Mattarella alza la voce: “Grave sovraffollamento delle carceri” di Cristiana Flaminio lidentita.it, 25 marzo 2025 Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alza la voce e torna a tuonare sul problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Il Capo dello Stato, che ha voluto celebrare il 208esimo anniversario dalla costituzione della Polizia penitenziaria, ha ribadito che le condizioni in cui i poliziotti sono costretti a lavorare e i detenuti a vivere rappresentano, oggi, un problema che non può più essere rimandato. “In occasione del 208° anniversario della costituzione del Corpo, sono lieto di esprimere gratitudine e apprezzamento alle donne e agli uomini della Polizia penitenziaria per il costante e generoso impegno al servizio dello Stato”, ha affermato aprendo il suo intervento il Presidente. Che ha aggiunto: “In questa giornata, rinnovo a nome della Repubblica sentite espressioni di riconoscenza e di sostegno al personale della Polizia penitenziaria e, al contempo, rivolgo un commosso pensiero a quanti hanno perso la vita o sono rimasti feriti nell’adempimento del loro dovere”. Quindi Mattarella è entrato nel vivo della questione carceri: “La Polizia penitenziaria è chiamata quotidianamente a fronteggiare difficili situazioni di tensione e sofferenza, sempre più frequenti a causa del grave fenomeno di sovraffollamento in atto”. In uno scenario così problematico, Mattarella intravede e loda “l’elevata professionalità e lo spirito di servizio degli appartenenti al Corpo” che “arrecano un determinante contributo all’attuazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena per il possibile reinserimento nella vita sociale dei detenuti, nonostante le assai critiche condizioni del sistema carcerario”. Il Sottosegretario Ostellari: “Per giovani detenuti servono Comunità socio-educative” agi.it, 25 marzo 2025 Sono arrivati oggi al carcere della Dozza di Bologna i primi nove detenuti ‘giovani adulti’, di età compresa tra i 21 e i 25 anni, trasferiti dagli istituti di Milano, Firenze, Treviso e dal penitenziario minorile di Bologna. Nei prossimi giorni è previsto l’arrivo di altri detenuti, per un totale di 26 unità. Lo ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, durante un punto stampa, dopo una visita alla nuova sezione che li ospiterà. “Il numero definitivo potrà essere anche inferiore ai 50, come era stato inizialmente ipotizzato”, ha aggiunto Ostellari, spiegando che si tratta di una soluzione temporanea. “Attendiamo la consegna di tre istituti minorili nuovi e riqualificati, quelli di Lecce, L’Aquila e Rovigo, che ci hanno assicurato verranno completati per la fine dell’estate. Poi nel nostro Paese è sempre difficile prevedere le consegne, ma confidiamo che questa avvenga nei tempi stabiliti. Quando i giovani adulti lasceranno la Dozza, la sezione tornerà agli adulti”. Il sottosegretario ha sottolineato che la soluzione all’aumento di giovani detenuti non è la costruzione di nuove carceri, ma il potenziamento delle comunità socio-educative, come già sperimentato in Lombardia. “Vorremmo investire su comunità socio-educative in grado di intercettare le devianze”, ha esplicitato. Per quanto riguarda la sezione appena aperta, si tratta di spazi risistemati e attrezzati: “Ho visto anche una sala da musica con una batteria, banchi di scuola e un campo di calcio dedicati a loro. Questa operazione, che aveva destato un po’ di allarme iniziale, è stata ricondotta nel suo alveo. Confido che il tavolo tecnico con le istituzioni parta presto. Ci consentirà di dare una risposta efficace”. Quanto al discusso tema dell’affettività in carcere, tornato d’attualità dopo la notizia di un bambino concepito durante un colloquio tra detenuti nella casa circondariale di Bologna, “nei prossimi giorni daremo una risposta per disciplinare l’esercizio di un diritto stabilito dalla Corte Costituzionale”. Secondo quanto riferisce, è già stato istituito un gruppo di lavoro circa un anno fa per studiare la questione e individuare una soluzione praticabile. In merito all’aumento del numero di giovani detenuti, legato a una crescita della violenza, “esiste un problema di violenza che sta determinando un aumento dei numeri dei nostri detenuti minori - ha rimarcato Ostellari - quando siamo arrivati nel 2022 c’erano 380 detenuti, oggi siamo arrivati a 611, con picchi di 630. Con questo numero crescente è difficile garantire percorsi di vera rieducazione ed educazione nei confronti dei giovani adulti”. Il sottosegretario ha evidenziato che il 51% dei detenuti è costituito da stranieri, perlopiù minori non accompagnati, e “su questo bisogna riflettere. Ognuno deve metterci la propria determinazione e impegno. Quando arriva la giustizia il danno è stato commesso, per questo bisogna intervenire prima”. Infine, Ostellari ha respinto l’idea che l’aumento dei detenuti minorenni sia collegato al decreto Caivano: “questa è una narrazione che sento dire spesso, ma non è così. L’aumento del numero dei detenuti è determinato dall’aumento della violenza, degli stupri, dei tentati omicidi, degli omicidi, dei maltrattamenti, delle aggressioni alle forze dell’ordine. Quindi prima di affermare che la responsabilità sarebbe del decreto Caivano, invito a guardare i numeri dei reati e la tipologia dei singoli reati. Siamo preoccupati dall’escalation di violenza”. Suicidi in carcere: tre vite spezzate in un solo giorno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2025 Salgono a 24 i casi dall’inizio dell’anno. Le vittime: un giovane egiziano a Trieste, un settantenne a Genova, un detenuto senza nome ad Avellino. Un weekend di sangue, l’ultimo atto di una strage senza fine. Ventiquattro suicidi in tre mesi, tre dei quali consumati in appena 24 ore. Nelle carceri italiane, da Nord a Sud iper affollate, si continua a respirare aria di morte, dove la disperazione si trasforma in un gesto estremo. Un bollettino di guerra che macchia la coscienza di un Paese immobilizzato tra indifferenza e propaganda politica. Tutto inizia domenica mattina, quando l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, presidente dell’Osservatorio carceri delle Camere Penali, annuncia con “enorme sofferenza” la morte di un giovane egiziano di 28 anni, senza fissa dimora, rinchiuso nel carcere di Trieste. A informarlo è l’avvocato Enrico Miscia, difensore del ragazzo. La sua colpa? Aver “rubato uno zainetto in un bar”. Per questo era in custodia cautelare, in un istituto con un tasso di sovraffollamento del 169%. Nei giorni precedenti, il giovane era stato aggredito e isolato. Giovedì aveva tentato di impiccarsi, trovando però ancora la forza di resistere. Portato in ospedale, domenica mattina ha chiuso gli occhi per sempre. “Una misera esistenza terrena”, la definisce Catanzariti, mentre denuncia l’ipocrisia di una politica che, invece di intervenire, alimenta - attraverso taluni magistrati - lo stigma delle “celle aperte” e della necessità di maggiore isolamento. Poche ore dopo, è la volta di Genova. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, rivela la morte di un detenuto italiano di 70 anni, trovato impiccato nella cella della Casa circondariale di Marassi. Condannato fino al 2033 per reati contro il patrimonio, l’uomo aveva da poco spento le candeline del compleanno. I soccorsi sono stati inutili. “A Marassi ci sono 670 detenuti per 534 posti, con 330 agenti contro i 551 necessari”, spiega De Fazio, sottolineando come il carcere ligure sia un simbolo del collasso nazionale: carenze strutturali, personale allo stremo, attrezzature insufficienti. “Sono ben altre le misure necessarie, non certo quelle della mozione approvata dalla maggioranza alla Camera”, attacca il sindacalista, riferendosi a un testo definito “minestra riscaldata”, incapace di affrontare l’emergenza. Con 16mila detenuti in eccesso e 18mila agenti mancanti, i nuovi padiglioni promessi dal ministro Nordio appaiono “una goccia in un oceano”. La notte di domenica, il terzo suicidio: un uomo muore nel carcere di Avellino. Aldo Di Giacomo, segretario generale dello Spp, traccia un bilancio agghiacciante: “Tre morti in un giorno, sei negli ultimi otto giorni, 24 dall’inizio dell’anno. Con questo trend supereremo il record del 2024, quando morirono 91 persone. Morire in carcere non può essere un evento ordinario”. I numeri urlano. Le carceri italiane ospitano 16mila detenuti oltre la capienza, mentre il personale penitenziario è ridotto al lumicino. A Trieste, Genova, Avellino, come in molti altri istituti, si vive ammassati in celle malsane, senza assistenza adeguata, spesso vittime di violenze o abbandonati a se stessi. Eppure, la risposta delle istituzioni sembra ferma al Medioevo: più repressione, più silenzio. Lo dimostra la mozione approvata alla Camera, definita da De Fazio “inutile” e “retorica”, mentre il ministro Nordio promette nuovi spazi, vecchio mantra che ha attraversato intere legislature. Intanto, ogni mese, 300 nuovi detenuti si aggiungono a un sistema già allo sfascio. Andando ad analizzare i dati, emerge che la maggior parte dei sucidi sono avvenuti nel circuito della media sicurezza, cioè in sezioni a custodia chiusa, tra cui celle di isolamento o ad alto rischio. In queste celle sovraffollate la maggioranza dei detenuti vive, per oltre 20 ore al giorno ed esce solo nelle cosiddette “ore d’aria”. Troppi detenuti vengono, di fatto, lasciati soli con la loro disperazione. Sovraffollamento che paradossalmente convive con l’isolamento psichico coatto. Sebbene non vi sia una correlazione diretta, è impossibile ignorare il legame tra suicidi e condizioni carcerarie. Lo ha confermato autorevolmente il Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno 2024: “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”. “Dalle nostre prigioni sale un puzzo di morte insopportabile”, denuncia l’avvocato Catanzariti. Un fetore che macchia la democrazia, le istituzioni, ogni cittadino che preferisce voltarsi dall’altra parte. Mentre il Paese si divide su polemiche strumentali, come il recente caso del manifesto di Ventotene, nelle celle si consumano tragedie annunciate. I detenuti non sono numeri: sono il giovane migrante recluso per uno zainetto, l’anziano condannato a marcire per reati minori, l’uomo senza nome di Avellino. Vittime di un sistema che trasforma la pena in tortura, in un Paese dove persino i magistrati “telegenici” giurano che “c’è ancora posto per i delinquenti”. “Occorre fermare la scia di morte”, implora De Fazio. Servono deflazione del sovraffollamento, più agenti, assistenza sanitaria reale, riforme strutturali. Ma soprattutto, serve rompere il muro di indifferenza. Perché ogni suicidio è un fallimento collettivo, un’ammissione di barbarie. Morire in carcere non è un destino inevitabile. È anche una scelta politica. E finché il Parlamento preferirà ascoltare i “mestatori di professione” anziché il rumore dei corpi che cadono, lo Stato resterà complice di questa mattanza. “Si continua a morire in carcere e il Governo fa soltanto propaganda” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2025 Michela Di Biase, deputata dem e membro della Commissione Giustizia, la maggioranza parlamentare ha disertato la seduta straordinaria della Camera sull’emergenza carcere. Come commenta? Quanto avvenuto fotografa l’assoluto disinteresse del governo a uscire fuori dalla solita propaganda e la volontà di affrontare il problema; l’assenza dello stesso Nordio basta da sola a commentare quanto sto dicendo. I dati ci confermano che siamo davanti ad una vera e propria emergenza: abbiamo registrato 91 suicidi nel 2024, e sono già 22 quest’anno. Ogni quattro giorni, un detenuto sottoposto alla custodia dello Stato, si toglie la vita. Davanti a tutto questo le scelte compiute sul carcere sono del tutto insufficienti, nessuno dei problemi in due anni e mezzo di propaganda è stato risolto: dal sovraffollamento carcerario alla salute mentale, dalla mancanza di personale socio- educativo al rafforzamento delle misure alternative alla detenzione. Come giudica l’atteggiamento di Forza Italia sul tema? Le scelte di Forza Italia sono in linea con il governo ma in controtendenza rispetto alla storia di garantismo tanto sbandierata in questi anni. Si pensi alle scelte compiute sulle detenute madri: una eclatante marcia indietro. La verità è che si sono preoccupati della tenuta della maggioranza invece che dell’interesse supremo del minore, che mai dovrebbe pagare per le colpe commesse da un adulto. Il carcere non è un luogo dove un minore dovrebbe crescere. A proposito delle detenute madri ci sarebbe una moral suasion del Quirinale affinché si modifichi l’art. 15 del ddl sicurezza insieme a quelli relativi alle sim per i migranti e la resistenza passiva in carcere. Secondo lei come andrà a finire? Ci auguriamo che maggioranza e governo si fermino, perché il ddl Sicurezza - soprattutto per gli aspetti sottolineati nella domanda - rappresenta una vera e propria violazione dello Stato di diritto. Si tratta di un provvedimento che mette in crisi alcuni baluardi della civiltà giuridica e del diritto internazionale, come la sospensione della pena per le detenute madri. Un disegno di legge che introduce nuovi reati e nuovi aumenti di pena che andranno a colpire i più vulnerabili della società: il populismo penale della destra ha come primo obiettivo quello di colpire i fragili. Nordio editorialista si era sempre mostrato a favore delle depenalizzazioni e di un carcere come extrema ratio, contro l’ergastolo. Il suo cambiamento secondo lei da cosa deriva? Quella del ministro Nordio è una piroetta clamorosa. Spiace constatare che nessuna delle affermazioni del Nordio giurista abbiano trovato corrispondenza nei provvedimenti sostenuti dal Nordio ministro. Siamo passati dal sentirlo dire che l’inasprimento delle pene non è la soluzione ai problemi della criminalità alla creazione di più di 50 tra nuovi reati e aumenti di pena. Questa ossessione panpenalista non fa che produrre un aumento del numero dei detenuti, senza mai discutere delle vere soluzioni per ridurre il sovraffollamento, in primis le misure alternative alla detenzione. Anche sulla giustizia minorile ritroviamo lo stesso approccio, le stesse contraddizioni. Con il decreto Caivano hanno minato alle basi il sistema della giustizia minorile, uno dei migliori di tutta Europa. E il risultato è che si è superato il record di minorenni in carcere, facendo diventare il sovraffollamento una realtà drammatica e strutturale anche per gli istituti minorili. Il sottosegretario Andrea Delmastro mette a rischio la campagna del governo sulla separazione delle carriere, rivendica una visione giustizialista della pena, scatena un nuovo conflitto con la magistratura quando parla di “sentenza politica” nel momento in cui viene condannato. È più una risorsa per il governo o un problema? Stiamo parlando di un sottosegretario, con delega alle carceri, che durante una manifestazione pubblica ha rivendicato di provare piacere nel togliere l’aria ai detenuti. Lo stesso che ha criticato la separazione delle carriere salvo poi negare di averlo detto. Un sottosegretario che continua ad alimentare il conflitto con la magistratura, come ha fatto in occasione della sentenza emessa nei suoi confronti. Se c’è un tratto che caratterizza Delmastro è il fatto di essere totalmente privo di rispetto per il ruolo che ricopre. Siamo sinceri: il Pd ha la responsabilità di non aver fatto approvare per timore elettorale tutto il grande lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penale. Adesso invece conduce una battaglia costante per i diritti dei detenuti. Non temete che anche adesso possa essere sconveniente portarla avanti? Il Pd non inizia certo oggi il lavoro sull’esecuzione penale e il carcere. Oggi come ieri trovo doveroso questo impegno, proprio in virtù del grande e complesso lavoro che è stato fatto. L’instabilità politica ha sicuramente pesato sul raggiungimento dell’obiettivo finale ma quel lavoro rappresenta un punto di partenza importante per rilanciare la nostra azione. Nel 2013, con la sentenza Torreggiani, il nostro Paese ha subito una procedura d’infrazione per la condizione delle carceri. Oggi, a distanza di 12 anni, siamo drammaticamente vicini a quella situazione. Questa è la preoccupazione che dovrebbe muovere il governo, che invece continua a perseguire un piano carceri che è stato pomposamente annunciato ma di cui a distanza di anni troviamo solo la nomina di un commissario per l’emergenza carceri e di una struttura commissariale. Nel frattempo disertano le Aule e i detenuti continuano a togliersi la vita. Anche la Polizia mette una cella in piazza. Ma solo per dire “guardate che esseri terribili ci stanno dentro” Errico Novi Il Dubbio, 25 marzo 2025 Un video della Penitenziaria mostra l’interno di una “stanza di pernottamento” per detenuti: la visita si sofferma sulle suppellettili che i reclusi potrebbero usare come armi improprie. Un modo per alzare ancora di più il