L’informazione dal e sul carcere. Una finestra per “guardare da fuori” la realtà del carcere, e per “guardare da dentro” la realtà esterna di Giovanni Maria Flick* Ristretti Orizzonti, 26 maggio 2025 Il riconoscimento del diritto all’informazione - nel quadro delle convenzioni e dichiarazioni internazionali e del contesto costituzionale - è affermato dalla nostra Costituzione sotto un duplice profilo: il significato attivo (il diritto di informazione e la libertà di espressione anche nel sistema dei media) e passivo (il diritto a essere informato, a ricevere e a cercare l’informazione). Quel riconoscimento è esplicito nell’articolo 21 della Costituzione, come libertà di manifestazione a tutti del pensiero e con una esplicita applicazione alla libertà di stampa. È nota l’interpretazione estensiva costantemente data dalla Corte Costituzionale all’articolo 21 della Costituzione come “cerniera” tra il diritto individuale e l’interesse generale della collettività all’informazione come comunicazione diffusa. È noto altresì il suo raccordo con l’articolo 15 di essa e il riconoscimento della libertà e segretezza della corrispondenza nella comunicazione con singole persone. La disciplina del diritto all’informazione dei detenuti, in relazione alla tutela della “integrità culturale” e alla salvaguardia dei “residui di libertà” nella detenzione è prevista per quotidiani, periodici e libri in libera vendita all’esterno nonché per la possibilità di avvalersi di “altri mezzi di informazione” e con la garanzia dell’accesso a quotidiani e siti informativi, con le modalità e le cautele previste nell’articolo 18 della Legge n. 354/1975 sull’Ordinamento penitenziario e nel relativo Regolamento. L’unico limite previsto in materia di stampa interna ed esterna al carcere è rappresentato dal parallelismo fra esse e dalla liceità di circolazione della prima nell’ambito carcerario negli stessi termini previsti per la seconda. È stata eliminata con l’Ordinamento penitenziario vigente qualsiasi forma (preesistente) di censura preventiva. L’unico limite riferibile alla stampa (interna e/o esterna al carcere) è previsto dall’articolo 18 ter, primo comma, lett. A, nella “ricezione della stampa… per esigenze attinenti alle indagini investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o ordine dell’istituto”. Il dato normativo evidenzia il diritto del detenuto a ricevere un’informazione pluralista e differenziata dal punto di vista dell’informazione passiva; ma anche - indirettamente - il diritto e la libertà di informazione e di diffondere il pensiero dal punto di vista attivo. Si tratta nel secondo caso - se pure in mancanza di un riconoscimento esplicito - di un cardine fondamentale della democrazia come strumento di contatto e interazione del detenuto con l’esterno: nella tendenza alla rieducazione e del diritto/dovere al trattamento; ovviamente nel rispetto delle esigenze di sicurezza e di controllo. Il riconoscimento di queste libertà è un coefficiente fondamentale del percorso di risocializzazione del detenuto come “residui” (per usare la terminologia della Corte) necessari e indispensabili di libertà alla luce dell’articolo 2 della Costituzione sotto il duplice aspetto della formazione e sviluppo della sua personalità come singolo e come parte della formazione sociale in carcere e della coattività di essa. Quel riconoscimento è lo strumento ineliminabile per il mantenimento - nonostante un limite tipico nella privazione della libertà personale - di tutte le relazioni personali e sociali del detenuto compatibili con la detenzione. È un limite orientato e finalizzato alla promozione della cultura nell’ambiente carcerario, per il contesto di sviluppo dell’istruzione e prima ancora per il contrasto all’analfabetismo (sia quello “letterale” che quello “culturale”). È prova e conferma di questa importanza del fenomeno - essenziale per la vita stessa del carcere - lo sviluppo della produzione editoriale di esso a partire dalla prima esperienza degli anni 50 sino alla diffusione delle testate giornalistiche nel carcere; sia alla costituzione di una loro federazione; sia alla istituzione di redazioni interne al carcere. Si tratta della realizzazione meritoria di una serie di canali di informazione tradizionale e via via aggiornati ai tempi, attraverso strumenti: sia per offrire all’esterno una conoscenza del mondo carcerario e dei suoi abitanti; sia per consentire a questi ultimi la conoscenza dell’ambiente esterno in cui rientreranno al termine della pena. Una finestra per “guardare da fuori” la realtà del carcere, e per “guardare da dentro” la realtà esterna. Questa prospettiva e questa linea di sviluppo sono fondamentali per affrontare la crisi del carcere e le sue implicazioni diffuse e disastrose. Sia in fatto, con il fenomeno del sovraffollamento tuttora in crescita; ma anche in diritto, con la tendenza ad incrementare quest’ultimo attraverso il ricorso pressoché quotidiano alla “pancarcerizzazione” del dissenso e della diversità. Di fronte a tendenze sempre più diffuse ad ostacolare queste prospettive formative e culturali - anche di fatto attraverso la creazione di ostacoli burocratici alla diffusione dell’informazione, dell’istruzione e della cultura in carcere - occorre sottolineare con fermezza (e con il ricorso al reclamo all’autorità giudiziaria, quando necessario e inevitabile) il diritto all’informazione “attiva e passiva” per ogni detenuto e la tassatività dei limiti posti a quel diritto dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario. Ciò anche ed esplicitamente nel caso di “sorveglianza speciale” e di “sospensione eccezionale” delle regole di trattamento. Quei limiti e le relative prescrizioni devono riferirsi specificamente a singoli soggetti determinati; avere una motivazione e dei caratteri di attualità; non costituire ipotesi di “censura preventiva”; essere specificamente connessi a “esigenze di indagini o investigative o di prevenzione dei reati o per ragioni di sicurezza od ordine dell’istituto”; essere temporanei e non prorogabili oltre periodi prefissati; essere adottati con decreti motivati dall’autorità giudiziaria ed essere suscettibili di reclamo ad essa (articolo 18 ter dell’Ordinamento penitenziario). Ovvero devono essere giustificati da gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica a fronte di possibili elementi di collegamento con associazioni criminali, terroristiche o eversive per decreto motivato dal Ministero della giustizia. Per questo destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi ed iniziative a livello locale e di interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla “stampa” nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi. Nei confronti di quelle voci non resta che ricordare e sottolineare con fermezza la disciplina legislativa e regolamentare e la sua applicazione, come strumenti essenziali per il diritto dei detenuti al “trattamento” come momento essenziale nell’espiazione della pena; e prima ancora come condizione ineliminabile della legittimità costituzionale di una pena che incide sulla libertà e della pari dignità sociale della persona. *Presidente emerito della Corte Costituzionale, già Ministro di Grazia e Giustizia Mattarella sulle carceri: “Sovraffollamento grave”. Nordio: presto avremo 7mila posti in più di Elena G. Polidori La Nazione, 26 maggio 2025 Il presidente della Repubblica è intervenuto alla festa della Polizia penitenziaria “Gli agenti fronteggiano quotidianamente situazioni di grande sofferenza”. I dati: il tasso di presenza medio supera il 130%. Il Governo: le risorse ci sono. Il fenomeno del sovraffollamento delle carceri è “grave”, dice il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, con la polizia penitenziaria chiamata “quotidianamente a fronteggiare situazioni di tensione e sofferenza”. Eppure, nonostante le denunce pubbliche e l’emergenza costante, che sfocia anche nella piaga dei suicidi, poco o nulla si muove per risolvere il problema. Secondo i dati raccolti dal ministero della Giustizia, al 25 novembre 2024, le persone in carcere sono 62.410, su una capienza di 51.165 posti, ma di questi solo 46.771 posti sono effettivi. Cifre che portano l’indice nazionale di sovraffollamento al 133,44%. In 53 istituti penitenziari il tasso di affollamento è pari o superiore al 150% (tre persone ogni due posti disponibili). La situazione più grave si registra a Milano San Vittore, dove il sovraffollamento è del 218%. In diversi istituti penitenziari il problema del sovraffollamento carcerario è reso peggiore dalla mancanza di personale di polizia penitenziaria, che esaspera e peggiora le condizioni all’interno dell’istituto. Ieri, durante la Cerimonia per la celebrazione del 208esimo anniversario di fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria, in piazza del Popolo a Roma, il Guardasigilli, Carlo Nordio, ha detto che “è enorme lo sforzo profuso per invertire la rotta, dopo lunghi anni di abbandono delle strutture penitenziarie”, a proposito dei piani governativi per l’edilizia carceraria, per poi informare che “sono state stanziate risorse economiche per sbloccare interventi fermi da anni e metterne in campo di nuovi che ci permetteranno di recuperare circa 7mila nuovi posti detentivi sui 10mila attualmente mancanti proprio per rimediare al sovraffollamento”. Mattarella si è detto “lieto di esprimere gratitudine e apprezzamento alle donne e agli uomini della Polizia penitenziaria per il costante e generoso impegno al servizio dello Stato”. “L’elevata professionalità e lo spirito di servizio degli appartenenti al corpo arrecano un determinante contributo all’attuazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena per il possibile reinserimento nella vita sociale dei detenuti - ha proseguito il Capo dello Stato - nonostante le assai critiche condizioni del sistema carcerario”. Ma il governo, assicura Nordio, si sta muovendo. “Poco meno di una settimana fa - ha infatti spiegato il ministro - il Parlamento si è espresso chiaramente, in una seduta straordinaria della Camera, per chiedere al governo di proseguire in modo duraturo con le iniziative già intraprese”; il governo italiano, secondo quanto riferito da Nordio, rispetterà con puntualità tutti gli impegni che ha assunto e orientando la propria azione in campo penitenziario secondo due coordinate essenziali: da una parte la sicurezza e dall’altra il trattamento che deve essere finalizzato alla rieducazione per il reinserimento sociale dei detenuti. “È di questi giorni l’ennesimo episodio di aggressione nei confronti di alcuni di voi - ha denunciato il guardasigilli - aggressioni intollerabili per le quali speriamo che sia fatta al più presto chiarezza e giustizia”. Ma che il Governo si muova, l’opposizione ci crede poco. “Ogni quattro giorni muore un detenuto nelle carceri italiane. Detenuti, è bene ribadirlo, che sono sotto custodia dello Stato. Davanti a tutto questo il governo è fermo alla propaganda, con gli annunci di un piano carceri di cui non si vedono i risultati - ha attaccato la dem Michela Di Biase, durante una interrogazione sullo stato del carcere romano di regina Coeli - fuffa ideologica, perché il piano è servito solo a nominare un altro commissario e nulla di più; oggi il governo viene a dirci che la situazione sta migliorando. Ci vuole coraggio. Volontari, operatori, personale di polizia penitenziaria sono allo stremo delle loro forze, siamo davanti ad una palese violazione dei diritti umani”. Più fondi per abbattere il sovraffollamento in carcere. Ecco la ricetta del Governo di Gianni Di Capua Il Tempo, 26 maggio 2025 Duecentocinquanta milioni di euro per sbloccare alcuni progetti che consentiranno di recuperare circa “7mila nuovi posti detentivi sui 10mila attualmente mancanti proprio per rimediare al sovraffollamento carcerario”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenendo al 208esimo anniversario di fondazione del Corpo della Polizia penitenziaria, ha anticipato le misure che il governo ha messo in campo per cercare di porre un argine al sovraffollamento penitenziario. “Il vostro compito non è redimere - ha evidenziato il Guardasigilli - ma comportarvi in modo da aiutare il detenuto a redimersi da sè. E se questo obiettivo non viene raggiunto, non dovete provare disagio se avete operato con professionalità, dignità e onore: qualità che vi vengono riconosciute, anche se non sempre con la dovuta efficacia comunicativa”. Il numero di suicidi e autolesionismi che “avete sventato anche in questo anno difficile - ha ricordato Nordio - dimostra la vostra competenza, associata ad una commovente umanità. E mentre ci assumiamo il fardello di dolore per tante vite perdute, vi ringraziamo per quelle ben più numerose che avete salvato”. La premier Giorgia Meloni sui social ha voluto fare gli auguri al corpo di polizia. “In occasione del 208° anniversario di fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria, desidero inviare i miei migliori auguri alle donne e agli uomini in divisa che ogni giorno operano con senso di responsabilità e profonda dedizione, alle volte in complicate situazioni. A nome del Governo il più sincero ringraziamento per il vostro prezioso lavoro”. Il corpo della Polizia penitenziaria “rappresenta un pilastro del sistema di giustizia del nostro Paese, assicurando la tutela della legalità, la sicurezza degli istituti penitenziari e l’attuazione della funzione rieducativa della pena, nel pieno rispetto dei principi costituzionali. A tutto il personale del Corpo va il mio più sincero apprezzamento per il servizio svolto a favore delle istituzioni e dell’intera collettività” ha scritto il presidente del Senato Ignazio La Russa. Gli ha fatto eco il presidente della Camera Lorenzo Fontana che ha rivolto “un sentito augurio agli uomini e alle donne della Polizia penitenziaria, esprimendo profonda gratitudine per il loro impegno quotidiano, spesso in condizioni difficili. Il lavoro della Polizia penitenziaria rappresenta un pilastro essenziale dell’amministrazione della giustizia e nel contesto della funzione rieducativa della pena”. Il sottosegretario Delmastro ha definito gli agenti penitenziari “un corpo di eroi invisibili, perché non hanno neanche, nella misura in cui dovrebbero averla, la gratitudine degli italiani, perché lavorano invisibili. Ma è un corpo essenziale per la tenuta dell’ordinamento democratico, un corpo unico in Europa, perché non esistono altri corpi specializzati nell’esecuzione penale, un corpo che devi miscelare la forza con il tratto rieducativo e quindi deve trovare un faticosissimo equilibrio tutto o giorni”. Le prigioni toccano il fondo e Nordio dice: avanti così di Angela Stella L’Unità, 26 maggio 2025 “Grave fenomeno di sovraffollamento in atto” e “assai critiche condizioni del sistema carcerario”: queste le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciate ieri in occasione nel 208° anniversario di fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria. L’ennesimo richiamo da parte del Capo dello Stato, dopo quello nel discorso di fine anno. Eppure la politica resta colpevolmente ferma mentre ventiquattro suicidi si sono già verificati dietro le sbarre dall’inizio del 2025: uno quasi ogni quattro giorni. Solo nelle ultime quarantotto ore tre detenuti si sono tolti la vita in carcere a Trieste, Genova, Avellino. “Una carneficina inenarrabile che trova inerte il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il