Scontro magistrati-governo sulle sanzioni per le toghe di Tommaso Montesano Libero, 24 marzo 2025 Nordio: reintrodurre il divieto di tenere comportamenti non imparziali. E l’Anm protesta: “Stupore e amarezza”. Il governo pensa a una stretta sugli illeciti disciplinari dei magistrati. In particolare, in sede di attuazione della riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato, il Guardasigilli, Carlo Nordio, punta a reintrodurre nell’ordinamento giudiziario, tra i doveri del magistrato, il divieto di “tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro” sia della singola toga, sia dell’intera istituzione giudiziaria. Una prescrizione abrogata nel 2006 che adesso il ministro della Giustizia, sulla scorta delle ultime esternazioni “politiche” dei magistrati, è determinato a rispolverare allo scopo “di assicurare e tutelare, nel quadro degli equilibri costituzionali, improntati alla divisione dei poteri, il prestigio dell’intero ordine giudiziario”. La mossa di Nordio è stata anticipata nella risposta che il ministro della Giustizia ha dato a una delle tante interrogazioni che sul tema dell’indipendenza e dell’imparzialità dei magistrati ha presentato in Senato il capogruppo di Forza Italia, Maurizio Gasparri. “Le legittime opinioni del magistrato, anche su temi politicamente sensibili, non devono essere espresse in modo tale da dubitare della sua indipendenza e imparzialità nell’adempimento dei compiti a lui assegnati”, mette nero su bianco Nordio. Si conosce già l’obiezione: a via Arenula vogliono tappare la bocca alle toghe. Niente di tutto questo, spiega il ministro della Giustizia. Si tratta semplicemente di contemperare “i diritti di libertà di manifestazione e di partecipazione politica” con i doveri - “pure essi costituzionali” - “di imparzialità della magistratura e di leale collaborazione tra le istituzioni”. Tenendo presente che alla toga non basta “essere” imparziale, ma deve anche “apparire” tale. E questo significa, ricorda Nordio, mantenere “sobrietà, irreprensibilità e riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il rischio di apparire condizionabili o di parte”. Le risposte del Guardasigilli sono in calce a una serie di interrogazioni nelle quali Gasparri ha denunciato i comportamenti di alcuni magistrati. Solo per fare qualche esempio: le posizioni pubbliche assunte, in materia di immigrazione, da Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica e giudice del tribunale di Roma; la mail anti-governativa del sostituto procuratore della corte di Cassazione, Marco Patarnello; le prese di posizione, come “un vero e proprio partito politico”, dell’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, che “su ogni argomento organizza assemblee politico-partitiche”. Comportamenti che non sono sfuggiti a Nordio, che non a caso bolla come “assai inopportune le partecipazioni dei magistrati a convegni in sedi di partito”, così come la decisione di proclamare lo sciopero - era i127 febbraio scorso - “contro il disegno di legge costituzionale che riforma la magistratura”. Da qui l’annuncio di “porre mano alla disciplina sugli illeciti disciplinari”, con l’obiettivo di “introdurre dei correttivi in grado di assicurare che coloro ai quali è attribuito il potere di assumere decisioni giudiziarie capaci di produrre effetti dirompenti nella vita di qualsiasi cittadino offrano garanzia di imparzialità non soltanto nella decisione, ma anche nei loro comportamenti”. E lo strumento sarà la riforma ora all’esame del Parlamento, visto che affida “alla legge ordinaria il compito di determinare gli illeciti disciplinari” delle toghe. Soddisfatto Gasparri: “Sono grato al ministro e sono pronto, in Parlamento, a fare la mia parte. Le sentenze non si emettono con le proprie opinioni, ma con i fatti. C’è la volontà politica di rivedere l’impianto disciplinare dei magistrati. Occorre trovare un punto di equilibrio tra la libertà di pensiero e il dovere di imparzialità. Il magistrato deve avere dei limiti, un po’ come i Carabinieri. Chi indossa la toga non può dire ciò che vuole”. Naturale che all’Anm sia già scattato l’allarme. Il presidente del “sindacato” dei magistrati, Cesare Parodi, confessa tutta la sua inquietudine: “Apprendo con stupore e amarezza che il governo avrebbe intenzione di introdurre un illecito disciplinare delineato con una formula estremamente indeterminata”. Non bastavano la separazione delle carriere e la riforma del Csm, adesso ci si mette anche la riforma degli illeciti disciplinari. “Se confermata, questa scelta troverebbe certamente contrari tutti i gruppi della magistratura associata. L’Associazione saprà farsi interprete delle esigenze e delle sensibilità dei colleghi su questo tema”. Un’altra dichiarazione di guerra. Nordio vuole sanzioni per i “comportamenti inopportuni” delle toghe. L’Anm: “Monito inquietante” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 24 marzo 2025 Il ritorno dell’ipotesi della “legge bavaglio” per i magistrati in una risposta del ministro a una interrogazione parlamentare di Gasparri. Parodi: “Stupore e amarezza”. “Apprendo con stupore e amarezza che il governo avrebbe intenzione di introdurre un illecito disciplinare delineato con una formula estremamente indeterminata. Ciò verrebbe a costituire un inquietante monito rispetto allo svolgimento delle attività quotidiane e della vita di relazione dei magistrati”. Così il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi interviene sull’ipotesi di sanzioni per comportamenti inopportuni dei magistrati, contenuta nella risposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio a un’interrogazione parlamentare del senatore Maurizio Gasparri. Nel documento il ministro definisce “assai inopportune le partecipazioni dei magistrati a convegni in sedi di partito come pure l’astensione del 27 febbraio scorso, indetta dall’Associazione nazionale magistrati contro il disegno di legge costituzionale che riforma la magistratura”. “Nell’attesa di una conferma ufficiale di tale notizia e delle valutazioni che gli organi dell’Anm effettueranno, - aggiunge Parodi - devo esprimere mia personale preoccupazione per una scelta che - ove confermata - troverebbe certamente contrari, ritengo, tutti i gruppi della magistratura associata. L’Associazione nazionale magistrati in ogni caso saprà farsi interprete delle esigenze e delle sensibilità dei colleghi su questo delicato tema e confido che il Governo vorrà tenere conto delle indicazioni che la stessa Anm potrà esprimere”. Torna dunque d’attualità un progetto in precedenza accantonato dal governo che intendeva inserire nel decreto legge giustizia, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 29 novembre, un articolo che prevedeva l’avvio dell’azione disciplinare per i magistrati che non si astengono dai procedimenti “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. Una misura ribattezzata “legge-bavaglio” dall’opposizione e dall’Anm che protestarono contro il provvedimento, poi stralciato dal decreto ed accantonato. Sisto: “Separazione delle carriere a ridosso dell’estate. Alla fine faremo sintesi” di Edoardo Sirignano Il Tempo, 24 marzo 2025 “Sulla separazione delle carriere proveremo a chiudere i quattro passaggi parlamentari a ridosso dell’estate. Confidiamo nella condivisione del Parlamento. Questa maggioranza “ad offerta multipla” alla fine ha sempre trovato compattezza e sintesi”. A dirlo Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia. Dopo due anni dalla scomparsa di Berlusconi, il sistema giustizia è ancora lento e parziale. Cosa sta succedendo? “Questo governo si è caricato, con serietà, i problemi della giustizia e cerca di risolverli sia dal punto di vista dell’ordinamento con la riforma costituzionale, sia dal punto di vista dell’efficienza con una serie di interventi ad effetto multivitaminico. I tempi di definizione dei procedimenti civili sono diminuiti di circa il 20%, quelli dei processi penali già del 29%, risultati che, in prospettiva Pnrr, fanno ben sperare”. Ciò cosa significa? “Assunzioni massicce di personale, concorsi di magistratura a ripetizione, investimenti pervicaci sulla digitalizzazione delle procedure, attenzione all’edilizia giudiziaria: siamo di fronte a un esecutivo attento, che prova a rendere il processo più giusto con la riforma sulla separazione delle carriere, a fare il Csm più credibile con l’elezione libera-tutti dei togati mediante sorteggio, a scegliere per i rilievi deontologici dei magistrati il prestigio dell’Alta Corte Disciplinare. Il tutto accompagnato da una serie di provvedimenti ordinari su diritto di difesa, riservatezza, presunzione di non colpevolezza: certo a tutela del cittadino, ma senza minimamente intaccare la correttezza delle indagini”. Questa è una novità? “Assolutamente sì. Mi sembra che ci sia un dopo Berlusconi che ne abbia rispettato la passione per la tutela delle libertà, anche e soprattutto nella giustizia. Grazie al coraggio e a qualche competenza, alla tenacia risaputa di Forza Italia, alla saggia guida di Antonio Tajani, qualche risultato, di notevole rilevanza, è stato raggiunto. La separazione delle carriere, poi, sarà la riforma delle riforme”. L’Anm, intanto, è critica di fronte a questi cambiamenti... “L’Anm è il sindacato dei magistrati. Fa la sua parte, ma non rappresenta tutti. Vi sono tanti giudici che, pur silenti, sono a favore delle riforme. Questi magistrati hanno vinto la paura di cambiare, una patologia che deriva innanzitutto dalle abitudini e dal timore di perdere determinati privilegi. La Costituzione, però, come disse Meuccio Ruini prima di votare la Costituzione, come statuisce l’art.138, è naturalmente modificabile, con un severo percorso parlamentare, a fronte di evoluzioni della realtà. La gente ci ha votato anche per questo, era tutto nel nostro programma. Ecco perché non intendiamo, non possiamo fermarci. E sia chiaro: la nostra non è una battaglia contro qualcuno, ma per i cittadini”. Qualcuno, però, vi accusa di porre il Pm sotto l’esecutivo? “Nella riforma è scritto esattamente il contrario. Autonomia ed indipendenza restano intaccate ed intoccabili: il giudice, però. diventerà più terzo e naturalmente più imparziale, liberato da qualsiasi parentela con il Pm, il “para/giudice” di Giovanni Falcone del 1991”. Mentre, però, voi provate a fare qualcosa, gli errori giudiziari continuano a penalizzare tanti innocenti. Come rimediare? “Abbiamo 3 gradi di giudizio proprio per questo e nessuno deve mai pensare di metterli in discussione. Il controllo delle decisioni è uno dei cardini per garantire la civiltà del nostro processo”. Perché se questo meccanismo funziona, però, si continua a sbagliare? “Non sono interessato a punire i giudici, quanto invece determinato ad evitare che sbaglino. Come? Con interventi normativi di chiarimento. Esemplificativamente, sui problemi della custodia cautelare, dove bisognerà effettuare delle approfondite riflessioni, soprattutto sul rischio di reiterazione, criterio troppo ampio. Per evitare errori giudiziari, ripeto, non esiste una isolata terapia salvavita”. Su temi così delicati bisognerebbe andare oltre gli steccati partitici? “Già al primo passaggio della riforma costituzionale alcuni partiti dell’opposizione hanno votato insieme a noi, un bel segnale che dà coraggio”. Questo fronte potrà anche allargarsi? “Ce lo auguriamo. A parte i 5 Stelle, giustizialisti senza speranza di redenzione, mi aspetto che tutti i garantisti, anche quelli del Pd, vadano oltre un’opposizione cieca, che prescinde dai contenuti. Quando si cerca di difendere il cittadino in modo corretto e soprattutto con equilibrio, tutto diventa possibile”. Gli stessi alleati, intanto, dovrebbero essere più incisivi su un tema, dove troppo spesso lo si è solo a parole... “Siamo una coalizione a offerta multipla, dove ognuno ha delle peculiarità, ma questo non ci impedisce di trovare, sempre, la sintesi. Sui temi principali della giustizia, abbiamo sempre marciato uniti, pur con qualche diversa sensibilità, come nel caso del pianeta-carcere. Ma anche in questo caso, alla fine, prevarrà la mediazione”. Anche nella minoranza qualcuno potrebbe seguire tale modus operandi? “Sono convinto che alla fine prevarrà la logica del cuore puro e della retta coscienza. Ecco perché andiamo avanti, consapevoli del ruolo gestito nell’esclusivo interesse del cittadino. Il diritto di fare le indagini, ad esempio, non va toccato e non lo faremo in alcuna misura, pur non trascurando diritti e prerogative di ciascuno. Occorrono equilibrio, coraggio e competenza: le doti che Forza Italia, da Silvio Berlusconi ad Antonio Tajani, ha nel suo Dna”. Tescaroli, De Raho e le indagini infinite. Se 45 giorni sono pochi di Maurizio Crippa Il Foglio, 24 marzo 2025 Approvato in via definitiva il ddl Zanettin sulla durata delle intercettazioni, ora limitate a 45 giorni. Impossibile, dice il procuratore di Prato. In effetti lui sulle stragi ci ha perso decenni. Se quarantacinque vi sembran pochi. Approvato in via definitiva il ddl Zanettin sulla durata delle intercettazioni, ora limitate a 45 giorni, si sono ascoltate, senza trojan, le più desolate e anche un po’ incredibili contestazioni. Una delle più rimbombanti quella del dottore Luca Tescaroli, oggi procuratore di Prato. Intervistato ieri dal Fatto ha aperto i rubinetti: “Quella appena approvata è solo l’ultima delle riforme che recentemente hanno, oggettivamente, già compresso gli strumenti in mano ai magistrati per reprimere la criminalità”. “Temo un impatto negativo perché viene compressa la tempistica di effettuazione delle attività di intercettazione e questo può costituire un serio ostacolo”. Ma soprattutto, con valore di confessione testimoniale: “Nella nostra esperienza sul campo possiamo dire che statisticamente si riesce a raccogliere elementi di prova solo dopo molto più tempo di quello previsto dalla riforma”. Ammette Tescaroli: “Individuare gli obiettivi da intercettare è frutto di un percorso investigativo che richiede tempo. L’identificazione dell’interlocutore o degli interlocutori spesso richiede tempo. Il soggetto deve essere profilato per individuare i telefoni di cui si avvale o i luoghi che frequenta per le intercettazioni ambientali”. La sua esperienza, appunto. E su questo, può essere che abbia ha ragione. In effetti, Luca Tescaroli passerà alla storia della giustizia per le sue famose indagini sui mandanti esterni delle stragi del 1993. Ci ha lavorato quasi trent’anni, altro che 45 giorni, il suo teorema era provare il coinvolgimento di Marcello Dell’Utri e Silvio Berslusconi: non ha cavato un ragno dal buco, solo archiviazioni o piste indiziarie sospese nel nulla. Trent’anni. Iniziò quando era ancora a Caltanissetta, anni ‘90, l’inchiesta finì archiviata. Passato a Roma, indagò nel frattempo sulla morte di Calvi (1982, gli piacciono i cold case), finirono tutti assolti. Arrivato a Firenze nel 2018 riaprì i faldoni del 1993, accusando i soliti Berlusconi e Dell’Utri. Indagine andata avanti silenziosamente per anni, non giorni, ed emersa nel 2024. Nel frattempo Berlusconi è stato archiviato, ed è morto. Si attendono novità. Altra voce squillante contro la nuova norma, l’ex procuratore nazionale Antimafia e ora deputato grillino Federico Cafiero De Raho, intervistato dalla Stampa: il limite alle intercettazioni “sarà un ostacolo assoluto alle indagini”. Intercettazioni in 45 giorni? “Ma nemmeno nel mondo dei sogni!”