muro fra il mondo di fuori e il carcere. Noi del Dubbio abbiamo messo una cella in piazza. Anzi: l’abbiamo messa a disposizione di chi ha visitato il nostro stand al Salone del libro di Torino e nel cuore di Roma, nel corso di un evento in piazza di Pietra. Obiettivo: far comprendere quanto disumana, alienante sia, per l’essere umano, l’esperienza dell’isolamento dal mondo, della privazione di libertà, affetti, senso del futuro. C’era in sottofondo il clangore dei catenacci che serravano i cancelli. Era un modo per dire: sappiate che c’è un’umanità, dietro quelle sbarre, scaraventata in una disperazione profonda. Non riducete il carcere al pozzo nero dell’esistenza in cui rinchiudere ciò che non si vuol vedere. Perché anche se non volete vederlo, esiste comunque. E noi ve lo mostriamo. Volevamo abbattere il muro che separa la vita della detenzione. Perché cittadini e reclusi potessero idealmente condividere una verità. In questi giorni la Polizia penitenziaria ha promosso un’iniziativa solo apparentemente analoga alla nostra. Ha messo su un simulacro di cella a piazza del Popolo, e l’ha resa visitabile. In un video, un sovrintendente del Corpo fa virtualmente da Cicerone. Al di là della luce che inonda l’ambiente dal soffitto trasparente, come una bella macchina sportiva, al di là di quest’improbabile suggestione, ci hanno colpito alcuni dettagli. Del tipo: guardate lo sgabello, prima non era così, non aveva lo schienale, adesso, come vedete, c’è, ma è un problema, perché dallo schienale lo sgabello può essere afferrato e scaraventato come un’arma. E uno. Poi: vedete i letti a castello? Sono fissati a terra. Perché? Eh, se no i detenuti possono spostarli, metterli davanti alla porta della cella e barricarsi dentro. Ecco perché li abbiamo inchiodati. Insomma: vi facciamo vedere una “stanza di pernottamento”, sì. Ma non perché sappiate quanto ci si sta male dentro, non per favorire un’empatia fra il mondo di dentro e il mondo di fuori. Ma perché sappiate che razza di mostri si annidano dentro un carcere. Così, tanto per fare in modo che quel muro sia ancora più invalicabile. Davvero non comprendiamo quale sia l’intenzione di coloro che hanno un potere sul carcere. Proprio non lo capiamo. Ma che quest’intenzione rischi di tradursi in indifferenza alla tragedia, lo lasciano intuire i tre suicidi delle ultime ventiquattr’ore. Via Arenula frena sul divieto di “attività politica” delle toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2025 Anche Magistratura indipendente contro l’ipotesi di una “stretta”: nel prossimo parlamentino Anm proporrà un’autodisciplina interna, ma di tipo “deontologico”. È un caso che rischia di ridursi a una bolla di sapone, quello della possibile re- introduzione dell’illecito disciplinare per le toghe che prendono pubblicamente posizioni politiche, o che partecipano a eventi politici in cui si discutono riforme della giustizia, assumendo atteggiamenti di forte contrapposizione all’Esecutivo. Negli ultimi giorni alcune testate hanno anticipato una risposta del guardasigilli Carlo Nordio a un’interrogazione parlamentare presentata nello scorso novembre dal presidente dei senatori di FI Maurizio Gasparri, in cui si legge che “resta tema centrale per questo governo l’eventuale reintroduzione nel nostro ordinamento, tra i doveri del magistrato (anche con una diversa modulazione pienamente aderente al principio di tipicità degli illeciti disciplinari), del divieto di “… tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Il pretesto per l’atto di sindacato ispettivo era stato offerto al capogruppo degli azzurri dal fatto che l’ex presidente Anm Giuseppe Santalucia avrebbe continuato a “esporsi su ogni argomento”, a organizzare “assemblee politico- partitiche, come quella di Bologna con magistrati e cittadini, determinando eventi difficili da inquadrare in una normale attività dell’associazione dei magistrati”. Ma nel mirino di Gasparri erano finite pure prese di posizione delle toghe progressiste come Silvia Albano e Marco Patarnello. Da ultima, la partecipazione dell’ex segretario di AreaDg, e già leader dell’Anm, Eugenio Albamonte a un dibattito organizzato da un circolo del Pd romano insieme alla responsabile Giustizia dem Debora Serracchiani proprio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Tuttavia, da via Arenula si fa notare come la reintroduzione dell’illecito disciplinare in questione resti, al momento, un’ipotesi di lavoro, non destinata a essere tradotta a breve in un disegno di legge. A conferma di ciò, sono arrivate le parole del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro a margine della presentazione del video per il 208esimo anniversario della fondazione del Corpo della Polizia penitenziaria: “Non è allo studio: siamo concentrati sulla riforma costituzionale”. È dunque remota la possibilità di rivedere una norma, già prevista dal governo Berlusconi IV e poi abrogata, che definisca un illecito disciplinare per i magistrati ritenuti troppo politicizzati. Nel governo non c’è interesse a produrre ulteriori tensioni con l’Anm, già sulle barricate per la separazione delle carriere, e a lasciare ai magistrati il pretesto di dire ai cittadini, durante la campagna referendaria contro la riforma, che l’Esecutivo vuole imbavagliare la libertà di espressione delle toghe. La partecipazione dei magistrati agli eventi politici è anche l’oggetto di un punto all’ordine del giorno nella prossima riunione del “parlamentino” Anm. È stato sollecitato dal gruppo di Magistratura indipendente, in particolare da Gerardo Giuliano, che spiega al Dubbio: “Siamo fermamente contrari all’introduzione di illeciti disciplinari, poi del punto all’odg discuteremo nel comitato direttivo centrale con gli altri gruppi, rappresentando il nostro punto di vista”. I vertici di Mi, Claudio Galoppi e Loredana Micciché, per adesso preferiscono il “no comment”. C’è allora da chiedersi quanto la volontà del governo, seppur lontana, di disciplinare le uscite pubbliche delle toghe possa depotenziare l’iniziativa della corrente moderata, che deve già fare i conti con la posizione contraria di AreaDg e Md. La spinta ad inserire formalmente un’autodisciplina interna potrebbe venir meno nel momento in cui occorre prendere una posizione unitaria contro la eventualità, pur lontana, del nuovo illecito disciplinare. Aprire crepe dentro l’Anm potrebbe consentire al governo di sostenere che anche una parte delle toghe in fondo è consapevole del problema, benché proponga contromisure “deontologiche” e non propriamente disciplinari. Va detto che nel panorama delle correnti, la linea del presidente Anm Cesare Parodi comincia a smussare in un modo o nell’altro i contrasti fra i gruppi, fra il suo e le componenti progressiste. Sebbene si tratti di tregua armata e non di pace vera. Nordio: “Sanzioni per comportamenti inopportuni dei magistrati”, insorge l’Anm di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2025 Si riaccende lo scontro politica-magistratura dopo la pubblicazione da parte di due quotidiani della risposta del Guardasigilli ad una interrogazione del senatore Gasparri. “Resta tema centrale per questo governo l’eventuale reintroduzione nel nostro ordinamento, tra i doveri del magistrato, del divieto di tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. È quanto scrive il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo a un’interrogazione parlamentare firmata dal capogruppo di FI al Senato, Maurizio Gasparri. La risposta del Guardasigilli è riportata oggi da Il Messaggero ed Il Fatto. L’ipotesi di una revisione delle sanzioni disciplinari per i magistrati torna così ad agitare il quadro politico e la magistratura stessa. Nel documento il ministro definisce “assai inopportune le partecipazioni dei magistrati a convegni in sedi di partito come pure l’astensione del 27 febbraio scorso, indetta dall’Associazione nazionale magistrati contro il disegno di legge costituzionale che riforma la magistratura”. Nel decreto legge giustizia, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 29 novembre, si era ventilata la possibilità di inserire un articolo, poi accantonato, che prevedeva l’avvio dell’azione disciplinare per i magistrati che non si astengono dai procedimenti “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. Una misura ribattezzata “legge-bavaglio” dall’opposizione e dall’Anm che protestarono contro il provvedimento, poi stralciato dal decreto ed accantonato. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi, commenta: “Apprendo con stupore e amarezza che il governo avrebbe intenzione di introdurre un illecito disciplinare delineato con una formula estremamente indeterminata: ‘[…] ogni […] comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza’. Ciò verrebbe a costituire un inquietante monito rispetto allo svolgimento delle attività quotidiane e della vita di relazione dei magistrati”. “Certamente, i magistrati devono essere imparziali rispetto alle parti in causa ma non si può chiedere loro di non partecipare al dibattito generale sulla giustizia e sui diritti, ovviamente con sobrietà”. Così il segretario di Area Democratica per la giustizia Giovanni Zaccaro. “Altrimenti - prosegue Zaccaro - si chiederebbe ai magistrati di non avere idee (cioè di essere stupidi) oppure di averle e non manifestarle (cioè di essere ipocriti)”. Mentre Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera, afferma: “Capiamo lo stupore e l’amarezza dell’Anm nell’apprendere proprio dal ministro che dovrebbe occuparsi dell’efficienza del sistema giudiziario della vaga ma tagliente intenzione di introdurre un illecito disciplinare contro i magistrati per comportamenti, a dire del ministro “ancorché legittimi, che compromettono la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Una frase contorta per dire che vogliono tappare la bocca alla magistratura: comprensibile l’amarezza espressa dall’Anm alla quale va la nostra solidarietà”. Di tutt’altro registro la reazione del presentatore della interrogazione. “Voglio ringraziare pubblicamente il ministro della Giustizia Nordio - sottolinea Gasparri in una nota - per le risposte a una serie di mie interrogazioni riguardanti la condotta di alcuni magistrati, tra i quali i noti Cascini, Santalucia, Albano ed altri”. “Si tratta - spiega - di interrogazioni del 30 maggio 2023, del 22 ottobre 2024 e dell’11 novembre 2024. Nelle risposte alle mie domande, che attengono al dovere dei magistrati di tenere comportamenti imparziali e di evitare atteggiamenti pubblici che possano apparire di parte e quindi tali da creare pregiudizio alla funzione della magistratura, il ministro Nordio, tra l’altro, afferma che ‘si coglie con favore l’occasione offerta dall’atto di sindacato ispettivo per rappresentare che è fermo intendimento del governo rimette mano alla vicenda degli illeciti disciplinari previsti dalla legge e ciò anche in attuazione dell’articolo 4 del disegno di legge di riforma costituzionale, già approvato in prima lettura alla Camera e attualmente in corso di esame in commissione al Senato’. In pratica il governo - dice Gasparri - attuando la riforma costituzionale, vuole intervenire sulla materia degli illeciti disciplinari e delle relative sanzioni che riguardano la magistratura”. “La risposta - dice Gasparri - cita una serie di sentenze e pronunciamenti che censurano “ogni comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato anche sotto il profilo della apparenza”“. Caso Paragon, i servizi hanno usato lo spyware su target legati all’immigrazione clandestina di Enrica Riera e stefano vergine Il Domani, 25 marzo 2025 Gli unici ad aver ammesso di possederlo sono le due agenzie di sicurezza del governo. Ma hanno escluso di averlo utilizzato per monitorare le vittime emerse finora. Ora, ha appreso Domani, c’è un’altra certezza: l’Aise lo ha usato per intercettare persone legate al mondo dell’immigrazione clandestina, anche in assenza di reati. Una nuova audizione davanti al Copasir e un nuovo dato, finora inedito, che potrebbe segnare una svolta sulla vicenda. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano verrà nuovamente sentito dal Comitato parlamentare che si occupa di sicurezza nazionale nel pomeriggio di martedì 25 marzo alle 14. In base a quanto apprende questo giornale, l’obiettivo è quello di approfondire il caso e provare a dare un nome a coloro che hanno utilizzato lo spyware israeliano a zero click nei confronti di attivisti e giornalisti italiani. Un fatto su cui, coordinati dalla Dna, stanno indagando anche le cinque procure d’Italia (Roma, Napoli, Bologna, Palermo e Venezia) presso cui sono state presentate le denunce delle vittime del software di proprietà appunto della Paragon solutions. Le indagini, poi, sono state delegate alla Polizia Postale, sede centrale. Immigrazione clandestina - Intanto, come detto, a emergere è un particolare importante. Durante le audizioni a palazzo San Macuto delle scorse settimane sia l’Aisi sia l’Aise, agenzie per la sicurezza interna ed esterna del Paese, hanno ammesso l’uso di Graphite ma non nei confronti dei soggetti coinvolti. E cioè di Luca Casarini, referente della ong Mediterranea Saving Humans, dell’armatore Beppe Caccia e del giornalista di Fanpage Francesco Cancellato. Ma ecco il nuovo particolare: l’intelligence, in base a quanto apprende Domani, avrebbe anche utilizzato il software nei confronti di persone che hanno avuto a che fare con fatti legati all’immigrazione clandestina. Persone che non necessariamente avrebbero compiuto reati in merito. Dunque nell’ambito di attività di monitoraggio di potenziali target che avrebbero potuto condurre a piste valide sulle quali indagare. I vertici dei servizi avrebbero inoltre compiuto le attività in questione, quelle di intercettazione tramite Graphite, nella piena legalità. Di conseguenza, si immagina, con le autorizzazioni degli organi preposti a farlo e cioè con il via libera del procuratore generale di Roma, che è la figura deputata a firmare i decreti di intercettazione preventiva che restano coperti da segreto. Inoltre, anche l’ultima relazione presentata dal Dipartimento per le informazioni della sicurezza (Dis) confermerebbe tale pratica, o meglio il focus dei servizi sul tema dell’immigrazione. Un particolare fondamentale, quest’ultimo, che porta a porsi diverse domande: chi sono le persone, legate all’immigrazione clandestina, intercettate anche in assenza di reati seppur con le dovute autorizzazioni? E c’è dell’altro. Se l’Aisi e l’Aise davanti al Copasir hanno ammesso l’utilizzo di Graphite ma non nei confronti dei giornalisti e degli attivisti citati, la presidenza del Consiglio dei ministri non sembra averlo mai escluso, l’utilizzo, nei confronti degli attivisti. In una nota del 5 febbraio scorso Palazzo Chigi del resto scrive: “In merito a quanto pubblicato da alcuni organi di stampa su presunte attività di spionaggio che avrebbero riguardato operatori dell’informazione, la Presidenza del Consiglio esclude che siano stati sottoposti a controllo da parte dell’intelligence e quindi del Governo i soggetti tutelati dalla legge 3 agosto 2017, numero 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), compresi i giornalisti”. E gli attivisti? In più sulla legge 124 è importante il dibattito giurisprudenziale in corso: posto che per le cosiddette garanzie funzionali c’è esclusivo bisogno dell’autorizzazione del presidente del Consiglio o delle sue autorità delegate, le intercettazioni possono rientrare nella categoria e quindi prescindere dall’autorizzazione della procura generale? A ogni modo se questa novità - quella sull’utilizzo di Graphite per intercettare figure legate al mondo dell’immigrazione clandestina - non risolve il mistero Paragon, di certo aggiunge un nuovo tassello, certificando che i nostri servizi, gli unici a possederlo, lo hanno usato su persone che si muovono nel mondo dell’immigrazione, ambiente frequentato anche dagli attivisti spiati non si sa da chi. Se tutti negano di aver usato il software della società israeliana - Carabinieri, Polizia, Penitenzia e Guardia di Finanza hanno dichiarato di non aver in uso Graphite - allora chi è stato a interessarsi dei nostri attivisti e giornalisti? L’audizione di oggi e le indagini delle inquirenti sono mirate a rispondere all’interrogativo. Il report alla Corte penale - Proprio alle procure nel frattempo è stato consegnato il report di Citizen Lab, pubblicato dai ricercatori dell’Università di Toronto nella scorsa settimana, per illuminare le zone grigie della vicenda. Il report, redatto in collaborazione con Meta da cui è partito l’allarme nei confronti di alcuni degli spiati, verrà consegnato, oltre che al Parlamento europeo, anche alla Corte penale internazionale. “Dietro questo caso ci sono evidentemente la situazione libica e i rapporti tra servizi segreti. Grandi gruppi privati che si occupano di petrolio e armi e milizie che gestiscono il potere in quel Paese potrebbero avere avuto un