Governo Meloni”, ha criticato Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa - Polizia Penitenziaria. E non ha torto, considerato che delle soluzioni ci sarebbero - come l’approvazione di una legge sulla liberazione anticipata speciale e provvedimenti di clemenza- tuttavia l’Esecutivo e lo stesso Guardasigilli le respingono perché il loro slogan è “certezza della pena”. Sul tema è tornato a parlare ieri Nordio sempre durante la cerimonia per i 208 anni dalla fondazione della Polizia Penitenziaria che si è tenuta a Roma, in direzione ostinata e contraria a quella del Quirinale. Le sue sono state parole che raffigurano una vera e propria mistificazione della verità. “Poco meno di una settimana fa - ha dichiarato il responsabile di Via Arenula - il parlamento si è espresso chiaramente, in una seduta straordinaria della Camera dei deputati dedicata alla situazione delle carceri italiane, per chiedere al governo di proseguire in modo duraturo con le iniziative già intraprese. Il governo rispetterà puntualmente tutti gli impegni assunti orientando la propria azione in campo penitenziario secondo due coordinate essenziali: da un lato la sicurezza e dall’altro il trattamento che deve essere finalizzato alla rieducazione per il reinserimento sociale dei detenuti”. Peccato che il Ministro ha disertato, insieme alla maggioranza parlamentare, quella seduta straordinaria di Montecitorio convocata dalle opposizioni per discutere dell’emergenza carcere. Sul punto si è espressa anche l’Unione delle Camere Penali: “Privo di lungimiranza è quel Governo che, per dare risposta ad una insicurezza alimentata dalla propaganda, introduce nuovi reati o aggrava le pene di quelli già esistenti, indicando nella risposta repressiva carceraria l’unico orizzonte del diritto. La formula ‘più carcere più sicurezza’ è smentita dall’esperienza e dalle statistiche che dimostrano che solo aprendosi alla società il carcere può avere ancora una funzione, permettendo di abbattere la recidiva. Ma non può essere questo carcere, nel quale il sovraffollamento impedisce ogni forma di trattamento diretto a risocializzare il condannato”. Nordio ha poi proseguito ieri esaltando il ruolo nello sventare i suicidi da parte degli agenti penitenziari che, come sottolineiamo spesso, lavorano in condizioni di profondo disagio ma non è riuscito a fare un minimo accenno alle responsabilità del suo dicastero: “Il vostro compito non è redimere, ma comportarvi in modo da aiutare il detenuto a redimersi da sé. E se questo obiettivo non viene raggiunto, non dovete provare disagio se avete operato con professionalità, dignità e onore: qualità che vi vengono riconosciute, anche se non sempre con la dovuta efficacia comunicativa”. E lui non prova alcun disagio dinanzi ai 24 suicidi di reclusi, a cui va aggiunto uno della penitenziaria? Ha poi aggiunto ancora rivolto agli agenti: “Il numero di suicidi e autolesionismi che avete sventato anche in questo anno difficile dimostra la vostra competenza, associata ad una commovente umanità. E mentre ci assumiamo il fardello di dolore per tante vite perdute, vi ringraziamo per quelle ben più numerose che avete salvato”. Quante volte dobbiamo ancora sentire che i suicidi sono “un fardello di dolore” ma non vedere azioni del Governo per fermarli? La formula “più carcere più sicurezza” smentita dall’esperienza e dalle statistiche camerepenali.it, 26 maggio 2025 È necessario ricorrere con urgenza a provvedimenti di clemenza generalizzati per abbattere il sovraffollamento e fare sì che le carceri non siano solo luoghi di contenimento, di sofferenza e di morte, ma i luoghi in cui si costruiscono le condizioni per nuove esistenze nel rispetto dei diritti e della dignità della persona. Mentre il Governo, per far fronte al sovraffollamento carcerario, punta sulla costruzione di “moduli detentivi” prefabbricati, i suicidi conoscono ancora una spaventosa recrudescenza con l’inimmaginabile picco di tre morti in un solo giorno. Mentre assistiamo desolati alla più clamorosa manifestazione della disperazione nella quale è precipitata l’istituzione carceraria nel nostro Paese e della sua incapacità di intercettare il disagio dei più deboli e dei più fragili, si continua a perseguire l’idea del carcere come rigida risposta contenitiva per il timore di apparire deboli. Forte è invece uno Stato capace di modulare la sua risposta alle effettive esigenze del recupero e del reinserimento e in grado di adeguare il numero dei detenuti alle reali e concrete capacità di un trattamento dignitoso, consentendo così di salvaguardare la vita dei ristretti. Debole è quel Governo che sacrifica il più inalienabile dei diritti umani, quello di essere trattati con dignità, solo per il timore di perdere consenso. Privo di lungimiranza è quel Governo che, per dare risposta ad una insicurezza alimentata dalla propaganda, introduce nuovi reati o aggrava le pene di quelli già esistenti, indicando nella risposta repressiva carceraria l’unico orizzonte del diritto. La formula “più carcere più sicurezza” è smentita dall’esperienza e dalle statistiche che dimostrano che solo aprendosi alla società il carcere può avere ancora una funzione, permettendo di abbattere la recidiva. Ma non può essere questo carcere, nel quale il sovraffollamento impedisce ogni forma di trattamento diretto a risocializzare il condannato. Non può essere il carcere dei “moduli detentivi”, la cui sola definizione appare paradigmatica della distanza da quella annunciata volontà di restituire dignità alla detenzione, a rispondere al dettato costituzionale della rieducazione. Non c’è bisogno, infatti, di nuovi contenitori per la disperazione futura dei detenuti, ma di un futuro diverso per la pena. Se da un lato è necessario porre in essere politiche efficaci e lungimiranti, investendo maggiori risorse, si deve con realismo riconoscere che è necessario ricorrere con urgenza a provvedimenti di clemenza generalizzati per abbattere il sovraffollamento e fare sì che le carceri non siano solo luoghi di contenimento, di sofferenza e di morte, ma i luoghi in cui si costruiscono le condizioni per nuove esistenze nel rispetto dei diritti e della dignità della persona. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane Carceri, la strage fa 24. Ma chi se ne accorge? di Rita Bernardini L’Altravoce, 26 maggio 2025 Il “non dibattito” sulla condizione delle carceri nel nostro Paese che si è tenuto nell’aula di Montecitorio giovedì 20 marzo è emblematico dello stato attuale della nostra democrazia che da decenni si consuma nell’oltraggio delle procedure che dovrebbero caratterizzarla. Il confronto e il dibattito da cui potrebbero nascere decisioni migliorative da entrambe le parti. sono considerati superflui, noiosi e fastidiosi, trasformando il Parlamento in un “Insultamento” dove ciascuno recita la propria parte. Lasciando che la maggioranza imponga le decisioni normative e di indirizzo senza che l’opposizione possa emendare i singoli provvedimenti o votare separatamente i documenti di indirizzo al Governo. Di fronte alla situazione indecente e illegale dei nostri penitenziari, per iniziativa politica di Roberto Giachetti e di Nessuno tocchi Caino un terzo dei membri della Camera ha richiesto la convocazione straordinaria dell’Assemblea ai sensi dell’art. 29 del regolamento. La seduta straordinaria si è tenuta. come detto. il 20 marzo scorso e quella che avrebbe dovuto essere una discussione su due mozioni presentate dall’opposizione e su una presentata all’ultimo istante dalla maggioranza si è trasformata quasi in un monologo dei deputati di opposizione. Per capire quale considerazione il Governo abbia avuto nei confronti di questa convocazione, basti dire che né il ministro della Giustizia Carlo Nordio. né i due sottosegretari competenti sulle carceri e sui detenuti. Andrea Ostellari e Delmastro Delle Vedove. erano presenti. Per quasi tutta la durata della seduta. l’unica rappresentante del Governo presente era la Sottosegretaria al MEF. Sandra Savino, che, giustamente, non è mai intervenuta poiché le sue competenze sono di tutt’altra materia. Nel dibattito non sono intervenuti nemmeno i deputati di maggioranza della Lega e di Fratelli d’Italia. limitandosi solo alla dichiarazione di voto. Per il ministero della Giustizia si è presentato. in extremis. il viceministro Francesco Paolo Sisto. solo per esprimere il parere favorevole alla mozione di maggioranza e contrario alle due mozioni dell’opposizione, senza argomentare. Mentre ripercorro questa ennesima triste pagina parlamentare. mi giunge notizia di altri tre suicidi di detenuti nelle carceri di Avellino. Trieste e Genova. Siamo così arrivati a 24 suicidi nei primi 83 giorni di questo 2025. Inoltre. altri 51 detenuti sono morti in carcere per altre cause. spesso ancora “da accertare”, come nel caso di ben 17 di essi. Forse è per questa carneficina che il Ministro Nordio, violando il regolamento. non ha risposto alle interrogazioni di Roberto Giachetti. che richiedevano risposte precise sia sulle morti in carcere sia sulla sanità penitenziaria e sul ruolo svolto dalle ASL? Silenzio totale da parte di chi ha responsabilità istituzionali. Il sovraffollamento, che secondo la Corte EDU è causa di trattamenti inumani e degradanti, è considerato dal Ministro Nordio un fatto naturale e ineluttabile. per il quale forse si porrà rimedio in futuro con soluzioni che richiedono molti soldi e anni di attesa. Queste soluzioni spesso sottraggono spazio alle attività trattamentali quali lavoro, studio e attività fisiche della popolazione detenuta, alla faccia della rieducazione! Il netto rifiuto del guardasigilli a qualsiasi provvedimento di riduzione della popolazione detenuta, sia che si tratti di amnistia o di indulto. sia di liberazione anticipata speciale. fa sì che ogni anno almeno in cinquemila casi i magistrati certifichino che il detenuto è sottoposto a trattamenti contrari all’art. 3 della CEDU. Una violazione dei diritti umani fondamentali che dovrebbe far provare vergogna a chi la provoca e che. invece. alcuni esponenti dell’attuale maggioranza rivendicano come una medaglia di cui vantarsi. Il sovraffollamento. combinato con la carenza cronica di personale penitenziario, determina una condizione di precaria erogazione dei servizi esterni, come quello sanitario, e di mancata vigilanza, portando nel 2024 al più alto numero di morti nelle carceri italiane: 246. di cui 89 suicidi. Finora solo le giurisdizioni superiori e non certo i decisori politici hanno riconosciuto ai detenuti i diritti che gli spettano secondo la Costituzione. Lo ricordava il leader radicale Marco Pannella, esortandoci a sollecitare ricorsi in ogni sede giurisdizionale, una strategia che si è rivelata giusta. Dobbiamo continuare su questa strada, ricordando che come affermava solennemente Pannella dove c’è strage di legalità, c’è prima o poi anche strage di popoli. Le carceri sono il termometro che misura le condizioni di salute della democrazia e dello Stato di diritto, e non dovremmo mai dimenticarlo. A ricordarci che la febbre è altissima, sebbene poco ascoltati ci sono anche il Presidente della Repubblica e il Papa. che danno speranza a tutti i democratici e a coloro che sono animati di buona volontà. Sì, è un’emergenza: della civiltà di Gianni Alemanno e Fabio Falbo L’Unità, 26 maggio 2025 Dopo la lettera all’Unità, e dopo un dibattito in Parlamento segnato dalla totale assenza del Governo, l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e Fabio Falbo (anche lui detenuto) tornano a rivolgere un appello a politici e magistrati. Caro Direttore volevamo ringraziarla per aver pubblicato la nostra lettera sul suo giornale, anche se la maggior parte dei parlamentari non ne hanno tenuto conto nel corso del recente dibattito parlamentare, portando avanti lo slogan della sicurezza e non quello dei diritti. Le chiediamo un suo aiuto per non far spegnere del tutto l’attenzione sulla questione carceri. Crediamo nel dialogo nel confronto per non far smorzare la fiammella della speranza di tutte le 62.000 persone recluse affinché si possa ripristinare lo stato di diritto violato. Con la dovuta franchezza possiamo affermare che quella politica che non vuole ripristinare la legalità negli istituti di pena deve “affrontate le conseguenze delle sue sconfitte” se si considera il carcere come una porzione dello Stato. Questa perenne emergenza carceraria dura da anni ed è rimasta così, quasi immutata, al punto che alcuni politici hanno smesso di lavorare seriamente al problema, vista la capacità dì rimozione mostrata, durante la seduta parlamentare, presentando le patrie galere come luoghi non sovraffollati che rispettano i diritti umani. Si deve ricordare a questi politici che nelle patrie galere vi sono esseri umani e che la pietà deve appartenere allo spirito dei nostri tempi se non si vuole ridurre tutto a vendetta sociale. Anche perché uno dei canoni costituzionali è il riconoscimento della dignità umana, in cui si legano la pietà laica e la carità cristiana. Visto che una parte del mondo politico sembra disinteressato a quello che noi avevamo scritto nell’ultima lettera inviata a “l’Unità”, ci vogliamo adesso rivolgere agli Uffici di sorveglianza che oltre a vigilare sugli istituti di pena, sono anche “Giudici della persona” che hanno il compito di decongestionare le predette strutture penitenziarie con i vari istituti giuridici già oggi esistenti. Dobbiamo far capire che una qualunque struttura penitenziaria sovraffollata, non solo rende la vita impossibile alle persone detenute, ma rende frustrante il lavoro di tutti gli operatori penitenziari e in particolare dei Giudici delle persone. La funzione del Magistrato di Sorveglianza è quella di sovrintendere all’esecuzione della pena non intesa come punizione e basta. Vi è una componente retributiva nella pena, ma questa componente retributiva viaggia di pari passo con la finalità rieducativa stabilita dalla Costituzione, che ad un certo punto supera e diventa preponderante rispetto a quella retributiva, per cui il lavoro del Giudice della persona ha un valore nel momento in cui riesce a gestire, a guidare e ad aiutare un percorso di reinserimento sociale che deve essere il punto di arrivo dell’esecuzione penale. Allo stato attuale come si può pensare di gestire questo “sterminato” materiale umano che non può essere guidato e aiutato in un percorso di reinserimento? Come possiamo pensare a quel fine ultimo di restituire alla società il reo come un soggetto che non è più quello che è entrato (fatti salvo i casi di professata innocenza)? Davanti ad un sistema carcerario collassato, il lavoro di un qualsiasi operatore (basti pensare che un solo psicologo o educatore ha circa 200 persone da gestire, per non indicare il dato di un Giudice della persona) diventata frustrante, innanzitutto perché non vi è quella giusta conoscenza, dialogo o altro. Se non c’è speranza di uscire dal circuito penitenziario è chiaro che qualsiasi attività rieducativa intesa come cambiamento del modo di pensare non ha senso, è fatica sprecata. Noi non vogliamo pensare sia così o che sia sempre così, vogliamo sperare in un’attuazione dell’ordinamento penitenziario nei termini indicati e non come il più delle volte accade a fine pena. Vi sono tanti istituti giuridici affinché la persona possa finire l’espiazione non sempre in carcere. Vi è bisogno di una revisione periodica della pena, ci deve essere sempre una possibilità di rivedere, altrimenti nulla ha senso, neanche la stessa pena. Tanto vale mettere una persona sulla luna e lì lasciarla dicendole: se rimani vivo bene, se no pazienza, la società non sa cosa farsene di te. Attualmente il carcere è come se fosse finalizzato a un’unica esigenza della società, che è quella di eliminare dal suo contesto degli indesiderabili cancellandoli anche nelle dignità. La dignità è rispetto al contesto umano in cui si vive: questo attuale carcere serve a bollare le persone come indegne di vivere nella società dove ogni essere umano si deve esprimere. Vogliamo chiudere questa lettera con quella Speranza desiderata da tutte le persone detenute, ricordando che le tematiche appena descritte non sono drammi solo di chi ne è colpito, ma possono ripercuotersi su tutti noi, anche su chi ci legge. L’augurio da fare a quella parte di politica che finge di non sentire i lamenti non violenti della popolazione detenuta, è che la sconfitta che sta nel non voler risolvere l’emergenza carceri non resti perenne, visto che le condizioni delle carceri sono la misura della civiltà di una nazione. Il panpenalismo ha contagiato tutti. Cercasi vaccino di Andrea Pugiotto L’Unità, 26 maggio 2025 La malattia ha contagiato nel tempo tutte le forze politiche, la cura richiede interventi di livello costituzionale. Ad esempio un iter legislativo rafforzato, con maggioranza qualificata, per l’introduzione di nuovi reati e inasprimenti di pene (in Spagna si fa già). Andrebbe invece riabbassato il quorum (oggi “dolomitico”) per l’approvazione delle leggi di amnistia e indulto, così da arginare i danni della sbornia giustizialista. 