. De Raho snocciola i suoi argomenti, poi arriva una domanda strabiliante: “Cosa collega la stretta alle intercettazioni con la separazione delle carriere”? Ma De Raho non si perde d’animo, ha la risposta pronta: “Guardi, nel momento stesso in cui l’intercettazione si ferma dopo 45 giorni, l’indagine sostanzialmente si conclude lì. E quando le varie indagini si concluderanno nel nulla, si dirà che il pubblico ministero non è capace”. E le miriadi di inchieste finite nel nulla, spesso con intercettazioni a strascico durate all’infinito, come andranno valutate? Prima della riforma, di fatto è una modifica dell’art. 267 del Cpp che limita a 45 giorni, a meno di una “assoluta indispensabilità” valutata dal giudice, la durata era di 15 giorni, ma il numero di proroghe era in pratica infinito. Il penalista e saggista Iacopo Beniveri, su Altravoce, parafrasando Pannella che riprendeva Henri Bergson ricordava ieri che “la durata è la forma di ogni poterè. Se la durata è limitata, il potere ha natura democratica; se è illimitata è antidemocratico”. Ma a qualcuno 45 sembrano pochi. Violenza di genere, verso più tutele per le vittime di Guido Camera e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2025 Le disposizioni contenute nel disegno di legge del Governo per contrastare la violenza contro le donne rafforzano la posizione delle vittime. Ricadute pratiche incerte per il nuovo reato di femminicidio: è già punito con l’ergastolo l’omicidio del partner o commesso dallo stalker. Rafforzano il ruolo delle vittime di molti reati le disposizioni processuali contenute nel disegno di legge licenziato nei giorni scorsi dal Governo per contrastare la violenza contro le donne e ora in attesa di iniziare il suo percorso in Parlamento. Mentre ha senz’altro un alto valore simbolico ma ricadute pratiche incerte il nuovo delitto di femminicidio, proposto sempre dal disegno di legge. Dal Codice rosso ai nuovi reati Le nuove norme si inseriscono in un panorama ampio di misure volte a prevenire e sanzionare le violenze di genere. Nel 2019 è stata introdotta la legge “Codice rosso” (69/2019), che ha messo al centro il fattore tempo: quando si procede per alcuni reati spia di violenza di genere la persona offesa va sentita in Procura entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. La legge ha anche aumentato le condotte punibili, con i nuovi reati di costrizione o induzione al matrimonio, deformazione dell’aspetto con lesioni permanenti al viso, revenge poni e violazione di provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare. Puntano sulla prevenzione le disposizioni contro la violenza di genere in vigore da dicembre 2023 (legge 168). Tra l’altro, hanno rafforzato le misure dell’ammonimento del Questore (ora applicabile d’ufficio al primo segnale eli violenza) e dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare disposto dal Pm. Tanto che il loro utilizzo si è impennato nell’ultimo anno: gli ammonimenti sono quasi raddoppiati e gli allontanamenti d’urgenza più che triplicati. Anche il numero dei reati aumenta: i maltrattamenti contro familiari o conviventi sono saliti nel 2024 del 34,1% sul 2019, la violazione dell’allontanamento dalla casa familiare o del divieto di avvicinamento del 400 per cento. Le nuove disposizioni - Il disegno di legge potenzia anzitutto il ruolo delle vittime, ponendo la pretesa punitiva privata sullo stesso piano di quella pubblica. Per molti reati violenti - dai tentati omicidio aggravato e femminicidio alla violenza sessuale allo stalking - viene stabilito che il Pm ascolterà personalmente la persona offesa che ne abbia fatto “motivata e tempestiva” richiesta. In caso di inerzia, il Procuratore della Repubblica potrà revocare il fascicolo al suo sostituto. Nella propria attività di vigilanza, il Procuratore generale della Corte d’appello acquisirà i dati relativi ai casi in cui la vittima ha chiesto di essere sentita personalmente dal Pm. Per gli stessi reati di violenza, la richiesta di patteggiamento dovrà essere notificata a pena di inammissibilità alla vittima, che potrà essere sentita dal giudice e presentare le proprie deduzioni “in relazione alla qualificazione giuridica del fatto, all’applicazione o alla comparazione delle circostanze prospettate dalle parti o alla congruità della pena nonché alla concessione della sospensione condizionale”. Se il giudice non riterrà fondate le deduzioni dell’accusa privata, nella sentenza dovrà spiegarne le ragioni. Cambia anche l’esecuzione della pena. Crescono i reati per cui i benefici penitenziari sono ammessi solo sulla base di osservazione collegiale scientifica annuale. Nel caso di concessione di misure alternative alla detenzione o benefici analoghi che comportino l’uscita dal carcere, il magistrato dovrà darne immediata comunicazione alla vittima e ai prossimi congiunti della persona offesa deceduta, che l’abbiano chiesto. Il delitto di femminicidio - Sembra avere meno ricadute concrete il nuovo reato di femminicidio. Il disegno di legge punisce con l’ergastolo chi causa “la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione odi odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Discriminazione e odio che diventano anche aggravante a effetto speciali per altri reati violenti. Condotte esecrabili ma, sotto il profilo processuale, sono comportamenti che non appaiono di semplice dimostrazione, perché riguardano la sfera più intima e interiore dell’autore del reato. Ad oggi, peraltro, la pena dell’ergastolo già raggiunta in alcune ipotesi, valorizzando condotte oggettive ed esteriori. È infatti punito con l’ergastolo l’omicidio commesso contro il coniuge (anche separato), l’altra parte dell’unione civile, la persona stabilmente convivente o legata al reo da relazione affettiva. Inoltre, l’ergastolo è previsto anche se la morte di una persona è causata dal suo stalker o in occasione di alcuni reati di violenza di genere o quando c’è una connessione teleologica tra omicidio e altro delitto. Omicidio di genere: il quadro Ue di Michela Finizio Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2025 Manca una definizione unica ma Croazia, Cipro, Malta e Belgio hanno norme ad hoc. L’Italia non è il primo paese ad aver legiferato contro il femminicidio, anche se ancora non esistono dati aggiornati sul fenomeno a livello europeo. L’assenza di statistiche “comuni”, come riportato in una recente inchiesta del Miir di Atene con lo European data journalism network, è legata alla scarsa omogeneità nelle classificazioni degli omicidi tra gli Stati membri: per poter definire femminicidio l’uccisione volontaria di una donna è necessario aspettare l’esito giudiziario, individuare il colpevole oppure i suoi moventi; in altri casi l’assassino dev’essere di sesso maschile, ex o attuale partner, oppure il fatto deve essersi compiuto in ambito domestico. Insomma i Paesi europei sul femminicidio vanno in ordine sparso. Ma il quadro di riferimento è unico, quello della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere e domestica, che è legge in Italia dal 2013. Il dibattito sull’opportunità di riconoscere il femminicidio come un crimine a sé stante si è acceso negli ultimi anni in molti Paesi europei. La prima soluzione è stata quella di introdurre un’aggravante al reato di omicidio. I paesi che hanno già legiferato in questo senso sono Croazia, Cipro e Malta. Gli altri non sono ancora intervenuti con un riconoscimento legale vero e proprio. L’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) ha definito il femminicidio come “l’omicidio di una donna per via della sua appartenenza di genere”, ricalcando la definizione della commissione statistica dell’Onu. Lo stesso istituto raccomanda agli Stati l’introduzione di un reato specifico: l’obiettivo è aumentare la visibilità del fenomeno nel sistema penale di ogni paese, nonché adottare protocolli investigativi e linee guida per gli operatori di pubblica sicurezza, garantendo approcci coerenti e armonizzati su scala internazionale. Una strada diversa è quella adottata dal Belgio nell’ottobre del 2023, con una legge più ampia sul femminicidio che ne distingue quattro diverse tipologie: il “femminicidio intimo”, quindi l’uccisione del partner; il “femminicidio non intimo”, quindi per esempio l’uccisione di una sex worker; il “femminicidio indiretto”, come conseguenza di un precedente reato; l’“omicidio di genere”, come per esempio l’uccisione di persone transgender. Vengono anche definite le diverse forme di violenza che possono precedere un femminicidio, come la violenza sessuale, la violenza psicologica e il controllo coercitivo. Più in generale, è la prima volta che viene data una definizione ad hoc all’“uccisione intenzionale di donne a causa del loro genere”. Sullo sfondo, seppur con qualche criticità attuativa, resta la “Ley Orgànica de garanha integral de la libertad sexual” del 2022 (anche conosciuta come ley del solo sí es sì) che non interviene però sui femminicidi: per la prima volta ha eliminato la distinzione tra abuso sessuale e aggressione sessuale, qualificando come stupro qualsiasi atto sessuale compiuto senza il consenso positivo ed esplicito di entrambe le parti. Fino a quel momento, infatti, l’aggressione sessuale era punita solo in caso fosse dimostrabile l’uso della forza o della minaccia, secondo il modello di diritto penale attualmente in vigore anche in Italia. La Cassazione frena i pm e tutela le fonti dei giornalisti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 marzo 2025 Se il pubblico ufficiale non è individuato e resta ignoto, le Procure della Repubblica non possono forzare il reato di rivelazione di segreto d’ufficio estendendo al giornalista il concorso nel reato fuori dagli unici casi possibili di istigazione o di induzione del pubblico ufficiale a violare il segreto; e, a ruota, i pm non possono quindi sequestrare i telefoni e i computer del giornalista allo scopo di aggirarne il segreto sulle fonti. Dalla Cassazione arriva uno stop a pratiche investigative sempre più diffuse, stavolta censurate dall’annullamento del sequestro che la Procura di Firenze ordinò con estrazione per parole chiave il 24 luglio 2024, e che peraltro il 31 luglio i carabinieri eseguirono invece con l’integrale duplicazione degli archivi informatici, a carico di un giornalista del Corriere fiorentino, Simone Innocenti, autore il 17 maggio 2024 di un articolo sul suicidio il 22 aprile di una allieva della Scuola Marescialli di Firenze Sequestro la cui conferma era stata poi fatta dal Tribunale del Riesame, e ora richiesta anche dal pg di Cassazione, Fabio Picuti. Ma al contrario, accogliendo il ricorso dell’avvocato Caterina Malavenda, la VI sezione della Corte (presidente Ercole Aprile, relatore Orlando Villoni) rimarca che in “violazione dell’articolo 15 della Costituzione e dell’articolo 200 del codice di procedura penale la perquisizione è stata deliberatamente mirata a svelare la fonte informativa del giornalista, senza alcuna vera ricaduta sulle indagini”, e “questo modo di fare” della Procura “non è obiettivamente consentito alla luce del quadro normativo”. Il che non vuol dire che il giornalista sia sopra la legge, al contrario i magistrati possono attivare il comma 3 dell’articolo 200: qualora le notizie dategli dalla fonte del giornalista siano indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede, e la loro veridicità possa essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte, “il giudice, e non il pm”, ordina al giornalista di indicarla. Due condizioni che qui non esistevano. “Resta ovviamente all’Arma dei carabinieri - conclude la Cassazione - la possibilità di avviare indagini interne volte ad accertare, a fini disciplinari o investigativi, gli eventuali responsabili della divulgazione all’esterno della notizia ritenuta di carattere riservato”. Mae, il condannato in assenza può chiedere la rescissione del giudicato a partire dalla consegna di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2025 Le sezioni Unite penali colmano con l’analogia la lacuna dell’articolo 629 bis del Cpp - dove non fissa al momento dell’ingresso in Italia la decorrenza per presentare l’istanza - in base alla norma sulla restituzione del termine. Scatta dalla data di consegna in Italia il decorso del termine per domandare l’annullamento della condanna e lo svolgimento di un nuovo processo di merito per la persona giudicata in assenza e richiesta di scontare la pena in base a Mae esecutivo mentre si trova in altro Stato Ue. Le sezioni Unite penali - nel dirimere un contrasto di giurisprudenza e fornendo un’interpretazione orientata al rispetto del diritto Ue - con la sentenza n. 11447/2025 hanno accolto il ricorso di un cittadino rumeno contro il mancato accoglimento, per tardività, dell’istanza di rescissione del giudicato di cui era stata richiesta l’esecuzione della pena in Italia tramite mandato di arresto europeo “esecutivo”. Infatti, al ricorrente che era stato giudicato in assenza i giudici della competente Corte d’appello avevano opposto il superamento del termine di 30 giorni dalla conoscenza della sentenza al fine di ottenere un nuovo giudizio, in quanto tale conoscenza non poteva coincidere con la data della consegna bensì con quella della notifica all’estero del Mae o al massimo dalla trasmissione della sentenza richiesta dallo stesso ricorrente interessato dal mandato di arresto. Ma la Cassazione rigetta questa lettura e accoglie, tra gli altri, il rilievo difensivo secondo cui la trasmissione non equivale a notifica della sentenza e l’esercizio di difesa a distanza non può ritenersi praticabile e agevole - cioè garantito - vista anche la difficoltà di reperire avvocato in grado di conoscere entrambe le lingue dei due Paesi coinvolti nella procedura estradizionale. Rilevanza della norma Ue non trasposta dalla Riforma Cartabia - La Corte di cassazione penale ha risolto la questione, non puntualmente regolata dal Legislatore, di quale sia la data da cui far decorrere i 30 giorni per avanzare domanda di rescissione del giudicato ex articolo 629 bis del Codice di procedura penale - come sostituito dalla Riforma Cartabia - quando la persona sia stata giudicata in assenza e sia stata oggetto di mandato arresto europeo emesso a fini esecutivi. In effetti, la norma non prevede il caso dell’assente che si trovi all’estero al momento in cui sia richiesto di eseguire la pena in Italia. Le sezioni Unite accolgono il ragionamento del ricorrente secondo cui non ha giustificazione la mancata previsione nella disposizione sulla rescissione del giudicato di analoga ipotesi, invece, esplicitata al comma 2 bis dell’articolo 175 del Cpp, dove esplicitamente prevede che la richiesta di restituzione del termine - in caso di estradizione dall’estero - possa essere presentata entro il termine di trenta giorni dall’avvenuta consegna in Italia del condannato. Il ricorrente rilevando appunto che in caso di restituzione del termine la decorrenza per l’istanza parte dalla consegna in Italia affermava che anche in caso di domanda di rescissione del giudicato si sarebbe dovuta ritenere legittima un’interpretazione omogenea che invece non emerge dalla decisione della Corte di appello che aveva individuato come termine a quo quello della notifica del mandato di arresto europeo nel Paese richiesto della consegna. In rilievo va messo il ragionamento del massimo consesso nomofilattico che, oltre a rilevare la non comprensibile differenza tra le norme nazionali su restituzione in termini e rescissione del giudicato, ha ritenuto poi che andasse fatta un’interpretazione orientata al rispetto delle norme Ue per quanto non puntualmente recepite dal nostro Legislatore e senza bisogno di operare rinvii pregiudiziali né alla Consulta né alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Così la sezioni Unite hanno dato rilievo al paragrafo secondo dell’articolo 4.1 dell’accordo Gai dove esplicitamente prevede che in un caso come quello risolto il diritto di difesa vada considerato come pienamente esercitabile a partire dall’arrivo in Italia della persona consegnata, anche ai fini che qui interessano in materia del decorso del termine per presentare istanza di rescissione del giudicato e ottenere la chance di un nuovo processo di merito cui non aveva partecipato e di cui non era conoscenza compresa la discendente condanna. Genova. Suicida in cella a 70 anni. “Le carceri sempre più a rischio” di Matteo Indice Il Secolo XIX, 24 marzo 2025 Lucio Saggio era detenuto per un omicidio a Savona: gli era stata respinta la misura alternativa. Aveva già tentato di uccidersi nell’estate del 2023 il detenuto 70enne che si è suicidato in una cella del carcere di Marassi. Il segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio in una nota sottolinea che “sale a ventidue l’assurda conta dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno nei penitenziari italiani, cui bisogna aggiungere un operatore”. Il detenuto era in carcere già da almeno una decina di anni e sarebbe stato liberato nel 2033. Una lunga pena per reati gravi, anche contro la persona. “Il carcere del capoluogo ligure - aggiunge il sindacato - si connota per grave sovrappopolamento detentivo e penuria di personale, ammontano a 670 i detenuti presenti a fronte di 534 posti disponibili, mentre sono 330 le unità di Polizia penitenziaria in servizio quando ne servirebbero almeno 551”. Doriano Saracino garante regionale dei detenuti aveva incontrato due volte il settantenne nei mesi passati. “È una tragedia che conferma quanto sia necessario trovare al più preso una soluzione per i sempre più numerosi detenuti anziani delle carceri liguri - commenta Saracino -. È un fenomeno in crescita quello di persone che intravedono il loro ritorno alla libertà quando avranno 78/80 anni. Lo Stato deve interrogarsi di fronte al fatto che se, dopo tanti anni un detenuto non è stato recuperato il percorso è fallito ma va comunque trovata una soluzione alternativa al carcere anche per loro”. La politica - “È una tragedia che pesa sulla coscienza di chi continua a ignorare l’emergenza nelle nostre prigioni. E mentre le carceri esplodono e il personale è allo stremo, il governo sceglie di voltarsi dall’altra parte” ha detto Maria Elena Boschi la presidente dei deputati di Italia Viva. “Gli esponenti della maggioranza hanno disertato la seduta straordinaria sul tema e hanno bocciato le nostre proposte di buon senso per affrontare il problema. Sono responsabili di quando sta accadendo”, aggiunge. “Quanto accaduto a Genova è un indice del tracollo strutturale del sistema penitenziario italiano”. Lo dice Ivan Scalfarotto, capogruppo di Italia Viva in Commissione Giustizia al Senato. “Non solo i detenuti, ma anche gli operatori, sono allo stremo delle loro forze psichiche e fisiche, a causa di sovraffollamento, penuria di personale, deficienze strutturali. Stiamo assistendo impotenti a una scia di morte e sofferenza. Il