recupero sociale si scontra con carenze - di organici e strutture - e con grumi di emarginazione. Difficile immaginare un riscatto quando si è ultimi tra gli ultimi, oltre i bordi. Difficilissimo placare le intemperanze e, al tempo stesso, alimentare la prospettiva di un domani in chi vive l’apnea di un presente compresso. Stretti in 140 dentro uno spazio per 97. “Abbiamo imparato a non cedere alle provocazioni, a non temere le sfide di una quotidianità imprevedibile - scandisce Raffaele Pierro, comandante del reparto di polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale di Mantova - ma siamo anche pronti a rappresentare le esigenze dei detenuti, a dar loro una parola di conforto”. L’occasione per accendere una luce sul carcere di via Poma - così centrale, nella geografia della città, eppure così invisibile - è la festa per il 208esimo anniversario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria. A restituire le proporzioni dell’emergenza sono i numeri del 2024, messi in colonna da Pierro. La nuda drammaticità delle cifre: 320 gli ingressi nella casa circondariale di via Poma, di cui 299 “dalla libertà” e 21 provenienti da altre carcere; 237 le “dimissioni”, di cui 71 per misure alternative alla detenzione e 65 per trasferimento; 140 la media dei detenuti, con punte fino a 160 (il dato attuale è 135); 721 le traduzioni (trasferimenti coatti, ndr) con un impiego di 2.267 unità di polizia penitenziaria. La voce più inquietante è quella degli “eventi critici”: 101 gli episodi registrati nel corso del 2024, tra cui una protesta collettiva e 12 individuali; 12 le aggressioni tra detenuti e un episodio particolarmente violento nei confronti dei poliziotti; 64 i provvedimenti disciplinari, 2 i gesti autolesivi e un tentato suicidio. Il pensiero va a Elena Scaini, la detenuta che si è uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo, e disarma come uno schiaffo: “Un evento drammatico che ha scosso profondamente la polizia penitenziaria e tutti gli operatori che ogni giorno danno il massimo perché le persone detenute possano essere restituite alla società, migliori e con un futuro certo”. Ai numeri scanditi dal comandante ne manca uno, quello che fotografa e dice dell’affanno degli agenti: in servizio se ne contano 60, dovrebbero essere 81. Pierro riferisce di un carico d’impegno che ormai è sacrificio consueto, ma non lo aggancia ad alcuna cifra. Forse pensa che non sia il caso di rovinare la festa. La direttrice - Di “turni faticosi a causa della carenza dell’organico” parla la direttrice della casa circondariale, Metella Romana Pasquini Peruzzi, consapevole del continuo stato di tensione psicologica ed emotiva nel quale operano gli agenti, chiamati a trovare un punto d’equilibrio tra disciplina e umanità. Tra la sicurezza e il reinserimento sociale, nel quale si esprime e riverbera il compito dell’amministrazione penitenziaria. Le reclusioni non sono per sempre, i detenuti vanno accompagnati nel percorso che li restituirà “liberi tra i liberi”. È lei, la direttrice, a riconoscere ai poliziotti il ruolo di “difensori e diffusori di luce”. Il faro? Quello acceso dalla Costituzione. Firenze. Carcere di Sollicciano: peggiorano le condizioni dopo il cambio di direzione La Nazione, 27 marzo 2025 Problemi igienici e nuovi sopralluoghi. Tutto cambia, niente cambia. Il teorema gattopardesco vale anche per Sollicciano. Perché dopo la non conferma dell’ormai ex direttrice, Antonella Tuoni, additata dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) di essere “responsabile” delle gravi situazione in cui versa il penitenziario, la situazione anche con il nuovo dirigente a tempo determinato non fa che peggiorare. A dirlo è l’ultimo verbale con gli esiti dei sopralluoghi del personale dell’Asl Toscana centro all’interno della quarta sezione dell’ala maschile e nel reparto Atsm (salute mentale). Medici igienisti e tecnici, accompagnati dal direttore ‘supplente’, Alessandro Monacelli, hanno visitato - il 14 marzo, un giorno dopo la morte per overdose di un detenuto - il secondo piano della struttura, dove sono ospitati 43 reclusi suddivisi in 19 celle da due o tre posti l’una. Cinque le ‘stanze’ ispezionate. Al loro interno le ormai note ‘piaghe’. Umidità “diffusa agli angoli”, servizi igienici “fuori uso e ingombro di materiale da smaltire”. Scarse le “condizioni igienico sanitarie”, con la presenza di “umidità da infiltrazioni anche sulle pareti”. Nella cella numero quattro, è stata rinvenuta anche “la presenza di numerosi esemplari vivi di cimici dei letti su pareti e mobilio”. Lecco. Storie dal carcere in “Tutte le lacrime sono trasparenti” merateonline.it, 27 marzo 2025 È iniziato lo scorso lunedì il primo incontro di un progetto organizzato dal gruppo “Imbersago per Tutti”, in collaborazione con l’Amministrazione, per coinvolgere, una volta al mese, con un appuntamento a tema, tutta la popolazione. Il primo argomento affrontato, con il ritorno in paese dell’arte terapeuta Luisa Colombo, è stato le donne e il carcere, in occasione dell’appena celebrata Festa della Donna. Partendo dal suo libro “Tutte le lacrime sono trasparenti”, l’autrice ha raccontato di donne che hanno subito violenza in carcere e comunità protette, che lei ha incontrato esercitando la sua professione. Un’opera nata in carcere non per spaventare le persone sulle tragedie che accadono ogni giorno, ma per dare un segno di speranza. “Perché le donne se scelgono di rinascere, anche se è difficile, lo possono fare e oggi ci sono una serie di meccanismi