1. Riassunto della puntata precedente (l’Unità, 15 marzo): il delitto di femminicidio, concepito dal Governo, nasce incostituzionale. Succede, quando la formulazione di un nuovo reato punta tutto sul suo effetto simbolico-repressivo, a scapito dei princìpi di eguaglianza formale e di determinatezza della fattispecie. Anche la scelta di punirlo con il carcere a vita (com’è già ora, quale omicidio aggravato), è una falsa promessa: in presenza di attenuanti, la pena sarà automaticamente ridotta. Aggiungere l’ennesimo delitto ai tanti puniti con l’ergastolo, inoltre, è il sintomo di un’isteria legislativa: quella di chi è ossessionato dall’idea che solo alzando le pene e inventando reati si possa sconfiggere ogni allarme sociale, vero o presunto. Oggi è il turno della violenza di genere. Ieri - ad esempio - lo si è fatto contro i rave, la gestazione per altri, l’abbattimento dell’orso bruno marsicano. Domani, con il disegno di legge “sicurezza” (A.C. 1660), toccherà a mal tollerate forme di carità, dissenso, resistenza passiva. Questo è il problema vero: si chiama panpenalismo. Di esso sappiamo tutto: vita (molto lunga), morte (di là da venire) e miracoli (mai visti). Tre soli consigli di lettura, per capirne le cause: Stefano Anastasia, Manuel Anselmi, Daniela Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana (2015); Ennio Amodio, A furor di popolo e Filippo Sgubbi, Il diritto penale totale (ambedue del 2019). A mancare non sono le analisi, ma i rimedi: in entrata (a evitare il profluvio di pene e delitti) e in uscita (a deflazionarne gli effetti giudiziari e penitenziari). E poiché la malattia ha contagiato nel tempo tutte le forze politiche, la cura richiede interventi ad hoc di livello costituzionale: i soli in grado - per forza giuridica - di imporsi su qualsiasi maggioranza parlamentare. 2. Attualmente, non esiste in Costituzione un freno a questo continuo ricorso alla leva penale. La riserva in materia alla legge ordinaria regala - politicamente - le scelte di criminalizzazione al Governo e alla sua maggioranza, peraltro sempre più figurativa: il mix tra distorsivi premi elettorali e crescente astensionismo, infatti, erode la rappresentatività delle Camere. Al resto pensa la prassi, che sostituisce alla legge l’uso della decretazione d’urgenza, se necessario riassunta in un unico maxiemendamento blindato dal ricorso alla questione di fiducia. Azzerato così il dibattito in aula e ridotta la delibera parlamentare ad un voto di schieramento, la corsa a introdurre nuovi reati e inasprire le pene è tutta in discesa. Né è in grado di frenarla il Capo dello Stato in sede di promulgazione (art. 74 Cost.): le scelte in materia penale sono squisitamente politiche, sottratte al controllo presidenziale. Per sovrappiù, dalla presidenza Ciampi in poi, una legge è rinviata alle Camere solo se “manifestamente incostituzionale”. Così, in materia penale, raramente è rosso il semaforo del Quirinale. Paghiamo tutto questo a caro prezzo. Innanzitutto, con troppi processi troppo lenti perché il continuo incremento dei reati ingolfa la macchina giudiziaria. A seguire, con celle che non cessano mai di riempirsi perché i tassi di detenzione sono (anche) una variabile dipendente dal ricorso frequente a un diritto penale artificiale. Eppure, di suo, la Costituzione dice altro. Non prevede obblighi di criminalizzazione, salvo il reato di tortura (l’unico che Fratelli d’Italia mostra di mal sopportare: A.C. 623). Relega la sanzione penale a extrema ratio. Esige una pena proporzionata, mai disumana, tesa sempre al recupero sociale del reo. Ma, come in una piramide rovesciata, questo statuto costituzionale sopravvive solo a discrezione del legislatore. 3. Cercasi rimedio preventivo. A tal fine, recupererei - affinandola - un’idea non assente nella dottrina penalistica: elevare il quorum necessario per approvare leggi che introducono nuovi reati, inedite aggravanti, inasprimenti di pena. Non si tratta di negare la natura tutta politica di simili scelte, ma di revocare in dubbio l’idea che la legge ordinaria ne sia il vettore più congruo. Servirebbe, invece, una legge rinforzata nella sua deliberazione finale, da assumersi a maggioranza qualificata, esito di un’ampia convergenza parlamentare a garanzia di scelte penali (non impulsive né partigiane, ma) razionali. Accade già in Spagna, per tutte le leggi in tema di diritti fondamentali e libertà pubbliche (norme penali comprese): la loro approvazione, modifica o deroga esige la maggioranza assoluta. In Italia, invece, servirebbe un doppio binario perché diversificate sono le esigenze da soddisfare: ridurre la produzione di norme penali sfavorevoli; agevolare la potatura di un ordinamento saturo di reati e di pene smisurate. L’attuale riserva alla legge ordinaria già appaga la seconda esigenza: elevarne il quorum deliberativo ostacolerebbe l’abolitio criminis e la riduzione dei vigenti picchi sanzionatori. Per soddisfare la prima esigenza, invece, l’evoluzione in senso maggioritario delle nostre leggi elettorali suggerisce un quorum più alto di quello spagnolo: i tre quinti dei componenti di Camera e Senato. Verrebbe così meno il monopolio governativo in materia penale. Lo stesso ricorso ai suoi atti con forza di legge per introdurre norme penali sfavorevoli ne uscirebbe frenato: sia la delegazione legislativa (art. 76 Cost.) che la conversione in legge di un decreto-legge (art. 77 Cost.), infatti, andrebbero approvate a maggioranza qualificata. Ne guadagnerebbero la dialettica parlamentare e la centralità delle Camere. Si otterrebbe, per via procedurale, una continenza normativa di cui le maggioranze di governo si mostrano incapaci. Il coinvolgimento delle opposizioni (purché non giustizialiste né populiste) eviterebbe scelte di criminalizzazione ideologiche. Finalmente, si agirebbe sulla leva penale solo a tutela di beni essenziali e per reati dalla solida base statistico-criminologica. 4. Cercasi anche rimedio compensativo. Servirebbe a deflazionare gli effetti prodotti dalla sbornia giustizialista delle ultime legislature. A tal fine, la Costituzione prevede le leggi di amnistia e indulto (art. 79). L’abuso fattone in passato, però, ha indotto ad approvarne una revisione che ne condiziona la deliberazione a un consenso mostruoso: i due terzi dei membri di ciascuna Camera, per ogni articolo di legge e nel voto finale. Correva l’anno 1992: da allora amnistia e indulto sono scomparsi dai radar (eccezion fatta per l’indulto del 2006). Da tale stallo è necessario uscire. Il diritto punitivo, infatti, deve misurarsi con l’azione del tempo e con i dati di realtà che ne segnalano gli eccessi. Diversamente, una legge penale che escluda una sua contingente sospensione si rivelerebbe solo retributiva e vendicativa. Così come una giustizia penale applicata in modo meccanico si mostrerebbe indifferente alle sorti dell’imputato e del condannato. Amnistia e indulto a questo servono: a rimedio di situazioni dove il punire non risponde più alla sua finalità costituzionale o quando la giurisdizione gira a vuoto per i troppi reati da perseguire. Serve, dunque, una “riforma della riforma” dell’art. 79 Cost., che restituisca razionalità e agibilità alle leggi di clemenza. Anche qui, è sul loro procedimento di formazione, complessivamente considerato, che si deve intervenire, e non solo sui dolomitici quorum deliberativi, comunque da ridimensionare: maggioranze così elevate, infatti, non sono richieste per nessun’altra fonte, leggi costituzionali comprese. Da tempo, la dottrina ha elaborato una proposta (cfr. Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto, Costituzione e clemenza, 2018), ora recepita in apposito disegno di legge costituzionale (A.C. 156, Magi). Partire da qui sarebbe un ottimo inizio. 5. Già in passato paragonammo il panpenalismo a un colpo di spada vibrato nell’acqua: spettacolare, ma sterile. È tempo, invece, di dare seguito costituzionale all’evangelico invito di Matteo (26, 52): “Rimetti la spada nel fodero”. L’assedio a Nordio che durerà fino al voto sulla riforma di Valentina Stella Il Dubbio, 26 maggio 2025 Quello che si celebrerà oggi alla Camera dei deputati sarà solo il primo di diversi “processi politici” contro il Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Stamane infatti Montecitorio si esprimerà sulla mozione di sfiducia al Guardasigilli sottoscritta da tutti i gruppi di opposizione, ad eccezione di Azione che fa sapere che uscirà dall’Aula, avente ad oggetto il rimpatrio del generale libico Osama Njeem Almasri, capo della polizia giudiziaria di Tripoli e direttore del carcere di Mitiga, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’esito del voto, che si dovrebbe tenere nel pomeriggio, è scontato e sarà favorevole al Ministro. Tuttavia l’iniziativa delle opposizioni rappresenta il primo di diversi bombardamenti che verranno sferrati contro il responsabile di Via Arenula. L’obiettivo? Indebolirne sempre di più l’immagine e l’autorevolezza per far perdere al Governo il referendum costituzionale sulla separazione delle carriere, del quale Nordio è volto e parola. Un assaggio lo avevamo avuto già la scorsa settimana quando sempre tutte le opposizioni, compresa questa volta anche Azione, avevano fatto convocare una seduta straordinaria della Camera per discutere dell’emergenza carcere. Il governo e la maggioranza avevano disertato l’appuntamento, tranne al momento del voto sulle tre mozioni, e questo aveva costituito per le opposizioni un facile autogol del Governo e quindi il legittimo pretesto per mettere sotto accusa Nordio per la sua assenza e il suo immobilismo dinanzi al sovraffollamento in aumento e ai 24 suicidi dietro le sbarre dall’inizio del 2025. E si andrà avanti così, senza tentennamenti. Proprio un autorevole esponente del Partito democratico, a proposito delle tensioni createsi tra Esecutivo e magistratura, anche alla luce delle polemiche sulla possibile introduzione dell’illecito disciplinare per le toghe ritenute politicizzate, ci ha detto: “andremo avanti con forza per vincere questo referendum e ci riusciremo”. Adesso che poi Nordio ha chiarito che la norma sull’illecito disciplinare per i magistrati che si espongono pubblicamente, assumendo altresì atteggiamenti di forte contrapposizione all’Esecutivo, non è nelle priorità della maggioranza e del suo Dicastero, le opposizioni si attrezzeranno con sempre più determinazione dentro e fuori il Parlamento per far sentire il loro messaggio anche con l’aiuto delle toghe. La posta in gioco infatti è molto alta e non si ferma al referendum sulla modifica dell’ordinamento giudiziario. In ballo c’è qualcosa di molto più importante: ossia le elezioni del 2027. Il referendum dovrebbe tenersi nella primavera 2026 e se le elezioni fossero anticipate a maggio 2027 il “plebiscito” cadrebbe ad un anno dall’appuntamento elettorale. È noto ormai che anche la presidente del Consiglio sta investendo tutto sul referendum sulla giustizia, essendo tramontate le altre due importanti riforme, quella del premierato e quella sull’autonomia differenziata. Qualora la battaglia fosse vinta dalle opposizioni, il risultato suonerebbe in modo sinistro per la premier Meloni e tutta la maggioranza proprio a ridosso delle nuove elezioni a cui arriverebbero notevolmente indeboliti. La stessa cosa che accadde a Matteo Renzi: perse il referendum costituzionale per il superamento del bicameralismo paritario nel dicembre 2016 e poi si andò al voto all’inizio di marzo 2018. Bisogna poi dire che il risultato sul referendum sulla separazione delle carriere non appare scontato come quello di oggi sulla mozione di sfiducia: arriverebbe appunto ad un anno dal termine della legislatura quando il Governo tende fisiologicamente a perdere consensi e c’è anche una parte di elettorato di Fratelli d’Italia non eccessivamente predisposta ad appoggiare una riforma che viene da molto tempo etichettata dalle toghe come “punitiva per la magistratura”. Che la vittoria di Nordio e Meloni non sia già scritta lo si sarebbe intuito anche dalle parole del Guardasigilli all’evento di Noi Moderati proprio su questo tema: “Adesso aspetteremo il referendum e auspico che vi si arrivi con la stessa serenità con cui stiamo discutendo oggi ( la scorsa settimana, ndr), utilizzando argomentazioni tecniche, senza pregiudizi e senza slogan. Chiunque perda non dovrà essere umiliato”. Un self-restraint del Guardasigilli in parte dovuto alla presenza accanto a lui del presidente dell’Anm Cesare Parodi con cui ha intavolato un dialogo franco ma cordiale ma altresì, secondo alcuni osservatori, dall’esigenza di assumere un atteggiamento più modesto, non avendo ancora la vittoria in mano. La sfiducia è un dettaglio, Nordio torna sulla graticola di Mario Di Vito Il Manifesto, 26 maggio 2025 Alla Camera si vota la mozione sul caso Elmasry. Il ministro senza spiegazioni valide. Intanto al Copasir Mantovano sentito per 3 ore: focus anche su Paragon. La sfiducia non ci sarà, ma il ministro della Giustizia Carlo Nordio, comunque, stamattina sarà costretto una volta di più a intervenire sul caso che più lo imbarazza negli ultimi tempi: quello di Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria libica arrestato a Torino lo scorso gennaio per ordine della Corte penale internazionale e liberato nel giro di 48 ore in una maniera che ancora oggi, a distanza di due mesi, nessuno dalle parti del governo è riuscito a spiegare in maniera convincente. Non è stato spiegato quando Nordio e Piantedosi hanno (a modo loro) informato Camera e Senato il 5 febbraio e non è stato spiegato con la Cpi, la cui procura infatti vuole deferire l’Italia davanti all’Onu perché non ha eseguito il mandato di cattura. Oggi, prima delle dichiarazioni di voto sulla mozione presentata dalle opposizioni (e che solo