ministro Nordio non può più rimandare gli interventi sistemici richiesti a gran voce dal personale e da coloro che, con queste condizioni di reclusione, vengono ingiustamente privati anche della loro dignità”. Trieste. Tenta il suicidio in carcere e muore in ospedale di Laura Tonero Il Secolo XIX, 24 marzo 2025 Mercoledì aveva tentato di togliersi la vita ed era stato trasferito in Terapia intensiva. L’avvocato Miscia: “Lo avevo visto poche ore prima”. È morto ieri mattina, 23 marzo, nell’ospedale di Cattinara, dopo che mercoledì scorso aveva tentato di togliersi la vita in una cella del Coroneo, legandosi le lenzuola al collo. Aveva ventinove anni, si chiamava Walid Mohamed Saad Mohamed. Era arrivato in Italia dall’Egitto. Era in carcere da un mese. È il ventitreesimo suicidio dall’inizio dell’anno tra le persone detenute nelle carceri italiane, il primo a Trieste. Una situazione drammatica anche nei numeri: la capienza della casa circondariale è di 150 posti ma nelle celle ci sono oltre 250 persone. “Sono scosso - ha dichiarato ieri appresa la drammatica notizia l’avvocato Enrico Miscia, che difendeva il giovane egiziano -. Lo avevo visto poche ore prima che tentasse di togliersi la vita. Ero assieme a un traduttore, perché non capiva bene l’italiano. Lo avevo visto tre volte negli ultimi dieci giorni, avevo colto le sue difficoltà a restare in carcere”. Walid era in carcere per una rapina. Era senza fissa dimora. Nel gennaio scorso aveva aggredito un minorenne, rubandogli lo zaino. Fermato, per lui era stato disposto l’obbligo di firma, e visto che aveva dei punti di riferimento ad Alessandria, era stato disposto che si trasferisse e che rispettasse la misura lì, in Piemonte. Obbligo che invece non aveva rispettato. Era stato infatti intercettato nuovamente dalle forze dell’ordine mentre girovagava per Trieste. Disponendo a quel punto un aggravamento della misura cautelare, il giudice visto che il giovane era senza fissa dimora, non ha potuto prevedere i domiciliari, e così per lui si sono aperte le porte del Coroneo. Dove “era stato aggredito da altri due detenuti - riferisce Miscia - soffriva molto la condizione carceraria. A sua tutela, dopo l’aggressione, era stato disposto venisse spostato nell’area riservata agli isolamenti”. In realtà però non si trattava di vero e proprio isolamento: il giovane era stato sistemato con altri due detenuti. Ma mercoledì mattina, dopo aver incontrato il suo avvocato, è tornato in cella e nella tarda mattinata ha tentato di togliersi la vita. Quando il personale del 118 ha raggiunto la sezione della casa circondariale dove era detenuto il giovane, le sue condizioni sono parse subito molto gravi. Intubato è stato trasferito nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale di Cattinara. Le sue condizioni erano compromesse e questa mattina il suo cuore ha smesso di battere. Fino a tarda serata la casa circondariale Ernesto Mari non era ancora stata avvisata del decesso di Walid Mohamed Saad Mohamed. Nel carcere triestino, il 12 luglio scorso, il giorno dopo la grave rivolta dei detenuti, con l’infermeria saccheggiata anche di un’importate quantità di dosi di metadone, era morto anche Zdenko Ferjancic. Aveva 48 anni ed era finito in carcere per questioni legate allo spaccio di stupefacenti. Erano stati i compagni di cella ad accorgersi della sua morte, trovandolo inerme nel letto, e dando l’allarme. Erano stati vani i tentativi di rianimazione operati dai sanitari del 118. Era morto già da ore. Avellino. Detenuto di 48 anni suicida in cella, la procura apre inchiesta di Katiuscia Guarino Il Mattino, 24 marzo 2025 Una inchiesta è stata aperta dalla Procura di Avellino sulla morte di un detenuto di 48 anni che si è tolto la vita all'interno della sua cella nel carcere del capoluogo irpino. A fare la scoperta, nella tarda serata di ieri, sono stati gli agenti penitenziari che hanno tentato di rianimarlo in attesa dell'arrivo dei sanitari del 118. Il detenuto, tossicodipendente, era originario di Montoro (Avellino) e stava scontando una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti. La salma, su disposizione della Procura, è stata sequestrata. È il secondo suicidio di un detenuto nel carcere di Avellino nel giro di un mese e mezzo. Il nuovo decesso accende un ulteriore faro sulle problematiche del penitenziario che più volte i sindacati hanno messo in evidenza: la gestione dei detenuti con problematiche di salute o con dipendenze patologiche. Come più volte sottolineato in precedenti interventi dal consigliere nazionale dell’Osapp, Emilio Fattorello, “la frequenza dei decessi dietro le sbarre per presunti aspetti naturali hanno bisogno di un approfondimento e dettagliato esame del fenomeno. La morte di un detenuto è una sconfitta per tutti coloro che orbitano nel complesso e tumultuoso universo penitenziario”. Proprio la segreteria generale dell’Osapp ha chiesto approfondimenti anche in merito al decesso del 27enne napoletano Ciro Pettirosso avvenuto lo scorso mese. “La morte di un detenuto, per qualsiasi causa, lascia segni indelebili sia nei compagni di detenzione sia negli operatori tutti”, ha ribadito la scorsa volta il consigliere Fattorello. Sono, dunque, due i decessi registrati nel penitenziario avellinese dall’inizio dell’anno. Salerno. Una conferenza stampa sulla morte in carcere di Renato Castagno rtalive.it, 24 marzo 2025 Convocata una conferenza stampa nello studio dell’avvocato Bianca De Concilio sul caso del Renato Castagno, il 37enne detenuto morto durante il trasferimento dal carcere di Fuorni al Ruggi di Salerno. Sarà una conferenza stampa, oggi alle 10.30, molto importante per illustrare le novità sul caso che sta facendo montare la protesta a Salerno con decine di video su Tik tok e altrettanti su altri social per chiedere giustizia per la morte di Renato Castagno, deceduto il 19 marzo scorso per motivi ancora da accertare. Video e foto che andate virali, in alcuni casi superando anche le duemila condivisioni, sono il segno di una diffusa commozione per la morte del 37enne. Castagno, condannato per un reato grave quale l’associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti per il quale era stava espiando da oltre un triennio una pena a sei anni due mesi di reclusione, è la storia sanitaria e carceraria del detenuto. Castagno aveva subito già due ictus e aveva la pressione arteriosa molto alta tant’è che aveva fatto richiesta degli arresti domiciliari e il suo avvocato. Bianca De Concilio, aveva presentato una dettagliata richiesta affinché gli fossero stati concessi, visto che aveva trascorso oltre la metà del tempo di reclusione e in carcere non riusciva a seguire la terapia prescritta dal medico, tenendo presente anche che il detenuto era al suo primo reato e che in carcere aveva mantenuto una buona condotta. Davanti al carcere di Salerno, venerdì sera, è andata in scena una protesta con la richiesta di giustizia per Renato, con decine partecipanti che indossavano una maglietta con una sua foto e con i detenuti che battevano vicino alle inferriate delle celle. Tre punti più controversi e la notizia del presunto arrivo in ritardo dell’ambulanza del 118, chiamata dopo che Castagno aveva accusato un malore. Un ritardo che sarebbe andato oltre i 45 minuti, ricostruzione smentita da ambienti sanitari. “L’ambulanza è stata chiamata subito ed è arrivata in poco tempo, prima una senza medico e poi un’altra con un medico a bordo - ha affermato Samuele Ciambriello, garante per i detenuti in Campania e portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali -. Il medico gli ha prestato le prime cure e ha deciso il trasferimento in ospedale. Castagno è morto durante il trasporto al Ruggi”. Il garante ricorda che la magistratura è già a lavoro per ricostruire il tutto e verrà disposta l’autopsia. Andrà compresa anche perché, di fronte, alle lamentele dei continui mal di testa, il 37enne salernitano non sia stato trasferito prima al reparto detenuti del Ruggi, dove avrebbe potuto ricevere un’assistenza specialistica. “Il decesso di Castagno è il sesto per cause da accertare in Campania e se si aggiungono i due suicidi (a Poggioreale e alla Rems di San Nicola Baronia) nei primi tre mesi di quest’anno abbiamo raggiunto livelli molto alti. Si continua a morire in carcere e di carcere in Campania come in tutta Italia dove si contano 72 decessi, di cui 19 suicidi, 16 cause per da accertare e 37 per eventi cause naturali”. Ciambriello assieme e ad altri due garanti è stato recentemente ricevuto dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per sollevare ancora una volta la situazione delle carceri dove “si continua a morire per mano propria e per cause che spesso non si riusciranno mai accettare. E a morire sono sempre più giovani: la media dell’età è di 42 anni”. Il portavoce dei garanti sottolinea la mancanza di figure socio sanitario di supporto come psichiatri, psicologi, mediatori culturali, ma soprattutto la reclusione in cella per 20 ore al giorno: “Il sistema carcerario da una risposta solo con la chiusura in cella dei detenuti. Al ministro abbiamo detto che in Italia non abbiamo bisogno di non nuove carceri ma di carceri nuove, più inclusive, con più attività sociali e culturali, più laboratori anche per avviare al mondo del lavoro, invece la risposta è solo la restrizione. La politica deve intervenire sul carcere e il 31 marzo abbiamo organizzato una giornata sul sistema di reclusione, per costruire una progettualità diversa per i penitenziari”. Roma. Emergenza carceri, da Regina Coeli a Rebibbia sovraffollamento record di Marina de Ghantuz Cubbe La Repubblica, 24 marzo 2025 Il report del Garante: a Trastevere 1.054 detenuti per 571 posti. Celle in cui convivono tre, quattro carcerati anziché due. Docce che non funzionano, come i riscaldamenti. Telefonate ai familiari che saltano perché ci sono troppe persone in attesa, spegnendo l’unica fonte di supporto emotivo per chi è recluso. Il sovraffollamento nelle case circondariali di Roma è spaventoso. Si parte da Regina Coeli. Nel carcere di Trastevere, in base agli ultimi dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personali, i posti disponibili sono 571 mentre i detenuti sono 1.054. L’indice di sovraffollamento è del 184,6%, ma paradossalmente non si può parlare di emergenza. Perché le condizioni sono le stesse ormai da molti mesi e purtroppo questa inizia a essere la normalità. La situazione si è particolarmente aggravata da settembre, quando c’è stata una rivolta nell’ottava sezione, poi chiusa: i posti disponibili sono quindi ancora meno dei 628 quelli previsti. Nel caso di Rebibbia, la situazione delle quattro diverse strutture è molto differente: nella casa circondariale, dove dovrebbero andare persone appena arrestate o in custodia cautelare, o persone con una pena al sotto dei cinque anni, i posti disponibili sono 1.057 mentre i detenuti presenti sono 1.555, con un indice di sovraffollamento del 147%. Nella casa di reclusione, dove invece dovrebbero andare persone con una pena molto alta, la situazione migliora leggermente con 296 posti regolamentari e 282 reclusi così come nella “terza casa” dove vanno persone con dipendenze: qui ci sono 132 posti e 81 presenze. Ma il problema del sovraffollamento torna nella struttura femminile, dove l’indice schizza di nuovo al 143% con una capienza di 265 donne che nella realtà sono 380. Qui ci sono anche problemi strutturali, con l’impianto dell’acqua che spesso si rompe rendendo complicate anche solo farsi una doccia. Nella casa di reclusione, poi, si trovano anche persone con pene brevi: l’ennesimo effetto della sproporzione tra carcerati e disponibilità di spazi che crea un circolo vizioso. Il carcere femminile è il più grande d’Italia, ma è pieno anche perché in tutto il Paese ce ne sono solo quattro. C’è anche il cosiddetto nido, la sezione dove vengono tenute le donne arrestate con i bambini. La garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, il 14 marzo qui ha trovato sei madri con sei bambini. Mai visti così tanti. La struttura è in buone condizioni, ma ci sono le sbarre alle porte e alle finestre e dopo i bassi numeri durante il Covid, la speranza era di non vedere più bambini reclusi. Non è così. L’istituto maschile penale per minorenni Casal del Marmo solo apparentemente non presenta criticità: al 10 gennaio erano 55 i posti disponibili e 52 i minori presenti, ma anche qui di solito c’è una situazione di sovraffollamento. Non è un caso che le rivolte siano continue, dovute anche al fatto che le attività, rispetto ai bisogni di questi ragazzi, scarseggiano. Molto differente la situazione nell’istituto femminile dove a fronte di 27 posti, sono presenti solo 9 ragazze. Più in generale, il Lazio è tra le regioni che il report del Garante definisce “tra le peggiori” perché l’indice di sovraffollamento è del 146%. Quello nazionale del 132%. Infine, nel report firmato dai Garanti del collegio (Riccardo Turrini Vita, Irma Conti e Mario Serio) viene indicato anche per quanto tempo i detenuti devono ancora rimanere in carcere. Nel Lazio, le persone con pene residue fino a 6 mesi sono 37, da sei mesi a un anno 142 e da uno a due anni 397. Infine, quelle con pene da due a tre anni sono 589 totale. Per queste 1.165 persone, le misure alternative al carcere sono 62. La sostituzione del carcere con l’obbligo di firma, i domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali o la semilibertà sono strumenti che potrebbero aiutare a svuotare le celle, ma sono poco utilizzate. Napoli. “Carceri di Nisida e Airola sovraffollate e fatiscenti”, la denuncia dei Radicali ansa.it, 24 marzo 2025 “Più che Mare Fuori, qui è lo Stato a essere fuori. Lo Stato è assente: lascia soli i ragazzi e il personale, già in sottorganico e privo degli strumenti necessari per adempiere alla missione di reinserimento sociale”. Lo ha dichiarato il segretario di Radicali Italiani, Filippo Blengino, che insieme a Bruno Gambardella e Alfonso Maria Gallo (rispettivamente presidente del Comitato nazionale e membro della Direzione), ha visitato gli istituti penali minorili di Airola e Nisida. Spiega Blengino: “Ad Airola la struttura sta letteralmente cadendo a pezzi. I lavori di ristrutturazione previsti dovrebbero porre rimedio a una situazione inaccettabile: gran parte dei locali del carcere è inagibile e, a causa di infiltrazioni, muffa e rischio di crolli, l’area trattamentale è stata sgomberata. Nisida, invece, è sovraffollata e soffre una grave carenza di personale. I detenuti con condanna definitiva sono una minoranza, e la presenza di 80 reclusi in una struttura progettata per molti meno rende difficili iniziative di reinserimento sociale efficaci”. “Torniamo a ribadirlo anche da qui: la risposta manettara e carcerocentrica voluta da questo Governo non solo non è la soluzione, ma non produce alcun effetto positivo in termini di sicurezza o di riduzione della recidiva. Anzi”, conclude il segretario di Radicali. Foggia. Sovraffollamento, suicidi e condizioni estreme: visita congiunta nel carcere immediato.net, 24 marzo 2025 La Camera Penale di Capitanata, insieme a “Nessuno tocchi Caino” e all’associazione radicale “Maria Teresa di Lascia”, torna nella struttura foggiana tra le più sovraffollate d’Italia. Previsto un punto stampa al termine dell’ispezione. Una nuova visita ispettiva per accendere i riflettori su una delle realtà più drammatiche del sistema carcerario italiano. Il prossimo 25 marzo 2025, la Camera Penale di Capitanata tornerà all’interno della Casa circondariale di Foggia, affiancata ancora una volta dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”, con la partecipazione del segretario Sergio D’Elia, e da una delegazione dell’associazione radicale foggiana “Maria Teresa di Lascia”. L’iniziativa si inserisce in un momento di estrema criticità per la struttura detentiva foggiana, che da anni soffre una condizione cronica di sovraffollamento, con un numero di detenuti che supera di quasi il 200% la capienza regolamentare. Una situazione che peggiora drasticamente le condizioni di vita all’interno dell’istituto, sia per i ristretti che per il personale di polizia penitenziaria, costretto a operare in un contesto al limite del collasso. Una lunga emergenza - A rendere ancora più drammatico il quadro, la recente morte di un detenuto avvenuta proprio all’interno del carcere di Foggia, appena due giorni fa. Si tratta del ventunesimo suicidio in carcere dall’inizio del 2025, una cifra che si inserisce nella scia dell’allarme già lanciato nel 2024, anno in cui si sono registrati 90 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli agenti di polizia penitenziaria. Numeri che descrivono un’emergenza strutturale e umanitaria, alimentata da condizioni detentive sempre più incompatibili con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla normativa europea in materia di diritti umani. La richiesta di interventi urgenti - Con questa nuova visita, le realtà promotrici intendono rilanciare l’appello alle istituzioni affinché vengano adottate misure immediate per alleggerire la pressione sulla casa circondariale di Foggia e, più in generale, per riformare il sistema