ruolo. Ribadiamo la nostra denuncia pubblica delle attività di spionaggio contro gli attivisti dei diritti umani”, dicono da Mediterranea Saving Humans. La ong non avrebbe pertanto dubbi: il filo conduttore che collegherebbe le “vittime” di Graphite sarebbe non a caso il tema delle rotte migratorie. Tuttavia ciò non spiegherebbe perché a essere stato spiato sia stato anche Francesco Cancellato, autore per la sua testata di un’inchiesta sui giovani di Fratelli d’Italia e sul mondo delle destre. Su di lui più probabile una pista interna. Ma nulla di certo, molti i segreti e interrogativi. Ancora lontana la verità. Emilia Romagna. Carceri, oltre 4,5 milioni di euro per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti regione.emilia-romagna.it, 25 marzo 2025 Formazione e lavoro per l’inclusione. La Regione Emilia-Romagna, con il via libera della Giunta arrivato nell’ultima seduta, stanzia oltre 4,5 milioni di euro di risorse europee Fse+ e Fesr per “Una giustizia più inclusiva”, progetto dedicato all’inclusione socio-lavorativa dei detenuti, nell’ambito del Piano nazionale inclusione e lotta alla povertà 2021-2027 del ministero della Giustizia. Iniziativa che coinvolge una rete di partner pubblici e privati di cui la Regione è capofila. “La giustizia non può ridursi ad un mero strumento di punizione ma deve avere il coraggio di credere nel cambiamento delle persone - commenta l’assessora regionale al Welfare, Isabella Conti. Un carcere che non prepara al ritorno in società è un carcere che fallisce due volte: con chi ha sbagliato e con la comunità che dovrebbe proteggere. Per questo investire sulla formazione e sul lavoro non è un gesto di clemenza, ma di responsabilità collettiva, di civiltà. Consegnare a chi ha scontato la propria pena una possibilità reale significa costruire una società più sicura, più giusta, più capace di vedere oltre l’errore.” “Nessuno si salva da solo, e questo vale anche per chi esce dal carcere- aggiunge l’assessora-. Il confine tra una nuova vita e la ricaduta nell’errore è sottile e si gioca sulle opportunità che le istituzioni sanno offrire. Un tetto, un lavoro, una rete di relazioni: senza queste basi, chiedere a qualcuno di ricominciare è solo un’illusione. La Regione Emilia-Romagna sceglie di esserci, di investire sul reinserimento, di farsi carico di un futuro che non può essere lasciato al caso. Perché la vera giustizia non si misura nel tempo scontato, ma nella capacità di restituire alla società persone nuove, capaci di stare al mondo con dignità”. Il progetto, in dettaglio - Due le azioni previste dal progetto “Una giustizia più inclusiva”, e per entrambe la Regione Emilia-Romagna è capofila: una che assegna 2.278.750 euro di fondi Fse+ per l’inclusione attiva dei detenuti con il supporto e il potenziamento delle attività nei singoli istituti, formazione, studi di mercato; l’altra che destina 2.290.018 di risorse Fse+ e Fesr per le persone in uscita e in esecuzione penale esterna, per l’accompagnamento al percorso di inserimento alloggiativo, sensibilizzazione della cittadinanza attraverso la promozione di attività di giustizia di comunità. La prima azione intende rafforzare lo sviluppo delle competenze e favorire l’avvio al lavoro dei detenuti, con l’obiettivo di promuoverne l’integrazione e il reinserimento sociale, ma anche di ridurre il fenomeno della recidiva. Ulteriore finalità, quella di implementare e definire nuove strategie di partenariato con le imprese per facilitare e potenziare attività produttive interne agli istituti. In Emilia-Romagna esistono 10 istituti penitenziari per adulti, alcuni dei quali già vantano una presenza pluriennale di laboratori produttivi in collegamento con aziende del territorio. 3.803 i potenziali destinatari del progetto, ovvero i detenuti presenti al 28 febbraio 2025. Sette le linee di intervento: supporto all’avvio e/o al potenziamento di attività produttive interne ai singoli istituti interessati, individuati di concerto con le direzioni degli istituti penitenziari e con il Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria); trasferimento di buone prassi e individuazione di possibili modelli di impresa; coinvolgimento di esperti per rafforzare le attività produttive interne; attività di formazione; promozione territoriale grazie a nuove strategie di partenariato con le imprese; studi di mercato; azioni di comunicazione e studio dei risultati. La seconda azione è rivolta agli adulti in uscita dai luoghi di detenzione, in esecuzione penale esterna o sottoposti a sanzioni di comunità, in carico agli Uffici di Esecuzione penale esterna. In Emilia-Romagna, al 15 febbraio 2025, sono complessivamente 6.224 seguite e, dunque, potenziali destinatarie del progetto. L’obiettivo è sviluppare un modello integrato di intervento sul territorio grazie al quale i destinatari stessi vengano orientati e accompagnati in un percorso (ri)educativo, fornendo loro opportunità lavorative, formative e abitative e sostenendoli nella fase di reinserimento, accesso ai servizi di assistenza e orientamento. Anche in questo caso sono sette le linee di intervento: misure di sostegno alla residenzialità temporanea; attività di aiuto e accompagnamento al percorso di inserimento alloggiativo, rientrante nei servizi di comunità; organizzazione e gestione di attività di giustizia di comunità (ad esempio laboratori e incontri per favorire l’empowerment dei soggetti destinatari); animazione sociale e culturale rivolta anche ai familiari. E ancora, promozione e sensibilizzazione territoriale per l’accoglienza delle persone in lavori di pubblica utilità; promozione e sensibilizzazione delle aziende nel territorio, così da facilitare lo scouting di nuove realtà produttive; eventuale trasferimento dei fondi Fesr per l’acquisto di beni strumentali per centri di giustizia di comunità. Regione Emilia-Romagna capofila - La Regione fungerà da partner capofila di una rete di partenariato composta da una pluralità di soggetti pubblici e privati che dovrà collaborare nella progettazione e nella realizzazione delle attività. La partnership potrà prevedere l’adesione di Art-Er, società consortile della Regione, quale ente preposto principalmente all’assistenza tecnico-gestionale; Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria), Uiepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) e Istituti penitenziari; partner privati che abbiano maturato comprovata esperienza nel settore e in possesso delle caratteristiche indicate dall’Avviso ministeriale. Teramo. Carcere di Castrogno, trovato senza vita un detenuto di 43anni di Giancarlo Falconi iduepunti.it, 25 marzo 2025 Un’altra morte segna le cronache del carcere di Castrogno dopo che è stato ritrovato senza vita il corpo di Domenico Di Rocco, 43anni. “Ennesima morte per mano dello Stato, il peggior carcere d’Italia è Castrogno e oggi ha fatto l’ennesima vittima: Domenico Di Rocco aveva 43 anni”, ha dichiarato Adele Di Rocco del Coordinamento Codice Rosso. “Auspico che la procura apri un’inchiesta per far luce sull’accaduto”. Nel frattempo i genitori della vittima si stanno recando presso la struttura. Evidenti erano le sue patologie pregresse. Era compatibile con il regime carcerario? Sicuramente sarà effettuata l’autopsia per risalire alla causa del decesso. Avellino. Detenuto trovato senza vita in cella, aperto un fascicolo per omicidio colposo di Carmine Quaglia ottopagine.it, 25 marzo 2025 Un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo e il conferimento dell’incarico al medico legale Alessandro Santurro, che oggi alle quindici procederà all’ esame disposto dalla Procura di Avellino. Sono questi i primi atti dell’inchiesta del pm Luigi Iglio sul decesso di un quarantottenne montorese, A.G, rinvenuto privo di vita nella sua cella dal personale della Polizia Penitenziaria venerdì pomeriggio. Questa mattina il sostituto procuratore Luigi Iglio ha conferito al medico legale Alessandro Santurro l’incarico di accertare una serie di circostanze legate al decesso. In primis la causa della morte, se è cioè da ricondurre ad un fatto naturale, un malore fatale o invece ci sono altre cause. Determinanti saranno anche gli esami tossicologici. Il reato per cui si procede è quello di omicidio colposo. Il quarantottenne montorese aveva anche un passato di dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Questo sarebbe uno dei motivi per cui è stato disposto l’accertamento medico legale sulla salma. Una nuova tragedia, visto che solo pochi mesi fa, all’inizio di febbraio, si era registrato un altro decesso all’interno dell’istituto penitenziario, quello del detenuto napoletano Ciro Pettirosso. Anche in quel caso c’era stato un esame medico legale per chiarire le cause del decesso. Salerno. Detenuto morto in cella, la famiglia chiede giustizia: “Mai curato” di Viviana De Vita Il Mattino, 25 marzo 2025 L’avvocato De Concilio: aveva avuto due ischemie e non era monitorato, avevano chiesto al giudice della sorveglianza di Salerno la scarcerazione. Aveva già avuto due episodi di ictus e la certificazione sanitaria mostrava un quadro clinico preoccupante. Eppure, nonostante un’istanza inoltrata il 13 febbraio dal suo legale, l’avvocato Bianca De Concilio, all’ufficio di sorveglianza in cui si denunciava un trattamento inadeguato da parte dell’istituto penitenziario e si chiedeva di verificare la compatibilità di Renato Castagno con il regime carcerario, la risposta del magistrato è arrivata solo il 21 marzo, due giorni dopo la morte del 37enne di Mariconda: “Non luogo a provvedere per intervenuto decesso del detenuto”. Un ritardo che ha sollevato forti polemiche. Ieri, l’avvocato De Concilio, insieme al fratello del detenuto, Lorenzo Castagno, e a Donato Salzano, segretario dell’associazione radicale Maurizio Provenza, ha incontrato la stampa per denunciare le numerose ombre su questa vicenda, che rappresenta solo l’ultimo dei decessi avvenuti dietro le sbarre del carcere di Fuorni su cui ora indaga la Procura che ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando il reato di omicidio colposo. Per l’avvocato De Concilio si tratta di una “grave negligenza”, frutto di un atteggiamento burocratico e superficiale da parte della direzione sanitaria del carcere e dell’ufficio di sorveglianza, “che tratta un fascicolo come un numero e non come una persona, senza valutare la gravità delle situazioni che si trova a dover esaminare”. “Nell’istanza che ho presentato il 13 febbraio - spiega De Concilio - era stato ampiamente illustrato il delicato quadro clinico del detenuto ed era stata allegata tutta la documentazione che certificava il suo stato di salute evidenziando la necessità di sottoporlo ad un’attenta terapia farmacologica e a periodici controlli clinici. Soprattutto, si denunciava l’inadempienza dell’istituto nel garantire cure adeguate. L’ufficio di sorveglianza avrebbe dovuto accertarsi che Renato fosse seguito correttamente”. Ma c’è un aspetto ancora più sconcertante. “Nel provvedimento di non luogo a provvedere per morte del detenuto ho scoperto che il dirigente sanitario aveva risposto al magistrato di sorveglianza sostenendo che il mio assistito era monitorato, ma che la direzione sanitaria non poteva fare di più “perché ad oggi il detenuto non ha fornito la documentazione necessaria”“. Un’affermazione che appare paradossale: la direzione sanitaria lamentava l’assenza di certificazioni mediche, le stesse che l’avvocato aveva già prodotto al tribunale di sorveglianza. La storia di Renato inizia a marzo 2022 quando il giovane di Mariconda finisce dietro le sbarre per l’accusa di associazione per spaccio, reato per il quale l’unica misura prevista è la custodia cautelare in carcere. È però il Gip Domenico D’Agostino, pochi giorni dopo, a disporre per il ragazzo i domiciliari per incompatibilità della misura carceraria con le condizioni di salute del detenuto. Renato a casa continua a curarsi. A settembre 2022 la sentenza di primo grado confermata poi l’anno dopo in Appello e divenuta definitiva lo scorso ottobre in Cassazione: 6 anni e due mesi di reclusione. Il giovane torna in carcere. Ricomincia così la battaglia del suo legale. “Renato sta male, mi riferisce costantemente di non essere curato, ha continui mal di testa dovuti alla pressione alta che non riesce a stabilizzarsi e, a suo dire, le uniche cure somministrategli a Fuorni consisterebbero in banali antidolorifici che non possono certo migliorare il quadro pressorio”. Da qui l’istanza al magistrato di sorveglianza che ha risposto solo quando Renato era ormai morto”. “Mio fratello - afferma Lorenzo Castagno - aveva paura di morire: in carcere si sentiva solo, non si sentiva curato: noi chiediamo solo che venga fatta giustizia”. Modena. Morto in carcere asfissiato con il gas, disposte nuove indagini: cosa non torna di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 25 marzo 2025 Fabio Romagnoli è stato trovato senza vita a febbraio 2023 dal compagno di cella e da un agente della Penitenziaria. Il gip ha respinto l’archiviazione. Verranno fatte nuove indagini per chiarire le circostanze della morte di Fabio Romagnoli, deceduto a 40 anni il 20 febbraio 2023 in carcere a Modena. Le ha disposte il Gip del tribunale di Modena, respingendo quindi la richiesta di archiviazione. Il detenuto fu trovato accasciato a terra, con accanto un fornellino a gas, dal compagno di cella e da un agente della Penitenziaria. Secondo la Procura morì per cause accidentali, mentre per la famiglia, che si era opposta alla richiesta di archiviazione ed è assistita dagli avvocati Luca Sebastiani e Stefania Pettinacci, si suicidò in carcere e non fu fatto nulla per prevenire la tragedia, nonostante i pregressi tentativi di suicidio. Quali accertamenti verranno fatti - Il giudice ha ordinato di svolgere ulteriori accertamenti sul tema della disponibilità del fornelletto a un detenuto che aveva già provato a togliersi la vita - verificando anche eventuali linee guida sulla concessione di questo strumento ai detenuti - e di sentire i genitori e il compagno di cella sullo stato psicologico di Romagnoli nei giorni precedenti. Gli avvocati degli familiari: “Soddisfatti” - “Siamo soddisfatti del lavoro fin qui svolto ma soprattutto della decisione del Gip modenese, che potrebbe segnare un punto di svolta nella prevenzione del rischio suicidario all’interno degli Istituti penitenziari. Romagnoli era un soggetto fragile, che aveva già tentato il suicidio durante la carcerazione e che, stando a quanto riferito da lui stesso ai suoi familiari nelle ultime settimane di vita, si trovava in grave sofferenza psichica”, dicono gli avvocati Sebastiani e Pettinacci. “Siamo consapevoli che il sovraffollamento delle strutture penitenziarie, in particolare quello di Modena, accompagnato da un inadeguato numero di sanitari, educatori e agenti penitenziari, rende particolarmente difficile prevenire gesti autolesivi: ciò però non può ricadere sui diritti dei soggetti detenuti e, in casi come questo, dei loro cari”, aggiungono. Milano. Incendio al carcere Beccaria: detenuti minorenni appiccano fuoco ai materassi di Matteo Castagnoli e Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 25 marzo 2025 La protesta intorno alle 16, dopo che un ragazzo ha saputo del suo prossimo trasferimento. Due minori intossicati, due agenti della polizia penitenziaria lievemente feriti dal lancio di oggetti. Il piano scatta quando due giovani detenuti del carcere minorile Beccaria scoprono che a breve saranno trasferiti. Destinazione: penitenziario di Catania. Ai ragazzi si uniscono alcuni reclusi nello stesso reparto. Così inizia il tentativo di rivolta. Una protesta, l’ennesima, che però ieri pomeriggio finisce nel giro di un’ora. I ragazzi danno fuoco a materassi e lenzuola nelle loro celle. A quello che trovano intorno a loro. In via Calchi Taeggi, estrema periferia Ovest della città, intervengono i carabinieri e sette squadre dei vigili del fuoco che spengono il piccolo incendio. Alla fine della rivolta fallita restano solo le grida dei detenuti e i colpi di bastone sulle inferriate verdi del carcere. “Andate via”, urlano. Al Beccaria le sirene iniziano a risuonare qualche minuto prima delle 16. Il fumo, partito da alcune celle al secondo piano, si propaga velocemente tra i corridoi. In via Calchi Taeggi si precipitano anche le ambulanze del 118. Il bilancio è di 9 detenuti (solo uno trasportato all’ospedale San Carlo in codice giallo), tre agenti della polizia penitenziaria (due in verde e uno in giallo all’Humanitas e al Policlinico) e il medico del carcere soccorsi per inalazioni dei fumi. Ma nelle fasi iniziali della rivolta, i ragazzi che si uniscono ai due che avevano dato il via ai disordini, lanciano oggetti, forse delle piastrelle, contro i poliziotti. Due di loro vengono portati in pronto soccorso per lievi ferite. Arriva anche don Gino Rigoldi, ex cappellano del Beccaria. Dalle finestre del terzo piano del carcere, però, qualche ragazzo vede le telecamere