da loro, tranne Azione, verrà votata) il ministro interverrà in apertura di seduta e sarà costretto a tornare sull’argomento. L’ultima volta non è stato un trionfo: colpa delle “quaranta pagine scritte in inglese” con cui i giudici dell’Aja spiegavano i motivi del provvedimento contro il boia libico. La complessità della lingua, e qualche lacuna individuata da Nordio, hanno fatto sì che la richiesta di interlocuzione fatta arrivare in via Arenula dalla Corte d’appello di Roma sia rimasta inevasa. Peccato che questo silenzio del ministero sia stato decisivo per determinare la libertà di Elmasry e che anche le (presunte) inesattezze del mandato potevano essere risolte rapportandosi direttamente con gli uffici della Cpi. In tutto questo prosegue il lavoro del tribunale dei ministri evocato dalla procura di Roma - che ha nel suo registro degli indagati i nomi di Meloni, Piantedosi, Mantovano e dello stesso Nordio a seguito di un astuto esposto inviato dall’avvocato Luigi Li Gotti - che ipotizza i reati di favoreggiamento e peculato perché il libico è stato rimpatriato a bordo di un aereo di stato. Dalla stretta via del mini-collegio che dovrà appurare se ci sono o meno gli estremi per procedere contro la premier e i ministri passa il più consistente capitolo giudiziario di questa storia. Ce ne sarebbero anche altri: Li Gotti, infatti, è stato a sua volta denunciato dal collega Mele, che ha presentato un esposto anche contro il capo della procura di Roma Francesco Lo Voi. Che di esposto a carico ne ha anche un altro, compilato dal Dis, i servizi segreti, per un’altra vicenda: la diffusione di carte riservate a dei giornalisti di Domani per via di una denuncia del capo di gabinetto di palazzo Chigi Gaetano Caputi. Nel fascicolo, infatti, c’era finita anche una carta dei servizi, che per legge le parti possono sì leggere ma non possono averne copia. La bizzaria del Dis che si rivolge all’autorità giudiziaria (un inedito nella storia della Repubblica) segnala tra le altre cose la ricorrente presenza dei servizi segreti in questi mesi di dibattito pubblico. Si parla molto delle loro attività e ormai le sedute (in teoria riservate) del Copasir sono diventati appuntamenti delicati, oltre che di un certo interesse. Proprio ieri, a palazzo San Macuto, il comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi ha ascoltato per tre ore Mantovano. Un appuntamento programmato, come da formula di rito, durante il quale però si è discusso anche dell’ultimo rapporto, rilasciato una settimana fa, dal Citizen Lab dell’università di Toroto sul caso Paragon, la torbida storia di spyware installati non si sa bene da chi né perché sugli smartphone del direttore di Fanpage Francesco Cancellato e di diversi attivisti dell’ong Mediterranea. In questo documento, oltre a una ricostruzione tecnica dell’accaduto, si segnala come questi spyware siano stati usati, non solo in Italia, quasi sempre per colpire oppositori e gruppi che si occupano di migranti. Qui sta anche il legame tra il caso Paragon e il caso Almasry: uno degli spiati, David Yambio della ong Refugees in Lybia, è anche uno dei testimoni della Cpi contro l’aguzzino libico. Secondo il Citizen Lab, tra l’altro, lo smartphone di Yambio è stato attaccato da uno spyware anche nei giorni in cui stava rendendo la sua testimonianza. “Ho vinto sui pm, ma i giustizialisti hanno fatto a pezzi la politica” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 maggio 2025 Di fronte alle motivazioni della Cassazione sulla sentenza Open, il leader di Italia viva Matteo Renzi prima esulta, ma poi spiega che “il Paese ha perso, perché una vicenda di questo genere segna la sconfitta della politica e la vittoria del giustizialismo”. Poi aggiunge che l’idea di “tornare al finanziamento pubblico” non lo convince e attacca la maggioranza: “Salvini e Tajani sono come due bimbetti che litigano per il giocattolino”. Presidente Renzi, le motivazioni della sentenza sul caso Open certificano il fallimento dell’attacco della Procura di Firenze: a questo punto considera quanto accaduto una vittoria su tutti i fronti, quantomeno giudiziari? Abbiamo vinto, anzi stravinto nel processo. Vinto facendo i ricorsi, argomentando sotto il profilo giuridico, portando argomenti contro la furia ideologica di chi ci ha aggredito. Ma purtroppo abbiamo perso tempo, soldi, consenso. Ci hanno distrutto la vita e hanno azzoppato il percorso di Italia viva. Mediaticamente, il coro di crucifige è stato quasi unanime, e non è un caso, io credo, che le motivazioni della sentenza Open siano finite nei trafiletti con pochissime eccezioni, lodevoli come la vostra. Noi abbiamo vinto il processo, ma il Paese ha perso perché una vicenda di questo genere segna la sconfitta della politica e la vittoria del giustizialismo: lo ha spiegato bene qualche giorno fa in radio un avversario quale Guido Crosetto. Cui dico grazie perché ha riconosciuto la verità a differenza di quanto hanno fatto Giorgia Meloni e gli altri dirigenti del suo partito. Il caso Open, soprattutto per come è finito, ha riaperto il dibattito sul finanziamento ai partiti, visto anche quanto accaduto di recente, basti pensare al caso Toti in Liguria. È un tema che la politica dovrebbe avere il coraggio di affrontare senza paura? Il tema del finanziamento ai partiti è molto complesso. Il nodo non sono le regole del finanziamento ma il fatto che qualche magistrato ideologico, come nel mio caso il dottor Luca Turco, già procuratore aggiunto a Firenze e ora felice pensionato, abbiano interpretato quelle norme con maxi processi il cui obiettivo era aggredire me, non trovare la verità. Perché se la verità fosse stato l’obiettivo, il processo sarebbe finito dopo la prima decisione della Cassazione. Dunque è giusto che ci siano regole, e non mi convince la scorciatoia di tornare al finanziamento pubblico. Quanto a Toti, ho grande rispetto per lui ma nel momento in cui sceglie di patteggiare rende meno forte la sua battaglia. Quando qualcuno mi ha proposto di patteggiare su Open l’ho mandato a stendere: io sono innocente e dunque vinco nel processo, non patteggio. Del resto si parla molto negli ultimi anni di come la politica si “alimenti”, finanziariamente parlando, e lei stesso viene spesso tirato in ballo: basti pensare alle recenti norme del governo. Discussioni lunari o necessarie? La politica ha bisogno di soldi, non ci giriamo attorno. Giorgia Meloni dice di essere una underdog che si è fatta da sola, ma come dimostro nel libro L’Influencer è la raccomandata della seconda Repubblica. E ha fondato Fratelli d’Italia con un bonifico di Forza Italia. Le norme contro di me invece non riguardano il finanziamento alla politica. Giorgia Meloni prende le critiche dell’opposizione come un affronto personale. E dunque ha fatto fare una norma ad personam contro i miei incarichi professionali. I giustizialisti hanno provato a buttarmi fuori dalla politica con le indagini, i Fratelli d’Italia con le leggi ad personam: mi spiace per loro, io sono qui e non intendo mollare. Anzi, non lascio ma raddoppio. A proposito del suo libro: perché definisce Giorgia Meloni “l’influencer”? Perché è una donna che non decide nulla di sostanziale, non fa le riforme, non cambia le cose. Però è brava a comunicare. Sono contento dell’accoglienza e dal numero di vendite ma la cosa che più mi affascina sono i primi commenti che mi stanno arrivando da chi ha finito il libro. Molti dicono: non avrei mai potuto immaginare che fosse tutto così drammaticamente assurdo e vero. Chi arriva alla fine della lettura capirà perché considero una battaglia di civiltà dire di no al modo di procedere della Influencer e del suo partito. Tornando alle discussioni lunari, nel resto d’Europa gran parte delle opinioni pubbliche, a partire da quelle di Francia, Germania e Regno Unito, si considera praticamente già in guerra con la Russia, e quei Paesi non escludono l’invio di truppe in Ucraina. In Italia invece il dibattito è su Ventotene: troppa nonchalance da parte nostra o sono gli altri che corrono troppo? Non siamo in guerra con la Russia. E chi crede alla politica sa che la priorità oggi è trovare il modo di fare la pace tra Ucraina e Russia. O almeno una tregua. Questo è lo sforzo del primo ministro saudita Bin Salman che sta ospitando a Ryad i colloqui tra americani, russi e ucraini. Mi spiace che l’Europa non abbia fatto una proposta diplomatica e non sia al tavolo. Gli ambasciatori esperti hanno un modo di dire: quando non sei al tavolo, sei nel menù. L’Italia di Meloni e l’Europa di von der Leyen mi sembrano più nel menù che al tavolo. E credo che questo sia un problema enorme di cui si parla troppo poco. Proprio sulla politica estera c’è molto dibattito nella maggioranza, con attacchi un giorno sì e l’altro pure tra Lega e FI: pensa che le opposizioni debbano prepararsi a una possibile crisi di governo, nonostante le rassicurazioni di Meloni e alleati? E l’opposizione come può stare insieme essendo così divisa? Salvini e Tajani sono come due bimbetti che litigano per il giocattolino. Nessuno dei due è minimamente interessato al posizionamento dell’Italia: cercano un po’ di consenso. Le poltrone sono un collante formidabile per questi, non romperanno fino al 2027. Quanto alle opposizioni, purtroppo la politica estera divide a metà le coalizioni sia a destra che a sinistra: rimpiango i tempi in cui sulla base del posizionamento internazionale si facevano o cadevano i governi. Pensi alla rottura del 1947 tra De Gasperi e Togliatti, dovuta al rapporto con gli Stati Uniti d’America. O ai fatti del 1956 che danno inizio al percorso di costruzione del centrosinistra con Fanfani. O ancora all’intervista di Berlinguer che aprendo alla Nato getta le basi del compromesso storico. Un tempo la politica estera era un collante, oggi un elemento di divisione. La destra è divisa ma alle elezioni va unita. Se vogliamo vincere come centrosinistra dobbiamo fare la stessa cosa trovando tre temi su cui costruire una coalizione: stipendi, sanità, educazione. Per me sono i tre pilastri della maggioranza di domani. E dunque veniamo al centrosinistra: Elly Schlein sta giocando una partita tutta personale nel Pd, con i riformisti in pressing (vedi voto a Strasburgo) e lei che sembra voler tenere la barra diritta anche se questo significa andare contro il PSE. Pensa che alla fine la linea della segretaria pagherà? Non so. E non mi interessa: non è più il mio partito e dunque l’ultima cosa di cui il Pd ha bisogno che mi ci metta anche io a commentare. Mi pare che per litigare non abbiano bisogno di me, sono bravissimi da soli. I riformisti hanno messo nel mirino la Schlein, dice lei. Secondo me no. Hanno solo provato a ipotecare un po’ di candidature nel 2027. Finché non ci saranno le preferenze e la segreteria decide come vuole i riformisti rischiano grosso. E credo che di questo stiano parlando in queste settimane: delle candidature, non della linea politica. Quanto a noi, saremo il centro che guarda a sinistra come diceva De Gasperi. Non voglio lasciare alla destra la rappresentanza del mondo produttivo, riformista, moderato. Da quando è apparso sui giornali il tema dei dazi con Salvini che ha risposto nel modo più assurdo possibile, dicendo che i dazi sono una opportunità per le aziende, siamo presi d’assalto da imprenditori, dirigenti e operatori che chiedono di costruire un’alternativa a questo governo. Espulsione straniero: va bilanciata capacità a delinquere con situazione familiare e personale di Simone Marani altalex.com, 26 maggio 2025 L’allontanamento non deve violare il diritto al rispetto della salute, della vita privata e familiare (Cassazione n. 7254/2025). L’espulsione dello straniero irregolare può avvenire solo se l’allontanamento non comporti una violazione del suo diritto al rispetto della salute, della vita privata e familiare. Questo è quanto emerge dalla sentenza 20 febbraio 2025, n. 7254 della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, l’espulsione dello straniero non appartenente all’Unione europea, identificato, irregolare, il quale sia stato condannato e si trovi detenuto in esecuzione di pena, anche residua, non superiore a 2 anni per reati non ostativi, prevista dall’art. 16, comma 5, D.Lgs. n. 286 del 1998, ha natura sostanzialmente amministrativa e costituisce una misura alternativa alla detenzione atipica, della quale è obbligatoria l’adozione in presenza delle condizioni fissate dalla legge (Cass. Pen., Sez. I, 8 novembre 2018, n. 50871). A fondamento dell’istituto vi è l’esigenza di riduzione della popolazione carceraria; per tale ragione ne é esclusa l’applicazione a quanti, in relazione alla pena da espiare, si trovino già sottoposti ad una misura alternativa in senso proprio, o al regime degli arresti domiciliari esecutivi ex art. 656, comma 10, c.p.p., mentre non è di ostacolo la sola applicazione dei benefici del lavoro esterno e dei permessi premio (Cass. Pen., Sez. I, 18 ottobre 2016, n. 44143). Finalità dell’espulsione è quella di agevolare la fuoriuscita dal circuito penitenziario e l’immediato rimpatrio dei condannati comunque non reintegrabili nella comunità nazionale, perché sprovvisti di titolo per rimanervi, già non avviati a percorsi proficui di risocializzazione e per i quali non sussistono prevalenti esigenze di asilo, umanitarie o di tutela della loro persona o delle loro relazioni familiari (Cass. Pen., Sez. I, 4 marzo 2019, n. 9425). All’istituto in oggetto è certamente applicabile il principio secondo cui il giudice penale italiano, nel disporre l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, quale che ne sia la base legale, debba sempre verificare che l’allontanamento non comporti una violazione del suo diritto di rispetto della vita privata e familiare, procedendo all’esame comparativo della condizione dell’interessato al riguardo, over ritualmente prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 c.p., tra cui la sua capacità a delinquere, in una prospettiva di bilanciamento tra l’interesse generale alla sicurezza sociale e l’interesse del singolo alla protezione della sua sfera domestica, anche nel caso in cui gli altri componenti del nucleo familiare non siano italiani (Cass. Pen., Sez. III, 14 marzo 2023, n. 10749). Recentemente l’art. 7, comma 1, del d.l. 10 marzo 2023, n. 20, convertito dalla legge 5 maggio 2023, n. 50, ha riscritto il testo dell’art. 19, comma 1.1, del D.Lgs. n. 286 del 1998, abrogando il terzo e quarto periodo; come precisato dalla giurisprudenza, anche dopo le citate modifiche normative, l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, non può essere disposta, al pari di ogni altra forma di espulsione di natura penale, quando detta misura si risolva in una ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione EDU (Cass. Pen., Sez. IV, 26 novembre 2024, n. 43082). Sempre secondo questo importante intervento giurisprudenziale, l’abrogazione non riveste il significato di scongiurare l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato e, quindi, di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 CEDU. Infatti la normativa, a seguito delle modifiche di cui sopra, continua a vietare il respingimento, l’espulsione o l’estradizione di una persona verso altro Stato qualora ricorrano gli obblighi di costituzionali o internazionali dello Stato italiano, tra cui gli obblighi di conformazione ai precetti della CEDU le cui norme funzionano da parametro imposto ai fini dello stesso sindacato di conformità dell’ordinamento interno alla Carta repubblicana. Nella fattispecie bene hanno fatto i giudici del merito ad apprezzare la capacità a delinquere dello straniero, più pregnante e prevalente rispetto all’esigenza di tutelare la sua situazione familiare e le condizioni di salute in assenza di pericolo alla sua incolumità in caso di ritorno nel Paese di origine, evidenziando che il soggetto destinatario del provvedimento di espulsione non conviveva con familiari residenti in Italia, non versava in condizioni di salute precarie e non aveva allegato circostanze rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale. L’assenza dall’udienza non fa scattare sempre la remissione di querela di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2025 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 11743 depositata ieri, rigettando il ricorso dell’imputato. La previsione, introdotta dalla riforma Cartabia, per cui si ha remissione di querela nel caso in cui il querelante non si presenti all’udienza in cui è stato citato come testimone, non si applica al (diverso) caso in cui il tribunale ha acquisito le dichiarazioni rese della persona offesa nel corso delle indagini preliminari. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 11743 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo condannato (ex art. 612-ter Cp) per revenge porn e affermando che diversamente si amplierebbe eccessivamente il concetto di remissione tacita, oltre dunque la necessità di una effettiva partecipazione dell’offeso. La V Sezione penale ricorda che l’art. 152, terzo comma, n. 1, cod. pen. (introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. h), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore dal 30 dicembre 2022) stabilisce che vi è remissione tacita della querela anche nell’ipotesi in cui il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone. E che l’art. 41, comma 1, lett. t), n. 1), dello stesso Dlgs, ha previsto che l’atto di citazione contiene l’avvertimento che la mancata comparizione integra remissione tacita di querela. La riforma Cartabia, osserva la Corte, ha così codificato un orientamento già affermato dalla giurisprudenza (SU n. 31668/2016). Tale regola però, spiega la Corte, nel caso specifico, “non può trovare applicazione poiché la persona offesa non è mai stata citata come teste, in quanto il Tribunale, sul consenso delle parti, ha acquisito le dichiarazioni rese dalla stessa (come dagli altri soggetti assunti a sommarie informazioni) nella fase delle indagini preliminari”. “Non può infatti ritenersi - prosegue la Cassazione -, come sembra assumere la difesa del ricorrente, evocando la remissione tacita della querela, che la norma espressa dall’art. 152, terzo comma, n. 1, cod. pen. trovi applicazione anche se la persona offesa non si presenti all’udienza nella quale è acquisito il consenso all’acquisizione al dibattimento delle sue dichiarazioni rese nella precedente fase delle indagini preliminari”. La Cassazione spiega che una impostazione diversa condurrebbe “ad ampliare il concetto di remissione tacita della querela al di là della volontà del legislatore senza che ricorrano le medesime esigenze che hanno giustificato l’introduzione della nuova ipotesi”. E ciò poiché, quando le dichiarazioni rese a sommarie informazioni dalla persona offesa sono state acquisite in dibattimento rendendone irrilevante l’esame in tale sede, l’esigenza di una partecipazione attiva della persona offesa al dibattimento medesimo, quale espressione della persistente volontà punitiva, già estrinsecatasi con la presentazione della querela, nei confronti dell’imputato, non puo’ considerarsi sussistente”. La Suprema corte ha dunque affermato il principio di diritto in forza del quale alla remissione tacita della querela, che si realizza “quando il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone”, non può essere equiparata la condotta della persona offesa che non partecipa al dibattimento quando le parti abbiano dato il consenso all’acquisizione delle sue dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e, dunque, non sia stata citata in qualità di testimone nel dibattimento. Inoltre, in materia di revenge porn la Corte chiarisce che il delitto di cui all’art. 612-ter cod. pen., C.p. è integrato anche nell’ipotesi in cui la persona offesa non sia riconoscibile dalle parti intime oggetto di illecita diffusione né da ulteriori elementi. La norma incriminatrice tutela, infatti, le vittime dalla diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, che avvenga senza il consenso delle persone rappresentate, e non richiede anche che esse siano riconoscibili. Sardegna. Odio social contro la Garante dei detenuti. “Difendo i diritti, le offese non mi fermano” di Massimo Sechi La Nuova Sardegna, 26 maggio 2025 Il fiume di messaggi pieni di insulti dopo la visita e il report sulle condizioni nel carcere di Bancali. “Chiudetela dentro”, “La garante di stupratori e assassini pagata dal popolo italiano”, “mandatela a fare le pulizie in carcere e vediamo cosa le fanno”. Sono solo alcuni dei commenti apparsi sulle varie pagine social dopo che Irene Testa, garante regionale dei diritti delle persone detenute in Sardegna, ha descritto le condizioni del carcere di Bancali a Sassari. Un fiume di insulti e disprezzo, spesso tranquillamente firmati con nome e cognome, che ha travolto la sua figura e il suo ruolo istituzionale. Ma dietro quelle parole, c’è un probabilmente un problema più grande che sarebbe meglio iniziare ad affrontar con decisione: l’ostilità, e in alcuni casi purtroppo anche l’odio, di una parte della società verso chi è detenuto, a prescindere dalla pena che deve scontare e dal reato che ha commesso. Irene Testa ha deciso di pubblicare sul suo profilo alcuni dei messaggi apparsi nei giorni scorsi dopo la visita di Bancali, ma soprattutto non ha alcuna intenzione di smettere di denunciare quello che emerge dai suoi sopralluoghi negli istituti di pena: celle sovraffollate, bagni senza porte, detenuti costretti a volte a vivere in condizioni igieniche inaccettabili. “Servirebbe una telecamera per far capire a volte la brutalità di questi luoghi”, afferma la garante. “Mi ha stupito che molti si siano firmati con nome e cognome. Non hanno avuto alcuna vergogna per le cose terribili che hanno scritto”, racconta, riferendosi ai commenti più violenti ricevuti. “Il ruolo del garante è anche di denuncia attraverso i media, ma purtroppo capita spesso che si scatenino gli odiatori quando si parla di detenuti”. Eppure, non tutti hanno reagito con disprezzo. “Ci sono state anche tante telefonate di sostegno. Questo mi dà speranza: esiste una società civile che comprende e ha un alto senso civico”. Ma perché tanto odio? “Forse c’è una mancanza di comprensione delle regole della società”, riflette la garante. “E forse c’è anche un problema di scarsa informazione. Molti non sanno che in carcere ci sono migliaia di persone con pene inferiori a un anno, tossicodipendenti, malati psichiatrici. Quasi 30 mila sono in custodia cautelare, non condannati. E poi ci sono storie come quella di Beniamino Zuncheddu, ergastolano che gridava la sua innocenza e che alla fine aveva ragione e la sua innocenza è stata finalmente riconosciuta. Se avessi dovuto ascoltare le parole degli odiatori non avrei dovuto portare all’attenzione di istituzione e opinione pubblica la sua situazione. Chi oggi mi insulta, domani potrebbe essere il primo a indignarsi per un errore giudiziario”. Il carcere di Bancali, come molti altri in Italia, è un luogo dove i diritti fondamentali vengono spesso calpestati. “Che rieducazione può esserci se i detenuti vivono in condizioni insostenibili?”, si chiede. “Non stiamo parlando di pretendere ostriche e champagne, come qualcuno con inopportuno sarcasmo ha scritto, ma di dignità umana. E questo riguarda non solo i detenuti, ma anche chi ci lavora: polizia penitenziaria, direttori, educatori. Sono loro i primi a subire le conseguenze di un sistema al collasso”. E poi ci sono anche le storie che fanno male. Come quella di un ragazzo di 20 anni in sciopero della fame da un mese e mezzo. “Sta correndo un rischio fisico e mentale molto forte. Ho deciso di rendere pubblica la sua storia anche per dare una mano a chi lo sta gestendo”. “Potrei stare in silenzio, evitare di prendermi insulti. Ma sarebbe sbagliato. Continuo a denunciare perché è giusto che le cose si sappiano”, dice. E lancia un appello: “Serve più informazione, più dibattiti parlamentari, più coinvolgimento della società civile. Forse aprire di più questi luoghi alla cittadinanza, farli conoscere. Chi ha pregiudizi, vedendo la realtà, potrebbe cambiare idea”. E cita Voltaire: “Le carceri sono lo specchio della nostra società”. Uno specchio che, oggi, riflette un’immagine fatta di sofferenza, indifferenza e spesso anche odio. Ma anche di speranza, rappresentata da chi continua a lottare per i diritti di tutti, anche di chi ha sbagliato. “Chi ha commesso reati, anche gravi, sa di dover espiare una pena, chiede solo un po’ di dignità in più. E questo è un diritto che dovremmo garantire a tutti”. Teramo. Era evaso dai domiciliari per tornare in carcere, ritrovato morto in cella di Teodora Poeta Il Messaggero, 26 maggio 2025 Lo hanno ritrovato senza vita nel suo letto nella cella del carcere di Castrogno. Quando ieri mattina il “concellino” ha provato a svegliare Domenico Di Rocco, 46 anni, di Mosciano, era già morto. Secondo gli inquirenti si sarebbe trattato di un decesso causato da un malore, probabilmente un infarto, ma per accertarlo la sostituta procuratrice Silvia Scamurra ha già disposto l’autopsia che verrà eseguita domani pomeriggio dal medico legale Giuseppe Sciarra. La salma, sottoposta ad una prima ispezione esterna, è stata poi trasferita all’obitorio dell’ospedale Mazzini. Appena la notizia si è saputa, ieri mattina fuori dal carcere sono subito arrivate numerose persone di etnia rom, parenti o amici del 46enne, e l’area è stata quindi presidiata dalle forze dell’ordine. Per Di Rocco le porte di Castrogno si erano riaperte lo scorso dicembre dopo essere evaso dai domiciliari dove si trovava per scontare una pena di circa 20 anni. Ma in quell’occasione era stato lui stesso a chiamare da un bar i carabinieri e a dire ai miliari di voler tornare in carcere perché a casa litigava con sua madre. Ad usare parole dure per quanto accaduto è Adele Di Rocco, coordinatrice dell’associazione Codice Rosso, che parla di “ennesima vittima per mano dello Stato”. È lei che fa sapere che il 46enne, “era affetto da patologie psichiatriche - spiega - La scorsa settimana, attraverso il suo legale, l’avvocato Gianfranco Di Marcello, aveva avanzato richiesta di trasferimento per detenzione alternativa al carcere in due comunità, dalle quali si attendevano risposte, o agli arresti domiciliari, ed era in attesa dell’udienza fissata per il prossimo 5 aprile”. Dall’ispezione cadaverica non sarebbero stati riscontrati segni di violenza sul corpo di Domenico Di Rocco né altro che farebbe ipotizzare una morte violenta o un gesto estremo da parte del detenuto, eppure pare che i familiari nelle prossime ore siano intenzionati a presentare un esposto. “La mamma e il fratello del 46enne stanno provando a prendere contatti con il garante dei detenuti - dice sempre Adele Di Rocco - Vogliono la verità”. La coordinatrice dell’associazione Codice Rosso, inoltre, racconta di un occhio nero che il fratello del detenuto avrebbe notato sul viso di Domenico dopo l’ultimo colloquio avuto in carcere, motivo per cui sarebbe stato trasferito dalla sezione in cui si trovava in precedenza. Forse un litigio con un altro detenuto. Su Castrogno resta comunque alta l’attenzione, voluta anche dagli stessi agenti di polizia che da tempo chiedono più personale e soprattutto una diminuzione della popolazione penitenziaria ormai al collasso. Milano. Rivolta al carcere minorile di Beccaria. Il monito di Mattarella sull’emergenza di Fabrizio Benzoni* e Daniele Nahum** Il Riformista, 26 maggio 2025 Nel 2023 si sono registrati ben 1.143 ingressi, si tratta di un dato mai raggiunto negli ultimi 10 anni Il Presidente della Repubblica: “Tensioni e sofferenze per il grave fenomeno di sovraffollamento”. La recente rivolta all’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano ha riportato l’emergenza carceraria e il sovraffollamento al centro dell’attenzione. La scintilla che ha innescato la rivolta è stata la decisione di trasferire, proprio a causa della mancanza di posti, due detenuti nell’IPM di Catania, interrompendo bruscamente i loro percorsi di riabilitazione e allontanandoli dai legami affettivi e di supporto costruiti all’interno dell’istituto milanese. Questo trasferimento, lungi dall’essere un caso isolato, è sintomo di un problema più ampio, sottolineato anche ieri dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della Polizia penitenziaria: “La Polizia penitenziaria è chiamata quotidianamente a fronteggiare difficili situazioni di tensione e sofferenza, sempre più frequenti a causa del grave fenomeno di sovraffollamento in atto”. Con l’introduzione dei decreti “Caivano” e “Rave” si è verificato un incremento del 48% della popolazione carceraria minorile, con quasi 600 ragazzi e ragazze attualmente detenuti negli IPM. Secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone, nel 2023 si sono registrati 1.143 ingressi, un dato mai raggiunto negli ultimi 10 anni. Di questi, il 79,3% è stato detenuto in custodia cautelare, mentre più della metà degli ingressi rimanenti è avvenuta per esecuzione di pena da persone precedentemente in libertà, ovvero individui per cui, in fase cautelare, non era stato ritenuto necessario il carcere. È fondamentale, dunque, interrogarsi sull’efficacia della detenzione come strumento di rieducazione. La permanenza in istituti sovraffollati, spesso in condizioni di degrado, rischia di compromettere ulteriormente il percorso di crescita di questi giovani, alimentando un circolo vizioso di emarginazione e recidiva. È necessario promuovere alternative alla detenzione, come misure di giustizia riparativa, percorsi di messa alla prova e programmi di reinserimento sociale, riducendo così la pressione sul sistema carcerario, offrendo ai minorenni la possibilità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e di ricostruire un futuro positivo. Tra le numerose soluzioni possibili, l’unica adottata è proprio quella da evitare: il trasferimento dei detenuti minorenni in carceri con maggiore capacità, talvolta anche in strutture per adulti. Una decisione che vìola i princìpi stabiliti dalla Costituzione italiana, dall’Ordinamento della Giustizia Penale Minorile, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza e dalle Regole di Pechino. L’esposizione dei minorenni a un ambiente carcerario per adulti, caratterizzato da dinamiche spesso violente e di degrado, comporterebbe gravi rischi per la loro incolumità fisica e psicologica. Proprio la scorsa settimana, a Montecitorio si è svolta una seduta straordinaria sul carcere, a cui però non ha partecipato il Guardasigilli Carlo Nordio. Tuttavia, durante la celebrazione per la Polizia penitenziaria, il ministro ha promesso di rispettare gli impegni presi e di stanziare risorse per affrontare il problema del sovraffollamento. Purtroppo, ad oggi, nessuna delle promesse fatte è stata mantenuta. Il decreto Carceri, approvato lo scorso