dell’esecuzione penale in Italia. “Non è più tollerabile - hanno fatto sapere gli organizzatori - che il carcere si trasformi in un luogo di abbandono e disperazione, lontano anni luce dalle finalità rieducative previste dalla legge”. Conferenza stampa a fine visita - Al termine dell’ispezione, intorno alle 13.30, è previsto un punto stampa davanti all’ingresso della casa circondariale. Sarà l’occasione per condividere pubblicamente le condizioni riscontrate durante la visita e rinnovare l’invito alla politica e all’amministrazione penitenziaria a non voltarsi dall’altra parte. Cremona. Celle strapiene: 554 detenuti su una capienza regolamentare di 394 laprovinciacr.it, 24 marzo 2025 Visita dei Radicali: “Sovraffollamento e tossicodipendenze in crescita”. Una delegazione dell’associazione radicale ‘Fabiano Antoniani’, rappresentanti delle istituzioni di Cremona e Crema, oltre che della cittadinanza sono nuovamente entrati in visita ispettiva nella Casa circondariale Ca’ del Ferro incontrando la nuova direttrice Giulia Antonicelli e il comandante Letizia Tognali in missione presso la struttura. I numeri continuano a dipingere una situazione di sovraffollamento, con 544 detenuti su una capienza regolamentare di 394, di cui 440 definitivi. Numerosi i detenuti che soffrono di ansia, depressione, ma sono soprattutto affetti da tossicodipendenze, ben 367. “La mancanza di sottufficiali e alti gradi di polizia penitenziaria rende difficili importanti attività di coordinamento dei reparti e la gestione di orari serali”, racconta Vittoria Loffi, segretaria dell’associazione e consigliera comunale a Cremona, che continua: “Le progettualità sono molteplici, e tutte indirizzate verso il reinserimento lavorativo di detenuti assegnati al lavoro esterno o semiliberi. Da questa visita emerge più forte che mai la necessità di attivarsi dall’esterno, per riuscire a mantenere viva una connessione con la cittadinanza e far comprendere al mondo lavorativo fuori dalla Casa circondariale che il reinserimento sociale del reo è possibile. Serve l’aiuto di tutti”. “Rispetto alle visite condotte fino ad ora come Associazione Radicale possiamo confermare che i numeri della Casa circondariale sono in linea con il passato, tuttavia l’aumento di detenuti tossicodipendenti non può che preoccuparci - sottolinea la presidente dell’associazione e consigliera comunale a Crema Nancy Pederzani. “Il dialogo con la direttrice e la comandante è stato sicuramente proficuo e in pieno spirito di collaborazione, le ringraziamo profondamente per l’attenzione e l’accoglienza. Serve continuare a collaborare con tutti i territori, dalla cittadinanza alle amministrazioni, non solo di Cremona che ospita geograficamente la Casa circondariale, ma anche Cremasco e Casalasco” conclude. E la visita di ieri è stato un primo esempio di come l’impegno debba essere condiviso, a partire dalla composizione della delegazione: erano infatti presenti tanto la consigliera comunale di Cremona Fabiola Barcellari, che la presidente della commissione politiche sociali a Crema Teresa Caso, oltre che del consigliere comunale di Crema Giuseppe Torrisi, il segretario di Italia Viva Cremona Ivan Fumagalli, l’iscritto all’associazione Luigi Camurri e il presidente del comitato di quartiere Zaist Giulio Ferrari. Castrovillari (Cs). La Garante: “Dalla privazione della libertà alle opportunità di formazione” quicosenza.it, 24 marzo 2025 La sociologa Tina Zaccato, nominata un mese fa, illustra il quadro delle criticità e la sua visione progettuale legata al riscatto delle persone che scontano una pena in un istituto di pena. L’emergenza carceri in Italia rimane, purtroppo, di tragica attualità. Alto il numero dei suicidi dietro le sbarre, strutture in sovraffollamento, il senso di alienazione vissuto dalla popolazione carceraria, allontana il principio costituzionale della rieducazione e richiama l’esigenza di intervenire con ingenti risorse umane e finanziarie. La Calabria non sta a guardare, sul territorio i presìdi di tutela sono attivi. Con la delibera del 21 febbraio 2025, il Consiglio comunale di Castrovillari ha nominato Tina Zaccato, classe ‘81, garante per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La casa circondariale di Castrovillari è l’unica in provincia di Cosenza che può ospitare donne e minori (di questi ultimi, al momento, per fortuna non c’è presenza). Esattamente a distanza di un mese dalla nomina, il 20 marzo, Zaccato, sociologa e mediatrice culturale, da sempre sensibile alle problematiche legate ai diritti di chi si trova in regime di detenzione, ha partecipato a Roma all’incontro sul tema promosso al Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro). Un confronto con i garanti territoriali di carattere nazionale dal titolo “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro dei detenuti (dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema in carcere e fuori dal carcere)”. Questo incontro è propedeutico alla seconda conferenza nazionale, in programma il prossimo 16 giugno. L’appuntamento rientra in quel percorso finalizzato a consolidare il ruolo del Cnel - oggi presieduto da Renato Brunetta - nel potenziare il meccanismo di inclusione economica e lavorativa delle persone detenute. Alla giornata romana di approfondimento, oltre alla garante di Castrovillari, hanno partecipato la garante regionale Giovanna Francesca Russo, nominata il 21 gennaio scorso e circa 150 rappresentanti delle istituzioni, del sistema penitenziario, di associazioni datoriali ed enti del terzo settore. In particolare, proprio Tina Zaccato, docente tra l’altro nel polo arbereshe di Lungro, formatasi alla Federico II di Napoli e approdata in Calabria dopo un periodo a Roma, ha dedicato le sue ricerche e la sua attività sociologica al mondo carcerario ed allo stato emergenziale di sovraffollamento. Ma L’attenzione di Tina Zaccato si è lungamente rivolta anche alla qualità delle singole condizioni dei diversi istituti penitenziari ed al miglioramento generale della qualità di vita all’interno del “sistema”. La passione che la anima è direttamente proporzionale alla sua determinazione di voler cambiare in concreto le cose. La partecipazione ai tavoli tematici, legati al progetto su come diminuire la recidiva attraverso la profilazione occupazionale GOL (Garanzia di occupazionalità per i lavoratori) è legata ad esempio alla funzione dei Centri per l’impiego. Questo discorso, per l’esperta, è fondamentale allo scopo di restituire ai detenuti la dignità. Come? Accendendo una luce sul loro futuro, nella dimensione sociale che poi è prima di tutto una dimensione di realizzazione personale. Non a caso, Zaccato ha preso parte al tavolo di lavoro, istruzione, sport e benessere. “Quando si esce dal carcere - dice la sociologa - occorre portare con sé un patrimonio di rispetto e dignità. Acquisito anche e non secondariamente attraverso la formazione, che dà diritto agli attestati di qualificazione e permette così di accedere alle candidature rivolte alle diverse aziende, attraverso le opportune abilitazioni”. Una possibilità già presente nel circuito, ma non in tutte le carceri. Tina Zaccato conosce approfonditamente le criticità che investono questa parte della società. Subito dopo la laurea, ha avviato un progetto al riguardo, con la sottoscrizione di un protocollo di intesa tra il carcere di Castrovillari e l’Università di Napoli Federico II, un accordo programmatico a suo nome che è ancora attivo. Tina Zaccato lo sottolinea con orgoglio, evidenziando i passi in avanti che sono stati compiuti nel suo ambito di riferimento. Sentirla esporre il quadro della realtà carceraria è come ascoltare una storia drammatica che, senza negare la sua gravità, tende alla ricerca di soluzioni possibili. Insomma: le celle chiuse a doppia mandata privano della libertà ma non devono lasciare fuori la speranza. Tina Zaccato ci crede molto: “La profilazione, l’accesso ai corsi di formazione fruibili nell’istituto di pena oppure all’esterno, nel caso si tratti di persone in giovane età o di minori, senza escludere chi è stato condannato al carcere a vita, sono la strada da seguire per provare ad annullare l’emergenza, costituendo nello stesso tempo una strategia che conservi integralmente la nostra memoria intorno alla cultura dei diritti umani e sostanzialmente del nostro modello di civiltà”. Zaccato ha approfondito la materia attraverso una conoscenza diretta, oltre che teorica, sulle particolarità delle carceri in Italia, anche in rapporto alla cospiqua presenza di detenuti extracomunitari. Oggi, da garante per i diritti dei detenuti a Castrovillari - principale suo riferimento -, agisce come anello di congiunzione con il Prap (Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria). Dal suo osservatorio raccoglie continue testimonianze, sia quelle dei detenuti con sentenza definitiva, sia di quell’ampia parte di detenuti in attesa di giudizio, che ritrovano una speranza di riscatto attraverso una possibile qualificazione professionale. “È evidente - sostiene ancora Zaccato - che riuscire a lavorare ed a trovare un proprio posto nel mondo pur essendo in carcere, agisce come fattore di contrasto alla depressione e può influire seriamente nel senso di ridurre il fenomeno dei suicidi”. La sociologa richiama quindi l’accuratezza delle analisi che ha svolto, per lunghi anni, nel campo: “Occorre guardare - precisa - alle diverse identità ‘geografiché presenti all’interno delle carceri. Io, fra le altre cose, mi sono occupata del confronto tra carceri e caserme, Non si argina il malessere dell’isolamento se non si studiano alternative a questa condizione”. Emerge allora forte l’esigenza di profilare le capacità attitudinali e motivazionali dei detenuti individuando i modi per valorizzarle. Poi, certo, esistono tante altre questioni su cui rivolgere, di volta in volta, la necessaria attenzione. Nell’incontro al Cnel di qualche giorno fa, infatti, un passaggio dell’intervento del sottosegretario alla Giustizia ha riguardato le problematiche di gestione correlate alla sicurezza ed alla mancanza di agenti penitenziari. Di questo ed altro - assicura Tina Zaccato - si riparlerà ad aprile, quando saranno descritti i risultati di questo partecipato tavolo dedicato, appunto, alla recidiva nelle carceri. Torino. Carceri, al via la riqualificazione del Ferrante Aporti torinotoday.it, 24 marzo 2025 “Le criticità delle carceri piemontesi sono tante: le strutture sono vecchie, obsolete e usurate dal sovraffollamento”, a dirlo è Bruno Mellano, il garante regionale dei detenuti, “Ci sono spazi abbandonati perché piove dentro e non ci sono i soldi per riparare”. I soldi in realtà - e questa è la buona notizia - stanno per arrivare. È previsto infatti uno stanziamento di un milione di euro per la manutenzione delle carceri e un altro finanziamento di 25 milioni di euro da destinare al Ferrante Aporti. “Per il Piemonte, la Liguria e la Valle D’Aosta ci sarà un milione di euro per interventi di manutenzione straordinaria. La richiesta dei garanti è di fare prima un monitoraggio attento e puntuale degli spazi. Abbiamo nel carcere minorile spazi inutilizzati, utilizzati male o banalmente abbandonati. Prima di prevedere nuove costruzioni e intervenire su progettazioni anche innovative occorre fare un monitoraggio e una valutazione”, spiega Mellano. “Abbiamo poi intervento straordinario sul carcere minorile per 25 milioni e mezzo di euro”, continua, “Noi chiediamo che sia attentamente studiata una progettazione architettonica e urbanistica per l’intero compound del Ferrante Aporti”. Le risorse in questione - che arrivano anche dal Pnrr - serviranno per la riqualificazione energetica dell’edificio e degli impianti; per l’ottimizzazione degli spazi e per l’edificazione di nuove aree; per la riconfigurazione e nuova percorribilità delle aree esterne. Trento. In calo le misure alternative al carcere lavocedeltrentino.it, 24 marzo 2025 In 145 affidati ai servizi sociali. 73 stranieri sottoposti a misure alternative. In Trentino, il numero di condannati sottoposti a misura alternativa alla detenzione ha registrato un calo nel 2023 rispetto all’anno precedente. Secondo i dati pubblicati da Ispat (Istituto di Statistica della Provincia di Trento), nel 2023 sono stati 197 i soggetti coinvolti, rispetto ai 221 del 2022 e ai 222 del 2021. L’analisi dei dati, suddivisi per cittadinanza, genere e tipo di misura, rivela tendenze interessanti. I cittadini italiani continuano a rappresentare la maggioranza (124 nel 2023), con una netta prevalenza maschile (106 uomini contro 18 donne). Tra gli stranieri, la presenza femminile è quasi nulla (0 nel 2023), mentre i maschi stranieri sottoposti a misure alternative sono stati 73. Va ricordato che la presenza degli stranieri sul nostro territorio è dell’8%. Tra le misure applicate, l’affidamento in prova al servizio sociale risulta di gran lunga la più utilizzata, con 145 casi nel 2023, di cui 17 riguardanti tossico/alcoldipendenti. Seguono, a distanza, la detenzione domiciliare (47 casi) e la (sempre 47 casi) e la semilibertà (solo 5 casi). Nessun caso è stato registrato nella categoria “altre misure” (come libertà vigilata o semidetenzione), ormai assente dai dati dal 2020. Il confronto temporale mostra un picco nel triennio 2021-2022, coincidente con gli anni post-pandemici, periodo in cui si è registrata una maggiore attenzione all’uso di misure detentive non carcerarie, forse anche per motivi legati alla gestione sanitaria e al sovraffollamento delle carceri. Questa evoluzione suggerisce una tendenza verso un approccio più sociale e riabilitativo alla pena, in linea con le indicazioni del sistema giuridico italiano, che prevede l’uso della custodia sola come estrema ratio. Il calo complessivo del 2023 potrebbe però indicare anche una fase di assestamento o un cambiamento nelle strategie giudiziarie. Resta centrale il dibattito sulla reale efficacia delle misure alternative nel favorire il reinserimento sociale dei condannati e sulla necessità di rafforzare i percorsi di supporto, in particolare per i soggetti più fragili, come i tossicodipendenti. Paola (Cs). Emergenza carceri: un convegno su diritti, criticità e reinserimento di Nicoletta Toselli calabriareportage.it, 24 marzo 2025 Si terrà oggi, presso la Sala Convegni della Casa Circondariale di Paola, l’incontro dal titolo “Emergenza carceri: diritti e criticità del sistema penitenziario. Espiazione della pena e reinserimento”, promosso dalla Camera Penale di Paola “Enzo Lo Giudice”. L’evento vedrà la partecipazione di avvocati, magistrati, rappresentanti delle istituzioni e garanti dei diritti delle persone detenute, con l’obiettivo di approfondire le problematiche del sistema penitenziario e le prospettive di reinserimento sociale per i detenuti. Ad aprire i lavori sarà l’avvocato Egidio Rogati, referente dell’Osservatorio carcere della Camera Penale di Paola. La moderazione sarà affidata all’avvocata Federica Sconza, componente dello stesso osservatorio. Seguiranno i saluti istituzionali dell’avvocato Giuseppe Bruno, presidente della Camera Penale di Paola, dell’avvocato Gianfranco Parenti, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Paola, e dell’avvocato Roberto Le Pera, presidente della Camera Penale di Cosenza. Interverranno inoltre il procuratore capo della Repubblica di Paola, dottor Domenico Fiordalisi, la direttrice della Casa Circondariale di Paola, dottoressa Emilia Boccagna, la magistrata di sorveglianza di Cosenza, dottoressa Francesca Marrazzo, e il cappellano del carcere, padre Aurelio Marino. Nel corso dell’incontro prenderanno la parola esperti del settore, tra cui l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, referente dell’Osservatorio Nazionale dell’Unione delle Camere Penali Italiane, e l’avvocato Giovanni Salzano, componente dell’Osservatorio carcere della Camera Penale di Paola. Saranno inoltre presenti i responsabili dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) di Catanzaro e Cosenza, rispettivamente il dottor Rocco Scicchitano e il dottor Antonio Antonuccio, oltre alla garante regionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale, dottoressa Giovanna Russo. L’evento sarà concluso dall’intervento del dottor Filippo Leonardo, presidente del Tribunale di Paola. Il convegno rappresenta un’importante occasione di confronto sulle condizioni di detenzione, sui diritti delle persone recluse e sulle prospettive di riforma del sistema penitenziario, con particolare attenzione alle politiche di reinserimento sociale, necessarie per garantire un’effettiva funzione rieducativa della pena. La grande eredità di Aldo Moro: una vita dedicata a politica, diritti e giovani di Franco Insardà Il Dubbio, 24 marzo 2025 Oltre quei 55 giorni. “Liberiamo Moro dal caso Moro”, di Angelo Picariello, documenta il pensiero moderno, la politica orientata al bene comune e l’impegno per la giustizia riparativa. Marco Bellocchio, nel film “Buongiorno, notte”, immagina Aldo Moro libero per le strade di Roma, al di fuori della prigione in cui era tenuto dalle Brigate rosse. Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire, nel suo libro “Liberiamo Moro dal caso Moro. L’eredità di un grande statista” (San Paolo, 472 pagine), “libera” la figura di Moro dai 55 giorni del suo rapimento, restituendo una visione più completa dello statista: antigiustizialista, giusnaturalista, padre costituente, penalista, uomo di governo, ministro degli Esteri, professore attento ai giovani e ai movimenti di contestazione, uomo di pace, vittima del terrorismo, ispiratore della giustizia riparativa, e profondamente legato alla sua famiglia. L’idea di approfondire la figura di Aldo Moro oltre il tragico sequestro è stata proposta dallo storico Renato Moro, nipote dello statista, in occasione del centenario della nascita celebrato al Quirinale nel 2016. Questo vero e proprio appello intende liberare Moro dalla prigione brigatista in cui è rimasto confinato nell’immaginario collettivo. “Quasi 62 anni di vita contro 55 giorni. Possono questi ultimi fagocitare tutta una figura e una personalità?” si chiede Picariello, delineando la linea guida del suo lavoro. Dal libro di Picariello, che nel 2019 aveva già approfondito il tema in Un’azalea in Via Fani. Da Piazza Fontana a oggi: terrorismo, vittime, riscatto e riconciliazione, emerge la complessità di un uomo che ha profondamente segnato il destino dell’Italia. Il suo pensiero, moderno e attuale, sempre teso al bene comune, offre spunti rilevanti per la politica e la società odierne. Un esempio emblematico del ruolo di Moro sulla scena internazionale è la sua presidenza di turno della Comunità Europea nel 1975, quando contribuì agli Accordi di Helsinki, portando Stati Uniti e Unione Sovietica allo stesso tavolo per discutere di libertà religiosa e non proliferazione degli armamenti. Un’Europa protagonista, ben diversa da quella che oggi fatica a ritagliarsi un ruolo nello scenario internazionale. Come ministro degli Esteri, Moro adottò un’azione di dialogo e confronto, sia come pacificatore dei confini nazionali sia nella ricerca della pace nel mondo, in linea con il Magistero della Chiesa. Posizioni lungimiranti, soprattutto sul Medio Oriente, confermate dal cosiddetto “lodo Moro”, un patto tra i Servizi italiani e i movimenti palestinesi per proteggere l’Italia dagli attentati che insanguinavano i Paesi occidentali a inizio anni Settanta. Le tensioni con il segretario di Stato Usa, Henry Kissinger, che Moro accusava di voler confinare l’Europa in una “dimensione regionale” subalterna, emergono chiaramente dai suoi scritti dalla prigionia. L’eredità di Moro è profondamente radicata nella Costituzione italiana. Picariello ricorda il ruolo dello statista come relatore della sezione relativa ai “diritti dell’uomo e del cittadino”, documentando con precisione i travagli, gli scontri e il paziente lavoro di mediazione tra le varie anime dei Padri costituenti. La “felice convergenza” dei lavori si trasformò in “feconde divergenze”, ma con lo stesso obiettivo: rinunciando ognuno a qualcosa, il risultato indicò un “destino comune” da perseguire. Anche come Guardasigilli, Moro mantenne un’attenzione costante alla questione carceraria, sostenendo l’idea guida della rieducazione sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Condannava l’ergastolo, definendolo “psicologicamente crudele e disumano”, e visitava le carceri con i suoi studenti, affrontando nei suoi insegnamenti i principi di giustizia, libertà e verità. Negli ultimi giorni da uomo libero, Moro continuò a insegnare la sua visione della pena, considerandola incompatibile con il nostro ordinamento se fosse “meramente afflittiva o vendicativa”. Proprio alla possibile incompatibilità dell’ergastolo con la nostra Costituzione dedicò una delle sue ultime lezioni. Il giorno del rapimento avrebbe dovuto presenziare a una seduta di laurea: il legame con i suoi studenti e con l’insegnamento era per lui fondamentale, al punto che, quando si ventilò la possibilità di eleggerlo Presidente della Repubblica, la principale preoccupazione fu quella di dover rinunciare alla cattedra. L’attenzione ai giovani si evidenzia nella volontà di dialogo con i leader del Movimento studentesco e nella vicinanza alla nascente Comunione e Liberazione, frequentando le messe dei discepoli di don Giussani a Roma. La Gioventù Studentesca romana, che si riuniva a casa di Maria Pia Corbò (futura moglie di Rocco Buttiglione), attrasse il suo interesse, coinvolgendo figure come Andrea Riccardi e Agostino Giovagnoli, che fonderanno la Comunità di Sant’Egidio. Giovani accomunati all’inizio dalla stessa sete di giustizia e voglia di cambiare il mondo, ma che intrapresero strade diverse: dalla lotta armata all’impegno sociale e civile, quello che Lucio Brunelli ha paragonato a una sorta di Sliding doors. Picariello fa una ricostruzione precisa dei fatti e dei protagonisti di quel periodo, anche con molti particolari interessanti e gustosi. Con la stessa precisione ricostruisce il percorso politico di Moro nella Democrazia Cristiana, della quale rivendicherà sempre l’autonomia e il suo carattere non confessionale. Dalla segreteria del partito nel 1959 alle aperture ai socialisti nel congresso del 1962, evidenzia il suo costante impegno per l’unità. Un lavoro, rafforzato dal rapporto privilegiato con Paolo VI, portato avanti fino alla sera prima del rapimento, cercando un equilibrio tra Dc e Pci per sostenere il nascente governo Andreotti. La grande attualità di un uomo di pace sempre al servizio della persona e della democrazia di Matteo Zuppi* Il Dubbio, 24 marzo 2025 Chi è stato Aldo Moro, che cosa ci dice oggi quest’uomo “buono, mite, saggio, innocente ed amico” - nelle parole di Paolo VI - che ha offerto la sua vita per tutti noi? Fra i giovani la sua conoscenza resta confinata tutt’al più alla vicenda del rapimento e della sua tragica fine. Ma in realtà anche noi che per ragioni anagrafiche abbiamo avuto modo di vederlo all’opera sulla scena pubblica, non abbiamo chiaro chi sia stato veramente e cogliamo poco l’attualità del suo pensiero. È questo che ci viene in soccorso, ancora di più in questo periodo così buio: “Se fosse possibile dire: “saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani”, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà”. Questa frase del suo ultimo discorso sembra scritta per noi, oggi. Proprio per amore dei giovani e dei suoi studenti, ai quali si dedicò fino all’ultimo giorno, Moro fu soprattutto un operatore di pace. Ricorrono quest’anno i cinquant’anni dagli accordi di Helsinki. In piena Guerra fredda, da ministro degli Esteri si era impegnato a favorire la distensione in Europa e la non proliferazione degli armamenti. Per un disegno della Provvidenza si trovò nell’estate del 1975 a presiedere quegli incontri senza precedenti - con la contemporanea partecipazione, oltre che degli Stati europei, e per la prima volta anche della Santa Sede, di Stati Uniti e Russia - nella duplice veste di capo del Governo italiano e presidente di turno della Comunità europea. Fu criticato per aver stretto la mano al leader russo Leonid Brežnev, ma lui rispose, fiducioso, che il seme messo con la firma di quella Dichiarazione avrebbe dato frutti in seguito. Grazie alla lungimiranza di un altro protagonista di quegli incontri, il cardinale Achille Silvestrini, fra gli impegni sottoscritti a Helsinki dalle grandi potenze ci fu quello per la libertà religiosa. Nel 1978 dei “tre papi”, poi, ci fu un passaggio ideale del testimone fra Moro, assassinato dalla Brigate Rosse, e Karol Wojtyla, il papa polacco subentrato al soglio di Pietro. Nel primo decennio di Pontificato, questo pontefice si rivolse più volte a Mosca per chiedere il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa richiamando proprio la Dichiarazione di Helsinki. Questi pronunciamenti fecero parte del lungo processo storico che nel 1989 porterà alla caduta del Muro e al concretizzarsi di tante speranze per il futuro del nostro continente che oggi sembrano svanite. Per tornare a guardare avanti con fiducia occorre riprendere quel seme gettato cinquant’anni fa. Guardando a Moro senza fermarsi ai 55 giorni della prigionia, vediamo con chiarezza di che cosa è carente oggi la politica, e non solo nel nostro Paese: c’è bisogno di una “visione” e non di un cristianesimo professato solo a parole, ma di cristiani capaci di testimoniarlo nei fatti. Moro fu uno dei tanti che, dopo la Guerra, mentre facevano altro (lui era un giurista e un dirigente di Azione cattolica) entrarono in politica su sollecitazione dei loro vescovi. E se divenne, giovanissimo, punto di riferimento nell’Assemblea costituente, non fu per la sua competenza e abilità dialettica, doti di cui certo non difettava, ma per aver messo in gioco la sua esperienza cristiana, esercitando il dialogo non come rinuncia alla testimonianza, ma - viceversa - come condivisione di un patrimonio umano e culturale che non voleva restasse rinchiuso in un comodo recinto. Il divorzio cui oggi assistiamo fra cultura e politica, una politica che vive troppo spesso del giorno per giorno e di leadership personalistiche, è il contrario di quel che Moro testimoniò, come l’uomo saggio del Vangelo che ha costruito la sua casa sulla roccia. “Aldo Moro - ha detto papa Francesco alla recente Settimana sociale di Trieste - ricordava che “uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”“. La centralità della persona umana - dall’amore per i suoi studenti, per la sua famiglia, fino all’amore politico, per dirla con Papa Francesco, verso tutto e tutti - fu l’essenza della sua vita, prima ancora di diventare il perno della nostra Costituzione. Gli accordi di Helsinki non spuntarono dal nulla, basta leggere in parallelo lo straordinario discorso al Palazzo di Vetro di Paolo VI del 1965, in cui lanciò il grido “Mai più la guerra!”, e quello che Moro pronunciò da ministro degli Esteri nell’ottobre 1969 all’Assemblea delle Nazioni Unite, spaziando dal conflitto in Vietnam a quello in Medio Oriente, dall’Africa decolonizzata alla Guerra fredda. Egli propose un “multilateralismo” della pace basato sull’azione diplomatica, indicando, fra l’altro, con lungimiranza, la necessità di un pieno ingresso della Cina nella comunità internazionale. Dopo una fase in cui aveva scelto di stare ai margini, dedicandosi all’ascolto dei “tempi nuovi” del Sessantotto, si sentì sollecitato dall’opportunità che gli fu offerta di dedicarsi, da ministro degli Esteri, a un impegno che gli consentiva di rispondere in prima persona all’aspirazione di giustizia e pace universale che vedeva presente nella contestazione giovanile. Per Moro libertà e dovere, due parole in apparente contrasto, coincidevano nella condivisione della Croce di Cristo, essenza della sua spiritualità cristiana appresa dalla madre. Di volta in volta, si mise al servizio dei segni dei tempi. Le tante svolte di cui fu protagonista non erano frutto di alchimie politiche, ma espressione di una visione cristiana che coglieva in ogni singolo caso la positività del reale e della democrazia, che della realtà dovrebbe essere specchio fedele. Moro si dedicò alla riconciliazione anche della nostra comunità nazionale. È interessante come Picariello approfondisce, in questo libro, l’ascolto riservato ai nuovi movimenti cattolici nati durante la stagione della contestazione giovanile dei primi anni Settanta e anche in seguito. Egli conobbe la nascente Comunione e Liberazione nella sua università e partecipò spesso alla messa che radunava i membri di quel movimento. Intervenne anche, a sorpresa, a qualche loro incontro. Fece lo stesso anche con la Fuci, l’associazione di cui era stato presidente: prendeva appunti, seduto fra il pubblico, da semplice ascoltatore. A Roma guardò ai tanti gruppi cattolici che, impegnati nella caritativa, cercavano in quegli anni fra gli “scarti” del boom economico il volto di Cristo, come facevano gli amici della nascente Comunità di Sant’Egidio fra i baraccati a Ponte Marconi, all’ex cinodromo. Vedeva con chiarezza che tanti altri ragazzi partendo dalla stessa aspirazione erano stati catturati dall’ideologia e dalla violenza, fino a dar vita alla “colonna romana” delle Br, come ad esempio Valerio Morucci, il brigatista che al telefono annunciò a Franco Tritto che il cadavere dello statista si trovava in via Caetani, nella tristemente famosa Renault 4. Senza mai chiedere appoggi o consensi, invitava i giovani, come ricorda Agostino Giovagnoli, a non trascurare l’impegno politico, per poter migliorare un mondo tanto lontano dai nostri ideali pur continuando le diverse esperienze in cui si era impegnati. Così, ai giovani della Dc chiedeva di tenersi in contatto con i coetanei dei movimenti cattolici, per un reciproco arricchimento e una testimonianza cristiana più incisiva. Un messaggio che Aldo Moro lascia a una Chiesa che vive in questo Giubileo del 2025 la chiamata alla speranza contro il veleno della disillusione e del cinismo: la visione di una sinodalità operosa e aperta alla realtà, capace di restituire fiducia in un’epoca che ne ha un enorme bisogno. *Presidente Della Cei Quando la figlia Agnese incontrò Adriana Faranda per riparare il dolore e le ferite di Valentina Stella Il Dubbio, 24 marzo 2025 L’importanza del dialogo tra l’ex br e la terzogenita dello statista che dice: “La giustizia riparativa è avere a che fare con l’irreparabile”. Agnese Moro, Adriana Faranda: vittima e carnefice. Eppure da oltre diciassette anni, la figlia dell’ex presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dalle Brigate rosse nel 1978, e una delle componenti del gruppo che lo ha rapito, tenuto in prigionia per 55 giorni e poi ucciso, si incontrano nell’ambito di un percorso di giustizia riparativa, e parlano insieme di quella dolorosa esperienza. Chi ha provocato il dolore e chi lo ha subìto insieme per lanciare un messaggio di riconciliazione. Come dice una stupenda frase del poeta persiano Rumi - che conclude la serie britannica “The Victim”, dove una madre perdona chi gli ha ucciso il figlio - “Al di là delle idee di male e di giusto c’è un campo: ti incontrerò lì”. Questo terreno è stato tracciato nel 2007 da un gruppo di persone, sia vittime sia membri della lotta armata, guidati dal padre gesuita Guido Bertagna insieme ad Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Cattolica di Milano e dalla sua collega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale. I tre insieme nel 2015 hanno curato “Il libro dell’incontro - Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore), che racconta appunto il cammino di Agnese Moro, di Giovanni Ricci, figlio di uno degli agenti uccisi in via Fani il 16 marzo 1978, e di altre vittime e altri ex militanti della lotta armata. Il professor Ceretti ha sottolineato più volte: “Nella comprensione della giustizia le vittime non erano considerate: ci si concentra solo sul colpevole. Si ignorava il vissuto della vittima, imprigionata in un eterno presente che alimenta l’odio. L’odio dà un ruolo a sé e al nemico. La giustizia riparativa cerca di liberare vittime e carnefici dai loro inferni”. La figlia di Moro per 31 anni dopo l’uccisione del padre aveva scelto “la strategia del silenzio, perché non sei in grado di raccontare che cosa ha rappresentato per te l’accaduto”, aveva spiegato in un dibattito organizzato dalla Caritas, ma l’incontro con il gesuita padre Guido Bertagna - che si occupa appunto di giustizia riparativa, in particolare in riferimento ai crimini commessi negli anni del terrorismo - l’ha convinta che non fosse il silenzio né “l’indossare la maschera della vittima che deve soffrire per sempre senza trovare consolazione” la cura più efficace per affrontare il proprio dolore. “Io non dimentico cosa mi è successo e non lo considero meno terribile di allora. Dopo aver stretto la mano agli artefici di quel dolore, però, dopo aver potuto chiedere loro “perché l’hai fatto?” so che tutto è tornato al suo posto. Siamo seduti uno vicino all’altro, siamo amici, ci preoccupiamo per le famiglie altrui: c’è stata una frattura ma oggi è necessario che sia così. Questa per me è il senso profondo della giustizia. Pensavo fossero mostri, senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati. Ma poi ha scoperto in loro un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso sé stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuto atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne”. Secondo Agnese Moro “la giustizia riparativa è avere a che fare con l’irreparabile. L’irreparabile è anche pericoloso perché trattiene il passato. Il passato non passa mai: tutti i giorni mio padre esce di casa, viene rapito, le care persone della scorta vengono uccise, resta prigioniero e viene ritrovato ucciso 55 giorni dopo. Questo porta con sé tanti sentimenti, tra cui anche il senso di colpa di non averlo salvato”. Agnese Moro ha spiegato nei suoi incontri pubblici come “dopo la violenza, quando è arrivata la giustizia, non è cambiato niente. Non si è spezzata la catena del male. La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incancrenisce, solidifica le cose, non permette loro di evolversi. Io soffrivo la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno”. Poi il giro di boa e l’incontro con chi fece parte del gruppo