in strada. Afferra un bastone e inizia a picchiare sulle inferiate delle celle gridando: “Via, via. Il sistema carcerario non funziona”. Nessuno evade. In poco più di un’ora la situazione torna sotto controllo. Appena dieci giorni prima c’era stato un altro tentativo di rivolta con le stesse modalità. Era la notte del 13 marzo e quattro detenuti minorenni e un agente della penitenziaria, erano rimasti lievemente intossicati in un altro incendio. Quella sera erano stati una quindicina i reclusi coinvolti nei disordini, e anche in quell’occasione nessuno era riuscito a evadere. Tensioni che ormai si trascinano da anni. Il 31 agosto dell’anno scorso, i detenuti avevano incendiato i materassi di una cella e due di loro erano riusciti a scavalcare il primo muro di cinta. I feriti erano stati otto. Dieci giorni prima, invece, il 20 agosto, dopo un altro tentativo di rivolta erano stati portati in ospedale 5 agenti e 3 detenuti. Il caso più clamoroso il giorno di Natale di tre anni fa con l’evasione di sette giovani detenuti, poi catturati nel giro di pochi giorni. Ieri, dopo l’ulteriore protesta, il segretario generale del Sappe (il sindacato autonomo polizia penitenziaria), Donato Capece, ha definito le azioni “irresponsabili e gravissime. Avevamo detto che era un errore l’innalzamento dell’età dei presenti nelle carceri minorili: oggi possono starvi anche donne e uomini di 25 anni”. Il caso Beccaria agita anche la politica. Il sindaco Beppe Sala ha espresso la sua “solidarietà agli agenti del Beccaria”, spiegando che “stiamo parlando di un istituto penale che oramai da tantissimi anni non è adatto a svolgere il ruolo a cui è stato delegato. Spero che il ministero finalmente intervenga e avvii un progetto di profondo rinnovamento della struttura”. “Non è tollerabile che i detenuti riescano ad appiccare incendi con una simile facilità”, ha aggiunto l’assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa. Che ha concluso: “Probabilmente va rivisto l’intero sistema educativo all’interno del carcere”. Milano. Perché il carcere minorile Beccaria è continuamente in rivolta di Marianna Vazzana Il Giorno, 25 marzo 2025 Dall’inchiesta sui maltrattamenti all’ultimo rogo con cinque feriti. Caos a un mese dagli ultimi incidenti e a un anno dall’inchiesta sui presunti maltrattamenti. Incendio di materassi e lancio di oggetti al secondo piano del carcere Beccaria: ennesima rivolta all’istituto penale minorile di Milano poco prima delle 16 di ieri. Il risultato è di quattro persone - un detenuto e tre poliziotti penitenziari - trasportati in ospedale per aver respirato fumo e di due agenti finiti al pronto soccorso perché colpiti dagli oggetti scagliati. Le fiamme e il caos nelle celle hanno reso necessario l’intervento dei vigili del fuoco, arrivati in via Calchi Taeggi con 7 mezzi, e dei carabinieri del Nucleo radiomobile. Sul posto anche la polizia di Stato e i ghisa. “Una situazione grave - la denuncia di Alfonso Greco, segretario per la Lombardia del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe -. Segnali allarmanti di una crescente tensione, con i detenuti che dopo aver dato fuoco hanno tentato di evadere”. Feriti e intervento medico - Per le fiamme sono stati subito soccorsi 9 detenuti, così come un agente di polizia penitenziaria e il medico dell’istituto. Un detenuto è stato accompagnato in codice giallo al San Carlo per inalazioni; tre agenti sono stati trasportati all’Humanitas e al Policlinico, uno in codice giallo e due in verde. Altri due poliziotti sono finiti al pronto soccorso per ferite lievi. Le richieste dei sindacati - Per il Segretario generale del Sappe Donato Capece la condotta dei detenuti che hanno fomentato i disordini “è irresponsabile e gravissima. Avevamo detto che era un errore l’innalzamento dell’età dei presenti nelle carceri minorili: oggi, infatti, possono starvi anche donne e uomini di 25 anni”. Il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, Spp, Aldo Di Giacomo, evidenzia che “serve una differenziazione dei reclusi per età e serve un programma personalizzato per ogni singolo detenuto”. Le dichiarazioni di Sala e Ostellari - Il sindaco di Milano Giuseppe Sala esprime “solidarietà, innanzitutto, agli agenti del Beccaria” rimasti feriti e intossicati. “Stiamo però parlando di un istituto penale che oramai da tantissimi anni non è adatto a svolgere il ruolo a cui è stato delegato. Spero che il ministero finalmente intervenga e avvii un progetto di profondo rinnovamento”. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, dichiarava lo scorso 17 febbraio che “oggi la situazione” all’Istituto minorile Beccaria “è sicuramente migliore rispetto a quando l’abbiamo trovato nel 2022. Abbiamo rinnovato la squadra e risistemato l’edificio”. Le carenze di personale - Al Beccaria, dall’anno scorso, sono arrivati 44 nuovi agenti “ma ne servirebbero 70 - ha sottolineato più volte il Sindacato di polizia penitenziaria - così come altri psicologi ed educatori”. Firenze. Detenuti del minorile trasferiti a Bologna, protesta e polemiche di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 25 marzo 2025 Tre detenuti del carcere minorile Meucci di Firenze sono stati spostati al carcere per adulti Dozza di Bologna. Hanno tutti e tre tra i 21 e i 25 anni, ma hanno compiuto il reato quando erano ancora minorenni, motivo per cui “il loro trattenimento in un penitenziario per adulti è a nostro avviso illegittimo”, precisano dall’associazione Altro Diritto. “Il trasferimento dei tre detenuti dal Meucci di Firenze a Bologna, e di tutti gli altri dalle altre città, è alquanto sorprendente - entra nel merito Emilio Santoro di Altro Diritto - il Governo avrebbe dovuto fare un decreto ministeriale per trasformare quel pezzo del Dozza in un istituto penale minorile, ma questo decreto non è ancora uscito. E quindi è un trasferimento incostituzionale. È vero che questi reclusi sono comunque maggiorenni, ma la legge ci impone una distinzione tra chi ha commesso il reato da minore e chi no, perché la differenza delle pene previste si basa sul momento in cui viene compiuto il reato”. In ogni caso, fa sapere Santoro, sono arrivati domenica al carcere bolognese una trentina di agenti dedicati ai minori e una decina tra educatori e psicologi. Una misura che sta facendo molto discutere, quella dello spostamento di gruppi di giovanissimi detenuti al penitenziario Dozza, dove attualmente ci sono nove ragazzi arrivati, oltre che da Firenze, dagli istituti penali minorili di Milano e Treviso. Per far posto ai reclusi under 25, al carcere Dozza sono stati sgomberati settanta detenuti adulti dell’alta sicurezza e trasferiti a Fossombrone per lasciare spazio ai ristretti della sezione penale, che a sua volta è stata poi riconvertita per ospitare i ragazzi dei minorili. La misura, voluta dal Governo per sfoltire i penitenziari minorili sovraffollati all’indomani del decreto Caivano, è stata criticata dal Comune di Bologna e dalla Regione Emilia-Romagna, nonché dalla Camera penale, dal Garante dei diritti delle persone private della libertà, i sindacati e diverse associazioni. Si parla di “situazione drammatica” con la Dozza che oggi conta un indice di sovraffollamento tra i più alti in Italia con 782 presenze a fronte di 507 posti disponibili. Rovigo. Carcere minorile: fine lavori in estate, l’apertura nel 2026 di Tommaso Moretto Corriere del Veneto, 25 marzo 2025 L’inaugurazione del carcere minorile per il Triveneto in via Verdi in città avverrà non entro il mese corrente (come annunciato) bensì quest’estate ma la data ancora non è stata precisata. Una volta a regime, l’istituto correzionale accoglierà 27 utenti. La loro età, minori (14-18) e giovani adulti (19-25) dipenderà dalle scelte della magistratura di sorveglianza. Già individuati quattro funzionari pedagogici e un funzionario contabile addetti alla struttura ed è stata indetta la procedura di selezione per un comandante e un direttore. Quanto agli agenti di custodia, già chiesta la mobilità per 55 lavoratori. Stando al progetto, quello di Rovigo sarà il primo carcere minorile di nuova concezione, con ampi spazi per attività formative e professionalizzanti. L’iter per il nuovo istituto è partito a fine 2020 quando il ministero per le Infrastrutture, con decreto, ha aggiudicato l’appalto per la realizzazione del carcere minorile per il Triveneto con sede in via Verdi a Rovigo all’associazione temporanea d’imprese (Ati) “Nidaco costruzioni Srl” e “Ici impresa costruzioni industriali Spa”. L’ati, con sede nel comune molisano di Venafro (Isernia), si è aggiudicata l’appalto offrendo un ribasso del 21 per cento per un importo finale di 8 milioni e 615 mila euro. Il bando di gara per trasformare in istituto penale per i minori i circa due ettari occupati dall’ex carcere rodigino era da 11,2 milioni di euro. I lavori sono iniziati a gennaio 2022. A novembre 2023 è arrivato un finanziamento da 3,5 milioni dal ministero delle Infrastrutture e Trasporti per coprire gli aumenti dei costi dei materiali. Ieri, sul tema, un incontro promosso dalla Diocesi di Adria-Rovigo al Cinema-teatro “Duomo”. È stato spiegato che il Minorile ora a Treviso chiuderà nel 2026 per la prossima apertura di quello di Rovigo. C’era anche il vescovo, Pierantonio Pavanello. “Come comunità cristiana abbiamo un compito profetico: il Vangelo ci parla di un Dio che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva - ha detto - Per questo siamo chiamati ad operare per offrire a chi ha sbagliato gli strumenti per riscattarsi sia da un punto di vista morale che sociale”. Anche la sindaca, Valeria Cittadin, ha rilasciato dichiarazioni sulla stessa linea. “Il Comune è in stretto contatto con il sottosegretario al ministero degli Interni Ostellari. Il carcere può rappresentare un’opportunità per la città, sicuramente i 27 ragazzi hanno l’obiettivo di reintegrarsi in società. Non dobbiamo essere spaventati, i ragazzi saranno iper controllati”. È notizia di ieri che sono arrivati i primi nove “giovani adulti” (fra i 21 e i 25 anni) nel carcere della Dozza a Bologna e che ne arriveranno altri. Sul punto, il sottosegretario Andrea Ostellari ha spiegato, citando Rovigo: “È una situazione temporanea perché attendiamo la consegna di tre istituti minorili nuovi, riqualificati, quelli di Lecce, L’aquila e Rovigo, che ci hanno assicurato verranno completati per la fine dell’estate”. Ancona. Nuova vita per i detenuti, lavoreranno nei cantieri della ricostruzione di Lucia Gentili Il Resto del Carlino, 25 marzo 2025 Il garante Giulianelli insieme con tre aziende ha organizzato un corso da imbianchino nel carcere Barcaglione di Ancora. La Twenty21 srl che opera a Tolentino ne assumerà due per carenza di manodopera. Offrire nuove possibilità di reinserimento sociale e combattere il rischio di recidiva: con questi obiettivi il garante regionale dei diritti della persona Giancarlo Giulianelli, in collaborazione con Twenty21 srl, Cattaneo srl e San Marco Group spa, ha deciso di organizzare un mini corso di formazione professionale da imbianchino (in tecniche di pittura) rivolto ai detenuti del carcere di Barcaglione, ad Ancona. Un’iniziativa che coinvolge anche Tolentino: l’azienda milanese Twenty21 è arrivata nel cratere con la ricostruzione post sisma e ha espresso la volontà di assumere uno-due partecipanti per lavori di tinteggiatura e cartongesso nei suoi cantieri. Anche per carenza di manodopera. Il corso si è svolto questa settimana, mercoledì, giovedì e venerdì, tre giornate in cui i detenuti - all’inizio 25 poi scesi a 15 - sono stati impegnati nell’imbiancatura di alcuni locali all’interno della casa di reclusione. Nella prima giornata c’è stata un’introduzione teorica a cura di un istruttore di San Marco Group, azienda di Marcon (Venezia) leader nel settore delle pitture e vernici per l’edilizia, con la spiegazione dei prodotti e la preparazione delle zone di lavoro. Cattaneo srl di Novara, rivenditore di materiali edili, ha fornito l’attrezzatura necessaria; San Marco Group, oltre al proprio tecnico, ha messo a disposizione le pitture e Twenty21, con il suo direttore Giuseppe Castorina e un operaio, si è occupata della formazione. “Questa iniziativa rappresenta per i detenuti una valida opportunità per iniziare ad acquisire competenze professionali, gettando le basi per aprirsi una concreta prospettiva di lavoro - spiega l’avvocato Giulianelli -. Ringrazio Twenty21, Cattaneo srl, San Marco Group e Programma 2121 per la preziosa collaborazione e per l’attivo contributo alla creazione di una comunità più sicura e inclusiva. Il lavoro esterno, articolo 21, consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa; quindi il detenuto è autorizzato a uscire per andare a lavoro e la sera rientra”. Ovviamente per fare sì che questo diventi realtà serve il permesso dell’amministrazione giudiziaria e penitenziaria. “Twenty21 comunque intanto ha dato la disponibilità ad assumere una-due persone per i cantieri di Tolentino - prosegue il garante -, e se questo sarà possibile è già un successo. Mi auguro che altre aziende seguano l’esempio di Giuseppe Castorina; tra l’altro chi assume detenuti o ex detenuti, in base alla legge Smuraglia, ha sgravi fiscali nella contribuzione, vantaggi nella fiscalità”. Il garante si è adoperato per replicare il progetto nell’istituto penitenziario di Fermo e sta prendendo contatti anche per quello di Ascoli. Il corso è rivolto a un massimo di 25 detenuti; al termine viene consegnato un attestato e chi si distingue per capacità e impegno ha la possibilità di essere assunto da Twenty21, gruppo specializzato in edilizia non costruttiva. “Dallo scorso luglio - afferma il direttore Castorina - siamo a Tolentino per lavori di ricostruzione post sisma in alcuni edifici privati; attualmente contiamo sei cantieri attivi. Abbiamo già aderito in passato al Programma 2121 a Milano per formare detenuti; stiamo facendo i colloqui e prevediamo di assumerne circa trenta in un maxi cantiere milanese che dovrebbe partire tra luglio e agosto. Per quanto riguarda Tolentino, vorrei assumerne uno-due dopo il corso al Barcaglione: nel cratere manca manodopera, scarseggiano imbianchini, cartongessisti e manovalanza. Quindi questa iniziativa, la prima nelle Marche, rappresenta un’occasione per i detenuti e per noi. Con la legge Smuraglia le aziende hanno un rimborso dell’80 per cento dei contributi che si versano per l’assunzione. I quindici partecipanti al corso, tra cui giovani, mi hanno salutato con le lacrime agli occhi dicendomi che rappresento la loro voce fuori dal carcere per l’inserimento nel mondo del lavoro; avevano condanne di 3-4 anni e sono quasi tutti a fine pena, da 6 mesi a un anno”. Civitavecchia (Rm). Seconda chance, un ponte tra il carcere e il mondo imprenditoriale di Daria Geggi civonline.it, 25 marzo 2025 Anche a Civitavecchia l’associazione fondata da Flavia Filippi continua il suo impegno per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Con il supporto di Stefania Polo, sempre più aziende locali stanno offrendo opportunità concrete. L’associazione “Seconda Chance” continua a sviluppare il suo impegno per il reinserimento lavorativo dei detenuti e degli ex detenuti, portando avanti una missione che ha già dato risultati concreti in molte realtà italiane, compresa Civitavecchia. Fondata dalla giornalista del TgLa7 Flavia Filippi nel 2022, l’associazione si pone come ponte tra il mondo imprenditoriale e il sistema penitenziario, offrendo opportunità di formazione e impiego ai detenuti desiderosi di reinserirsi nella società. A Civitavecchia, Filippi ha visitato più volte la città per promuovere il progetto, trovando negli ultimi mesi un’importante alleata in Stefania Polo, volontaria penitenziaria da oltre dieci anni con la Chiesa Battista. Polo, in pensione dallo scorso agosto, ha potuto intensificare il suo impegno nelle carceri locali e, da qualche mese, collabora attivamente con “Seconda Chance”. “Da un lato promuoviamo corsi di formazione all’interno delle strutture penitenziarie, dall’altro ci occupiamo del coinvolgimento diretto delle imprese e delle aziende del territorio”, spiega Polo. Gli sforzi dell’associazione hanno già portato a risultati tangibili in questi anni. Solo nelle ultime settimane, la ditta Joule, che si occupa di logistica per il gruppo Conad Ovest, ha assunto due detenuti come magazzinieri, mentre CCMS ha offerto un contratto a tempo indeterminato e Moditech ha avuto colloqui di lavoro alla Casa di Reclusione con due detenuti. Inoltre, sono stati presi contatti con diverse aziende agricole di Tarquinia e avuto un incontro con il Direttore della Coldiretti di Viterbo, settore in cui la necessità di manodopera è sempre alta. “Stiamo informando tutte le cooperative che fanno parte del consorzio su questa importante possibilità - continua Polo - perché gli imprenditori agricoli hanno bisogno di personale e possono beneficiare di sgravi fiscali significativi grazie alla legge Smuraglia”. La legge