e istituzioni che le sostengono. Se decidi di farcela puoi farcela”. Protagoniste di questa narrazione sono proprio donne che ce l’hanno fatta, ma anche quelle che hanno avuto ricadute e coloro che non ce l’hanno fatta, rimanendo vittime di un meccanismo di sopraffazione. La prefazione e l’editing sono stati curati da un detenuto, Nicola Sapone, che dopo essere stato condannato giovanissimo all’ergastolo, ha stravolto la sua vita, vedendo il reato attraverso l’approccio di giustizia riparativa, concentrandosi sullo studio e conseguendo una laurea in filosofia. “In questi tempi dove molte persone non hanno occhi che per se stessi, il tuo libro, o meglio le donne che raccontano le loro vite, ci fanno capire l’importanza di vedersi e rispecchiarsi negli occhi degli altri, di non essere soli e cadere nella prigione della solitudine di noi stessi” scrive Sapone, con la speranza di generare con il suo passato travagliato qualcosa di positivo. Tra le pagine del libro, scoprire il vissuto donne porta ad entrare nella loro anima, per avvicinare il lettore a situazioni che spesso si credono lontane dalla propria realtà e che invece toccano tutti, perché la violenza, che colpisce anche l’uomo, non dipende dal livello di istruzione, di povertà o dall’etnia, bensì da preconcetti e convinzioni tramandati da generazione in generazione. Occorre dunque rieducare e prevenire, partendo dai più piccoli, per combattere la disparità di genere. In prigione il percorso di educazione e cambiamento è ancora più complicato, ma efficace, come testimonia il tasso della recidiva, che nel carcere di Bollate, l’eccellenza rieducativa in Italia, tocca solo il 25% dei detenuti rispetto al 75% della media nazionale. Un’esperienza raccontata è quella di Sonia, che per decenni non è riuscita ad uscire da relazioni tossiche con uomini che le hanno portato forti disagi. Arriva da una situazione in cui, durante l’infanzia, il padre era in prigione e la madre, prostituta e con una grave patologia psichiatrica, faceva dentro e fuori dal carcere. Lei come risposta, ha deciso di accompagnarsi con uomini che le hanno causato forti dolori. “Una scienza recente dice che ci portiamo nel Dna le scelte dei nostri predecessori, noi non possiamo non tenerne conto quando si presentano queste situazioni”. Con la sua professione di arte terapeuta nelle scuole e nelle carceri, Colombo ha iniziato un percorso su se stessa per poi intraprendere un viaggio verso gli altri per aprire l’interiorità attraverso percorsi di formazione. Un impegno che le è stato riconosciuto nella giornata di domenica con il premio “Eccellenza Donna”, il merito che il dipartimento brianzolo Tutela Vittime di Fratelli d’Italia assegna, in occasione della Giornata della donna, a chi si è distinta nei vari campi. Un lavoro che porta a incontrare sempre nuove vicende, di cui le lacrime sono il filo conduttore. Lacrime di gratitudine e di dolore, che hanno unito la terapeuta e le donne conosciute e sostenute negli anni, lacrime che ha raccolto e che sono diventate il titolo del libro. Forlì. “Io spero paradiso”: documentario dalle mura del carcere di Opera di Alessandro Mambelli Il Resto del Carlino, 27 marzo 2025 Alle 20.30 l’Istituto Salesiano Orselli di Forlì, la Sala San Luigi e la Fondazione Opera Don Bosco Onlus, in collaborazione con la Diocesi di Forlì-Bertinoro e la Caritas Diocesana, promuovono la proiezione del film documentario ‘Io spero paradiso’ di Daniele Pignatelli, con confronto e testimonianze presso la Sala San Luigi, in via Nanni 14. Negli ultimi anni le carceri italiane sono state al centro del dibattito pubblico a causa del sovraffollamento, delle difficili condizioni di vita dei detenuti e delle criticità legate al reinserimento sociale. Questi temi pongono interrogativi sul modo in cui il sistema penitenziario possa svolgere al meglio il suo ruolo punitivo, rieducativo e riabilitativo. Il regista Daniele Pignatelli affronta i temi nel film realizzato con la collaborazione dei detenuti del Carcere di Opera, e che racconta una storia di rinascita e seconde opportunità attraverso il vissuto di tre detenuti, per riflettere su come il carcere possa essere anche un luogo di crescita personale e reintegrazione. “La particolarità di questo film - racconta Pignatelli del suo lavoro all’interno di Opera - è che le cose sono avvenute all’improvviso nel corso della realizzazione, e questo ci ha obbligati ad una attenzione costante per poter cogliere al volo i momenti importanti”. Nel corso degli ultimi mesi, il film ha partecipato a numerosi festival di rilevanza nazionale e internazionale. Nonostante non sia ancora stato distribuito ufficialmente nelle sale, ha già ottenuto un riscontro entusiastico da parte della critica. La proiezione sarà introdotta da don Enzo Zannoni, cappellano della casa circondariale di Forlì, mentre dopo la visione interverranno e dialogheranno con il pubblico il regista e uno dei detenuti protagonisti del docufilm. Biglietto unico 7 euro. “Adolescence”, dramma sulle fragilità dei teenager di Maurizio Porro Corriere della Sera, 27 marzo 2025 La serie Netflix in quattro episodi segue la vita della famiglia Miller, la cui esistenza viene sconvolta quando Jamie, studente 13enne, viene arrestato per avere ucciso una compagna di classe. Sono 24 milioni di visualizzazioni, dice orgogliosamente Netflix, oggi saranno il doppio o il triplo. La nuova serie di cui si parla è inglese dello Yorkshire e si chiama “Adolescence”: è bellissima nella forma e nella sostanza, sono quattro