settembre, non ha portato alcun miglioramento significativo, e nel frattempo, anche nel 2025, continua il drammatico trend dei suicidi in carcere: uno ogni tre giorni. Il tempo delle parole, però, deve finire: è il momento dei fatti. *Deputato *Consigliere comunale di Milano e presidente della sottocommissione carceri del Comune Modena. Alessandra Camporota: “Più sbocchi lavorativi e progetti per i detenuti” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 26 maggio 2025 L’assessora alla Sicurezza urbana integrata ha ribadito la necessità di incrementare il personale. E ha illustrato i percorsi di reinserimento sociale e le misure per prevenire i suicidi. “Il sovraffollamento della Casa circondariale S. Anna e la carenza di personale di Polizia penitenziaria sono dati oggettivi, già segnalati dal Garante, oltre che oggetto di una mozione consiliare trasmessa a tutti i parlamentari modenesi e rappresentanti del Governo affinché se ne facciano carico”. Sono fattori che “possono avere avuto un impatto in relazione ai decessi, ma allo stato delle conoscenze disponibili e di un incontro istituzionale richiesto dai Garanti, non risulta possibile stabilire un nesso causale diretto”. Esistono però sentenze che, in altri casi specifici, hanno stabilito un nesso di causalità tra il decesso e una condotta omissiva colposa con conseguente risarcimento dei familiari. Mentre nel caso di uno dei decessi avvenuti a Modena, il Comune si è attivato per supportare i familiari nel rimpatrio della salma. Lo ha precisato l’assessora alla Sicurezza urbana integrata Alessandra Camporota ribadendo l’allarme per “sovraffollamento, carenza di personale ed esiguità di educatori, anche in considerazione della delicatezza della struttura carceraria modenese”. Criticità che ha posto anche all’attenzione del Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria chiedendogli che fosse destinata a Modena una quota importante di personale di Polizia penitenziaria e un incremento delle figure di sostegno, come ha ricordato in Consiglio comunale lunedì scorso rispondendo a un’interrogazione del Pd firmata da Luca Barbari e da Vittorio Reggiani, recentemente scomparso. L’assessora Camporota, in riferimento ai percorsi di inclusione e reinserimento sociale, ha spiegato: “Abbiamo avviato il potenziamento dei percorsi attivi all’interno dell’Istituto (laboratori, attività lavorative, scuole, università) ed è in corso un rafforzamento delle opportunità di collegamento telematiche per favorire i contatti con i familiari”. Ha anche segnalato alcune iniziative, occasioni d’incontro con la comunità esterna, come l’inaugurazione dell’Anno accademico in carcere, ma anche una sfilata di moda delle detenute e organizzazioni che hanno fornito donazioni in materiali o risorse per supportare le attività e intraprenderne di nuove. Citando le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Camporota ha definito l’alto numero dei suicidi in carcere “indice di condizioni inammissibili”. Ha poi spiegato che i Garanti comunale e regionale hanno trasmesso un rapporto alla Direzione del S. Anna con suggerimenti per la prevenzione di gesti autolesivi in riferimento alla sezione I care, dove vengono collocate persone a rischio di suicidio che necessitano di sorveglianza. A Modena è attivo da tempo il presidio Nuovi Giunti che prevede la valutazione del rischio entro 48 ore dall’ingresso in carcere. Se dal colloquio di primo ingresso con il medico di assistenza primaria e la psicoterapeuta dei Nuovi Giunti emerge un rischio suicidario medio, la persona viene collocata in questo reparto da 12 posti, adiacente all’infermeria, per essere valutata dallo psichiatra e presa in carico dallo staff Unità locale prevenzione suicidaria. Nell’istituto carcerario può essere inoltre disposto il Servizio di osservazione psichiatrica. Particolare attenzione è posta anche nei confronti di chi sta per essere dimesso, con un’equipe a cui partecipa anche il Comune. L’amministrazione comunale è impegnata anche con iniziative per incrementare la possibilità di sbocchi lavorativi per i detenuti che ne abbiano i requisiti di legge, attraverso la predisposizione di un apposito protocollo, e a supportare (con il coordinamento del Comitato Locale per l’area dell’esecuzione penale adulti e delle associazioni di volontariato) iniziative progettuali di sostegno. Napoli. Paola Severino: “Una grande regata per aiutare i ragazzi del carcere di Nisida” di Anna Paola Merone Corriere del Mezzogiorno, 26 maggio 2025 Il reinserimento dei giovani detenuti, il recupero dei ragazzi a rischio, ma anche le iniziative per riportare in Italia - e in particolare al Sud - gli studenti e i cervelli in fuga. Paola Severino, presidente della Luiss School of Law, guarda al mondo degli under 25 con attenzione. Con la Fondazione che porta il suo nome si occupa del recupero sociale dei reclusi e intreccia primati - prima donna alla guida del ministero della Giustizia, prima vicepresidente della Magistratura militare e prima rettrice alla Luiss - e sfide. La passione che anima la sua professione di avvocato e docente si estende anche ai progetti destinati a chi è diventato trasparente per una certa parte della società, che ruotano intorno a Napoli, la sua città d’origine. Nel corso di una sua recente visita al carcere di Nisida, ha tracciato le coordinate di una iniziativa per il recupero dei ragazzi detenuti legato al mare e al mondo della vela. “Nisida è un luogo di sconvolgente bellezza. Legato indissolubilmente al mare, proiettato verso l’infinito, ma limitato da muri: il carcere e il mare si fronteggiano attraverso le sbarre. È un’isola che non c’è, separata e al tempo stesso legata alla terraferma da una sottile striscia di strada, che i ragazzi percorreranno solo dopo anni di detenzione. E da questa premessa nasce un progetto che riguarda Nisida e Napoli”. Come dialogheranno? “Portando nel Golfo ai piedi del Vesuvio, uno dei più belli al mondo, una grande regata internazionale e coinvolgendo i giovani detenuti nel lavoro di preparazione della gara, nelle attività di ormeggiatori, in opere di manutenzione. Attività che li terrebbero a contatto con uno degli sport più sani e competitivi. Questa è la prima parte dell’iniziativa, che punta ad avviare i ragazzi ad un percorso lavorativo, che è la via di uscita definitiva dal carcere”. Quanto vale per un detenuto poter contare su queste opportunità lavorative? “Le statistiche ci dicono che la recidiva si abbatte dal 75 per cento circa al 2 per cento quando il detenuto impara un lavoro durante il periodo di carcerazione e lo prosegue una volta riacquisita la libertà. E basta riflettere sulle opportunità che la cantieristica navale napoletana può offrire ai giovani addestrati per questi compiti, per comprendere che un simile progetto consentirebbe un allontanamento dalle famiglie criminose molto più accettato, socialmente condiviso e quindi ben più efficace. Sono molto grata a mia figlia che, dedicandosi a tempo pieno alla Fondazione che ha voluto portasse il mio nome, ha costruito una serie di bellissimi progetti di rieducazione carceraria e post-carceraria, basati sull’inserimento nel mondo del lavoro”. Nisida è al centro di “Mare Fuori”. Come valuta questo “fenomeno” televisivo? “Qualunque iniziativa faccia riflettere sulle condizioni carcerarie, e sulle ancor più serie problematiche dei minori, deve essere considerata importante. Dei temi legati alla detenzione si parla sempre troppo poco e saltuariamente, magari per fenomeni legati a situazioni drammatiche come i suicidi, le evasioni o le rivolte. Il carcere viene infatti percepito dai più come un elemento da relegare in un angolo remoto della coscienza del “cittadino perbene” o ancor più del “buon padre di famiglia”. Ospita persone che hanno commesso reati, che hanno tradito il patto di fiducia sociale e che quindi rappresentano un “altro da sé”, un luogo da dimenticare o comunque non meritevole di particolari attenzioni”. Questo vale anche se si parla di minori? “Tanto più se si tratta di minori, ancor più se provengono da famiglie di pregiudicati o di gruppi rom, maggiormente colpiti dallo stigma della irrecuperabilità. E questo prima ancora di verificare se qualcosa si possa fare, per evitare una serie di recidive ben più numerose di quelle degli adulti e quindi un pericolo sociale più elevato. L’effetto di rimozione si accentua ulteriormente se ci si limita a considerare l’istituto minorile un luogo solo di punizione e di radicamento del modello criminale, piuttosto che un luogo deputato alla rieducazione di chi ha sbagliato per motivi fortemente imputabili al tessuto familiare e sociale. Proprio per questi motivi mi ha molto colpito che mio nipote, all’epoca diciottenne, mi sia venuto a parlare di Mare fuori e di quanto avesse sollecitato la sua attenzione, spingendomi a vederlo. Già questo potrebbe collocare la serie tra quelle da seguire, per incominciare a pensare quanto facilmente i destini di un giovane di buona famiglia e quelli di un giovane proveniente da una famiglia di camorra si possano incrociare nel carcere e non sempre svilupparsi nella direzione che ti aspetteresti. Vi è poi nella storia un sottile percorso di speranza, che si dipana sulle onde del mare, su una imbarcazione a vela, che ha forse ispirato il bellissimo progetto rieducativo, degli “Scugnizzi a vela”“. Dal bullismo alle baby gang: l’emergenza minori è trasversale e a Napoli si affronta arginando l’evasione scolastica. Secondo lei quali sono le misure più efficaci? “Arginarla rappresenta certo uno dei mezzi efficaci per combattere le forme più odiose di microcriminalità aggressiva, ma perché si trasformi in un autentico strumento di prevenzione utile per evitare che si commettano reati o si reiterino è necessario che si tratti di un progetto formativo completo e coinvolgente, capace di suscitare l’interesse dei ragazzi, di farli sentire utili e apprezzati, proiettati in un mondo lavorativo che possa attrarli e allontanarli definitivamente dalla tentazione di commettere illeciti. Penso al progetto realizzato alla Sanità da don Antonio Loffredo, che ha trasformato giovani ad alto rischio in sapienti ed entusiaste guide turistiche nelle visite delle catacombe di San Gennaro”. Oltre 100mila ragazzi ogni anno vanno via dall’Italia e solo un terzo torna. L’esodo al Sud è più forte e inizia dall’università. Ma l’offerta formativa nel Mezzogiorno è così poco interessante? “Il fenomeno della fuga di cervelli impoverisce le nostre città dell’apporto dei migliori, che potrebbero invece sostenere lo sviluppo economico italiano senza allontanarsi dai propri affetti e dal luogo in cui sono nati e cresciuti. Un fenomeno negativo e assurdo se si considera che in luoghi iconici della cultura italiana, come Napoli, ci sono Università come la Federico II, che eccellono anche in campi innovativi come l’intelligenza artificiale e sono polo di attrazione per grandi realtà imprenditoriali come Apple o le grandi aziende alberghiere del lusso, che hanno a loro volta prodotto potenzialità lavorative di immensa portata”. Come si riportano a casa i cervelli in fuga? “Con l’impegno di tutti noi che ne abbiamo la possibilità. Nel mio piccolo ho cercato di farlo, aprendo uno studio legale a Napoli che offre opportunità di lavoro a giovani laureati di valore che magari sarebbero andati a cercare successo a Londra, a Milano o a Roma, anziché dare un contributo di legalità e un esempio di premio al merito nella loro città. D’altra parte io stessa avevo e ho mantenuto un legame fortissimo con Napoli e con i miei cugini e amici d’infanzia, da cui mi dovetti allontanare a 14 anni per motivi di carriera di mio padre. Ancora adesso ho contatti affettuosi con una mia compagna delle elementari rimasta a vivere a Napoli”. A che punto è la parità di genere? “Nel mio studio c’è una pressoché assoluta equivalenza di uomini e donne, e non già perché nella selezione io applichi un criterio percentuale, ma perché cerco sempre di scegliere i migliori e trovo sempre tante donne che meritano”. Al di là delle passioni profuse nel lavoro, lei coltiva quella per la musica classica. “Sono una appassionata melomane e credo che il culto della musica classica a Napoli nasca da una profonda e radicata cultura, che trova ispirazione nell’orchestra Scarlatti e nel Teatro San Carlo, il suo più grande interprete in Riccardo Muti e il suo più significativo punto di riferimento in una estesissima rete di appassionati e intenditori, che ben può fare concorrenza a quelli di altri celebri teatri e orchestre italiane e straniere. Per non parlare di fenomeni contemporanei come La gatta cenerentola, con cui Roberto De Simone ha trasmesso e attualizzato gli antichi cantici napoletani de Lo cunto de li cunti, oppure le canzoni di Pino Daniele, uno dei musicisti più innovativi del panorama italiano. Insomma, la città ha la musica nel Dna”. Le resta tempo per i nipoti? “Molto meno di quanto vorrei, ma credo che la forza degli affetti non si misuri col tempo, bensì con la qualità e la forza dei legami. E io ho tre meravigliosi nipoti che abitano al piano di sopra e tutte le mattine passano a salutarmi con un bacio”. Chieti. “Nella mia ora di libertà: salute mentale e condizioni di detenzione”, il convegno chietitoday.it, 26 maggio 2025 I Giovani Democratici di Chieti lanciano l’allarme sul sovraffollamento e le condizioni disumane negli istituti penitenziari e organizzano un confronto urgente sulle criticità del sistema penitenziario italiano. L’evento “Nella mia ora di libertà - salute mentale e condizioni di detenzione”, si terrà venerdì 28 marzo alle ore 17:30 nel bar Chic a Chieti Scalo. L’incontro, aperto alla cittadinanza e alla stampa, punta a individuare soluzioni concrete attraverso il contributo di esperti e istituzioni. Interverranno: Francesco Lo Piccolo, direttore del periodico “Voci di Dentro”, osservatorio indipendente sulle carceri; Fiammetta Trisi, già dirigente del Ministero della Giustizia ed esperta di politiche penitenziarie; Danilo Montinaro, psichiatra forense, analizzerà l’impatto delle condizioni detentive sulla salute mentale; Isabella De Silvestro, giornalista del quotidiano Domani. I numeri sono impietosi. Con 62.153 persone recluse a fronte di una capienza ufficiale di soli 47.000 posti (dati dicembre 2024), l’Italia continua a registrare un tasso di sovraffollamento carcerario record: la media nazionale si attesta al 132,6%, con punte che superano il 225% nel carcere di Milano-Bollate e toccano il 168% nella casa circondariale di Chieti. In un terzo degli istituti di pena, i detenuti sopravvivono in meno di 3 metri quadrati di spazio vitale, con la conseguente mancanza degli standard minimi per parlare di dignità umana. Le conseguenze sono drammatiche. Nel 2024 si sono registrati 88 suicidi tra le mura carcerarie, mentre gli atti di autolesionismo hanno raggiunto la soglia allarmante di 20 episodi ogni 100 detenuti, numeri senza precedenti che sollevano interrogativi drammatici sulla tenuta del sistema. “Parlare dei detenuti significa ricordare che dietro ogni reato c’è una storia, una vita che può essere cambiata - dichiara Lorenzo Medoro dei Giovani Democratici Chieti - è un atto di giustizia e umanità: nessuno dovrebbe essere dimenticato, né vivere in condizioni disumane. Dare voce a chi è dietro le sbarre aiuta a spezzare il ciclo della criminalità, offrire una seconda possibilità e proteggere anche le famiglie, spesso