Smuraglia (193/2000) rappresenta un’opportunità unica per le aziende che assumono detenuti, offrendo incentivi economici e sgravi fiscali che variano a seconda dello stato di detenzione del lavoratore (semilibertà o Art. 21 dell’ordinamento Penitenziario) per un importo mensile fino a 300 o 516 euro al mese per detenuto. “Il nostro lavoro è fondamentale - sottolinea Polo - perché ci permette di abbattere il pregiudizio, offrire una seconda possibilità ai detenuti e contrastare il fenomeno della recidiva. Inoltre, gli imprenditori che aderiscono al progetto risparmiano sui costi del lavoro e fino a 18 mesi dopo la scarcerazione, che diventano 24 mesi per le cooperative”. Ovviamente, i detenuti coinvolti nel progetto vengono selezionati con cura, rispettando determinati criteri. “Quando trovano un impiego, si impegnano al massimo: la loro voglia di riscatto è fortissima - ha aggiunto la volontaria - spesso sono loro stessi a proporsi, ma devono affrontare un iter di selezione e valutazione in cui ci confrontiamo con educatori e operatori penitenziari. Anche gli agenti di polizia penitenziaria, che sono un punto di riferimento per i detenuti, vengono coinvolti in questo processo. Può sembrare strano, ma spesso i detenuti temono il momento dell’uscita dal carcere per mancanza di prospettive, di un lavoro, a volte di una famiglia. Trovare un lavoro prima di lasciare il carcere significa per loro vedere finalmente la luce, avere una speranza, sentire una gioia immensa, sapere di avere afferrato un’ancora preziosa, da tenere stretta, la garanzia di un futuro senza recidiva. Chi dirige i Penitenziari sa bene che oltre il 60% degli ospiti rientra e quanto essenziale sia per loro poter contare su un posto di lavoro”. Nel novembre 2024, “Seconda Chance” ha firmato un protocollo d’intesa con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) per potenziare la formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti. Un passaggio cruciale per rafforzare il ruolo dell’associazione come trait d’union tra il mondo imprenditoriale e quello carcerario. “L’Area Educativa sta effettuando una mappatura delle professionalità presenti nelle carceri per dare maggiore incisività e agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”, spiega ancora Polo. Negli anni, la rete di “Seconda Chance” si è ampliata sempre di più, coinvolgendo moltissime realtà produttive. Gli imprenditori che hanno aderito sono soddisfatti. “Questo è un progetto che promuove la gioia - aggiunge Polo - perché porta speranza, dignità e inclusione”. L’associazione si impegna anche a creare opportunità di impresa all’interno degli istituti penitenziari, utilizzando strutture interne spesso inutilizzate. “A Civitavecchia, per esempio, i detenuti stanno producendo pinse e le vendono, un’esperienza concreta che dimostra come il lavoro possa essere un veicolo di rinascita”, racconta Polo. Un detenuto, inoltre, ha recentemente discusso una tesi di laurea in Economia sul lavoro nelle carceri, dedicando un intero capitolo al progetto “Seconda Chance”. Oltre alla produzione di beni, l’associazione in tutta Italia sta esplorando nuove opportunità nel settore dei servizi. Ad esempio, alcuni detenuti hanno iniziato corsi di formazione per l’assistenza alla persona, un settore in forte crescita che potrebbe offrire sbocchi lavorativi stabili una volta scontata la pena. Inoltre, sono in fase di valutazione collaborazioni con cooperative sociali che operano nel settore della ristorazione e del catering, per avviare progetti di cucina e consegna pasti sia dentro che fuori le mura carcerarie. L’importanza di questi progetti non si limita all’aspetto economico, ma tocca anche la sfera psicologica e sociale. Lavorare può dare ai detenuti un senso di dignità e appartenenza. Non si sentono più solo numeri, ma persone con un valore e un ruolo all’interno della società: è stato riscontrato che chi riesce a inserirsi in un contesto lavorativo ha molte più possibilità di reinserirsi positivamente nella società e non tornare a delinquere. Anche le famiglie dei detenuti traggono beneficio da queste iniziative. Quando un detenuto riesce a guadagnare legalmente uno stipendio, può sostenere economicamente la propria famiglia e ricostruire relazioni spesso compromesse dall’esperienza carceraria. Secondo i dati dell’associazione, fino ad oggi sono stati creati oltre 500 posti di lavoro per detenuti ed ex detenuti, oltre la metà dei quali concentrati nel Lazio e a Roma. Le opportunità hanno riguardato vari settori, dalla ristorazione alla grande distribuzione, dall’edilizia ai servizi. “Il lavoro è vita e rappresenta la chiave per un reale reinserimento nella società - ha concluso Polo - stando a contatto con i detenuti, ci rendiamo conto delle loro necessità e nascono sempre nuove idee per migliorare il progetto. Speriamo di coinvolgere sempre più imprenditori del territorio, perché questa è una possibilità che fa bene a tutti: ai detenuti, alle aziende e alla società intera”. Pesaro. La ceramica dietro le sbarre: un’arte che riabilita i carcerati di Valentina Damiani Il Resto del Carlino, 25 marzo 2025 Il sindaco Ciccolini: “Siamo e saremo sempre a fianco del Garante regionale dei diritti dei detenuti”. Si rinnova per il 2025 l’esperienza del corso di ceramica nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi, di Pesaro, unico Istituto penitenziario nelle Marche in cui sono presenti detenute. Un progetto molto apprezzato, sia da parte delle detenute che da parte del personale educativo, per aver contribuito a migliorare la socialità e le relazioni nonché a sviluppare le potenzialità espressive e creative delle recluse. Il progetto, esempio virtuoso di sinergia tra enti pubblici e privati, ha visto la collaborazione della Regione Marche, attraverso il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, Giancarlo Giulianelli, e la Commissione Pari Opportunità, presieduta da Maria Lina Vitturini. Decisivo il contributo del Comune di Urbania, che ha coordinato l’aspetto amministrativo, promosso il progetto e coperto le spese primarie per la cottura delle argille. Un corso promosso e gestito dall’Associazione Amici della Ceramica di Urbania, che prevede due cicli di 26 lezioni, il primo, ormai prossimo alla conclusione, ha coinvolto circa 10 detenute che hanno realizzato manufatti personali di pregevole fattura. Dopo la cottura nei forni dell’Associazione, le partecipanti potranno conservare le loro creazioni e portarle con sé al termine del periodo detentivo. Il secondo ciclo del corso inizierà ad aprile. Marco Ciccolini, sindaco di Urbania, e Andrea Alessandroni, assessore alla Cultura, esprimono il loro entusiasmo per il progetto e ringraziano la Regione Marche per il sostegno. “È bello riproporre questo corso con cui Urbania porta i suoi maestri sul territorio, facendo conoscere la sua storia e tradizione ceramica. Siamo e saremo sempre a fianco delle attività del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti per iniziative come questa”, dichiara Ciccolini. Alessandroni aggiunge la sua soddisfazione per un’iniziativa capace di coniugare l’arte e la funzione riabilitativa del carcere: “Questo progetto rappresenta un’opportunità concreta anche per il futuro delle detenute, resa possibile anche grazie alla bravura dei maestri ceramisti durantini”. “Un progetto che riempie il tempo dilatato delle detenute con l’arte, che dà un senso alle loro giornate - dichiara Giancarlo Giulianelli, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti -. Ammiro l’evoluzione artistica dei manufatti rispetto allo scorso anno e a giugno saranno protagonisti di una mostra a Macerata. Mi piacerebbe estendere questi progetti anche ai minori ospiti di strutture, per aiutare a “riempire” il loro tempo staccandoli dagli schermi”. Il presidente dell’Associazione Amici della Ceramica Dante Marchi e il maestro ceramista Loris Grini, docente del corso, sono molto soddisfatti di questo progetto: “È un’esperienza molto soddisfacente, vediamo la passione di chi partecipa al corso” dice Marchi. Pisa. Il rock entra nel carcere: via con Giancane di Caterina Ruggi d’Aragona Corriere Fiorentino, 25 marzo 2025 Il carcere Don Bosco a Pisa apre le porte alla musica dal vivo, ospitando artisti di spicco nel panorama indipendente italiano. Con l’esibizione di Giancane inizia domani il progetto “Chroma”, promosso dalla compagnia teatrale pisana I Sacchi di Sabbia e finanziato dalla Regione Toscana. Un’iniziativa unica, che coinvolge uomini e donne reclusi nella casa circondariale pisana in un percorso artistico e multimediale in bilico tra musica, video e teatro. A curarlo, per conto dei Sacchi di Sabbia, i due artisti e musicisti Davide Barbafiera e Davide Cappai, consapevoli dell’importanza emotiva che la musica può avere all’interno di un istituto di pena. “Il progetto Chroma è molto più di un semplice cartellone musicale. È - dicono - un laboratorio creativo e formativo in cui i detenuti sono al centro dell’azione, protagonisti nella preparazione, nella regia e nella documentazione delle esibizioni”. In ciascuno dei quattro concerti in programma fino all’autunno prossimo saranno proprio i detenuti e le detenute a presentare gli artisti, condurre le interviste, e animare ogni volta un talk post-concerto. L’apertura, come si diceva, è affidata a Giancane (pseudonimo di Giancarlo Barbati Bonanni), artista romano noto per il suo approccio ironico e disilluso alla canzone d’autore, già chitarrista della formazione originaria de Il Muro del Canto. Nel 2013 il suo esordio da solista con l’ep Carne, a cui sono seguiti tre album: Una vita al top (2015), Ansia e disagio (2017, che comprende il brano Ipocondria con la partecipazione del rapper Rancore, per il quale è stato realizzato un videoclip con i disegni di Zerocalcare, con cui Giancane ha collaborato e Tutto male. Dopo Giancane, il carcere Don Bosco ospiterà Arianna Pasini/Generic Animal, Lamante e infine, a settembre, gli Zen Circus, che praticamente “giocano in casa”. Le riprese e tutto il materiale registrato ed elaborato dagli stessi detenuti durante i concerti e il relativo backstage andranno a comporre un video-documentario che verrà proiettato in autunno in un’occasione pubblica da definire, per restituire alla città di Pisa uno spaccato inedito del mondo carcerario attraverso il filtro della musica e della cultura. Con Chroma si arricchisce dunque l’offerta formativa della Scuola di Teatro Don Bosco che la compagnia I Sacchi di Sabbia porta avanti da anni anche grazie al contributo di Fondazione Pisa. Suicidi in carcere, Alessandro Trocino: “In molti casi la responsabilità delle istituzioni è forte” di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 25 marzo 2025 “Quante morti si potevano evitare, per esempio, con una telefonata?”. Il giornalista del Corriere della Sera, in libreria con “Morire di Pena” (ed. Laterza), racconta perché molti suicidi di detenuti in carcere (forse) potevano essere morti evitate. “Il referto neuropsichiatrico redatto dal dottor Salvatore Bruno nota che nel “signor Lombardo Damiano Cosimo” si evidenzia “una infuturazione scarsamente propositiva ed altamente velleitaria”. Non ho mai sentito la parola “infuturazione”. Infuturarsi. Nel linguaggio psichiatrico indica la capacità di proiettarsi nel futuro”. Con queste parole, Alessandro Trocino, giornalista del Corriere della Sera, presenta la prima delle dodici storie di suicidio in carcere che ha scelto di raccontare nel saggio “Morire di Pena”, in libreria per Editori Laterza. Sei mesi prima che Damiano Cosimo, un ragazzo di 28 anni, detenuto nel carcere di Caltanissetta, decidesse di togliersi la vita (come già aveva tentato in precedenza), era stato redatto un altro rapporto sulla sua condizione psicofisica, in cui si specificava che fosse “affetto da disturbo depressivo maggiore con componenti melanconiche psicotiche congrue ed incongrue con il tono dell’umore. Tale condizione clinica è assolutamente incompatibile con lo stato di detenzione ordinaria”. Un dettaglio dopo l’altro, Alessandro Trocino ripercorre la vita di dodici persone che si sono tolte la vita in carcere, dando loro non solo un nome e un cognome, spesso tralasciati dalla cronaca dei giornali, ma ricostruendo con testimonianze e documenti il vissuto che li ha portati fino a quella cella. Perché se è vero che i dati sui suicidi in carcere sono disponibili, quasi mai sappiamo chi erano quelle persone: figli ma spesso anche genitori a loro volta, uomini e donne di tutte le età, in alcuni casi con problemi più o meno gravi di salute mentale, dipendenze. A volte detenuti in custodia cautelare, quindi possibili innocenti. Quasi sempre, morti che si sarebbero potute evitare. Perché questo libro? “Mi sono occupato spesso per la newsletter Il Punto-La Rassegna del Corriere della Sera di temi carcerari e dei numeri dei suicidi. Il 2024 è stato l’anno record con 89-90 suicidi. Non c’è mai chiarezza su quale sia il numero vero perché spesso il dato ufficiale è sottostimato e gli eventi critici, come vengono definiti tecnicamente, che sono tentativi suicidio, atti lesionismo, eccetera sono 12.500 all’anno. Sono partito da questi numeri impressionanti pensando però che alla fine impressionavano solo me e pochi altri perché lasciavano sostanzialmente indifferente la gran parte della gente. Allora ho cominciato a domandarmi chi fossero queste persone che si suicidavano e perché. Ho provato a lavorarci cercando di di ricostruire le loro storie”. Da qui la scelta di scrivere delle biografie brevi? “Sì, mi è venuta l’idea che forse un modo per rendere più empatico questo tema era far vedere la faccia, i pensieri, raccontare la storia di queste persone morte in carcere, raccontare cosa ne pensano i familiari, come si è svolto esattamente il suicidio e cosa è successo dopo. Così ho pensato di prendere un campione di storie, abbastanza arbitrario, perché sono talmente tanti i suicidi, solo negli ultimi dieci anni se ne contano 700, e raccontare queste storie nel dettaglio, fare quindi un’operazione diversa dalla statistica pura”. Come ha individuato le dodici storie che raccontato? “Ci sono giovani, anziani, c’è una donna, c’è un agente di Polizia Penitenziaria, li ho scelti perché mi interessavano alcune storie e sono andato a vederle. Poi ci sono anche altri criteri: per esempio di molte storie i familiari non vogliono parlare, così come di altre storie non si sa molto perché si riesce a reperire poco in termini di documenti e di atti. A me interessava avere molto materiale che potesse raccontarmi davvero com’era andata e che cosa era successo là dentro. E poi, quasi inconsciamente, ho scelto delle storie che alla fine sono tutte abbastanza controverse”. Che cosa intende? “Il suicidio sappiamo che è un atto personale e sarebbe sbagliato cercare di indagare la vera ragione alla sua base. Si possono indagare le concause, i fattori scatenanti o che in qualche modo hanno agevolato il suicidio. Andando nel dettaglio di tutte queste 12 storie, ho visto che in tutte ci sono degli aspetti controversi, delle responsabilità da parte delle istituzioni del carcere dentro queste che non sono morti casuali. Sono morti che secondo me in qualche modo si potevano evitare”. Come scrive lei, “li chiamano suicidi di Stato”... “Sono quasi tutti casi di malagiustizia per la natura stessa delle carceri di oggi. Negli anni ‘60-70 il carcere era sostanzialmente un luogo dove la maggioranza dei detenuti avevano commesso dei reati gravi, degli omicidi, erano dei criminali incalliti. Adesso è proprio cambiata la popolazione carceraria ed è diventata una popolazione sostanzialmente di marginalità sociale. Ci sono molti tossicodipendenti (30%), la metà sono stranieri, ci sono molte persone con malattie psichiatriche. Si tratta di detenuti che non dovrebbe stare nel luogo in cui si trovano e che spesso entrano per dei piccoli reati poi per un circolo vizioso restano lì. Tutte queste situazioni rendono il carcere una polveriera”. Tra le storie a cui si è avvicinato, cosa l’ha colpita in particolare? “Ognuna ha la sua specificità e la sua forza. La prima è quella di Damiano Cosimo Lombardo, una persona siciliana dentro per per rissa, aveva gravi problemi psichiatrici, c’è infatti una perizia che ne stabiliva la totale incompatibilità con la detenzione in carcere, era un uomo che vedeva il diavolo, ma nonostante questa perizia lui è rimasto in carcere fino a quando si è suicidato. Ci sono due casi che non sono suicidi veri e propri e sono quelli della rivolta di Modena del 2020, di cui probabilmente la stragrande maggioranza degli italiani non sa nulla perché è avvenuta nei giorni del Covid, e perché poi alla fine si danno anche un po’ per scontato queste cose. Eppure proprio mentre Conte annunciava il lockdown, ci fu una rivolta in 79 istituti penitenziari e ci furono 13 morti nel giro di pochi giorni, la maggior parte dei quali a Modena. Una di queste due persone è Sasà Piscitelli, entrato in carcere per aver rubato una carta di credito, quindi non esattamente una persona particolarmente pericolosa. Poi ci sono diverse persone che erano dentro per custodia cautelare, quindi non sono mai state condannate e sarebbero potute risultare innocenti ma non è potuto accadere perché sono morte dentro. Ci sono persone come Jeffrey Baby, un giovane rapper che aveva già provato due volte a suicidarsi ma nessuno aveva fatto nulla. Sono tutte storie in cui la responsabilità dell’istituzione è molto forte”. In che termini? “A cominciare dall’assurdità delle regole burocratiche. Questo è un altro elemento che ho usato molto nel libro entrando nei dettagli fino all’esasperazione per esempio con i referti, a proposito del regolamento penitenziario e di tutte le regole che contribuiscono a creare questo clima impossibile”. Facciamo qualche esempio... “La possibilità per i detenuti di potere telefonare per dieci minuti alla settimana, una regola assurda che ha a che fare probabilmente con motivi un po’ punitivi nei confronti dei detenuti e un po’ organizzativi perché naturalmente questo prevede un lavoro da parte degli agenti penitenziari. All’estero si può telefonare regolarmente senza problemi. Quanti suicidi si potevano evitare se una persona in una situazione di questo genere avesse potuto telefonare a casa?”