episodi di un’ora tutti girati in piani sequenza, senza stacchi, con qualche piccolo e legittimo trucco. Non è una storia fantasy, non è romantica, non è distopica (anzi, proprio di oggi si parla), non è dozzinale, non fa ridere, non ha alcuno degli elementi che in genere determinano il successo di un prodotto a largo consumo globale. Eppure è nella top ten di 71 Paesi, tutti complici di questo fattaccio di cronaca che nessuno riesce a considerare estraneo. Lo stesso dicasi, in altri contesti, per il successo di Roberto Benigni su Rai1 col suo splendido monologo sull’Europa per ristabilire (ma è stato un caso) la verità sul manifesto di Ventotene: qualcosa è cambiato nei gusti della gente e nel suo “sentire”. Ha letto nei pensieri e nel cuore dell’autore della “Vita è bella” ed è entrata si corsa nella triste storia di una famiglia il cui ragazzino 13enne è arrestato, accusato di aver ucciso una sua coetanea compagna di scuola. Una famiglia semplice e onesta, con quella parlata un po’ diversa che hanno i film di Ken Loach. Il fatto che la miniserie ideata da Jack Thorne e Stephen Graham (l’attore strepitoso che sostiene il ruolo del padre) diretta da Philip Barantini sia stata girata senza stacchi, entrando prima in casa poi a scuola poi correndo per inseguire un ragazzo, infine nei meandri di un ipermercato, infine ancora a casa, dribblando porte e finestre, quindi rifatta varie volte come a teatro, imparando il testo poco alla volta ma senza potersi permettere il lusso di sbagliare e rifare, scegliendo poi la versione migliore, significa per noi che la vediamo che la vita è proprio come il cinema, perché il tempo è quello reale. È quello che ci capita, raccontato senza inganno e senza trucchi, senza il montaggio, senza la musica che influisca sulle nostre emozioni. Sono 4 momenti, vicini nel tempo, passa solo una manciata di mesi: nel primo episodio la polizia, nel Doncaster, con un ispettore capo, un sergente e alcuni poliziotti, irrompe e sfonda all’alba la porta di casa, come ci fosse il Padrino, per arrestare un ragazzino assonnato (un attore da brivido, debuttante) che viene portato in custodia, interrogato e perquisito, sempre dichiarandosi estraneo ai fatti; nel secondo, tre giorni dopo, i poliziotti vanno a indagare nella scuola, interrogando i compagni e i professori; nel terzo, il più spietato, assistiamo, sette mesi dopo, al colloquio a due tra il ragazzo, Jamie, e la psicologa (Erin Doherty, vista in “The Crown”) soprattutto sui rapporti con le ragazze e sul suo aspetto fisico; nell’ultimo, passati 13 mesi dall’omicidio, vediamo il disfacimento della famiglia e sentiamo la telefonata del figlio che fa gli auguri al padre nel giorno fatale del suo 50esimo compleanno. Non ci sono grandi spoiler, se non quelli esistenziali, si tratta di capire il perché e di indagare sui segreti usi e costumi social dei giovani, gli effetti devastanti del cyber bullismo, la così detta cultura della contrapposizione sessista (la radicalizzazione incel) che mina non solo l’intelligenza ma anche la sensibilità dei rapporti. Non si vede il delitto, solo un video da lontano, si tratta di andare “oltre” e di interpretare le rabbie e le tenerezze di questo ragazzo che prima nega il delitto ma poi sente a momenti il peso di una grande colpa e di un rimorso incolmabile nei confronti della famiglia e in particolare del padre che non può evitare di chiedersi quale sia la sua parte di colpa. Ma non è un manuale di sociologia giovanile, è un magnifico temporale che si vede d’un colpo e d’un soffio, che scuote tutta una famiglia, inevitabili le identificazioni, e la scuola, l’istituzione che sta al suo fianco. Una narrazione che lascia il segno, una progressione fantastica di sintomi psicologici e la prestazione di questo ragazzo, Owen Cooper, che davvero è di una verità devastante per la sua età: una serie che ci insegna come il cinema spieghi anche l’irrazionale della vita con tutti i suoi strumenti, anche momenti estremi che vorremmo considerare irreali ma purtroppo lo sono sempre meno. Migranti. Sangue e manganelli, pestaggio brutale al Cpr di Trapani di Angela Nocioni L’Unità, 27 marzo 2025 Rappresaglia con i manganelli per aver sorpreso un migrante che con uno smartphone tentava di denunciare un tentativo di suicidio per impiccagione. “Aiuto! Aiuto! No, no!”. Sono grida disperate. Ascoltatele, se potete, a questo link: https://video.unita.it/pestaggio-al-cpr-di-trapani/ Vengono dal centro per il rimpatrio di Milo, a Trapani. Sono state registrate durante un pestaggio lunedì 24 marzo dentro il Cpr. Agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione e hanno manganellato furiosamente tutti i presenti. Sangue e ferite. Si è salvato solo chi è riuscito a nascondersi sotto il letto. Nei Cpr sono rinchiuse persone in detenzione amministrativa, ossia persone che non sono nemmeno accusate di aver compiuto reati. A parte le espulsioni giudiziarie che sono una esigua minoranza, si tratta di persone ritenute - non da giudici ma da funzionari delle prefetture - migranti da rimpatriare, privati della libertà e rinchiusi in celle in violazione della Costituzione italiana. La rete Mai più lager - No ai Cpr denuncia: “Ci è arrivato questo video registrato da una videocamera rotta insieme a messaggi da una persona in lacrime che chiedeva aiuto per le persone detenute lì dentro che ci ha detto: ‘Siamo tutti pieni di sangue, ci hanno menato tutti quanti! Aiutateci!’