invisibili e sofferenti. La politica ha il dovere di costruire un sistema che non sia solo punitivo, ma anche riabilitativo, perché una società migliore non si costruisce solo con le sanzioni, ma con opportunità di riscatto. Non possiamo voltarci dall’altra parte di fronte a un sistema che invece di rieducare produce sofferenza e marginalità serve un dibattito pubblico serio per trasformare le carceri da luoghi di esclusione a spazi di recupero sociale. La politica ha il dovere di intervenire prima che altre vite vengano spezzate”. L’appuntamento rappresenta un’occasione per accendere i riflettori su un’emergenza nazionale troppo spesso rimossa, con un focus specifico sul territorio abruzzese. Torino. I detenuti vanno a lezione di rap: “Con le rime diamo loro speranza” di Giulia D’Aleo La Repubblica, 26 maggio 2025 Il progetta del torinese Gionathan e dell’olandese BlackRockStar nelle carceri del Nord-Ovest: laboratori di musica per mettere in strofe i propri pensieri. Il rap entra in carcere per aiutare a mettere in ordine i pensieri attraverso le strofe. Nelle carceri del Nord-ovest, gruppi di persone detenute potranno partecipare a workshop di rap e di scrittura di testi, ma anche assistere e prendere parte ai concerti del cantautore torinese Gionathan e dell’artista olandese BlackRockStar, che nei suoi brani racconta di un passato trascorso tra le gang e in prigione. Per la sua prima tappa, il Prisons tour è approdato ieri, 24 marzo, alla casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, mentre oggi i laboratori si sposteranno al carcere di Brissogne ad Aosta e domani, 26 marzo, in quello di Biella. Organizzato dalla Brothers keeper ministry di Torino, impegnata volontariato penitenziario, e sostenuto dal Consiglio regionale del Piemonte, in questa sua nuova edizione il tour prevede due ore di attività totali, rivolte a classi di circa venti partecipanti. “Insieme ai detenuti individuiamo un tema di cui vogliono parlare - spiega Gionathan -, poi ascoltiamo diverse basi per trovare la musica adatta alla loro storia”. Non solo rap: c’è chi opta per una poesia da leggere su una base musicale, chi per un brano da cantare. Si inizia scrivendo un verso, poi un ritornello. Se l’ispirazione è tanta, alla fine delle due ore è possibile aver composto una canzone intera. “Abbiamo anche la possibilità di registrare il brano sul nostro studio mobile per poi masterizzarlo su un cd, per lasciare un ricordo di questo incontro”. Una volta che le canzoni sono pronte, vengono provate sul palco insieme alla band. “Vogliamo farli partecipare al nostro spettacolo - spiegano i due artisti -. Iniziamo cantando alcuni dei nostri brani, perlopiù musica rap, funk e rock. Poi li facciamo salire per eseguire tutti insieme anche i loro pezzi”. Alla fine del concerto, i più intraprendenti possono anche cimentarsi in una sessione di freestyle e improvvisazione. “Il nostro obiettivo è dare la possibilità ai detenuti di ritrovare la speranza - commenta l’iniziativa Gionathan -: Anche se hanno commesso degli errori, c’è sempre la possibilità cambiare strada”. Foggia. “Il bello delle donne”, al via nel carcere il corso di trucco e acconciature per le ristrette statoquotidiano.it, 26 maggio 2025 Gli organizzatori: “Obiettivo, offrire momenti di leggerezza e di autostima, affinché le partecipanti possano guardarsi allo specchio con un rinnovato senso di fiducia”. È iniziato lo scorso 24 marzo, presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Foggia, il progetto “Il bello delle donne”, un percorso di trucco e acconciature realizzato dalla Misericordia di Foggia e dal Csv di Foggia, con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. L’iniziativa, che coinvolgerà 14 donne ristrette in un ciclo di otto incontri, vedrà i volontari della Misericordia supportati dalle professioniste Tiziana Allegretti e Lucia Sciotta. Al primo incontro hanno preso parte nove volontari della associazione presieduta da Laura Pipoli, accompagnati da Annalisa Graziano, responsabile della comunicazione e della promozione del volontariato penitenziario del Csv di Foggia. “Valorizzare la femminilità anche in un contesto complesso come quello carcerario - spiega Laura Pipoli - significa restituire dignità e attenzione a donne che spesso vivono una condizione di fragilità. Il trucco e l’acconciatura non sono semplici strumenti estetici, ma possono diventare veicoli di riscoperta personale e di benessere interiore. Il nostro obiettivo è offrire momenti di leggerezza e di autostima, affinché queste donne possano guardarsi allo specchio con un rinnovato senso di fiducia”. Sul valore umano e sociale dell’iniziativa è intervenuto anche Pasquale Marchese, presidente del Csv di Foggia. “Questo progetto - ha sottolineato - è un esempio concreto di come il volontariato possa entrare in luoghi difficili e portare cambiamenti positivi. Ogni gesto, ogni attenzione rivolta a queste donne è un passo verso un percorso di recupero e reinserimento. Il carcere non deve essere solo privazione, ma anche opportunità di crescita e riscatto”. Un sentito ringraziamento va alla Direzione della Casa Circondariale di Foggia, all’Area Trattamentale, coordinata da Giovanna Valentini e alle agenti della Polizia Penitenziaria per la preziosa collaborazione, che ha reso possibile la realizzazione della iniziativa progettuale. Augusta (Sr). Studenti del Liceo Corbino di Siracusa raccolgono libri per i detenuti siracusanews.it, 26 maggio 2025 Nei prossimi giorni la consegna. In occasione della Solennità dell’Annunciazione del Signore, questa mattina alle 10, monsignore Francesco Lomanto, Arcivescovo di Siracusa, ha presieduto la Celebrazione Eucaristica nella Basilica Santuario Madonna delle Lacrime. Alla funzione hanno partecipato la dirigente scolastica, Lilly Fronte, insieme ai docenti e agli studenti del Liceo “O. M. Corbino” di Siracusa. Durante l’omelia, l’Arcivescovo ha richiamato il messaggio di Papa Francesco, che ha voluto porre la speranza al centro dell’Anno giubilare, sottolineando l’importanza di questa virtù teologale in un’epoca in cui il bene e il male sembrano confondersi nelle coscienze più fragili. La celebrazione rientra nel progetto didattico “Hope, una speranza oltre le sbarre”, promosso dal dipartimento di insegnamento della religione cattolica (IRC). Il percorso, nato in collaborazione con l’Ufficio diocesano di Pastorale Penitenziaria (UDPP), ha avuto l’obiettivo di sensibilizzare gli studenti sulla realtà delle persone detenute, offrendo loro un’opportunità di riflessione e di impegno concreto. In questo contesto, don Andrea Zappulla, direttore dell’UDPP, ha incontrato gli studenti per raccontare la sua esperienza al servizio dei detenuti della Casa di Reclusione di Augusta. Attraverso la sua testimonianza, ha sollecitato l’attenzione della comunità scolastica sulla complessa realtà carceraria e sui percorsi di recupero e reinserimento sociale. Inoltre, ha illustrato alcuni progetti recenti dell’UDPP, volti alla prevenzione dei conflitti e alla riabilitazione socio-lavorativa dei detenuti. A conclusione del progetto, il Dipartimento IRC, coordinato dal professore Angelo Lombardo con il supporto dei docenti Luca Novara, Giuseppe Amenta, Marco Mazzeo e don Rosario Lo Bello, ha organizzato una raccolta di libri e materiale scolastico. Gli studenti del Liceo Corbino hanno donato questi materiali ai detenuti della Casa di Reclusione di Augusta, offrendo così un segno tangibile di solidarietà e speranza. Un’iniziativa che ha unito fede, educazione e impegno sociale, facendo della scuola un luogo di crescita non solo culturale, ma anche umana. Cinema. Una madre nel carcere di Maurizio Porro Corriere della Sera, 26 maggio 2025 Dopo “Il colpevole”, tutto chiuso in un centralino d’emergenza della polizia, ecco un’altra prova di equilibrismo narrativo dello svedese naturalizzato danese Gustav Möller, assistente di Lars Von Trier, che in “Sons”, pur titolandola ai figli, racconta una storia di madri infelici, della presenza-assenza dei figli. I suoi film sono singolari salti nel vuoto e qui lo spazio carcerario è il luogo ideale per dibattere il senso e il modello della prigione e la sua funzione: si crede nel perdono o nel reinserimento? In questo racconto molto coinvolgente, il punto di vista è davvero unico, la visuale della prigione è personale, se mai si pensa alla serie spagnola “Vis à vis” ma non ai classici delle fughe da Alcatraz e dintorni. La protagonista è Eva, guardia carceraria modello, anche lei a suo modo “detenuta” che non vediamo mai fuori dalla prigione, ma che improvvisamente si fa trasferire da un reparto “normale” a un altro violentissimo e pericoloso, dove il suo essere “madre” dei prigionieri, sfidando ogni archetipo, avrà difficoltà, dubbi, ripercussioni. Soprattutto verso Mikkel, un giovane detenuto che lei inizia a perseguitare con piccole vendette perché entrambi sono vittime di uno stesso capitolo angosciante del destino che ha visto Eva perdere il figlio. La domanda è: di chi è la colpa? Dell’assassino, chiaro, ma meno individuabili sono le ragioni profonde, il senso sociale di una mancata educazione. Ogni giorno, rischiando in prima persona, Eva fa rimbalzare perdono e vendetta finché nell’ultima scena si troveranno faccia a faccia due madri, ugualmente innocenti, ugualmente colpite dalla sorte: c’è un’assenza a tavola, ed è un pezzo del passato che condiziona la vita di tutti. L’incontro delle madri è lo snodo finale di un incubo, girato in vari luoghi, un carcere abbandonato presso Copenaghen, una fabbrica in disuso, i cunicoli di un ospedale in disuso. Tutti requisiti per allestire, con Freud aiuto regista, uno di quei drammi spirituali di cui i nordici hanno il copyright, arricchendo di annotazioni personali la psicologia e la psicoanalisi. La verità è che il legame materno, anche nella sua assenza, attraversa tutto il film che adopera attori eccezionali (Sidse Babett Knudsen e Sebastian Bull, infantile e pericoloso insieme) nel dosaggio delle sfumature e negli attacchi violenti di rabbia. Libri. Lo psicologo Lancini: “I social colmano un vuoto, non sono la causa del dolore” di Chiara Bidoli Corriere della Sera, 26 maggio 2025 Cosa possono fare gli adulti per comprendere meglio i ragazzi di oggi? Ne parla lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, autore del nuovo libro “Chiamami adulto”. Per capire il loro malessere occorre andare oltre la visione semplificata con cui lo osserviamo e giudichiamo perdendo di vista ciò che conta davvero: la relazione autentica, l’unica strada per sintonizzarsi, davvero, con le nuove generazioni. Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, nel suo ultimo libro, “Chiamami adulto” (in libreria dal 25 marzo), affronta il tema della solitudine dei giovani e risponde alle domande del Corriere della Sera su cosa possono fare gli adulti per comprendere meglio i ragazzi di oggi. Cosa cercano? “La relazione con l’altro, soprattutto con i genitori. Siamo in una fase storica di transizione, in cui si devono riorganizzare i pensieri collettivi e manca un sistema valoriale condiviso. Stiamo vivendo l’epoca della dissociazione dove vale tutto e il contrario di tutto. Ne è un esempio il modo in cui consideriamo i social di cui noi adulti facciamo un uso smodato, cercando audience ad ogni costo, ma che poi, quando la ricerca di popolarità diventa challenge giovanile, vengono additati come la causa di tutti i mali”. Ci spiega cosa intende per “relazione con l’altro”? “Mi riferisco alla relazione autentica, l’unico antidoto al male sempre più diffuso tra i ragazzi di sentirsi soli in mezzo agli altri, con genitori che fanno fatica a riconoscere le emozioni dei figli, soprattutto se disturbanti, perché significherebbe fare i conti con le proprie. Adulti che si muovono seguendo la dilagante cultura del “fare” e del “controllare”, attenti che siano rispettate le regole e organizzate le giornate (smartphone sì/no, parental control, compiti, ecc.) e che si sentono tanto più rassicurati e appagati quanto più riescono a svolgere i “compiti” nei tempi e nelle modalità prefissate. In realtà gli adolescenti contemporanei cercano adulti significativi, autentici e responsabili che ascoltino i loro bisogni e li aiutino a rispondere alle domande che fondano l’identità: Chi sono? Qual è il mio ruolo nel mondo?”. Perché i rapporti intergenerazionali sono in crisi? “Se genitori e insegnanti sostengono di essere “in relazione” e i ragazzi si sentono soli c’è qualcosa che non sta funzionando nella trama affettiva che regola i rapporti. Avere una relazione autentica è molto di più di un ascolto, è sentire che c’è qualcuno con cui si può mettere in parola le proprie emozioni, anche quelle terribili e di cui ci si vergogna o quelle che possono ferire. La domanda che dovremmo porci ogni giorno è: agisco in funzione dei bisogni di mio figlio o lo faccio per sentirmi un bravo genitore? Dovremmo smettere i panni degli “investigatori” e puntare sulla relazione, sostenerli nella costruzione della loro identità, anche digitale, e rispondere ai loro bisogni di riconoscimento e affermazione”. Come “stare” con un figlio che soffre? “Favorire un contesto di accoglienza in cui il dolore o la disperazione possa diventare parola. Un figlio che non esprime il proprio disagio sente che il genitore non è in grado di tollerare un certo tipo di comunicazione, d’altronde nessuno parlerebbe di un problema a un altro che, invece di aiutarti, lo nega o lo peggiora. Viviamo in una società che rimuove il dolore, che ha pornografizzato le emozioni, che ha legittimato la possibilità di condividere in rete la nostra vita più intima e, invece, ci preoccupiamo che i nostri adolescenti siano sul web. L’uso eccessivo dei social, degli smartphone e dei videogiochi online da parte dei ragazzi è un effetto, un tentativo di colmare il vuoto, di lenire il senso di solitudine sperimentato ogni giorno in mezzo agli altri non la causa del loro dolore”. Migranti. Cpr di Trapani, tensioni e proteste di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 maggio 2025 I trattenuti più giovani volevano parlare con i genitori, ma i telefoni sono sistematicamente sequestrati o danneggiati. Si sono registrate ore di tensione nel Centro di permanenza per i rimpatri di Trapani, in cui sono trattenute 150 persone. Lunedì l’impossibilità di alcuni giovani reclusi di poter comunicare con le famiglie ha dato vita alla battitura delle reti e all’inizio di uno sciopero della fame. “A fronte di una sistematica privazione dei telefoni cellulari, della distruzione delle telecamere dei dispositivi talvolta concessi, e della soppressione violenta dei tentativi di queste persone di documentare la vita in questi luoghi, alcune di loro sono riuscite a farci arrivare le loro voci, i loro pensieri, le loro grida di aiuto”, scrive in un comunicato la Rete siciliana contro il confinamento. Dalle tensioni sarebbero scaturiti dei tafferugli con le forze dell’ordine. “Qui la situazione è orribile. Non abbiamo le lenzuola per coprirci, i letti sono di cemento e sembrano delle tombe, il cibo lo rifiuterebbero anche i cani. Abbiamo iniziato uno sciopero, prima tutti insieme e poi solo quelli che hanno la possibilità di non mangiare, per denunciare la nostra condizione. Non vogliono che le notizie escano da queste mura”, racconta dall’interno un recluso. Nelle ore in cui si verificavano i disordini nel Cpr era presente anche l’avvocato Gaetano Pasqualino: “Avrei dovuto incontrare i miei assistiti ma dopo il primo colloquio sono stato allontanato per motivi di ordine pubblico. Con l’aumento dei trattenuti la condizione all’interno è sempre più grave”. A porsi c’è anche un altro tema, che riguarda un diritto fondamentale protetto dalla Costituzione. “Nel Cpr il diritto di difesa è ormai al lumicino. Per i legali parlare con le persone seguite diventa ogni giorno più complicato - continua Pasqualino - Si rischia di perdere intere giornate senza riuscire a vederli e con i termini dei ricorsi diventati brevissimi saltare un incontro può significare l’impossibilità di impugnare i provvedimenti. Una situazione davvero drammatica”. Droghe. Onu, 2025. Il proibizionismo non comanda più di Susanna Ronconi Il Manifesto, 26 maggio 2025 Nella riunione annuale del 224 della CND (Commission on Narcotic Drugs), dove si discutono le politiche sulle droghe, gli Stati uniti, per bocca dell’allora segretario Blinken, sbloccano il veto che da decenni impedisce alla Riduzione del danno (RdD) di entrare nella strategia globale: una decisione storica, dopo centinaia di migliaia di morti per fentanyl, anche i paladini della war on drugs si convincono. 