. Questo è un tema che apre anche al dibattito sul diritto all’affettività in carcere... “Sì, il diritto all’affettività non esiste nei fatti per due motivi che sono sempre gli stessi: il primo è di carattere punitivo, cioè il carcere nasce come semplice privazione della libertà e poi però ha avuto un aggravio di punizione che deriva da come consideriamo la pena. L’obiettivo è che il detenuto non solo non abbia la libertà ma che in carcere stia anche male, da qui nascono le condizioni molto pesanti e punitive. Il secondo motivo è legato ai problemi organizzativi: le carceri oggi sono enormemente sovraffollate e questo è un problema che a cascata si ripercuote su qualunque tipo di attività all’interno del carcere. Se c’è sovraffollamento gli spazi comuni dove si dovrebbero fare delle attività educative, culturali, sportive, sono occupati. Figuriamoci se si possono pensare degli spazi per l’affettività”. Tra le storie che ha scelto c’è anche quella di un agente di polizia penitenziaria... “Sì, di queste morti non ne sappiamo niente perché innanzitutto sono stati sette l’anno scorso i suicidi tra agenti di Polizia Penitenziaria e sono spesso dati che vengono forniti dai sindacati della Polizia Penitenziaria, non sempre volentieri perché naturalmente non se ne vuole parlare troppo. La verità è che se il carcere è un inferno per i detenuti diventa un inferno anche per gli agenti, in termini di condizioni di vita insostenibile. L’eccesso di detenuti e la scarsità di agenti. Ne mancano molte migliaia. Io ho voluto proprio inserire anche quella di questo agente che denunciava di essere oggetto di mobbing da parte degli altri agenti perché è importante raccontare tutti gli aspetti del carcere. Non ci sono i buoni e i cattivi. Il carcere è un sistema patogeno perché fa ammalare nel corpo e nella mente le persone, un sistema criminogeno perché con la promiscuità mette insieme persone che hanno commesso reati gravissimi con persone che sono magari alla prima esperienza, ed è un sistema che in qualche modo riproduce meccanismi di violenza all’interno e coinvolge anche gli agenti”. Perché anche a livello politico chi si occupa del carcere sembra farlo sempre marginalmente? “È un discorso marginale e lo è sempre stato perché parlare di carceri e detenuti fa perdere consensi. Siamo sempre a una logica per cui siamo noi buoni e loro cattivi, se stanno in carcere avranno fatto qualcosa, quindi non me ne voglio occupare. A questo poi si aggiunge l’ideologia della destra al governo che considera la pena quasi come una vendetta, quindi siamo praticamente passati dallo stato sociale allo stato penale. Prima almeno c’era l’idea, che è quella della Costituzione, della rieducazione del condannato, adesso c’è solo il carcere come discarica sociale, come accatastamento di corpi, come scarti della società che vengono messi in un angolo rinchiusi e abbandonati”. Che cosa serve oggi al carcere? “Il primo elemento che serve per rimettere in moto un sistema che sia più civile, più dignitoso e che non finisca per far condannare, com’è già successo in passato in Italia, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per torture e trattamenti inumani e degradanti, sarebbe un provvedimento deflattivo del carcere, quindi dal più importante che è l’amnistia o l’indulto. Ma è assolutamente impossibile sia perché non c’è una volontà tutta politica della destra, ma secondo me anche la sinistra non lo voterebbe. Negli anni 2000 è stato alzato il quorum per ottenerlo, oggi serve la maggioranza dei due terzi per ogni singolo articolo della legge, quindi è sostanzialmente impossibile”. Altre idee? “La proposta di liberazione anticipata speciale di Roberto Giachetti in Italia Viva che sostanzialmente fa uscire in anticipo chi è a fine pena aumentando i giorni della liberazione anticipata. È una proposta che però è sostenuta solo dalla sinistra e dal PD, neanche dai 5 Stelle che hanno su questo una visione più giustizialista. Ci sono 2mila persone che hanno un anno solo di pena da scontare. Servirebbe soprattutto ridurre la portata dell’utilizzo della custodia cautelare”. Racconta anche la storia di una donna, com’è la situazione per le detenute in carcere? “Le detenute sono soltanto il 4 per cento della popolazione carceraria. Questo provoca dei grandi problemi perché il carcere come istituzione è stato pensato per gli uomini, esistono soltanto quattro istituti femminili e per il resto ci sono una settantina di sezioni femminili all’interno delle carceri maschili. Per esempio in Friuli Venezia Giulia c’è una sola sezione femminile, che vuol dire che se ti arrestano a Udine finisci a 200 chilometri da dove sei. Quindi c’è un problema specifico anche delle donne, ancora più grave nel caso della condizione delle detenute madri con i bambini, una questione atavica che non si riesce a risolvere”. Il mondo dietro le sbarre raccontato con strisce e balloon di Ilaria Dioguardi vita.it, 25 marzo 2025 Nel fumetto “Morire di carcere”, scritto per “La Revue”, le storie delle persone negli istituti di pena, in 24 pagine. Con le illustrazioni di Ilaria Urbinati, è stato scritto dal giornalista Luca Cereda: “L’obiettivo di questo progetto è di entrare in carcere e raccontare il tema non con i soliti freddi numeri, che sono necessari per comprendere il fenomeno, ma andando un po’ oltre, mettendo a nudo i sentimenti”. “Esiste un immaginario comune del carcere: una visione che ci viene restituita dai film, dalle serie, a volte anche dal giornalismo. Questo racconto, invece, prende forma in un luogo reale, la casa circondariale Due Palazzi di Padova, e dalle testimonianze dei suoi detenuti: Paolo, Mario, Amin e Tommaso”. Inizia così “Morire di carcere”, fumetto scritto per il numero 9 de La Revue Dessinée Italia (diventata La Revue dalla fine del 2024) dal giornalista Luca Cereda, a lungo firma di Vita, e illustrato da Ilaria Urbinati. Mettere a nudo i sentimenti - “L’obiettivo di questo progetto è quello di entrare in carcere e di raccontare il tema non con i soliti freddi numeri, che sono necessari per comprendere il fenomeno, ma andando un po’ oltre, mettendo a nudo i sentimenti”, dice Luca Cereda. Nel fumetto vengono trattati i temi del sovraffollamento, della mancanza di opportunità di lavoro e di attività educative ricreative, la questione degli affetti: a più di un anno dalla sentenza della Corte costituzionale ancora non si svolgono colloqui in intimità in carcere. “Questo fumetto voleva essere una sorta di micro reportage, con dei dati aggiornati al momento in cui è stato scritto, a inizio 2023. Con le immagini di Ilaria Urbinati, disegnatrice di una grande sensibilità”. Il fil rouge con un occhio attento ai dettagli - In 24 pagine “ho cercato di rendere i protagonisti del racconto giornalistico dei personaggi, di dare delle connotazioni che Ilaria Urbinati avrebbe potuto usare per trovare il fil rouge del racconto (filo rosso che si ritrova anche graficamente), facendo molta attenzione ai dettagli. Ad esempio, un ragazzo aveva sempre una tuta della sua squadra del cuore, sia nel colloquio fisico sia nelle due video call, ho indicato di disegnarlo così”. Anche nei racconti dei detenuti, “alcuni dettagli, alcune parole buttate lì, sono diventate fondamentali. Un signore mi ha raccontato en passant la storia della figlia che aveva partorito, lui aveva potuto vedere la nipote grazie alla tecnologia, dopo il parto: è diventato il fulcro della storia”. Il racconto di quest’uomo diventato nonno, che vede il nipote per la prima volta con una videochiamata, è stato illustrato da Urbinati con un tablet che fiorisce nelle mani di lui, che è in carcere, mentre parla con le due figlie, e quella che è diventata mamma tiene in braccio il neonato. “Non c’è bisogno che io giornalisticamente spieghi la potenza della vicenda, si vede. L’illustratrice ha preferito conoscere le persone che doveva disegnare solo attraverso la mia penna, per avere ancora più spazio per la fantasia”. È molto efficace anche l’immagine dei detenuti che sono come delle isole, collegate da scale rosse che diventano dei ponti tra il dentro e il fuori. Il carcere-lavatrice non funziona - “Quando una persona mette una camicia sporca in lavatrice, si aspetta che esca più pulita. Se la camicia esce più sporca non è colpa della camicia, ma della lavatrice. Come una lavatrice senza cestello o senza filtro non lava, un carcere senza personale non è in grado di prendere in carico e rieducare le persone. Il carcere-lavatrice inoltre non funziona perché i detenuti sono persone! Sono complesse e sfaccettate, non una camicia da smacchiare! Per tutte queste carenze, la maggior parte delle carceri sono deserte dopo le 15, senza attività rieducative né ludiche”. Nei balloon del fumetto, a dire queste parole è Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti orizzonti, la cui redazione si trova nella Casa di reclusione di Padova ed è formata da persone detenute e volontari. “Favero ha sposato subito il nostro progetto e l’idea di non sentire i detenuti per dire la loro, ma di fare un racconto di persone che sono detenute che fanno anche un giornale del carcere e che raccontano i motivi per cui, dietro le sbarre, le persone si suicidano più di 10 volte rispetto a quella che è la media fuori dal carcere”. Il “cuore pulsante” del racconto del fumetto è la redazione di Ristretti Orizzonti. “A Padova sono stato nel carcere Due Palazzi diverse volte, i detenuti sono la voce narrante. E sono andato anche nel carcere Bollate di Milano”. Strumento di lavoro nelle scuole - “Quello che ci sta rendendo veramente felici è che questo fumetto è utilizzato come strumento nelle scuole, sia nelle secondarie di primo e di secondo grado. Mi ha contattato, ad esempio, la garante delle persone private della libertà personale della Sardegna, Irene Testa, chiedendomi informazioni su come poter avere Morire di carcere, per lavorarci con gli studenti”, racconta Cereda. “Mi stanno invitando, in questi mesi, a degli incontri negli istituti scolastici”. La forza di un progetto giornalistico che è anche un fumetto è l’immediatezza, la facile fruibilità e comprensione, anche nei più giovani. “Il dato uno se lo dimentica facilmente, un’immagine azzeccata no. Ad esempio, Urbinati ha avuto l’intuizione di illustrare la recidiva con il gioco dell’oca: un anello cieco che ti riporta sempre lì. In questo lavoro siamo andati per sottrazione, abbiamo lasciato dei contenuti essenziali giornalistici”, prosegue il giornalista. Anche senza leggerselo tutto, “questo fumetto può diventare uno strumento per far ragionare sul carcere, sia chi l’ha vissuto come le persone detenute o ex detenute, sia chi sta fuori e dovrebbe avere l’attenzione al tema. Perché quel che è fuori è anche dentro, e quel che è dentro poi torna anche fuori”. Lo spazio del progetto “si è dovuto un po’ contenere, però il pregio di raccontare tutto in 24 pagine è che abbiamo condensato tutto”. Le due pagine finali sono dedicate ad un piccolo approfondimento, con una breve intervista a Mauro Palma, presidente European Penological Center Università Roma Tre. Quando il Mare Fuori non c’è: l’emergenza carceri minorili di Sofia Landi lumsanews.it, 25 marzo 2025 Gli errori, l’amore, le risse, la voglia di guardare il cielo oltre i muri di una cella. Sono gli ingredienti che hanno reso Mare Fuori la serie dei record targata Rai. Ma quando i titoli di coda scorrono con la sigla, è il momento di distinguere il racconto televisivo dalla realtà. Oltre le sbarre della fiction esistono carceri minorili sovraffollate, dove l’approccio rieducativo viene travolto da quello repressivo, dalla carenza delle risorse, dalla fatiscenza delle strutture. Carceri minorili, l’incubo del sovraffollamento - Dall’insediamento dell’attuale governo, le presenze negli istituti per ragazzi sono aumentate quasi del 50 per cento. A denunciarlo è il ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori di Antigone, l’associazione impegnata da più di 30 anni nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Dati preoccupanti, simbolo di un sistema di detenzione al collasso. Dei 17 istituti presenti sul territorio nazionale, 12 ospitano più giovani di quanti dovrebbero. A versare in uno stato particolarmente drammatico, come ci spiega la coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti, sono gli Istituti penali minorili (Ipm) Cesare Beccaria di Milano e Casal del Marmo a Roma, dove i requisiti igienico-strutturali e detentivi appaiono precari. Ma cosa c’è all’origine di questa crisi? L’allarme di Antigone: “Il governo fa populismo penale” - L’associazione punta il dito contro il Decreto Caivano. Entrato in vigore nel 2023, il provvedimento è stato introdotto per combattere l’emergenza della criminalità giovanile in aree del Paese particolarmente critiche, come quella dell’hinterland napoletano. Un allarme, quello invocato dal governo, che non trova però riscontro negli ultimi dati del Viminale. Il report “Criminalità minorile e gang giovanili”, riferito al periodo compreso tra il 2022 e 2023, mostra infatti una diminuzione del 4,15 per cento delle segnalazioni di minori. “In passato abbiamo avuto l’emergenza dell’immigrato, quella del tossicodipendente, adesso abbiamo quella della baby gang”, afferma scettica Marietti. “La politica costruisce un nemico e promette di difendere i cittadini. E come lo fa? Mettendo quel nemico in carcere. È populismo penale”. Gli effetti del Decreto Caivano - Oltre ad aver ampliato la possibilità di applicazione della custodia cautelare in carcere per i minorenni, il decreto ha allargato una serie di misure amministrative introdotte per gli adulti anche ai giovani. Preoccupa soprattutto la facilità con cui, al compimento dei 18 anni, i ragazzi vengono trasferiti nelle carceri dei grandi. A livello legislativo, chi commette un reato può rimanere nel sistema della giustizia minorile fino ai 25 anni. Con l’introduzione del decreto, invece, la pratica dei trasferimenti, prima molto rara, diventa prassi. Con il via libera del magistrato, infatti, i direttori degli istituti possono inviare i minori nelle carceri per adulti in caso di “condotta problematica”. I comportamenti di cui parla il decreto, però, non sono chiari, e l’unica condizione che può impedire il trasferimento è la mancata sicurezza del ragazzo nel carcere di arrivo. Di conseguenza - spiega Marietti - “appena il direttore dell’istituto ha un ragazzo problematico e ha bisogno di spazio, può tranquillamente mandarlo via”. Non di minor importanza l’introduzione di automatismi in merito alla “messa alla prova”, vale a dire l’uscita dal circuito penale. Con la stretta voluta dal governo, questa misura - che prevede la sospensione del processo e l’affidamento del giovane ai servizi della giustizia minorile - non è più attuabile per tutti i reati. Verso una nuova “cultura della punizione” - La stretta del governo ha effetti anche sul piano culturale. Il decreto Caivano sta imponendo una “cultura della punizione”, prosegue Marietti. “Il modello di giustizia del codice di procedura penale minorile del 1988 metteva al centro il percorso educativo del ragazzo. Il decreto cambia questa filosofia”. In questo modo, si va nella direzione di un modello di giustizia minorile criminalizzante. La replica del governo: “Quella di Antigone è una lettura strumentale” - Opposta la lettura del governo. Per la sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro, intervistata da Lumsanews, quella di Antigone è solo “una lettura strumentale”. Secondo Ferro il decreto Caivano è una risposta concreta alla criminalità giovanile. Allarme che non dipende solo dalla percentuale di reati, ma anche dalla