che spezzo la vita di suo padre: Adriana Faranda venne arrestata il 30 maggio 1979. Durante gli anni 80 si è dissociata dal terrorismo beneficiando successivamente delle riduzioni di pena previste dalla legge 18 febbraio 1987 n.34, e uscendo dal carcere nel 1994, dopo quindici anni di detenzione. L’ex brigatista aveva necessità di confrontarsi con il proprio passato e con “il dolore che c’era negli altri. Solo chi ha provato un dolore come quello di Agnese può paradossalmente capire quello che ho provato io. Sono dolori diversissimi ma che si accomunano, io mi sono sentita compresa da Agnese come da nessun altro”. In chi il trauma e il dolore lo ha causato c’è il desiderio di “sentirsi responsabili non più per un reato che hai compiuto, e quindi del passato, ma anche del futuro - ha spiegato nei vari incontri Adriana Faranda - nella consapevolezza che qualunque scelta compiamo ha delle conseguenze che abbracciano molte più persone di quante immaginiamo”. Ecco allora “la necessità di dire “mi dispiace” a chi si è ferito irrimediabilmente”, ha raccontato più volte, facendo dell’esperienza del carcere, “dove molti vivono solo nell’attesa di qualcosa che deve venire da fuori senza mai sperimentare una evoluzione interiore”, una presa di coscienza e di responsabilità. Da questo è derivato per Faranda “il bisogno di confrontarsi interamente con il mio passato”, attraverso “il confronto con il volto delle persone che hanno subito le conseguenze delle mie azioni, e ben venga il rimprovero: serve a capire quanto ancora di quella Adriana c’è e quanto invece di me si è trasformato”. La ricetta della felicità: quando prendersi cura degli altri fa bene anche a noi stessi di Cristina Lazzati* La Repubblica, 24 marzo 2025 I paesi dell’Europa del Nord dominano la classifica della felicità, con la Finlandia al primo posto. L’Italia si piazza in 40° posizione: la sfiducia nelle istituzioni pesa molto sul benessere. I dati del “World Happiness Report 2025”. La felicità è meno individuale di quanto sembri: passa dalla tavola, dal portafoglio restituito al proprietario e, soprattutto, dalla certezza che, in caso di bisogno, qualcuno sarà al nostro fianco. A rivelarlo è il “World Happiness Report 2025”, curato da Helliwell, Layard, Sachs e altri studiosi, che quest’anno esplora come la generosità e la condivisione incidano sulla felicità personale e collettiva. Gentilezza, più potente del Pil - Nel laboratorio globale della felicità, le nazioni che si distinguono non sono solo quelle con il Pil più elevato o la sanità migliore, ma soprattutto quelle in cui la gentilezza quotidiana è norma sociale. La ricerca mostra come piccoli gesti, dal donare al volontariato, influenzino positivamente il benessere. Curiosamente, però, tendiamo a sottovalutare la bontà altrui: è stato dimostrato che la restituzione di un portafoglio smarrito è molto più frequente di quanto immaginino le persone, e rappresenta un indicatore semplice ma estremamente efficace della fiducia sociale e della benevolenza spontanea all’interno di una comunità. È un atto che implica altruismo, onestà e fiducia reciproca, elementi fondamentali per il benessere psicologico e sociale di una società. In particolare, nelle nazioni nordiche, il tasso di restituzione effettivo dei portafogli supera largamente le aspettative comuni. Una “sorpresa positiva” che migliora il benessere quando ne siamo consapevoli. La tavola, epicentro della felicità - Condivisione è anche mangiare insieme. Più si è seduti attorno alla stessa tavola, più ci si sente felici. Un segnale forte in un mondo sempre più abituato ai pasti solitari. Il report indica infatti una chiara correlazione tra il numero di pasti condivisi e livelli più elevati di soddisfazione personale. Negli Usa, ad esempio, il 25% delle persone consuma da solo tutti i pasti del giorno, registrando così livelli inferiori di felicità. Al contrario, paesi come Senegal, Gambia e Islanda si distinguono per la frequenza con cui le persone condividono i pasti (circa 11 pasti a settimana), mostrando livelli elevati di benessere emotivo. Nordici, ancora campioni - Non sorprende che i paesi nordici dominino la classifica della felicità, con la Finlandia al primo posto, seguita da Danimarca, Islanda e Svezia. La ricetta? Fiducia, libertà personale, bassi livelli di corruzione e generosità diffusa. Qui restituire il portafoglio smarrito non è l’eccezione, ma la regola. La Finlandia, in particolare, conferma da anni il suo primato grazie a un sistema sociale equo, a un forte senso di comunità e a un’istruzione accessibile e di qualità. Interessanti, invece, i dati dei paesi occidentali che, nonostante un alto tenore di vita, mostrano segnali di flessione. Gli Stati Uniti si classificano 24°, penalizzati da crescenti livelli di solitudine e da una forte disuguaglianza nella distribuzione della felicità tra gruppi sociali differenti. Francia (33°) e Spagna (38°) risentono di sfide legate a un crescente senso di precarietà economica e sociale, che indebolisce la percezione di libertà personale e sicurezza. Un discorso a parte meritano Cina e Russia. La Cina, in posizione 68°, vede nella felicità un fronte aperto da questioni quali un altissimo livello di stress lavorativo, forti pressioni sociali e una crescente percezione di isolamento personale, nonostante l’impressionante crescita economica. La Russia, invece, si colloca al 66°, risentendo pesantemente della sfiducia nelle istituzioni e della percezione diffusa di corruzione, elementi che penalizzano significativamente il benessere emotivo della popolazione. E l’Italia? Tra socialità e sfiducia istituzionale - L’Italia si posiziona 40° in classifica, un piazzamento che rivela le sue contraddizioni. Gli italiani mostrano elevati livelli di socialità e condivisione, con circa 7 pasti condivisi in media a settimana, un dato che conferma il ruolo centrale delle relazioni familiari e amicali nella cultura italiana. Tuttavia, la sfiducia nelle istituzioni pesa molto sul benessere: circa il 60% degli italiani percepisce alti livelli di corruzione nel proprio Paese e la fiducia nella capacità delle istituzioni di restituire oggetti smarriti è tra le più basse d’Europa. L’Italia si trova infatti solo al 100° posto per la fiducia che uno sconosciuto restituisca un portafoglio smarrito e al 121° per quanto riguarda l’attività di volontariato. Anche la libertà percepita di poter prendere decisioni importanti per la propria vita risulta inferiore alla media europea, contribuendo ad abbassare la percezione complessiva della qualità della vita. Il paese sembra quindi diviso tra un elevato senso di comunità nelle relazioni personali e una profonda disillusione nei confronti delle istituzioni pubbliche. Perché la felicità è anche un investimento economico - Investire nella felicità non è solo una questione morale, ma rappresenta anche una strategia economica efficace. Una popolazione più felice è infatti più produttiva e innovativa, generando valore aggiunto e stimolando la competitività delle imprese. Inoltre, i costi sanitari diminuiscono notevolmente quando il benessere psicologico e fisico è elevato, con meno assenze per malattia e minori spese per l’assistenza sanitaria pubblica. Anche la criminalità cala in modo significativo, riducendo così i costi legati alla sicurezza, alla giustizia e al sistema carcerario. Non ultimo, una società più felice attrae talenti e investimenti internazionali, grazie a una maggiore stabilità politica e sociale, creando un circolo virtuoso di sviluppo sostenibile e prosperità economica. Prendersi cura degli altri conviene a tutti - Un altro dato emerso con forza è che i comportamenti prosociali riducono non solo la tristezza individuale, ma anche quella collettiva, inclusi fenomeni estremi come le morti per disperazione. Secondo il report, per comportamenti prosociali si intendono azioni volontarie orientate al beneficio degli altri, come donazioni, volontariato, aiuto ai vicini, assistenza ai più vulnerabili e anche semplici gesti quotidiani di gentilezza e cortesia. Queste azioni creano reti sociali più forti, aumentano il senso di comunità e riducono significativamente la solitudine e l’isolamento. Chi aiuta e chi riceve aiuto vive meglio, soprattutto se la motivazione è genuina, libera da obblighi e se l’impatto del gesto è visibile. Infatti, la ricerca evidenzia che quando si percepisce chiaramente come il proprio gesto abbia migliorato la vita di qualcun altro, il benessere personale aumenta ulteriormente. Le società con alti livelli di comportamenti prosociali mostrano inoltre una distribuzione più equa della felicità, in quanto l’aiuto reciproco riduce le differenze sociali ed economiche, generando una spirale virtuosa di fiducia, solidarietà e soddisfazione personale e collettiva. Conclusione: felicità bene comune - In sintesi, il “World Happiness Report 2025” ci offre una preziosa lezione: coltivare la gentilezza e la condivisione non è solo eticamente auspicabile, è anche pragmaticamente vantaggioso. Per l’Italia, un’opportunità per riscoprire che la felicità passa anche dal creare istituzioni degne della fiducia e dal ricordare che prendersi cura degli altri, in fondo, significa prendersi cura di sé stessi. *Direttore di Markup e Gdoweek Diritti delle madri, diritti dei figli di Elvira Serra Corriere della Sera, 24 marzo 2025 La Corte costituzionale ha dato il via libera alle adozioni internazionali per donne e uomini single. Ma su temi dovrebbero intervenire i legislatori, visto che quella di promulgare o modificare le leggi è una delle prerogative per le quali vengono eletti. Il via libera alle adozioni internazionali per donne e uomini single porta con sé una considerazione immediata: bene, e in Italia quando? Immaginiamo quando la Corte Costituzionale si pronuncerà su un caso speculare a quello della donna fiorentina alla quale si deve la sentenza di incostituzionalità che da qui in avanti aprirà le nostre porte ai bambini abbandonati in Paesi diversi dal nostro. Intanto, però, c’è un altro pronunciamento atteso dai giudici, che potrebbe segnare una tappa fondamentale nel percorso a ostacoli verso la maternità delle single. L’11 marzo si è tenuta a Roma nel Palazzo della Consulta un’udienza pubblica per valutare l’incostituzionalità dell’articolo 5 della legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, quello che la consente solo “a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi”. La decisione di venerdì fa ben sperare Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni e legale di Evita, quarantenne torinese che si è vista negare l’accesso alla Pma da un centro di fecondazione assistita in Toscana. Già questa settimana o la prossima sapremo cos’hanno deciso i giudici. Certo, spiace che su temi così importanti non intervengano i legislatori, visto che quella di promulgare o modificare le leggi sarebbe una delle prerogative con le quali vengono eletti. Del resto, sul fine vita il caso Cappato/Dj Fabo docet. Stiamo però continuando a parlare dei diritti degli adulti, in questo caso i single. Mentre è arrivato il momento di occuparci anche di un diritto fondamentale dei figli adottivi, e cioè l’accesso alle origini. La legge 149 del 2001 contempla la possibilità di accedere alle informazioni sull’identità dei propri genitori biologici: se la madre, legittimamente, partorisce in anonimato, quel figlio biologico potrà chiedere la sua identità a 25 anni (a 18 in casi eccezionali, come per esempio per motivi di salute). Se però quella donna non vorrà rinunciare al suo diritto all’anonimato, il figlio dovrà aspettare di aver compiuto 100 anni per conoscere il nome di chi lo ha messo al mondo. Nell’assenza di giudizio che deve accompagnare ogni scelta così personale e intima, resta un’inquietudine poco afferrabile: sapere chi siamo e da dove veniamo rappresenta il baricentro da cui abbracciamo il futuro. Ma allora, il diritto di chi deve prevalere? Fine vita: 40 richieste al giorno. Il Governo prepara una legge nazionale di Maria Sorbi Il Giornale, 24 marzo 2025 Situazione caotica alla vigilia di una legge nazionale. Il caso Toscana: le prime domande valutate a inizio aprile. Valeria Imbrogno è l’ex compagna di dj Fabo e nel 2017, tra dolore misto fierezza, lo ha accompagnato in Svizzera per fargli avere il suicidio assistito e mettere fine al suo calvario. Da quel momento coordina il numero bianco dell’associazione Luca Coscioni, e raccoglie le chiamate di chi chiede aiuto per mettere fine alla trappola delle sofferenze “senza uscita”. Le richieste di informazioni sono tantissime: 13.977 in un anno, 38 al giorno. E anche questo conferma quanto sia urgente una legge nazionale che regoli il fine vita. La mini-Svizzera - In Toscana è stata appena approvata la legge sul suicidio assistito e già ad aprile potranno essere valutate le prime richieste di accompagnamento alla morte. E nel resto d’Italia? Si rischia di creare disordine e squilibrio tra una regione e l’altra, con l’ipotesi che altri consigli regionali approvino leggi con regolamenti differenti e con il pericolo che non tutti riescano a esercitare allo stesso modo il proprio “diritto alla morte”. O ancora: potrebbero avere inizio viaggi per andare a morire nell’unica regione che lo permette. Che fare allora? Il dibattito è estremamente acceso: il movimento Pro Vita preme perché il governo impugni in Corte Costituzionale la legge toscana (“per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato”). Il Vaticano per la prima volta apre a una “mediazione legislativa” per colmare un vuoto di regole non più accettabile. Giovedì, durante la Conferenza delle regioni, inizierà la discussione tra governatori per trovare linee comuni, magari proprio sul modello della “mini-Svizzera” italiana. L’apertura del governo - “I tempi sono giusti e maturi per una legge buona per tutti - assicura il ministro della Salute, Orazio Schillaci - Non si possono lasciare le Regioni da sole, fare delle fughe in avanti. Non posso pensare che ci siano persone che si spostano da una regione all’altra. Questo sarebbe terribile, per me inaccettabile”. In Senato, nelle commissioni Giustizia e Sanità, è in discussione una bozza di testo che, di fatto, si basa sui requisiti già sanciti dalla Corte Costituzionale, cioè quelli che oggi fanno da “supplenti” alla legge nazionale per rendere legale la pratica. Oggi, perché venga autorizzato il farmaco da auto iniettarsi, bisogna dimostrare di: essere capaci di autodeterminarsi, essere affetti da una patologia irreversibile, dimostrare che la patologia con cui si convive sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, essere dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. La maggioranza vorrebbe aggiungere un ulteriore requisito: l’obbligo di inserire il paziente in un percorso di cure palliative. Se ne parlerà in un confronto che non si preannuncia affatto semplice e che cercherà una quadra tra chi vede l’interruzione delle sofferenze come un diritto e chi come un sacrilegio. Le proposte di legge - Loris Fortuna (deputato socialista papà della legge sul divorzio) presentò la prima proposta di legge sul tema dell’eutanasia nel 1984. Da allora, però, nessun testo ha mai visto l’approvazione in Parlamento. Ora tra le proposte depositate ci sono quelle di Pd, Cinque Stelle e Alleanza verdi Sinistra che, con sfumature diverse, chiedono di regolare l’accesso al suicidio assistito (quando è il malato ad auto somministrarsi il farmaco) e all’eutanasia (quando è il medico a somministrare il farmaco). Se mai si arriverà a formulare una legge accettabile per tutti, ci sarà il problema pratico: in Toscana, tra quando il paziente chiede l’assistenza al suicidio e quando la ottiene non possono passare più di 37 giorni. Perché queste tempistiche siano rispettate, bisognerà avere comitati etici pronti nelle Asl, commissioni presenti e staff di medici preparati. E soprattutto serve uniformità, elemento al momento assente. Regione per regione - Al netto della Toscana, come sono messe le altre regioni italiane? In Lombardia, dove si è da poco tenuto il primo suicidio assistito, regolato dai requisiti della Corte Costituzionale, lo scorso anno sono state presentate 8mila firme per una proposta di legge. Tuttavia il Consiglio regionale ha bloccato la discussione del testo, ritenendo la materia di competenza statale. Proposta di legge di iniziativa popolare bloccata anche in Friuli, dove la Regione ha già subito condanne per ritardi nelle procedure di assistenza al suicidio, come nei casi di Anna e Martina Oppelli, quest’ultima ricorsa alla Corte costituzionale contro l’illegittimità del requisito del sostegno vitale. Mappa fine vita - A metà aprile inizierà in Trentino la raccolta firme per sostenere la proposta di legge sulla scia della Toscana. Il Veneto è stata la prima Regione a discutere la proposta di legge sul fine vita ma non è arrivato ad approvarla poiché non ha raggiunto la maggioranza assoluta. Il governatore Luca Zaia ha preannunciato l’adozione di una circolare per uniformare le procedure in Regione, evidenziando come il fine vita non sia una battaglia di parte, ma una questione di civiltà. Proposta bloccata