. Una persona è stata sorpresa con uno smartphone mentre filmava l’ennesima “corda” di questi giorni, ossia un tentativo di impiccarsi. Di qui la rappresaglia. In quel Cpr non sono ammessi neppure i cellulari non smartphone: ci sono solo poche e costosissime cabine telefoniche. Questo isolamento fa del Cpr di Milo uno di quelli dove si viene trasferiti per punizione: da lì non può venire fuori nulla”. È stato portato in ospedale qualcuno dei detenuti picchiati? Non ce li portano mai, per evitare che riferiscano. Denuncia Teresa Florio, una delle attiviste di Mai più lager: “Insieme a quelli di Macomer, Caltanissetta e Brindisi, dei 10 Cpr esistenti in Italua, quello di Trapani è uno di quelli dai quali trapelano meno notizie. Ma le poche volte che si è aperto uno spiraglio, abbiamo intravisto l’inferno. Non da meno è il Cpr di Bari, dal quale, pure con i telefoni solo-voce, arrivano quasi quotidiane notizie di pestaggi da parte delle forze dell’ordine, a danno di persone che semplicemente rivendicano il proprio diritto di cura e di difesa, e conferme della presenza di gente malata (persone affette da epilessia, tbc latenti, e fratture, anche craniche). Il fatto che al Cpr di Milano ci siano detenute persone con gravi problemi psichiatrici è stato denunciato più volte. L’ultima volta che siamo riusciti ad entrare, il 3 marzo scorso, abbiamo trovato un signore con più di cinquant’anni, del Senegal, che non voleva parlare con nessuno, non voleva che lo guardassimo in faccia, mentre gli parlavamo stava sempre con le coperte tirate fin sopra la testa. E un ragazzo del Salvador, magro e barbuto (c’è solo un rasoio e un solo tagliaunghie per tutto il settore) che si è presentato come un dj in tournée e ci ha accusato di avergli rubato i suoi risparmi. Lui, di solito, nel mezzo della notte, si spogliava completamente e inscenava una sorta di passerella. Sia lui sia il signore senegalese sono incontinenti fecali. Ma di tutto questo, il personale del gestore del Cpr presente nel corso dell’accesso si è detto non essere mai stato prima a conoscenza. L’attuale gestore, la Cooperativa Ekene, è lo stesso che gestisce il Cpr di Gradisca dal 2019”. Dal 2019 al Cpr di Gradisca ci sono stati 4 morti. La Cooperativa Ekene gestisce ora anche il Cpr di Ponte Galeria a Roma. Di malati e pestaggi, da parte non solo delle forze dell’ordine ma anche del personale dipendente dal gestore, parla il report “A porte chiuse” scritto dalla rete Mai più lager No ai Cpr insieme agli attivisti del Naga depositato in allegato ad un esposto alla Procura di Oristano il 20 febbraio scorso. Racconta Teresa Florio che nel documento a disposizione della Procura c’è anche segnalata “la presenza di una persona con gravi problemi psichiatrici, che al colloquio con noi si è presentata come statunitense, con il nome di Richard Nixon, e con la famiglia in uno yacht in rada che l’attendeva. Un altro ragazzo di 20 anni è stato trovato con il colpo completamente devastato da centinaia da tagli profondi per autolesionismo. Mangiava e beveva le sue feci e la sua urina. Nel report sul Cpr Macomer, abbiamo riportato le parole di un ex detenuto che raccontava come ‘più di 17 carabinieri sono entrati nel blocco C, camera 20 alle 3:30 del mattino. Un tunisino ha rifiutato di tornare in patria ed è stato massacrato da tre o quattro agenti, quando si stancava un carabiniere di colpire è il turno dell’altro e così per quasi quattro ore di tortura e abuso di potere davanti all’ispettore di polizia e il responsabile della polizia di turno. C’erano le telecamere. Sopra al letto a castello lo stavano picchiando. Fuori dalla porta hanno circondato la stanza. Ci sono delle telecamere fuori alle finestre, rivolte verso l’abitazione, secondo me hanno ripreso tutto’. Di solito - continua Teresa Florio - i pestaggi si svolgono, a suon di manganelli o calci e pugni, spessissimo a danno di persone ammanettate, ad opera di agenti in tenuta anche antisommossa, nelle celle o nei bagni, o nei luoghi dell’infermeria (l’obbligo di referto dei dottori è quotidianamente violato), cioè gli unici luoghi senza telecamere e senza testimoni. Per lo stesso regolamento ministeriale del 2022 (l’unica disciplina dei Cpr, a parte l’articolo 14 del testo unico immigrazione) le persone con fragilità non dovrebbero essere rinchiuse lì dentro. La domanda che puntualmente ci fanno i detenuti che, per intenderci, stanno meno male degli altri è ‘perché sono qui?’ gli risulta incredibile poter essere privati della libertà personale senza aver commesso alcun reato, ma solo perché provengono da un paese straniero. Peraltro in Italia l’ordinamento non concede nei fatti possibilità di regolarizzazione sul territorio. E la prospettiva di non sapere se e quando si verrà rilasciati o deportati, è logorante. Di qui la nostra campagna per invitare i medici delle strutture sanitarie pubbliche, incaricate delle visite di idoneità per l’ingresso nei Cpr a considerare in scienza e coscienza che in definitiva, sulla scorta delle evidenze scientifiche e documentali, alla luce dei principi di deontologia medica, nessuno dovrebbe essere considerato idoneo alla vita in detenzione amministrativa”. Questo succede in Italia, nei buchi neri dei 10 Cpr che non sono distanti da noi, sono nelle nostre città. Immaginate cosa può accadere se davvero, come ha annunciato il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, andasse in porto il piano del governo Meloni di trasformare in Cpr le celle costruite dall’Italia a Shenjin e Gadjer in Albania. Migranti in Libia, l’Italia condannata per il “respingimento