maggiore violenza degli episodi che coinvolgono i minori e dal ruolo svolto dai social network. Non si può infatti ignorare che, oltre al loro utilizzo per attività criminali, “hanno cambiato la percezione della violenza come status symbol tra i giovani”. Inoltre “il governo Meloni sta affrontando in maniera ampia e articolata il tema della criminalità minorile, intervenendo non solo sul piano della sicurezza, ma soprattutto sotto l’aspetto culturale e dell’istruzione”. Nella convinzione che l’unica vera arma di prevenzione sia la crescita dei giovani in un ambiente di legalità e inclusione, si pongono su questa linea diverse azioni dell’esecutivo. Partendo dagli investimenti per contrastare l’emergenza educativa e la dispersione scolastica, fino alla rigenerazione urbana e l’affidamento di beni confiscati alla criminalità organizzata per progetti di utilità sociale. Non dimenticando infine, fa osservare la sottosegretaria, il ruolo delle forze di polizia sul piano della prevenzione e le numerose iniziative sportive, culturali e sociali. La salute mentale dei minori in carcere - Ma l’impatto della legge sui giovani è critico anche sotto il profilo psicologico. Lo spiega Letizia Caso, docente di Psicologia sociale e giuridica all’Università Lumsa. La continuità educativa del minore viene interrotta e così non si ha più la possibilità di agire sulla sua formazione identitaria. “Non si può dare ai giovani una risposta repressiva o punitiva”. Complice la risonanza mediatica, oggi è il carcere minorile di Mare Fuori il più conosciuto d’Italia. Un modello criticato per la scarsa attinenza con la realtà. Se il rischio di emulazione in senso assoluto può essere escluso, come chiarisce Caso, il pericolo è che l’esperienza della detenzione venga distorta tanto da essere sottovalutata. Di Martino, regista della serie: “Il mio Mare Fuori vuole mostrare la realtà” - Dietro alla macchina da presa di Mare Fuori è arrivato però lo sguardo di un nuovo regista. Consapevole del disagio vissuto dai giovani detenuti, Ludovico Di Martino si è dedicato a una narrazione più umana e realistica della cella. “Nonostante Mare Fuori sia una fiction, ho voluto dare voce alla realtà dei giovani detenuti”. Senza perdere di vista la voglia di far riflettere il pubblico sull’importanza del percorso rieducativo dei minori, ha denunciato anche lui le conseguenze negative del Decreto Caivano. E per farlo ha scelto il personaggio di “Pino il pazzo”. “Lui è il simbolo di Mare Fuori. Delle seconde possibilità, dell’importanza del percorso rieducativo e della ‘messa alla prova’ per i ragazzi. Ma quel decreto cancella tutto questo”. Suicidio in Svizzera, Cappato va a processo di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 marzo 2025 La gip di Firenze ha disposto l’imputazione coatta dopo la sentenza della Consulta del 2024 sul “trattamento di sostegno vitale”. Il procedimento riguarda l’aiuto fornito a Mib dall’associazione Luca Coscioni. Gli imputati: “Pronti alle conseguenze delle nostre azioni di disobbedienza civile”. La gip di Firenze ha deciso: Marco Cappato andrà a processo per aver accompagnato Mib a morire suicida in Svizzera. La giudice Agnese Di Girolamo ha disposto l’imputazione coatta e rigettato la richiesta di archiviazione del pm Carmine Pirozzi, in modo da approfondire la vicenda alla luce della sentenza emessa sul caso dalla Corte costituzionale nel luglio 2024. Il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni rischia fino a 12 anni di carcere, insieme ad altre due volontarie con le quali aiutò materialmente il 44enne livornese Massimiliano, affetto da sclerosi multipla, a recarsi in una clinica svizzera dove morì l’8 dicembre 2022. “La nostra - ricorda Cappato - è stata un’azione di disobbedienza civile. Con Chiara Lalli e Felicetta Maltese ci eravamo autodenunciati perché eravamo, e siamo, pronti ad assumerci le nostre responsabilità, nel pieno rispetto delle decisioni della magistratura, e nella totale inerzia del Parlamento. Continueremo la nostra azione - ha promesso l’attivista - fino a quando non sarà pienamente garantito il diritto alla libertà di scelta fino alla fine della vita, superando anche le discriminazioni oggi in atto tra malati in situazioni diverse”. Massimiliano Scalas detto Mib, infatti, era da sei anni costretto all’immobilità da una grave forma di sclerosi multipla e la sua esistenza dipendeva dalle cure di parenti e caregivers ma non era direttamente assoggettato a “trattamenti di sostegno vitale” quali possono essere alcuni strumenti terapeutici tipo la ventilazione forzata. Un requisito, questo, che è tra quelli considerati essenziali dalla Consulta - nella sentenza Cappato/Antoniani (n.242/2019) - per ottenere anche in Italia l’aiuto medico al suicidio, ma la cui interpretazione è stata ampliata l’anno scorso dagli stessi giudici costituzionali interpellati proprio dalla gip di Firenze. Nel pronunciamento n. 135 depositato nel luglio 2024, infatti, la Consulta ha spiegato che anche semplici procedure non particolarmente invasive, come quelle normalmente compiute sul malato terminale da familiari o caregivers, possono essere considerate “trattamenti di sostegno vitale”, sempre che “la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”. Ecco perciò perché le ultime azioni di disobbedienza civile messe in atto dall’associazione Coscioni dopo la sentenza del 2019 puntano ad evidenziare e superare la discriminazione tra malati operata attraverso la differenziazione tra diversi trattamenti terapeutici diversi. A questo punto, il pm ha 10 giorni di tempo per formulare l’imputazione. E il processo che si svolgerà servirà a verificare se le condizioni di Mib erano tali da poter considerare non punibile - secondo l’articolo 580 del codice penale che prevede pene dai 5 ai 12 anni di reclusione - l’aiuto fornitogli dall’associazione Coscioni. Intanto, a proposito del quarto requisito richiesto per la morte medicalmente assistita (il paziente terminale deve essere capace di intendere e volere, e deve reputare la propria condizione fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche), i giudici della Consulta affronteranno domani in udienza pubblica altri due casi riguardanti Marco Cappato e sollevati stavolta dal tribunale di Milano: quello di Elena, malata oncologica terminale, e quello di Romano “affetto da patologia neuro degenerativa che - scrive l’associazione Coscioni - come Massimiliano, richiedeva assistenza costante di terze persone per la sua sopravvivenza”; entrambi accompagnati in Svizzera da Cappato. Il quale è coinvolto in ben sei procedimenti in corso, alcuni anche soltanto per la sua qualità di tesoriere dell’associazione e dunque anche solo per il supporto economico e organizzativo fornito per il trasferimento in Svizzera. Procedimenti nei quali l’associazione e la sua Segretaria nazionale, l’avvocata Filomena Gallo, sono pronti “a difendere il diritto ad autodeterminarsi di Massimiliano e di tutte le persone nelle sue condizioni, la cui vita è totalmente dipendente da altri”. Anche se, in mancanza di una legge nazionale sul fine vita che in molti invocano, la onlus Pro Vita & Famiglia si attende che “istituzioni e magistratura” chiudano “la strada alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito o dell’eutanasia”, per evitare di “cedere a una deriva etica pericolosa”. Al contrario, in vista della riunione della Conferenza Stato-Regioni che si terrà giovedì 27 marzo, Cappato e Gallo hanno chiesto ai governatori e agli assessori alla Sanità di “emanare un atto che recepisca a livello nazionale le regole approvate dalla Regione Toscana”. “Ci processano perché abbiamo accompagnato Massimiliano a morire” di Chiara Lalli Il Dubbio, 25 marzo 2025 Il Gip di Firenze dispone l’imputazione coatta per Lalli, Cappato e Maltese dell’Associazione Coscioni dopo l’ultima sentenza della Consulta sul suicidio assistito e il requisito del “sostegno vitale”. Questa mattina arriva una PEC dal tribunale di Firenze con un oggetto un po’ strambo e molto burocratico. Me la inoltrano i miei avvocati mentre sto bevendo il mio secondo caffè. Già so che cosa riguarda ma apro comunque il pdf pensando chissà cosa sarà. “Ordinanza con la quale si dispone che il pubblico ministero formuli l’imputazione coatta” (tutto in maiuscolo). Tutta questa formalità ritarda ancora di qualche secondo la registrazione cerebrale di questa informazione e “imputazione coatta” mi fa un po’ ridere (perché sono scema, lo so). La giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta del pubblico ministero e dei miei avvocati di archiviare il procedimento a mio carico, di Marco Cappato e di Felicetta Maltese per aver aiutato Massimiliano ad andare in Svizzera. Massimiliano voleva morire e lo abbiamo accompagnato. Il reato è istigazione e aiuto al suicidio, articolo 580 del codice penale (un articolo che precede la Costituzione e che è fascistissimo nel senso descrittivo, poi ognuno deciderà che aggettivo usare, e che prevede da 5 a 12 anni di reclusione). Istigazione no, perché ha deciso lui, ma l’ipotesi di reato di aiuto rimane. L’8 dicembre 2022 Massimiliano è morto in Svizzera come non avrebbe voluto. Non parlo di non morire, perché era convinto e deciso e per aver cercato di fargli cambiare idea mi sono beccata qualche parolaccia, ma morire in Svizzera e non a casa sua. Una richiesta semplice e ovvia, ma impossibile. Chissà perché. Nei mesi successivi sono successe varie cose: ci siamo autodenunciati, il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione, la giudice per le indagini preliminari ha rifiutato e ha sollevato un dubbio di legittimità costituzionale, la Corte ha scritto una sentenza un po’ timida (ha rigettato l’incostituzionalità del requisito del trattamento di sostegno vitale ma ne ha ampliato i confini, di fatto arrivando alla stessa conclusione ma di diritto no), il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione e ora la giudice ha deciso di non accettare e di disporre l’imputazione coatta. La questione non è tanto la possibilità di morire a casa propria ma l’interpretazione di uno dei requisiti di una precedente sentenza della Corte, la 242 del 2019. Come dobbiamo interpretare il sostegno vitale? Come un macchinario, un aggeggio, un respiratore oppure come qualsiasi assistenza necessaria a non morire, peraltro malissimamente? Non è difficile da capire: se non posso muovermi, tutto è assistenza vitale. Se non posso alzarmi, mangiare, andare in bagno, tutto è assistenza vitale. Che è un po’ quello che ha detto la sentenza 135 lo scorso giugno, decidendo però di non dire che quel requisito è incostituzionale - perché ingiusto, insensato, discriminatorio. Chissà perché questa timidezza. Nonostante questo allargamento, c’è “la necessità dello stretto collegamento, ineludibile, con la natura vitale dei trattamenti di sostegno, ‘al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo’”. Che significa breve? Qual è l’unità di misura temporale? Comunque la giudice ha deciso che “non appare esservi stata la dipendenza di Massimiliano da un trattamento di sostegno vitale, neppure nella interpretazione estensiva data dalla Corte” e ha disposto che entro dieci giorni il pubblico ministero formuli la nostra imputazione. Massimiliano muoveva ormai solo un braccio e male. Non poteva alzarsi, mangiare, andare in bagno da solo. Non dovrebbe esserci bisogno di spiegarvi le conseguenze. Aspetto quindi questi dieci giorni e penso che Massimiliano avrebbe riso di tutta questa burocrazia e che sarebbe stato contento se la sua decisione servirà anche a qualcosa. Cioè a proteggere una scelta che può essere solo la nostra. Mentre il Parlamento dorme e scrive disegni di legge insensati e incostituzionali in culla, è stata la Corte costituzionale a dire che possiamo morire (grazie) se lo decidiamo noi e se siamo molto malati. Però questo requisito rischia di rovinare tutto. (Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese sono difesi dal collegio legale composto dagli avvocati Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni che lo coordina, Marilisa D’Amico, Francesca Re e Rocco Berardo). Migranti. Centri in Albania, Meloni accelera: Cdm anticipato a venerdì. La sponda con Bruxelles di Ileana Sciarra Il Messaggero, 25 marzo 2025 Cambia l’agenda della premier: riunione con i ministri dopo la trasferta in Francia. Non serve l’ok di Rama per trasformare gli hotspot in veri centri di permanenza. Si gioca d’anticipo. E il Consiglio dei ministri che doveva slittare a lunedì della settimana prossima viene messo in agenda venerdì mattina alle 11, all’indomani del vertice dei “volenterosi” che vedrà Giorgia Meloni volare a Parigi. Il governo dunque ci riprova. E prepara il disco verde a un nuovo decreto, il terzo dopo due andati a vuoto, per aggirare la tagliola dei giudici che finora hanno bocciato i trattenimenti di migranti nei due centri in Albania battenti bandiera italiana. L’obiettivo è riprendere i trasferimenti già dai primi di aprile. Stavolta però non più di migranti intercettati in mezzo al mare, bensì di stranieri presenti in Italia ma su cui pendono provvedimenti di espulsione convalidati dai magistrati. Il pallino è nelle mani di Palazzo Chigi. E la premier ha deciso di accelerare, forte della sponda europea che ha previsto, nel nuovo sistema per rendere più efficaci i rimpatri degli immigrati irregolari, anche Cpr in paesi terzi, i cosiddetti “return hubs”. Il decreto che il governo si appresta a varare venerdì, come anticipato ieri sulle pagine del Messaggero, potrebbe andare proprio in questa direzione, convertendo una delle due strutture - quella di Gjader - in un Cpr per gli irregolari già presenti in Italia e su cui pende un decreto di espulsione. Bypassando così la convalida dei trattenimenti negata dai giudici tre volte su tre. Un cambio di rotta non necessariamente definitivo. “Quando a maggio arriverà la sentenza della Corte europea sui Paesi sicuri - spiega un autorevole fonte di governo - nulla vieta di riconvertire il centro per riportarlo all’idea originaria”, sbloccando la possibilità di trattenere in Albania anche i richiedenti asilo. La convinzione maturata in queste settimane è che per cambiare la carte in tavola, dopo mesi e mesi di stallo, non sia necessario il placet del presidente albanese Edi Rama: “Non serve modificare il Memorandum Roma-Tirana, ma basta cambiare la norma di recepimento e il gioco è fatto”, si dice convinto chi lavora al dossier. Al momento nel sito di Gjader (in quello di Shengjin è stato allestito solo un hotspot per l’identificazione, senza posti letto) è già presente un Cpr da 144 posti, accanto ad un centro per richiedenti asilo da 880 e un penitenziario da 20. “Quindi per noi - ha spiegato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - si tratta solo di attivarlo nei tempi più stretti possibili, visto che c’è un tema di recupero di posti disponibili nei Cpr sul territorio nazionale”. Il riferimento è al numero di Centri per i rimpatri presenti in Italia, ridotti al lumicino in barba all’indicazione di aprirne “almeno uno per regione”, opzione contro la quale si erano scagliati i governatori di centrosinistra. La carenza di Cpr è tale che spesso migranti irregolari destinatari di un provvedimento di espulsione rimangano liberamente in circolazione perché non c’è posto nei Cpr per trattenerli. Da qui l’idea di trasferirli nei centri albanesi, dove potrebbero restare per un massimo di 18 mesi. Risultato? “Due piccioni con una fava”, sintetizzano al Viminale. Perché da un lato si fronteggerebbe la carenza di posti nei Cpr sul territorio, dall’altra si sbloccherebbe l’impasse dei Centri in Albania. Un progetto dal costo di quasi un miliardo di euro per un quinquennio finora rivelatosi un flop, con le due strutture congelate al momento del taglio del nastro. L’opposizione, che ha sempre remato contro il modello Albania, torna sulle barricate. Meloni e Piantedosi, punta il dito la segretaria dem Elly Schlein, “dovrebbero fermarsi e chiedere scusa per aver sperperato così tante risorse pubbliche in un protocollo disumano, che calpesta i diritti fondamentali e che è fallito prima ancora di cominciare”. “Piantedosi - gli fa eco Matteo Renzi - ammette che la Meloni ha preso in giro gli italiani” e “mette il timbro del ministro dell’Interno nella constatazione del fallimento” del Memorandum Roma-Tirana. Il segretario di Più Europa Riccardo Magi, che con la premier aveva avuto un duro scontro proprio fuori dal centro di Shengjin, davanti agli occhi di un incredulo Rama, si rivolge a Meloni con parole al vetriolo: “Per una volta, non trovi scuse e dica la verità agli italiani: i centri in Albania non hanno funzionato e non funzioneranno”. Non la pensa così la presidente del Consiglio, convinta che questa sarà la volta buona, la chiave di volta per sbloccare i due centri di Gjader e Shengjin. “Ci siamo, non ci fermeranno”, ripete come un mantra ai suoi, con la testa alle grane interne