in Piemonte. L’Emilia Romagna ha evitato il voto ed emesso delle linee di indirizzo per le Asl, che si sono però rivelate problematiche e non hanno garantito tempi certi. Iter legislativi aperti e dibattiti in corso nella maggior parte delle altre regioni: in Lazio, Valle d’Aosta, Puglia, Umbria, Liguria, Sardegna, Campania, Marche. La Basilicata ha deciso di non decidere. In Abruzzo non c’è ancora stata nessuna discussione. In Calabria la proposta, limitata ai soli pazienti terminali, è stata depositata dal Pd. La Sicilia non ha ancora deciso quando parlarne. E in Molise non è ancora stata depositata. Migranti. Dopo due anni oggi riapre il Cpr di Torino di Elisa Sola La Stampa, 24 marzo 2025 L’assessore Rosatelli: “È la linea Meloni, ferita per la città”. Alle 18 in corso Brunelleschi un presidio dei militanti del Gabrio e altre realtà per la difesa dei diritti. Riapre oggi, tra polemiche e proteste annunciate, il “nuovo” Cpr di corso Brunelleschi. Il centro di permanenza per i rimpatri riapre dopo due anni di chiusura. Qui, in teoria già a partire da domani, potrebbero essere reclusi i richiedenti asilo, provenienti da altri centri, che non hanno il permesso di soggiorno o i requisiti per restare in Italia. La riapertura del centro è fortemente voluta dal governo Meloni. Ma è osteggiata da una parte della società civile, da associazioni e anche dal Comune di Torino. L’assessore Jacopo Rosatelli ribadisce ancora una volta: “Per la Città la riapertura del Cpr è una ferita. Un atto voluto dal governo contro l’opinione contraria espressa dal Comune”. Le proteste - Nei giorni scorsi, in cui si sono susseguite manifestazioni di protesta, Alice Ravinale, capogruppo di Alleanza Verdi-Sinistra in Consiglio regionale, ha detto: “Con la riapertura del Cpr ci saranno di nuovo persone private della libertà e di cui verrà calpestata la dignità solo perché straniere. Qui le persone sono umiliate e portate alla disperazione più atroce, e per sedare i trattenuti c’è un abuso costante di psicofarmaci”. Sotto inchiesta della procura - Tutti i nodi oscuri del Cpr, compresi i maltrattamenti subiti dai reclusi, erano stati oggetto di una lunga indagine svolta dalla procura di Torino (procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo, in pensione da dicembre e pm Rossella Salvati). I magistrati avevano indagato in particolare sul cosiddetto ospedaletto, un reparto del vecchio Cpr dove venivano isolati dei “detenuti”, tra cui il giovane Moussa Balde, che si era impiccato il 23 maggio 2021. Dopo quell’evento, e una lunga serie disordini e incendi, il Cpr era stato chiuso. Fuori servizio dal 2023, oggi riapre dopo una ristrutturazione. Ha vinto l’appalto per gestire la struttura la cooperativa Sanitalia, che aveva già svolto in passato lavori di pulizia per il centro di rimpatrio. Il presidio alle 18 - Oggi alle 18 si preparano a scendere in presidio in corso Brunelleschi i militanti del centro sociale Gabrio e di altre realtà. L’obiettivo è svolgere un’assemblea pubblica. Di recente il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa in un report sui Cpr italiani ha scritto che le condizioni di vita nelle strutture sono “simili a quelle nei reparti di detenzione in regime speciale del 41-bis”. Migranti condannati al ghetto: il caso Puglia e lo stallo dei progetti anti baraccopoli di Valentina Petrini La Stampa, 24 marzo 2025 C’erano 200 milioni di euro dell’Unione Europea nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per il superamento dei ghetti di migranti in Italia. Fondi che probabilmente perderemo o - nella migliore delle ipotesi - saranno spesi per comprare prefabbricati invece che per il recupero di “soluzioni alloggiative, di trasporto, di assistenza sanitaria e d’istruzione, dignitose per i lavoratori del settore agricolo”. Trentasette i comuni d’Italia mappati tra cui dividere lo stanziamento. La fetta più consistente (114 milioni di euro) ai comuni pugliesi. La mappa è quella dei campi di semina e raccolto tra le province di Foggia, Bari e Brindisi. Quella dei pomodori rosso sangue, dei lavoratori schiavizzati, qualcuno anche brutalmente ucciso, oppure morto bruciato dentro le case baracche, perché d’inverno fa freddo e per riscaldarsi si dà fuoco alla plastica. Borgo Mezzanone, Borgo Tressanti, Borgo Libertà, Ghetto Ghana, Torretta Antonacci, Borgo Tre Titoli. I caporali arrivano nei ghetti quando è ancora buio, caricano i braccianti e li portano nei campi. Poi li riprendono e questi poveracci spariscono nuovamente come topi nelle fogne. “Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” aveva detto Giorgia Meloni dopo la strage di Cutro. In questo caso era semplice: i caporali, trafficanti, sono nei ghetti, non dovevamo nemmeno girare il globo per trovarli. “Molte volte abbiamo offerto ai lavoratori ospitalità nelle nostre chiese ma loro sanno che senza documenti non sono liberi e non vengono. Ho detto chiaramente al governo che per superare i ghetti serve la regolarizzazione”. Don Pasquale Cotugno è responsabile Caritas immigrazione, i prefabbricati non li vuole. Il decreto ministeriale che ripartisce le risorse è il n. 55 del 29 marzo 2022. Maria Dibisceglia è vice sindaco e assessore alle Politiche sociali del comune di Cerignola, uno dei destinatari dei fondi Pnrr. “Noi siamo pronti da dicembre 2022, tutti gli altri comuni interessati da gennaio 2023. Ad oggi siamo ancora fermi per colpa del governo. Oggi Cerignola va verso la rinuncia. Non me la sento di esporre i miei cittadini al rischio di dover pagare penali per il mancato raggiungimento degli obiettivi”. Il 7 ottobre 2024 i sindaci di Manfredonia, San Severo, Cerignola, San Marco in Lamis, Lesina, Poggio Imperiale, Carpino e il Commissario Straordinario di Carapelle, hanno scritto al governo per protestare per i ritardi accumulati. “Oggi il governo, attraverso il commissario straordinario nominato - udite udite - solo a giugno del 2024, ci ha fatto sapere che non c’è più tempo e dobbiamo sostituire i progetti per le case con i prefabbricati. Una richiesta assurda. Usiamo i fondi europei per fare altri ghetti?”. Serve un piccolo riassunto di date per non perdersi nel rimpallo di responsabilità. Nel 2022 il governo Draghi avvia la consultazione con i Comuni per definire il metodo di spesa dei soldi Pnrr. Viene inviato a tutti un questionario, predisposto dal ministero del Lavoro, per realizzare una sorta di censimento sulle presenze migranti nei ghetti e decidere quindi come ripartire i 200 milioni di euro. “Chi entra nei ghetti a schedare i lavoratori stranieri? Non certo enti locali o associazioni. Abbiamo compilato il questionario inserendo numeri ipotetici sulla base dell’esperienza acquisita”. Simona Venditti è stata assessora alle Politiche Sociali del Comune di San Severo fino a giugno 2024, poi è decaduta, ma è la memoria storica che ha gestito dall’inizio la partita. “Il nostro progetto era considerato da tutti tra i migliori. Case, servizi, percorsi di regolarizzazione e ricongiungimenti. Ci sono stati assegnati 27 milioni di euro. San Severo a gennaio 2023 era pronta”. Cade Draghi, arriva Meloni. Si ferma tutto. Un anno dopo viene nominato il commissario straordinario, Maurizio Falco, a decorrere dal 24 giugno 2024. A quel punto però è già tardi: i PAL (Piani di azione locale) dei comuni interessati non vanno più bene. Troppo ambiziosi, il commissario chiede ai sindaci di sostituire le case con i container. Lidya Colangelo è la nuova sindaca di San Severo che eredita la patata bollente dalla collega Venditti: “Non siamo d’accordo ma firmeremo la convenzione con il governo per spirito di umanità. Restano però domande a cui il governo non ha ancora risposto: chi smantella i vecchi ghetti? Chi paga gli allacci dei servizi? Chi gestirà le assegnazioni dei nuovi alloggi?”. Domenico Lamarca è il sindaco di Manfredonia, il comune che insieme a Foggia ha diritto alla fetta più consistente di finanziamento: circa 54 milioni di euro. “Non ce la siamo sentiti nemmeno noi come San Severo di rinunciare, nonostante i ritardi governativi clamorosi. Abbiamo detto però al commissario Falco: no ai container, sì ai prefabbricati all’interno di un progetto più ampio, che veda la regione Puglia cabina di regia e preveda anche percorsi di regolarizzazioni”. E il governo cosa ha risposto? “Che per ora non è questa l’urgenza, ma solo spendere i soldi Pnrr”. Altri sindaci invece vanno verso la rinuncia. Rocco Di Brina, sindaco di Carpino: “Non costruiremo nuovi ghetti di prefabbricati, vogliamo ristrutturare immobili diffusi nel centro storico. Siamo pronti da due anni. Ad oggi avrei già finito i lavori. Sono ritardi ingiustificabili da parte del governo”. Michele Merla, sindaco di San Marco in Lamis: “Noi pensiamo di rinunciare, non ci sono più i tempi nemmeno per comprare prefabbricati. Ma poi veramente il governo crede che così superiamo i ghetti?”. Nella relazione della Corte dei Conti sui Piani Urbani Integrati per il superamento degli insediamenti abusivi per combattere lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura sono certificati i ritardi e le criticità. “Alla luce delle difficoltà emerse, tali da causare lo stallo dell’iniziativa il cui termine di realizzazione era fissato al marzo 2025, il Governo ha nominato un Commissario straordinario” e ha previsto “un diretto coinvolgimento delle Regioni in supporto alle amministrazioni comunali e che le procedure di acquisto dei prefabbricati saranno centralizzate e fatte da Consip o Invitalia”. “Potevamo essere d’accordo all’acquisto di prefabbricati come soluzioni abitative temporanee per i veri stagionali - dice Azmi Jarjawi, responsabile immigrazione Cgil Puglia - ma qui noi abbiamo manodopera in gran parte stanziale. Quei ghetti rappresentano anche problemi di ordine pubblico”. “Ghetti di Stato simili a quelli dell’Albania - denuncia Leonardo Palmisano, docente di sociologia, autore di molti libri inchiesta sul fenomeno del caporalato, in libreria con Italia apartheid - ecco cosa farà in Puglia il governo con i soldi del Pnrr”. E le mafie ringrazieranno. Migranti. Piantedosi: “Così cambieremo i Centri albanesi di Gjader e Shengjin” di Federico Capurso La Stampa, 24 marzo 2025 Il ministro dell’Interno: “Rafforziamo il sistema dei rimpatri, ce lo chiede l’Europa. Ghani al Kikli non ha mai interagito con noi, i libici si curano spesso in Italia”. Per la prima volta, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi conferma l’ipotesi di imprimere una virata sull’utilizzo dei Centri albanesi di Gjader e Shengjin, finora rimasti vuoti. “Potrebbero avere un ruolo per rafforzare il sistema per rimpatriare i migranti irregolari che non hanno diritto a rimanere in Italia”, dice Piantedosi. Un modo, quindi, per iniziare a utilizzarli, magari utilizzando per i rimpatri anche la parte di struttura dedicata originariamente alle procedure accelerate di frontiera. E grazie alla veste di Cpr, ragiona Pianterosi, “potremo così riportare a casa i soggetti che, altrimenti, finiscono per rendere le nostre città meno sicure. I rimpatri sono un tema che sta affermandosi nel dibattito politico in tutto il mondo, anche oltreoceano. A noi, oramai, lo chiede l’Europa. Finalmente. Dovremmo esserne tutti contenti”. La riconversione dei centri, non più dedicati alla prima accoglienza, comporterebbe degli ulteriori investimenti e dei lavori? “No. Contengono già al loro interno spazi dedicati a effettuare i rimpatri. La struttura è già predisposta per questa funzione”. Migranti in Albania, le immagini del centro di Gjader Sono stati pensati in Albania per non far mai toccare il suolo europeo ai migranti, ma se fossero dei Cpr le persone da rimpatriare arriverebbero dall’Italia. Non verrebbe meno l’effetto di deterrenza? “L’originaria funzione dei centri sarà mantenuta e l’effetto deterrenza è comunque accresciuto dal fatto che aumentiamo i rimpatri. Oggi siamo a +35% rispetto all’anno scorso”. Le sentenze dei tribunali italiani hanno di fatto congelato la possibilità di fare procedure accelerate di frontiera, ma il governo confida in una sentenza favorevole da parte della Corte di giustizia europea, prevista a fine maggio? “La funzione di centro per effettuare procedure accelerate di frontiera sarà comunque richiesta a breve, proprio dall’entrata in vigore dei nuovi regolamenti europei. Ad ogni modo, è vero, potrebbe essere anticipata dal prossimo pronunciamento della Corte di giustizia europea”. Si attenderà fino a quel momento prima di prendere una decisione sul destino dei centri? “Sono valutazioni che stiamo facendo in questi giorni”. Il nuovo regolamento migranti europeo aiuterà a frenare anche le partenze? “È quello che auspichiamo. Per troppo tempo è stato dato un messaggio sbagliato, come se bastasse arrivare in qualunque modo in Unione Europea per avere il diritto di rimanervi. Ora la prospettiva sta cambiando anche e soprattutto grazie alle spinte del Governo Meloni. Miglioramento dei canali di ingresso regolare, rafforzamento dei rimpatri degli irregolari e lotta ai trafficanti saranno le direzioni di marcia in tutta Europa”. Bruxelles per ora cerca di frenare soprattutto i movimenti secondari. Prima molti migranti arrivavano da noi per poi proseguire il viaggio verso il Nord Europa. Vuol dire che ora dovremo gestire un numero più alto di migranti in territorio italiano? “No, al contrario. Ne arriveranno di meno e ne rimpatrieremo di più. L’obiettivo è quello di far entrare i migranti esclusivamente attraverso i canali regolari e le nuove regole ci aiuteranno in tal senso”. Con la bella stagione e il mare più calmo aumentano le partenze verso il nostro Paese. Nessuna preoccupazione? “In questo primo scorcio di anno rileviamo un ulteriore calo degli arrivi, ad oggi, di circa il 17% rispetto allo stesso periodo del 2024, un anno che a sua volta aveva fatto registrare una significativa riduzione degli sbarchi a fronte di quello precedente pari a -58% e di circa -37% rispetto a quello precedente ancora. Siamo soddisfatti perché rileviamo l’evidenza del lavoro che stiamo facendo per contrastare gli affari dei trafficanti di esseri umani, anche se il permanere di elementi di instabilità in alcuni Paesi di partenza ci inducono a mantenere alte cautela ed attenzione”. La Libia è uno di quei Paesi. Dopo il caso Almasri, un altro libico, Ghani Al Kikli, miliziano accusato da Onu e Usa di crimini contro l’umanità, era in Italia in questi giorni. Il Viminale ne era a conoscenza? “Al pari di Almasri, mai conosciuto questo signore che non ha mai interagito con noi per la gestione del fenomeno migratorio. Ho letto che girava liberamente all’interno dell’Unione europea grazie ad un regolare visto rilasciato da altri paesi europei e che non risulta alcun provvedimento giudiziario, nazionale o internazionale, da dover adottare nei suoi confronti. Mi sfugge, pertanto, lo scandalo sollevato sul caso”. Questa assidua frequentazione del nostro Paese da parte di personaggi come Almasri e Al Kikli è un effetto degli accordi Italia-Libia sui migranti? “Non c’è assolutamente alcun nesso. Da sempre capita che cittadini libici vengano a curarsi in strutture sanitarie in Italia, apprezzate per la loro qualità. Mi risulta sia successo anche in tempi passati in cui i governi erano sostenuti da partiti politici a cui aderiscono esponenti che ora si stracciano le vesti”. Una tutela dei rapporti con chi ha il potere in Libia è imprescindibile per evitare ripercussioni sulle partenze? “Abbiamo tutto l’interesse a coltivare buoni rapporti di collaborazione con tutti, a maggior ragione con le autorità dei Paesi del Mediterraneo e non solo per fronteggiare l’immigrazione irregolare ed il rischio di importare delinquenza e terrorismo. Abbiamo infatti legami economici e culturali dovuti alla nostra storia e alla nostra collocazione geografica che vanno mantenuti vivi e rafforzati. Il Piano Mattei è stato concepito proprio in questa direzione e comincia a far intravvedere i primi risultati. Non capisco perché dovremmo rinunciare a tutto questo”. In questi giorni si è parlato anche di un possibile piano di riordino che porterebbe alla chiusura di diversi commissariati di polizia in Italia... “Nessun reparto e nessun commissariato sul territorio sarà tagliato. Al contrario è in programma un rafforzamento delle realtà operanti sul territorio. Se un commissariato diventa inutilizzabile per fine locazione o perché non più funzionale, se ne programmerà l’apertura in un’altra sede nella stessa località. Prestiamo massima attenzione all’impegno delle Forze di polizia, che è in continua crescita sul territorio. Nel 2024 in Italia sono state arrestate o denunciate quasi 830 mila persone, +4% rispetto al 2023”. Il sogno di un disarmo profondo: militare e nell’uso delle parole di Padre Enzo Fortunato Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2025 “Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra”. Sono queste le parole del Papa affidate a una lettera pubblicata sul Corriere della Sera. Parole giustamente riprese e citate da Roberto Benigni in eurovisione nel suo spettacolo sul sogno dell’Europa come progetto di pace perpetua tra i popoli. In tutti i suoi interventi sulla guerra il Pontefice non ha mai espresso una posizione meramente moralistica. Ha sempre cercato di attaccare le ragioni più profonde dell’inimicizia tra gli uomini. Innanzitutto, l’industria delle armi. E purtroppo gli eventi recenti continuano a dargli ragione. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (Sipri), negli ultimi cinque anni, il mercato globale delle armi ha subito un’accelerazione selvaggia. L’Europa, travolta dal conflitto in Ucraina e dalla necessità di rafforzare i propri arsenali, ha visto un aumento del 155% nelle importazioni di armamenti. Ma il vero vincitore di questa corsa al riarmo sono gli Stati Uniti, che oggi controllano il 43% del mercato mondiale e consolidano la loro supremazia come principali fornitori di armi a livello globale. Inoltre, tra il 2020 e il 2024, l’Ucraina è diventata il primo Paese importatore di armi del mondo, con una crescita impressionante rispetto al quinquennio precedente. L’Occidente ha riversato miliardi in aiuti militari a Kiev, con gli Stati Uniti in testa (45% delle forniture a Kiev), seguiti da Germania (12%) e Polonia (11 per cento). Nell’intervento sul Corriere, tuttavia, il Papa interviene su un’altra causa della guerra, l’uso tossico e dannoso delle parole. Le parole infatti non sono meri segni, scritti o sonori, ma sono la materia del nostro pensiero che è interamente linguistico. Le parole non sono soltanto forma, ma sono sostanza e come tali sono strumenti di pace o di guerra, capaci di costruire o distruggere. Di qui l’appello continuo e rinnovato al dialogo e all’impegno per una diplomazia che sappia dare nuova linfa alle istituzioni internazionali. Nello stesso tempo, sul palcoscenico di Rai Uno, Benigni, con il cuore in mano e quel suo sorriso inconfondibile, ha presentato Il Sogno - uno spettacolo che ci ha fatto riflettere sulle nostre aspirazioni e sui nostri desideri di un’Europa unita e pacifica. Ha ricordato che, per costruire un futuro migliore, dobbiamo sognare insieme, perché i grandi sognatori non sognano mai da soli. “Stare insieme”, ha ricordato, come “dicono i bambini”. E non è un caso che l’artista premio Oscar avesse paragonato nella prima Giornata mondiale dei bambini il Papa ai sentimenti puri e incontaminati dei bambini. I due messaggi, seppur espressi in contesti e linguaggi diversi - uno solenne e meditativo, l’altro vibrante e ironico - convergono in un’unica visione: la necessità di un disarmo profondo, non solo in termini militari ma soprattutto nel modo in cui usiamo le parole. Il Papa richiama l’impegno etico dei comunicatori affinché le parole diventino strumenti di costruzione e di pace, mentre Benigni, con la sua capacità di suscitare emozioni e riflessioni, ci invita a sognare un’Europa in cui la fratellanza e il dialogo prevalgano sulle divisioni. E cosa rappresenta il Giubileo se non il sogno di Dio sulla terra? Papa Francesco ha più volte esortato i fedeli, soprattutto i giovani, a non smettere di sognare. Nei suoi discorsi, il Pontefice ha sottolineato come i sogni siano una dimensione essenziale della vita cristiana, uno spazio in cui Dio può parlare al cuore dell’uomo. “Un giovane senza sogni è un giovane anestetizzato”, ha detto in occasione del Sinodo sui giovani del 2018, invitando le nuove generazioni a non arrendersi alla rassegnazione. “Non lasciatevi rubare i vostri sogni!”, ha ripetuto più volte, ricordando che solo chi sa sognare può trasformare la realtà e costruire un futuro migliore. E il sogno più grande è il sogno della pace. L’Europa ai margini reagisce di pancia e ricade negli errori del passato di Loretta Napoleoni* Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2025 Bisogna armarsi per difenderci dice la guerrigliera tedesca Von Der Leyen, Mario Draghi le fa da controcanto, ma da chi esattamente dobbiamo difenderci? Nella costruzione del nuovo ordine mondiale l’Europa è marginale e reagisce di pancia, almeno per ora. Mentre è chiaro che sia Trump che Putin hanno un piano di lungo periodo ben chiaro a favore della crescita e stabilità delle proprie nazioni, un assetto da realpolitik, insomma, in cui la Cina avrà anche un suo ruolo, in linea con il suo status di potenza, o meglio di super potenza mondiale, il Vecchio continente non solo non lo possiede ma da segni di senilità. Paradossalmente, gli interessi della popolazione europea, come investimenti nei servizi sociali, la sanità, la scuola ecc., sono passati in secondo piano, sacrificati in difesa di un paese che non fa neppure parte dell’Unione europea, l’Ucraina. Ancora più demenziale è costatare che fino a poche settimane fa nella crociata pro-Ucraina l’Europa non è stata leader ma ha ‘seguito’ la leadership americana, accettando condizioni e conseguenze svantaggiose. Negli ultimi tre anni abbiamo giocato un ruolo di secondo piano nelle due guerre vicino ai nostri confini, quella in Ucraina e quella a Gaza, il primo ad est e l’altro a sud. Le decisioni chiave riguardo alla prima, appoggio a Kiev, sanzioni contro la Russia, interruzione dell’approvvigionamento energetico eccetera, non sono state prese a Bruxelles ma a Washington da un’amministrazione ed un partito che hanno perso le elezioni. Tuttavia, il peso economico ed umanitario del conflitto è ricaduto tutto sull’Europa: milioni di sfollati ucraini accolti a braccia aperte con uno sforzo notevole da parte del sistema di assistenza sociale dei paesi membri europei; impennata dei costi energetici con conseguente gravitazione del debito pubblico e così via. Politici come Boris Johnson, sostenitore della Brexit, si sono gettati a pesce nello scenario dicotomico antirusso usando l’arma della paura per nascondere la loro mediocrità ed incompetenza, e così facendo hanno fomentato il prolungamento del conflitto. Oggi Macron e Starmer stanno facendo la stessa cosa per nascondere alle proprie nazioni e al mondo la loro scarsissima popolarità. Altri politici hanno incitato l’Ucraina a chiedere l’ingresso nella Nato contro i principi della carta costitutiva, altri ancora sono stati ben contenti di vietare ad artisti russi di esibirsi in Europa, ad atleti di partecipare alle gare internazionali, ad insegnanti di divulgare nelle scuole e università il grande contributo della letteratura russa. L’Europa è stata infintamente più dura degli Stati Uniti dove la popolazione ha mostrato un certo disinteresse per il conflitto. ?Il nemico per noi fino a gennaio del 2025 era la Russia, non il suo regime, non Putin, ma il popolo russo, responsabile di avere a propria guida l’aggressore. E fino a qui almeno la definizione del nemico era chiara. Ma da qualche settimana a questa parte anche questa è diventata confusa. Bisogna armarsi per difenderci dice la guerrigliera tedesca Von Der Leyen, Mario Draghi le fa da controcanto, ma da chi esattamente dobbiamo difenderci? Da Putin, che nell’immaginario collettivo costruito negli ultimi 3 anni è il nuovo Hitler, oppure dalla pace che Donald Trump vuole negoziare? O ancora peggio, dobbiamo difenderci dal nuovo ordine globale che Trump sta disegnando dove tre stati: Usa, Russia e Cina si accordano per non attaccarsi e dedicarsi alla spartizione del pianeta secondo interesse economici e commerciali loro propri? In questo nuovo assetto Mondiale l’Europa finisce nella categoria dei paesi di seconda classe e questo spiega la sua assenza dal tavolo delle trattative di tregua e pace. La guerra a Gaza dove noi europei abbiamo fatto orecchie da mercante rientra nel nuovo ordine mondiale, sta bene alla Russia e alla Cina e naturalmente agli Stati Uniti risolvere la questione palestinese rimuovendola da Israele, deportazioni di massa dei sopravvissuti dopo bombardamenti a tappeto. Ed i paesi arabi che contano, cioè l’Arabia Saudita, ne sono consapevoli e gli sta bene. La pacificazione del mondo, un mondo che dalla caduta del muro di Berlino non è riuscito ad equilibrarsi intorno al cardine della democrazia, avviene con la forza dei potenti. E noi, europei orgogliosi di un passato sanguinario, non solo non ne siamo gli artefici ma le vittime. A conferma l’abbandono del pacifismo e la corsa ad armarci quando Donald Trump ha ventilato di non voler più proteggerci militarmente. Stiamo ricadendo negli errori del passato, la politica di espansione dell’Unione europea considerata essenziale per mantenere la pace adesso richiede un esercito e così lo costruiamo a scapito della pace e degli interessi della popolazione. Emetteremo un debito pubblico congiunto, prima volta nella storia e lo faremo per armarci, 800 miliardi di euro, un debito che dovremmo rinnovare annualmente per sostenere l’esercito europeo che costerà molto dal momento che, come quello americano, sarà composto da professionisti della guerra, a meno che nella follia collettiva si reintroduca la leva obbligatoria. Tutto a questo punto è possibile. *Economista Turchia. Imamoglu va in carcere ma 15 milioni di turchi si ribellano a Erdogan di Gabriella Colarusso La Repubblica, 24 marzo 2025 Convalidato l’arresto del sindaco di Istanbul. Il Paese reagisce: nominato capo dell’opposizione con numeri senza precedenti. Davanti al seggio di Uskudar, il quartiere di Istanbul dove vive Erdogan, la folla si apre per far passare un’anziana con il deambulatore: “Oggi Istanbul, domani la Turchia”, urla un signore in piedi su un parapetto. Applausi. A Kadikoy, roccaforte dell’opposizione sulla sponda asiatica, la ressa per votare alle primarie del Chp blocca un’intera area del quartiere. Pure a Kasimpasa, distretto operaio e conservatore, c’è la fila al seggio dal primo mattino, e solo un candidato: Ekrem Imamoglu. Dal tribunale è appena arrivata la notizia che molti temevano: il giudice ha convalidato l’arresto del sindaco di Istanbul e leader carismatico dell’opposizione con accuse di corruzione. Avrebbero voluto incriminarlo anche per “favoreggiamento di un’organizzazione terroristica armata”, per via dell’alleanza elettorale che fece l’anno scorso alle comunali con il partito curdo Dem, ma il tribunale non lo ha “ritenuto necessario in questa fase”. Poco dopo, il ministero dell’interno lo dichiara decaduto dall’incarico di sindaco. Mentre lo trasferiscono nel carcere di massima sicurezza di Marmara, distretto di Silivri, dove sono detenuti altri oppositori politici come Osman Kavala, Imamoglu chiama alla resistenza in piazza e nelle urne: “Questa è un’esecuzione senza processo. Non mi piegherò mai. Non siate tristi, scoraggiati, non perdete la speranza. Assicuratevi di esprimere il vostro voto oggi. Poi unitevi a noi a Saraçhane di Istanbul e nelle piazze della democrazia”. Ed è quello che succede, in un’altra giornata storica per la Turchia. Le immagini di folle ai seggi si moltiplicano, ad Ankara, la capitale, a Diyabarkir, la città più grande a maggioranza curda, a Izmir e ad Adana, nel sud est, elettori di tutte le età, fischietti e cartelloni. Davanti al comune, diventato il sacrario della rivolta, hanno piantato una tenda per votare. Decine di giovani sono accampati nel pratone, centinaia di altri continuano ad arrivare. “Viviamo in una repubblica solo di nome, appena c’è qualcuno che può sconfiggere Erdogan lo eliminano dalla scena politica”, dice Ferhat, 29 anni. “Ci opporremo fino alla fine”. La chiusura dei seggi viene rimandata di due ore, per dare a tutti la possibilità di votare. L’opposizione denuncia “un colpo di stato civile, giudiziario, elettorale”. Sei dei 27 sindaci municipali del Chp che sono stati eletti l’anno scorso, quando i repubblicani vinsero a valanga le comunali contro i conservatori dell’Akp, sono ora agli arresti. In due casi sono stati sostituti con fiduciari nominati dal ministero dell’Interno, cioè dal governo: succede da anni, lontano dai riflettori, con i sindaci curdi nell’est del Paese. Ora il timore è che le autorità vogliano impossessarsi della municipalità di Istanbul. Il consiglio comunale a maggioranza Chp dovrà votare un reggente il 26, ma se le accuse a Imamoglu di “sostegno al terrorismo” dovessero essere convalidate, il governo potrebbe commissariare l’intera giunta. A sera, il Chp annuncia numeri epocali: 15 milioni di elettori. Considerato che il partito ha 1,7 milioni di iscritti vuole dire che 13 milioni di turchi, anche di altri fedi politiche, hanno voluto esprimere il loro voto di solidarietà. “Le primarie sono diventate un referendum per la democrazia. I turchi hanno indicato chiaramente che vogliono la Repubblica, non la monarchia”, dice il professore Murat Somer. Intorno a Sarachane si raduna una folla oceanica, superiore a quella delle notti precedenti. Il sindaco di Ankara apre la breccia: “È giunto il momento di elezioni anticipate”. In carcere oltre a Imamoglu restano almeno 300 persone, molti giovani studenti, arrestati durante le manifestazioni di questi giorni. La repressione comincia a essere così pressante che anche X di Elon Musk si ribella, pur avendo finora assecondato il governo turco. “Ci opponiamo alle molteplici richieste dell’Autorità turca delle tecnologie e dell’informazione di bloccare oltre 700 account di organizzazioni giornalistiche, personaggi politici, studenti e altri individui in Turchia”. Venezuela. “Noi in cella con Trentini tra torture e privazioni” di Giuliano Foschini L Repubblica, 24 marzo 2025 I racconti di alcuni detenuti americani nella prigione venezuelana liberati un mese fa: “Il cooperante era vivo e riceveva le medicine”. Febbraio, carcere El Rodeo 1, Venezuela. Alberto Trentini è vivo. È in una cella di due metri per due, dalla quale può uscire pochi minuti al giorno. Lo guardano secondini con nomi in codice che raccontano tutto: Hitler, Diavolo, Squalo, agenti pronti a sedare con la violenza ogni tentativo di protesta. Alberto ha le medicine per la sua malattia ma si trova in condizioni di “tortura psicologica”, insieme ad almeno una settantina di altri detenuti, nel braccio per “stranieri” del carcere di El Rodeo 1. Sono tutti detenuti senza reali motivi, dei veri e propri ostaggi, catturati nell’ultimo anno dal governo Maduro con accuse fittizie per poi essere utilizzati come arma di scambio politico sui tavoli internazionali. Arrivano dagli Usa le ultime notizie su Trentini, cooperante italiano arrestato in Venezuela il 15 novembre scorso, mentre portava aiuti umanitari alla popolazione locale. Un mese fa, grazie all’intercessione del governo Trump, sono stati liberati alcuni cittadini americani che erano nello stesso carcere e nelle stesse condizioni di Trentini. E hanno raccontato ai servizi di sicurezza prima, e poi anche al New York Times, una serie di particolari sui mesi passati nella prigione venezuelana. Collocando a più di un mese fa le sole notizie sul nostro connazionale. “Le guardie si chiamavano tra loro con nomi in codice, alcuni avevano anche delle targhette sulla divisa”, hanno detto gli americani. C’era Hitler, il Diavolo, Lo Squalo. Una volta fermati sono stati tutti denudati e tenuti per quattro, cinque giorni con le manette ai polsi “che ci laceravano la pelle” davanti agli uomini dello spionaggio di Maduro. “Dopo siamo stati portati in celle” grandi sei metri quadrati, con porte in ferro. “Si sentivano le grida degli altri detenuti, soprattutto venezuelani, a cui spesso non davano da mangiare”. Quando qualcuno provava a protestare, le rivolte venivano risolte con la violenza: botte e spray al peperoncino negli occhi. “Eravamo sottoposti a ripetute torture psicologiche”, hanno detto, raccontando di lunghissimi interrogatori per cercare informazioni che non c’erano. “Perché nessuno di noi aveva commesso reati, la nostra unica colpa era di essere stranieri”. Secondo un gruppo di controllo venezuelano nel carcere di El Rodeo 1 ci sono 68 stranieri tra spagnoli, tedeschi, argentini, colombiani e uruguaiani. E poi c’è Alberto che un americano liberato ha raccontato di aver visto: era in condizioni discrete e gli venivano date le medicine di cui ha bisogno. L’Italia ormai due mesi fa ha avuto dal Venezuela una prova tangibile del fatto che il cooperante italiano fosse vivo e in buona salute. Da allora nulla. Nonostante le promesse, però, a Trentini non è mai stato concesso di chiamare casa. Né di incontrare i nostri diplomatici. All’Italia non sono mai state comunicate le accuse. Ma tramite i canali di intelligence abbiamo saputo che gli viene contestata la “cospirazione”, nell’ambito di un’inchiesta che sarebbe già sul tavolo del tribunale speciale che si occupa di terrorismo. “Un’accusa ridicola, priva di qualsiasi appiglio”, spiegano fonti italiane che stanno seguendo il dossier che, come hanno spiegato sia il ministro degli Esteri Antonio Tajani sia il sottosegretario Alfredo Mantovano, è particolarmente “difficile”. Tajani ha parlato del caso durante il G7 in Canada, ricevendo un buon feedback dal segretario di stato Usa, Marco Rubio, che ha seguito il caso dei detenuti statunitensi poi liberati. In Italia continua la mobilitazione chiesta a gran voce dalla famiglia Trentini, con l’avvocato Alessandra Ballerini. Procede il digiuno a staffetta, sono più di 90 mila le firme raccolte in una petizione su change.org. Mentre mamma Armanda, che aveva scritto una lunga lettera a Repubblica, aspetta di incontrare la premier Giorgia Meloni.