delegato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2025 Una sentenza del Tribunale di Roma ha segnato una svolta epocale nelle politiche migratorie italiane, riconoscendo la responsabilità dello Stato nel “respingimento delegato” di 170 persone verso la Libia nel 2021, in collaborazione con le autorità libiche. Parliamo della scorsa legislatura e ciò rende l’idea delle politiche migratorie repressive che attraversano qualsiasi schieramento politico. Tra loro c’è A., sopravvissuto a detenzione e torture, arrivato ieri a Roma grazie a un visto umanitario ordinato dal giudice per richiedere asilo. La decisione svela il ruolo attivo dell’Italia nel sistema di respingimenti illegali e apre la strada a centinaia di altre vittime alla ricerca di giustizia. Il 14 giugno 2021, la nave mercantile Vos Triton, battente bandiera di Gibilterra, soccorse 170 persone nel Mediterraneo centrale. Nonostante gli appelli della rete Alarm Phone, il Centro di Soccorso Marittimo italiano evitò di coordinare uno sbarco sicuro in Europa, ordinando alla nave di attendere l’arrivo della motovedetta libica Zawiya. Le persone furono così riconsegnate alla Guardia Costiera libica, con il supporto logistico e operativo delle autorità italiane. In Libia, i sopravvissuti finirono in centri di detenzione, sottoposti a violenze sistematiche, lavori forzati e abusi documentati da organizzazioni umanitarie. A., oggi 27enne, ha trascorso quasi 4 anni in quei lager prima di ottenere giustizia. Il Tribunale di Roma ha stabilito che l’Italia, pur non avendo navi proprie sul luogo, ha esercitato un “controllo qualificato” sull’operazione, violando il diritto internazionale. Le omissioni del Mrcc Roma hanno creato un nesso diretto tra lo Stato italiano e le violazioni subite da A., rendendo l’Italia responsabile di non aver garantito uno sbarco sicuro. “La Libia non può essere considerata un porto sicuro”, si legge nella motivazione, che condanna la prassi dei respingimenti indiretti. “Questa sentenza smaschera una strategia sistematica: le autorità italiane, pur sapendo dei rischi, esternalizzano i respingimenti alla Libia per evitare arrivi in Europa”, ha dichiarato Nicola Datena, avvocato di A. e membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. L’associazione Baobab Experience, che ospiterà A. a Roma, sottolinea l’assurdità di dover ricorrere ai tribunali per salvare vite umane. “Basterebbe rilasciare visti per evitare i viaggi della morte e destabilizzare i trafficanti”, ha commentato Alice Basiglini, attivista dell’organizzazione. Intanto, il JLProject - che ha identificato oltre 700 vittime di respingimenti illegali - celebra la sentenza come un precedente cruciale. “Riconoscere la regia italiana nei respingimenti apre la porta a migliaia di richieste di risarcimento”, afferma Sarita Fratini, coordinatrice del progetto. Nonostante i reiterati rapporti dell’Onu sulle condizioni disumane nei centri libici, l’Unione europea continua a finanziare le autorità locali per bloccare i flussi migratori. A. è uno dei pochi fortunati: molti suoi compagni di viaggio sono ancora prigionieri, mentre l’Italia resta al centro di accuse per il suo ruolo di “regista occulta” nelle operazioni di respingimento. La sentenza del Tribunale di Roma potrebbe innescare un effetto domino: oltre 50 ricorsi simili sono già in attesa di esame. Ma la battaglia è politica: mentre l’Ue rivede i suoi accordi con la Libia, le Ong chiedono corridoi umanitari e un’inversione di rotta nelle politiche migratorie. Per A., intanto, inizia una nuova vita. La sua storia, però, è un monito: il prezzo della “fortezza Europa” si misura in corpi spezzati e diritti calpestati. Migranti. La Libia è il buco nero della politica italiana di Beppe Caccia* Il Manifesto, 27 marzo 2025 Il segreto è miseramente crollato. Siamo stati spiati perché denunciamo la complicità dello Stato con le bande criminali nella tratta degli esseri umani. C’è un filo nero che lega i clamorosi casi che nel volgere di un mese hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica le scelte del governo e l’utilizzo degli apparati di Stato. Prima con il rilascio del criminale ricercato dalla Corte penale internazionale Elmasri. Poi con l’indisturbata visita a Roma dell’altrettanto criminale Gheniwa, e nel mezzo con la vicenda dello spionaggio informatico con il potente spyware di Paragon. Questo filo si chiama Libia. Ieri abbiamo appreso da fonti giornalistiche che, dopo quasi due mesi di pressione pubblica e giudiziaria, il sottosegretario Alfredo Mantovano, autorità delegata di governo, avrebbe ammesso al Copasir che Mediterranea e i suoi attivisti sono stati spiati dai servizi segreti con il software militare Paragon Graphite perché considerati un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Sono stati presi con le mani nella marmellata. È tutto da provare se tale attività sia stata svolta con tutti i crismi della “legalità”. Ma di sicuro sarà difficile per il governo accamparne la legittimità. Il fatto che ordini di spiare attivisti per i diritti umani, oppositori politici e giornalisti, non doveva, nei loro piani, venire alla luce. E invece è stata scoperta e denunciata, a livello globale, un’operazione segreta, degna di un regime. Non solo. Un paradosso clamoroso è ora sotto gli occhi di tutti: per questo governo un criminale del calibro di Elmasri, fatto fuggire dall’arresto e riportato a casa, a Tripoli, in quell’aeroporto di Mitiga dove gestisce un campo di concentramento, addirittura accompagnato con un volo di Stato, è una “risorsa fondamentale per l’interesse nazionale”. Un criminale del genere, che ha ucciso, stuprato, torturato persone innocenti, e che può continuare ad arricchirsi con i suoi traffici (persone migranti, droga, petrolio, armi) grazie all’impunità di cui gode, è sotto protezione. Mentre chi si adopera per salvare vite, per aiutare donne, uomini e bambini prigionieri nei campi o abbandonati in mezzo al mare, per questo governo è un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Il Re è nudo. Un’ulteriore considerazione: siamo convinti che non ci fosse alcun bisogno di usare questo software militare per spiarci. Da quando esistiamo siamo sottoposti a ogni genere di controllo. Tutto questo è parte delle inchieste giudiziarie condotte in questi anni nei nostri confronti, e che sempre hanno dimostrato l’assoluta estraneità al reato che ci viene ossessivamente contestato: il famigerato “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Che cosa cercavano dunque i servizi segreti, attraverso questo sofisticato spionaggio, degno di Matrix, nei nostri telefoni? Per questo siamo preoccupati per la sorte di tante persone ancora trattenute in Libia e con cui siamo in contatto. Persone che ogni giorno rischiano la vita testimoniando contro le violenze e gli abusi commessi da quelle milizie, con cui il governo italiano collabora. Dopo quasi due mesi dunque, il “segreto di Stato” è miseramente crollato. Ed è abbastanza chiaro che la Libia è il buco nero degli ultimi dieci anni della politica italiana, con il suo groviglio di interessi che intrecciano questioni geopolitiche ed energetiche, e la brutale gestione delle frontiere esterne dell’Unione europea. In nome della ragion di Stato, ogni mezzo viene utilizzato per difendere questi interessi. Ma questa ragion di Stato comprende la complicità con milizie e bande criminali, affari sporchi, violenza feroce contro persone innocenti e indifese, azioni illegittime e incostituzionali. Chi denuncia e si oppone attivamente diventa un bersaglio. Per la prima volta in dieci anni tutto questo è stato smascherato e può diventare un argomento centrale di riflessione per l’opinione pubblica e nelle sedi istituzionali. Il tema della violenza esercitata contro le persone migranti è finalmente diventata una questione di democrazia, per tutti. Sono coinvolti molti livelli, ma abbiamo la straordinaria opportunità non solo di denunciare i giochi sporchi di chi sta al potere, ma anche di cercare di cambiare davvero le cose. Oggi più che mai, la solidarietà e la fratellanza sono le nostre armi più potenti. *Mediterranea Saving Humans Migranti. “Come in un regime”, così i Servizi spiavano l’ong Mediterranea di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 marzo 2025 Una velina su carta intestata del Viminale ha coinvolto l’Aise a maggio del 2024. Pronta una nuova denuncia: “Abuso di potere per intimidirci”. L’ong Mediterranea è un problema di sicurezza nazionale. Solo così si spiega perché l’Aise (l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna) abbia tenuto sotto controllo i suoi attivisti attraverso l’uso dello spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon Solutions, come confermato dal sottosegretario Alfredo Mantovano martedì pomeriggio davanti al Copasir. Un’ammissione che segue quelle fornite a febbraio, sempre davanti al comitato parlamentare di controllo sul loro operato, dai direttori di Aisi e Aise: il software è a disposizione e viene utilizzato. Ma sempre in maniera “lecita” e senza mai prendere di mira i soggetti tutelati dalla legge 124 del 2007. Ovvero i giornalisti. Ma non, ad esempio, gli esponenti delle ong. Da qui se in qualche maniera si chiarisce l’aspetto della vicenda che riguarda Mediterranea, continua a restare in sospeso l’altro filone, quello del direttore di Fanpage Francesco Cancellato, pure lui oggetto di attacchi tramite spyware. Ad ogni modo, l’attività di controllo sull’ong da parte dei servizi sarebbe cominciata il 6 maggio del 2024, quando, su carta intestata del Viminale, l’Aise ha ricevuto una velina intitolata “Ong Mediterranea Saving Humans - Attività di agevolazione degli spostamenti di migranti clandestini sul territorio nazionale”. Si trattava di materiale proveniente da un’indagine, abbandonata per mancanza di riscontri, della procura distrettuale di Palermo per “associazione a delinquere nel reato di immigrazione clandestina”. Tra i coinvolti c’erano “soggetti del mondo istituzionale ed ecclesiastico che notoriamente condividono le posizioni delle ong in merito alla gestione dei flussi migratori”. Gran parte degli approfondimenti erano stati fatti sul portavoce della ong Refugees in Lybia David Yambio, che tra le altre cose è anche uno dei testimoni della procura della Corte penale internazionale contro Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria di Tripoli arrestato a Torino il 19 gennaio e liberato nel giro di 48 ore scarse. Ricevuta l’informazione dalla polizia, l’Aise avrebbe poi regolarmente chiesto al procuratore generale della Corte d’appello di Roma Giuseppe Amato l’autorizzazione ad effettuare delle intercettazioni in via preventiva, non utilizzabili in un’inchiesta giudiziaria. Ed è così che sarebbe cominciato il caso Paragon. “È stata smascherata a livello mondiale una operazione segreta, degna di un regime”, si legge in una nota diffusa ieri da Mediterranea, che conta al suo interno almeno tre persone attaccate con lo spyware: il portavoce Luca Casarini, l’armatore Beppe Caccia e il cappellano di bordo Mattia