ma anche ai dossier e agli appuntamenti internazionali. Il vertice che l’attende a Parigi anzitutto, ma anche la trasferta a Washington nell’attesa di segnarla in agenda. Migranti. Nei Centri in Albania soltanto parole di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 marzo 2025 Con cadenza rituale sul progetto d’oltre Adriatico arrivano le rassicurazioni del governo a cui rispondono le critiche delle opposizioni. Il fatto, però, è uno: dopo sedici mesi le strutture sono ancora vuote. Succede ormai a cadenza regolare, ogni tot di giorni. Un esponente del governo, spesso la premier Meloni o il ministro Piantedosi (come ieri), parla dei Centri in Albania: “Li vuole l’Europa”, “Sono pronti a ripartire”, “Li useremo come Cpr”, assicurano. A quel punto si alza un coro dall’opposizione che fa più o meno così: “Ammettono il fallimento”, “Chiedano scusa”, “Non funzioneranno”, ribattono. A volte capita che in mezzo a tante dichiarazioni si trovino perfino delle notizie: per esempio che nel penitenziario costruito a Gjader invece di persone migranti ci siano cani randagi o che l’ente gestore dei centri abbia prima rimandato a casa e poi licenziato gli operatori. Sullo sfondo restano due punti da cui non si prescinde. Fino alla sentenza della Corte di giustizia Ue sui “paesi sicuri” non potranno essere trattenuti oltre Adriatico i richiedenti asilo sottoposti a procedura accelerata di frontiera. Fino all’approvazione della nuova direttiva rimpatri non potranno essere parcheggiati gli “irregolari” trovati in Italia che non si riesce a riportare nel loro paese. La prima è attesa entro la fine della primavera, la seconda richiederà, nel migliore dei casi, diversi mesi. Viene il dubbio che l’unico scopo delle parole del governo sia prendere tempo. Peraltro senza sapere quanto ne serva davvero. Intanto a sedici mesi dalla firma del protocollo i centri sono vuoti. E questo è un fatto. Migranti. A Torino riapre il Cpr, no del Comune: “Il Governo non ci ha ascoltati” di Mauro Ravarino Il Manifesto, 25 marzo 2025 Il Centro venne chiuso nel 2023 per i danni causati dalle rivolte. A processo gli ex gestori per il suicidio nel 2021 di Moussa Balde mentre era in isolamento. Si riapre la ferita di Torino, all’incrocio tra corso Brunelleschi e le vie Monginevro e Santa Maria Mazzarello: tra i palazzi del quartiere Pozzo Strada si ergono gabbie e recinzioni metalliche. Ieri ha, infatti, riaperto l’infausto Centro di permanenza per i rimpatri, inaugurato con altro nome (Cpt) nel lontano 1999 e che (tranne gli ultimi due anni) è stato sempre operativo. Nel 2023 il centro fu chiuso a causa dei danni provocati dalle numerose rivolte interne contro le condizioni di detenzione e i decessi. L’ultimo è quello di Moussa Balde, 23enne originario della Guinea che, nel maggio del 2021, si tolse la vita in isolamento. Era stato trovato sprovvisto di documenti a Ventimiglia dopo aver subito un’aggressione da parte di tre uomini. Nel 2019 morì nella stessa sezione Faisal Hossein, bengalese di 32 anni, vittima di violenza all’interno del centro. Lo scorso luglio la prefettura ha indetto una gara per la riassegnazione vinta la coop Sanitalia: 8,4 milioni per due anni. Ora, ci sono tre aree da 30 posti e non ancora persone trattenute. A Torino si è riaccesa la protesta. Venerdì in piazza Carignano con la Rete torinese contro tutti i Cpr, formata tra gli altri da Cgil e Pastorale migranti. Sabato, in corso Brunelleschi, con Marco Cavallo, icona basagliana di liberazione, per il lancio della Campagna di sensibilizzazione per la salute mentale dentro i Cpr. E ieri con un presidio dei centri sociali davanti a un Cpr blindatissimo dalle forze dell’ordine che hanno caricato i manifestanti che si avvicinavano con uno striscione. Gli attivisti del Gabrio hanno detto con forza che “i Cpr devono essere aboliti in quanto luoghi di tortura e segregazione, in cui il diritto alla salute viene negato”. Contrario alla riapertura anche il comune di Torino con il sindaco Stefano Lo Russo. Una posizione che l’assessore al Welfare, Jacopo Rosatelli, spiega: “Il comune ha espresso ufficialmente la propria contrarietà, ma il governo ha deciso di ignorarci. Non mi stupisce. Ora vigileremo scrupolosamente sul funzionamento della struttura, che per definizione è lesiva della dignità umana. L’attenzione istituzionale e sociale non mancherà”. Ieri si è svolto un sopralluogo del capogruppo di Avs, Marco Grimaldi, e della consigliera comunale di Sinistra ecologista, Sara Diena. “Nonostante la ristrutturazione e la riduzione dei posti letto da 7 a 6 per dormitorio, non rileviamo significativi cambiamenti se non una minore privacy dovuta alla sostituzione dei vetri oscurati con vetri trasparenti. Terremo il fiato sul collo al nuovo gestore di una struttura che doveva chiudere per sempre”. Processo sulla morte di Balde: la fase dibattimentale si è aperta a febbraio e vede imputati per omicidio colposo la direttrice dell’ex ente gestore Gepsa e il medico responsabile. L’avvocato della famiglia di Balde, Gianluca Vitale: “Il Cpr riapre ma la sostanza non cambia, questi centri non sono idonei a rispettare i diritti delle persone. Giuridicamente, qui, la detenzione non ha regole se non circolari ministeriali. Questa deregolamentazione affida all’arbitrio di chi gestisce il rispetto o meno dei diritti. Inaccettabile oltre che incostituzionale”. A destra, la torinese Augusta Montaruli (vicecapogruppo alla Camera dei FdI) applaude alla riapertura del Cpr: “Assolutamente una buona notizia”. Il ministro della Pa Paolo Zangrillo dice di stare lavorando “per fare le cose al meglio” e dare in tema di immigrazione “maggiore sicurezza ai cittadini”. Non la pensa così il cardinale Roberto Repole: “Non possiamo rassegnarci a rinchiudere chi non ha commesso reati e a non cercare percorsi per la regolarizzazione e l’inserimento delle persone nella nostra società”. Stati Uniti. Giudice federale critica la deportazione dei venezuelani sotto l’amministrazione Trump di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 marzo 2025 “I nazisti ricevettero un trattamento migliore”. Un giudice federale ha fortemente criticato la deportazione di presunti membri di bande venezuelane effettuata dall’amministrazione Trump, paragonandola a un trattamento più favorevole ricevuto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il 15 marzo, il presidente Donald Trump aveva ordinato l’invio di due aerei carichi di migranti venezuelani in una prigione in El Salvador, invocando l’Alien Enemies Act (Aea), una legge di guerra risalente al 1798. James Boasberg, giudice capo della Corte distrettuale di Washington, ha emesso un’ordinanza restrittiva lo stesso giorno, bloccando temporaneamente l’amministrazione Trump dall’eseguire ulteriori deportazioni ai sensi di tale legge. Il Dipartimento di Giustizia ha cercato di revocare l’ordine, e un collegio di tre giudici della Corte d’appello ha ascoltato le argomentazioni legali. L’avvocato del Dipartimento di Giustizia, Drew Ensign, ha dichiarato che l’ordine rappresentava “un’ingerenza enorme nei poteri esecutivi del presidente”. La giudice Patricia Millett, nominata da Barack Obama, ha criticato l’uso della legge, dichiarando che “i nazisti hanno ricevuto un trattamento migliore sotto l’Alien Enemies Act”. Millett ha sottolineato che i migranti deportati non avevano avuto l’opportunità di contestare la loro espulsione, cosa che ritiene essenziale. Anche il giudice Justin Walker, nominato da Trump, ha suggerito che sarebbe stato giustificato un procedimento legale, ma ha anche riconosciuto che l’ordine del giudice potrebbe violare i poteri presidenziali. L’Alien Enemies Act, utilizzato storicamente durante guerre come quella del 1812 e durante le due guerre mondiali, dà al governo ampi poteri per radunare e deportare i cittadini di nazioni ostili in tempo di guerra. Georgia. “Putin mi vuole morto, ma lotto pure dal carcere. Voglio il mio Paese libero” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 marzo 2025 Intervista esclusiva a Mikheil Saakashvili, ex presidente della Georgia condannato dopo la vittoria dei filorussi. L’ex presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili sta collezionando condanne. Un’umiliazione per chi negli anni passati ha voluto perseguire due obiettivi molto chiari: ridare dignità ad un Paese sganciandolo dall’influenza russa e avvicinarlo sempre di più all’Occidente e ai suoi valori, a partire dal rispetto dei diritti umani. Una mossa, quella di Saakashvili, che gli è costata cara. Nel 2018 l’esponente politico, protagonista quindici anni prima della cosiddetta “Rivoluzione delle rose”, è stato condannato in contumacia a sei anni di carcere per abuso di potere. Un’accusa che le organizzazioni internazionali hanno sin dal primo momento considerato politicamente motivata e che ha provocato le proteste di numerosi governi. Per quella condanna è in carcere dal 2021, quando rientrò in Georgia dopo aver trascorso diverso tempo all’estero. La prigione e la solitudine hanno minato la salute di Mikheil Saakashvili. La permanenza dietro le sbarre gli ha fatto perdere oltre cinquanta chili. Inoltre, nel 2023 l’ex presidente ha riferito di essere stato avvelenato. All’inizio di marzo Saakashvili è stato condannato a quattro anni e mezzo di carcere, in quanto, secondo i pubblici ministeri, avrebbe attraversato illegalmente il confine della Georgia, rientrando, nel 2021, in patria. Infine, il 17 marzo si è aggiunta un’altra condanna - quella più pesante - a nove anni e mezzo di detenzione. Saakashvili è stato accusato di appropriazione indebita: avrebbe utilizzato 3 milioni di euro, fondi dello Stato, per spese personali di vario genere e per dispensare regali a familiari e alleati politici. Della “Rivoluzione delle rose” non resta più nulla, solo spine e dolori per chi ha tentato di aprire una nuova stagione politica. Grazie al team legale che lo assiste, siamo riusciti a far pervenire a Mikheil Saakashvili alcune domande in carcere. L’ex presidente ha risposto, lieto di poter interloquire con il quotidiano dell’avvocatura da sempre impegnato a sottolineare l’importanza per il rispetto dei diritti umani e nel rilevare le condizioni di vita in carcere anche all’estero. Saakashvili, nonostante quella che definisce una “persecuzione giudiziaria”, non si arrende. Il messaggio che lancia dal carcere è chiaro: la battaglia per dimostrare la propria innocenza non si ferma, le accuse - a suo dire “inventate” - sono il frutto di una persecuzione che nasce dall’impegno politico degli anni passati”. Presidente Saakashvili, l’ultima sentenza di condanna nei suoi confronti dimostra che la persecuzione politica continua? Esatto. È proprio così. Sono stato condannato in violazione di ogni legge georgiana in vigore, con modalità che definire ciniche e disumane è poco. Ma, nonostante ciò, continuerò a combattere per la mia libertà, contro la dittatura russa in Georgia, ma anche in nome dell’indipendenza dell’Ucraina. E lo farò fino al mio ultimo respiro. Sin dal suo insediamento alla presidenza, lei ha creduto fermamente nell’apertura di una fase nuova in Georgia, distaccandola dalla sfera d’influenza russa. Tutto vanificato, se pensiamo alla situazione odierna? Mosca condiziona la vita del suo Paese? L’influenza di Mosca prosegue senza sosta. La Russia è ovunque in Georgia, a partire da quello che troviamo nei negozi, fino ai metodi che vengono usati dalle autorità georgiane contro l’opposizione per reprimere ogni forma di dissenso politico. Assistiamo inoltre ad una presenza capillare dei servizi segreti russi che svolgono una asfissiante attività di controllo. Le sanzioni nei confronti della Russia vengono aggirate grazie all’accondiscendenza georgiana? La Georgia purtroppo è diventata uno dei Paesi più importanti usati da Mosca per bypassare le sanzioni applicate con l’inizio della guerra ai danni dell’Ucraina. Questo a riprova di quanto si diceva prima in merito all’influenza russa nel mio Paese. Putin ha lanciato al mondo un messaggio: se vuole prendersi qualcosa, non chiede il permesso a nessuno. Lo dimostra la guerra di aggressione ai danni dell’Ucraina. Lei è fiducioso in merito ai negoziati che possono portare al cessate il fuoco? Sono convinto che ci sia una sola possibilità per portare Putin ad un cessate il fuoco temporaneo. Putin lo accetterebbe solo se fosse lasciato libero di interferire massicciamente nei processi politici in Ucraina, smantellando dall’interno le fondamenta istituzionali del Paese, e di sbarazzarsi definitivamente di Volodymyr Zelensky. Questo è esattamente il metodo che ha messo in atto in Georgia, dopo l’invasione russa del 2008 e il cessate il fuoco che è stato negoziato qui all’epoca. L’obiettivo di Putin è molto chiaro. Lui non vuole una Ucraina debole o che Kyiv diventi succube di Mosca. Quello che vuole Putin è cancellare completamente l’Ucraina dalle mappe geografiche. Penso quindi che solo la forza militare possa contenere la Russia. La ricerca di qualsiasi altra opzione per limitare le velleità del Cremlino si riveleranno assolutamente inutili. Giappone. 46 anni nel braccio della morte per errore: riceve 1,4 milioni di risarcimento di Lorenzo Lamperti La Stampa, 25 marzo 2025 Iwao Hakamada, ex pugile, aveva 32 anni quando è stato condannato, ora ne ha 89. Quanto valgono 56 anni in carcere da innocente, di cui 46 nel braccio della morte? Secondo la giustizia giapponese, la risposta è 217 milioni di yen, vale a dire l’equivalente di 1,45 milioni di dollari. Iwao Hakamada aveva 32 anni quando è stato condannato a morte. Era il 1968. Lo scorso settembre, 56 anni dopo, è stato assolto. E ora gli è stato riconosciuto il risarcimento, al termine di una lunga battaglia legale, quando di anni ne ha però ormai 89. Hakamada, un ex pugile professionista, era stato giudicato colpevole di aver ucciso il suo capo, la moglie del suo capo e i loro due figli. Salvo poi essere scoperto innocente, in un caso che continua a generare enormi discussioni e polemiche in Giappone. Gli avvocati avevano chiesto il risarcimento più alto possibile, sostenendo che i 46 anni nel braccio della morte (un record mondiale) hanno avuto ripercussioni sulla sua salute mentale. Il giudice Kunii Koshi, che ha accolto la richiesta, ha convenuto che Hakamada ha sofferto di un dolore mentale e fisico “estremamente grave”. Il governo giapponese pagherà il risarcimento finanziario dell’ex pugile, in quello che i media locali definiscono il più grande risarcimento per un caso penale nella storia del Paese. Secondo l’accusa dell’epoca, avrebbe ucciso il capo della fabbrica di miso dove lavorava e la sua intera famiglia, con la moglie e i loro due figli adolescenti. Dando poi fuoco alla loro abitazione. La vicenda portò notevole pressione sugli inquirenti dell’epoca, desiderosi di trovare un colpevole. Una volta arrestato, Hakamada fu rapidamente portato a processo e condannato all’impiccagione. Lui si è sempre professato innocente, sostenendo di essere stato costretto a una prima frettolosa confessione da parte degli investigatori durante un “brutale interrogatorio” dove sarebbero avvenuti anche degli abusi fisici. I suoi avvocati hanno invece sempre affermato che la polizia avrebbe fabbricato le prove a suo carico. Dopo decenni, era riuscito a far riaprire il caso grazie all’insistenza della sorella Hideko, 91 anni, che lo ha accolto nella propria abitazione da quando è stato rilasciato dal carcere nel 2014 in attesa del nuovo verdetto. Il cuore del nuovo processo riguardava l’affidabilità della prova “regina”, riguardante i vestiti macchiati di sangue che, secondo i pubblici ministeri, Hakamada indossava al momento dell’omicidio. Quando ha ordinato un nuovo processo nel marzo 2023, dopo anni di controversie legali, l’Alta Corte di Tokyo ha affermato che c’era una forte possibilità che gli abiti fossero stati messi dagli investigatori in una vasca di miso. Gli avvocati della difesa hanno affermato che gli esami del DNA sui vestiti hanno dimostrato che il sangue non era di Hakamada. Nonostante tutto, i pubblici ministeri avevano nuovamente richiesto la conferma della pena di morte. Ma i giudici del tribunale distrettuale di Shizuoka hanno stabilito che tre prove sarebbero state inventate, tra cui la confessione di Hakamada e la paternità dei capi di abbigliamento incriminati. Ora la parola fine, con il riconoscimento di un risarcimento che non potrà mai restituire a Hakamada la vita che non ha potuto vivere. La sua vicenda potrebbe dare nuovo vigore alle richieste di abolizione della pena di morte in Giappone, che insieme agli Stati Uniti è l’unico Paese del G7 a prevedere la condanna capitale nel suo sistema giudiziario. Peraltro con metodi particolarmente crudeli, visto che l’esecuzione avviene con impiccagione e con un minimo preavviso di poche ore che non lascia nemmeno il tempo di parlare per un’ultima volta con i propri cari. Sin qui, però, non ci sono segnali di passi concreti verso l’abolizione.