2025: la Colombia promuove, e ottiene, una risoluzione quasi sovversiva per l’immobile ordine mondiale proibizionista: due anni di analisi da parte di un panel indipendente su esiti, impatto e efficacia delle tre Convenzioni internazionali. 19 studiosi andranno a vedere cosa funziona e cosa no. E se davvero avranno il modo (e i fondi) per lavorare liberamente, non potranno che approfondire ciò che è da decenni evidente: il pieno fallimento e l’irrazionalità del sistema globale proibizionista. Non a caso la Colombia: come ha ricordato la battagliera ambasciatrice Laura Gil, “Il mio paese ha sacrificato più vite di qualsiasi altro nella guerra alla droga che ci è stata imposta. Abbiamo rimandato il nostro sviluppo, dedicando i nostri uomini e donne migliori e una buona parte del nostro bilancio nazionale alla lotta al narcotraffico. Ora abbiamo bisogno di altre strategie, più efficaci”. Intanto, la Colombia ha già invertito la sua rotta, avviando non solo politiche di RdD, ma percorsi per sperimentare una regolazione legale di produzione, commercializzazione e consumo, sia della foglia di coca, ma (al contrario di altri paesi come la Bolivia) anche della cocaina e in prospettiva di altre sostanze. Con questo riprendendo in mano il governo del fenomeno, sviluppando diritti e economie locali, a favore della salute pubblica. La Colombia non è sola: la regolazione legale dei mercati è stato uno dei temi dominanti nelle decine di eventi organizzati da Stati, agenzie Onu e Ong. Se lo scorso anno si parlava di RdD e decriminalizzazione, quest’anno il tema di modelli di legalizzazione si è posto in modo pervasivo e plurale. Dall’America Latina all’Europa, da Bogotà a Amsterdam e Praga, si studia la regolazione legale non solo della cannabis, ma di cocaina, Kratom, MDMA. Questa è la nuova frontiera nella realtà. Che ha dato anche uno scossone alla palude della CND, dove il famoso ‘consenso di Vienna’ ha per decenni bloccato ogni riforma del sistema. Il 2025 ha portato la pratica del voto sulle risoluzioni, e questo ha favorito le posizioni più progressiste, per anni tacitate dai veti dei potenti paesi della war on drugs. E gli Stati uniti? Hanno clamorosamente perso su tutte le risoluzioni, in compagnia solo di Russia e Argentina (perfino Cina e Iran si sono astenuti). Ininfluenti, si sono chiusi nel vicolo cieco di un radicalismo guerresco che nemmeno i loro tradizionali alleati hanno sostenuto. “Rifiutiamo gli SDG (Obiettivi Onu dell’Agenda 2030) e non li riaffermeremo. La risoluzione non riconosce inoltre la realtà che ci sono due generi: maschile e femminile”. Ma anche i termini ‘biodiversità’ e ‘sviluppo sostenibilè non vanno bene agli Usa di Trump. Così, restano fuori, e noi non ce ne dispiacciamo. E l’Italia? Nonostante la crociata morale anni 80 di Alfredo Mantovano in plenaria (i giovani non hanno valori e non sanno vivere, difendiamoli da e contro loro stessi), in realtà il nostro paese rimane dentro la UE, che mantiene posizioni molto mediate ma aperte. Tutto bene, dunque? No, c’è da stare all’erta: le Ong saranno decisive nel controllo del processo di valutazione delle Convenzioni, perché non venga vanificato. E poi: la promozione a suon di milioni del progetto globale Champ, prevenzione mirata agli adolescenti, all’insegna del consumo zero. L’Italia ha promesso che sarà ‘in prima linea’. Diamoci da fare. Turchia. Polizia violenta e detenzioni di massa di Murat Cinar Il Manifesto, 26 maggio 2025 Nuova fase delle proteste. Manifestazioni per Imamoglu, 1.400 in cella. Arresti confermati anche per nove giornalisti. In Turchia le manifestazioni di protesta si diffondono in diversi angoli del paese in varie forme. Mentre gli studenti universitari dichiarano boicottaggio e scendono in piazza, il principale partito d’opposizione, Chp, decide di cessare gli appuntamenti serali in corso dal 19 marzo. Özgür Özel, il leader del Chp, dal palco si è rivolto a centinaia di migliaia di persone la sera del 24 marzo, davanti al Palazzo di Città a Saraçhane, a Istanbul. “Queste non sono semplici manifestazioni di protesta, ma una sfida aperta contro il fascismo. Non ci fermiamo perché ci sono ancora motivi per scendere in piazza. Resisteremo in diversi modi finché i problemi non saranno risolti. Ormai, in questo paese il voto non conta, quindi decide tutto una persona: siamo in un sistema fascista”. Lo stesso Özel ha annunciato l’ultimo appuntamento per ieri 25 marzo, dichiarando l’inizio di “un nuovo percorso rivoluzionario”. Tra le proposte avanzate da Özel c’era quella di prendere di mira, sotto forma di boicottaggio, una serie di aziende molto grandi vicine al governo o legate alla famiglia del presidente Erdogan. In realtà, poche ore prima della proposta del leader dell’opposizione, a Besiktas, Istanbul, decine di migliaia di studenti universitari si erano radunati per inaugurare l’inizio del boicottaggio accademico. Contemporaneamente, in diversi campus a Istanbul, Ankara, Izmir, Bursa ed Eskisehir, gli studenti hanno messo in atto diverse azioni di boicottaggio contro una serie di aziende. Purtroppo, anche la sera del 24 marzo le manifestazioni in diverse parti della Turchia si sono concluse con la violenza smisurata della polizia. Il giorno dopo il paese si è svegliato di nuovo con un clima di alta tensione. una nuova ondata di arresti ha colpito una serie di politici, sindacalisti e giornalisti. Ad oggi sono circa 1.400 le persone in detenzione provvisoria e per 97 di loro la magistratura ha confermato l’arresto. Tra questi ci sono sette giornalisti che erano stati fermati nei giorni scorsi perché documentavano le proteste. Inoltre sono stati emessi dei mandati di cattura contro Ebru Özdemir (vicesindaco del municipio di Sisli, a Istanbul), Azad Bar?s (sociologo) e Hunav Altun (dirigente presso il centro di ricerca Spectrum House), con l’accusa di “aver curato i rapporti tra i partiti di opposizione e le organizzazioni terroristiche” durante le elezioni del 2024. Un’altra azione giudiziaria è stata avviata anche nei confronti del municipio di Sisli, il cui sindaco era stato arrestato il 19 marzo. Al posto del sindaco eletto nel 2024 è stato nominato un commissario straordinario che, come prima azione, il giorno dopo l’inizio del suo incarico, ha deciso di chiudere i ristoranti popolari aperti dal comune, che offrivano la possibilità di pasti a prezzo economico. Secondo un report degli studenti della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Galatasaray, la polizia durante le manifestazioni e e gli arresti ha trattato in modo disumano più di 150 persone, ha sparato proiettili di plastica direttamente agli occhi, spruzzato spray al peperoncino sul viso e commesso episodi di violenza fisica collettiva contro i manifestanti. Per l’uso delle detenzioni di massa e le denunce di violenze anche l’Onu, attraverso la portavoce dell’ufficio per i diritti umani Liz Throssell, esorta “le autorità turche a indagare sul presunto uso illegale della forza contro i manifestanti”. Stati Uniti. Vietato dissentire: la repressione feroce di Trump contro gli studenti stranieri di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 26 maggio 2025 Arresti arbitrari, espulsioni e minacce economiche. “Sembra l’Egitto, la Cina, l’Iran, non gli Usa”. E così muore il Primo emendamento. Alla sede di Fire non sono mai stati così impegnati. “Gli studenti internazionali ci chiamano e ci scrivono perché sono preoccupati. Non hanno solo dubbi sull’opportunità di partecipare o no alle proteste, ma anche sulla necessità di ripulire i social, di cancellare post di critica”. È così che Sarah McLaughlin, ricercatrice dell’organizzazione, descrive a L’Espresso il clima teso che si respira nella nuova America di Donald Trump tra gli stranieri, anche quelli in possesso di documenti in regola. “Sentono che ormai è rischioso non solo urlare le proprie opinioni, ma anche scriverle sulle loro pagine. Si chiedono se sia il caso di autocensurarsi mentre si trovano qui negli Stati Uniti”. La missione della Foundation for Individual Rights and Expression è quella di difendere la libertà di espressione e fornire strumenti utili per preservarla. “A ogni studente ricordiamo i propri diritti, ma oggi tutti si preoccupano delle conseguenze del loro esercizio”. Anche Jameel Jaffer, nel suo ufficio alla Columbia University, da settimane ha a che fare con allievi e professori “terrorizzati perché ci sono agenti che fanno irruzione nel campus”. L’ente che dirige, il Knight First Amendment Institute, mai avrebbe immaginato di affrontare uno scenario come questo. “Ti aspetteresti qualcosa del genere in Egitto, in Cina o in Iran, non qui. È pazzesco anche solo doverne parlare”. Sul prestigioso ateneo dell’Upper West Side di New York - roccaforte della sinistra - è calata una cappa di spavento e tachicardie dallo scorso otto marzo, quando una pattuglia dell’Ice, la polizia responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, ha fermato sulla soglia di casa Mahmoud Khalil, palestinese nato in Siria ma con regolare permesso di soggiorno, fresco di specializzazione alla School of International and Public Affairs. Non un criminale ma uno dei leader delle proteste scoppiate l’anno scorso contro la guerra a Gaza, a capo dei negoziati tra i manifestanti e la dirigenza dell’università a cui i ragazzi chiedevano di “disinvestire” da Israele. Azioni pacifiche, coordinate nella tendopoli allestita sui prati. Khalil, lo avevamo incontrato anche noi in quelle lunghe giornate, aveva scelto di mostrarsi a volto scoperto parlando con tv e giornali. Un errore di ingenuità, gli rimprovera la moglie americana Noor, all’ottavo mese di gravidanza, che ha assistito all’arresto del compagno, detenuto in Louisiana. Senza che ancora sia stata formalizzata alcuna accusa, se non quella del tribunale social che lo segnala come “cittadino straniero sospetto”. Vittima di doxxing, temendo ritorsioni, Khalil aveva inutilmente chiesto protezione ai vertici della Columbia. Su X un utente aveva pubblicato la sua foto, taggando il Segretario di Stato Marco Rubio, autore di un tweet in cui minacciava di espellere i sostenitori di Hamas. L’arresto era arrivato due giorni dopo. Il ministro, infatti, ha facoltà di procedere in presenza di azioni non meglio specificate che potrebbero avere conseguenze potenzialmente gravi sulla politica estera. Tutto e nulla, insomma. Con simili vaghe accuse, è stata privata della libertà anche Leqaa Kordia, un’attivista palestinese che aveva preso parte alle manifestazioni (ma il cui visto era comunque scaduto, secondo quanto riferito dal dipartimento della Sicurezza Interna). Una dottoranda, Ranjani Srinivasan, indiana, ha scelto invece di lasciare volontariamente il Paese. Sui social della Casa Bianca, Donald Trump aveva avvertito che il blitz contro Khalil, definito “uno studente straniero radicale pro-Hamas”, sarebbe stato il primo di una lunga serie. Concetto rimarcato dal vice JD Vance in un’intervista a Fox, che ha spiegato come chiunque si trovi negli Usa con un visto studentesco potrà essere cacciato per proteggere un (vago) interesse del Paese. Un piano in linea con l’obiettivo di aumentare il numero di rimpatri. “Questa repressione spietata contro i manifestanti fa parte di un attacco molto più ampio non solo alla libertà di parola, ma anche alle istituzioni democratiche”, ci dice Jameel Jaffer. “E ciò include i media, le università, le organizzazioni della società civile come i gruppi per i diritti umani e le libertà civili”. In questo clima, a far tremare è la tracotanza di un presidente che, un esempio fra tantissimi, ha avuto il coraggio di tagliare i finanziamenti ad un baluardo del soft power Usa come la testata pubblica Voice of America, accusata di diffondere idee radicali. Ma che ha anche minacciato di congelare i sussidi federali alle università che non riescono a prevenire le “proteste illegali”, soprattutto quelle considerate antisemite. La Columbia, capostipite delle istituzioni progressiste d’élite così invise alla destra, si è vista decurtare 400 milioni di dollari. Fondi che potrà ripristinare se ottempererà alle richieste specifiche del governo per garantire “sicurezza”. Almeno 60 istituzioni, tra cui capisaldi della Ivy League come Harvard e Cornell, affrontano rischi simili. Stessa sorte per la Brown University, dove in questi giorni una dottoressa e insegnante di medicina di origine libanese è stata rimpatriata nonostante fosse in possesso di un visto valido e un ordine del tribunale che ne bloccasse l’espulsione. I motivi, ancora oscuri. Per prevenire altri casi analoghi, l’ateneo ha consigliato a tutta la comunità accademica internazionale di “rinviare viaggi personali fuori dagli Usa”. È la morte per asfissia del primo emendamento della Costituzione, un tempo considerato sacro, che garantisce la libertà di parola, di stampa, di culto e di protesta. Forse l’immagine più plastica della costruzione di questa nuova America è quella che ritrae gli operai del comune di Washington intenti a rimuovere l’enorme murale Black Lives Matter dipinto in giallo sul pavimento della Sedicesima strada, di fronte alla Casa Bianca. Se la sindaca Muriel Bowser non avesse dato l’ordine di cancellare il simbolo della stagione di proteste contro la violenza della polizia sugli afroamericani, il commander-in-chief l’avrebbe soffocata, privandola dei sussidi alla città. Tra gli analisti, c’è chi riesuma i fantasmi del maccartismo degli anni 50. “Ci sono tanti parallelismi: l’intolleranza al dissenso, la caccia alle streghe, la paura e la codardia delle istituzioni. Ma una grande differenza: il potere del senatore repubblicano Joseph McCarthy era limitato. Quello di Trump, oggi, non lo è”. Certo, non tutto è immobile. Ci sono state rimostranze anche contro la detenzione di Khalil. “Molte organizzazioni stanno contestando queste politiche. Intentiamo cause in tribunale e le sentenze emesse finora sono state incoraggianti”. L’unico modo per fermare questa amministrazione, conclude Jaffer, è scendere in massa in strada. “Finora non è successo a causa di questo clima di terrore: chiunque potrebbe protestare teme di essere ripreso dalle telecamere, diventando bersaglio della repressione. È un momento davvero terribile”.