Ferrari. “Il sottosegretario Mantovano è la mente che ha ispirato e guidato le attività di spionaggio contro di noi - sostiene Mediterranea -. Tenta di coprirsi attraverso l’alibi della legge. Ma per autorizzare una attività del genere senza violare la Costituzione devono esserci fondati motivi. Cinque procure stanno indagando, e noi confidiamo sul fatto che qualcuno abbia il coraggio di andare fino in fondo e dimostrare, come risulta palese, che questo è un abuso di potere, non altro”. Al lavoro, coordinate dalla Dna, ci sono gli inquirenti di Roma, Bologna, Napoli, Palermo e Venezia, destinatari di altrettanti esposti nelle ultime settimane. Un’altra se ne aggiungerà a breve, ancora a parte di Mediterranea, proprio per abuso di potere. Al momento, l’attività investigativa consiste soprattutto nella raccolta di informazioni utili, mentre si studia l’ipotesi di assegnare una maxi perizia sui dispositivi attaccati con gli spyware. Sin qui il lavoro tecnico l’ha fatto tutto il Citizen Lab dell’Università di Toronto, che ha ricostruito nel dettaglio la dinamica delle infiltrazioni nei vari dispositivi e ha già concluso che, in Italia e non solo, questi trattamenti vengono riservati quasi esclusivamente ad organizzazioni che si occupano dei migranti e dei loro diritti. “Si tratta di materiali utili solo a costruire dossier e schedature scambiabili con i propri partner criminali in cambio magari di qualcos’altro - conclude Mediterranea. Sappiamo che questo è un messaggio di intimidazione per tante persone migranti e rifugiate, per noi e per le nostre famiglie”. Migranti. Tutti d’accordo: “bisogna aumentare i rimpatri”. Contrarie solo le Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 marzo 2025 Da un lato e dall’altro del Mediterraneo sono tutti d’accordo: bisogna aumentare i rimpatri dei migranti. Libia e la Tunisia ribadiscono l’intenzione di accodarsi alla linea italiana e Ue. Tradotto: chiedono più soldi e maggiore cooperazione per riportare a casa i cittadini stranieri. Il ministro dell’Interno del Governo di unità nazionale libico, Imad Trabelsi, ha discusso del tema con Onu, Oim e Unhcr affermando che il fenomeno migratorio rappresenta “un grave peso per la Libia”, dove nelle scorse settimane si sono registrati arresti di massa e una violenta campagna anti-stranieri sui social. Il paese nordafricano rappresenta sia un transito verso l’Europa, sia una destinazione per molti lavoratori impegnati nel settore energetico e delle costruzioni, sebbene sia diventato sempre più un “mercato di schiavi”, come denunciato nel tempo da organizzazioni internazionali e umanitarie, a causa del crescente potere delle milizie (spesso le stesse finanziate da Ue e Italia). Secondo l’Oim i cittadini stranieri in Libia sono circa 800mila, per il governo oltre 4 milioni. Qualche decina di chilometri più a est il presidente tunisino Kais Saied si è lamentato del fatto che quest’anno siano stati rimpatriati solo 1.544 migranti, nel 2024 erano stati 7.250. Per questo ha ribadito l’importanza di aumentare le relazione con i paesi di origine e le organizzazioni competenti in materia, in particolare l’Oim. Le autorità nordafricane fanno sapere che nella regione di Sfax si trovano circa 20mila migranti, i quali continuano a denunciare attacchi razzisti, retate, deportazioni nel deserto e in generale condizioni di vita difficilissime. Ma Tunisi è più interessata a sottolineare l’aumento dei controlli alle frontiere terrestri con gli Stati confinanti e quelli in mare per impedire le traversate, che quest’anno si sono molto ridotte. Una carta di contrattazione con le autorità europee al limite tra la buona volontà e la minaccia. Dall’altro lato del mare il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha celebrato su X il rimpatrio di 147 migranti dalla Libia, insieme all’Oim. Senza però specificare verso dove. Del resto Tripoli, che tra le altre cose non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ha mano libera. Rimanda i migranti persino in Somalia, come non potrebbe fare nessun paese Ue. Questi rimpatri sono chiamati dalle istituzioni “volontari”. Una definizione che molte ong contestano, sulla base delle indicazioni degli organismi Onu competenti in materia. Le persone, che si trovano in strutture detentive dove i loro diritti umani sono violati continuamente o comunque in contesti di forte violenza, “non hanno alternative”. Soprattutto quando si tratta di soggetti vulnerabili o minori. Per contrastare questo anello della catena di politiche anti-migranti ieri Asgi, Actionaid Italia, A Buon diritto, Differenza donna, Le Carbet, Lucha y siesta e Spazi circolari hanno lanciato una campagna “per fermare i rimpatri “volontari” dai paesi di transito”. Denunciano che “Italia e Ue continuano a finanziare questi programmi senza garanzie di protezione ed esponendo le persone a ulteriori rischi nei paesi di origine”. Algeria. Lo scrittore Boualem Sansal condannato a cinque anni di carcere di Giulio Meotti Il Foglio, 27 marzo 2025 Dopo un processo lampo, lo scrittore algerino è stato condannato per aver “minato l’unità nazionale”. L’idea che circola è che possa ottenere una grazia presidenziale. L’alternativa, per l’autore che ha 80 anni e un cancro, equivale a una condanna a morte in carcere. Il romanziere algerino Boualem Sansal, critico del regime e degli islamisti, è stato condannato a cinque anni di carcere. Il verdetto arriva una settimana dopo il processo durato venti minuti al celebre scrittore. Il pubblico ministero aveva chiesto dieci anni di carcere. Autore del romanzo distopico “2084”, Sansal è stato riconosciuto colpevole di aver minato l’unità nazionale (decaduta l’accusa di spionaggio). Di fronte alle accuse, lo scrittore si è difeso. “Le mie parole e i miei scritti erano semplicemente un’opinione personale, ne ho diritto come qualsiasi cittadino algerino” ha detto Sansal. Cresce ora la preoccupazione attorno a quest’uomo di 80 anni, malato di cancro, arrestato il 16 novembre scorso mentre usciva dall’aeroporto di Algeri. “L’idea che circola ad Algeri è quella di condannare rapidamente Sansal per aprire la strada alla grazia presidenziale”, dice al Point un avvocato di Algeri. In questo caso, né l’accusa né Sansal dovrebbero presentare ricorso. “Non posso prevedere nulla”, aveva dichiarato a febbraio il presidente Abdelmadjid Tebboune al quotidiano L’Opinion, quando gli era stato chiesto di una possibile grazia. Il ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot, potrebbe recarsi ad Algeri a metà aprile per cercare di rilanciare le relazioni bilaterali deteriorate. La liberazione di Sansal potrebbe essere parte di uno scambio diplomatico. Altrimenti, cinque anni di carcere equivarrebbero per il romanziere alla condanna a morte. Gaza, prima manifestazione contro Hamas: “Terroristi, fuori dalla Striscia!” di Emilio Minervini Il Dubbio, 27 marzo 2025 La popolazione della Striscia scende in strada contro il movimento islamista. Che bolla le proteste come “megafono di Israele”. Fame, sete, malattie, privazioni, lutti, distruzione. Questi potrebbero essere i sentimenti che hanno portato i gazawi a scendere in strada, per chiedere che Hamas abbandoni il governo della striscia. La rottura del cessate il fuoco e la ripresa dei pesanti attacchi israeliani hanno avuto un effetto devastante sui cittadini palestinesi, già decimati e provati da più di due anni di guerra. Le manifestazioni si sono svolte ieri nei campi profughi Beit Lahia, Jabalia e Khan Junis, e si sono ripetute oggi nel quartiere Shenjaiya di Gaza city, dove i residenti hanno bruciato pneumatici e gridato slogan come “Hamas fuori dalla striscia”. “Tutta la popolazione di Gaza si rivolga ai propri anziani, ai notabili affinché tutti scendano in piazza domani per chiedere la fine della guerra e del governo della milizia di Hamas”, è l’appello lanciato dagli organizzatori delle proteste e rimbalzato sui social, insieme ai video dei cortei di protesta. Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas ha bollato le proteste come ‘megafono di Israele’, accusando implicitamente i manifestanti di stare tradendo la causa palestinese. Osama Hamdan, alto funzionario di Hamas che vive all’estero, ha accusato Israele di aver fomentato le proteste. Hamdan è stato preso di mira dalle contestazioni dei manifestanti, che gli hanno recriminato l’adozione della ‘linea dura palestinese’, al sicuro al di fuori dei confini della striscia. I media presenti a Gaza, legati alla formazione islamista, non hanno dato copertura delle proteste e della dispersione operata dai miliziani di Hamas, avvenuta nella giornata di martedì. Rapace il Ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha colto l’occasione per soffiare sul fuoco delle contestazioni: “Presto l’Idf opererà con forza in altre zone di Gaza, sarete costretti a evacuare e perderete ancora più territorio. I piani sono già approvati”. Katz ha esortato i cittadini palestinesi ad ampliare le proteste e aumentare la pressione sul governo islamista. “Chiedete la rimozione di Hamas da Gaza e il rilascio immediato di tutti gli ostaggi israeliani. È l’unico modo per fermare la guerra”. “Le manifestazioni nella Striscia di Gaza sono un grido dei residenti contro le politiche di Hamas”, è quanto ha affermato Mahmoud Al Habash, consigliere del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), “dobbiamo concentrarci sulla rimozione di Hamas dal potere, suggerisco all’organizzazione di ascoltare il popolo palestinese a Gaza”. L’Anp è l’organizzazione nata nel 1993 dai Trattati di Oslo, firmati dall’allora leader dell’OLP, Yasser Arafat e dal premier israeliano Yitzhak Rabin, per dare alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza un limitato autogoverno. Sia gli accordi che il reciproco riconoscimento tra OLP e Israele sono stati condannati da Hamas. Secondo un rapporto di Humans Rights Watch del 2018, frutto di due anni di indagini nella striscia e in Cisgiordania, entrambe le organizzazioni (Hamas e Anp) si renderebbero responsabili di arresti arbitrari, abusi e torture ai danni di attivisti, giornalisti, manifestanti, con l’obiettivo di reprimere e dissuadere ogni forma di dissenso. Non è la prima volta che Hamas è oggetto di critiche pubbliche da parte degli stessi palestinesi. A inizio luglio del 2024 uscì la notizia del rapimento e del brutale pestaggio di Amin Abed, già arrestato diverse volte dalle forze di sicurezza di Hamas prima dell’ultimo conflitto. Abed, durante il sequestro, è stato accusato di essere un ‘agente di Israele’ e un ‘traditore’ per aver criticato l’attacco del 7 ottobre e l’operato del Movimento per la liberazione islamica. Il giorno precedente al brutale pestaggio aveva accusato Hamas di “dividere il popolo palestinese” e di “annullare il suo sogno di avere uno stato”. Mentre in un’intervista alla BBC aveva invece dichiarato che “Hamas ha molti sostenitori fuori dei confini di Gaza, che siedono al fresco sotto i condizionatori nelle loro case confortevoli, che non hanno perso un figlio, una casa, una gamba o il futuro”.