Il paradosso delle carceri: è lo Stato a essere fuorilegge su sovraffollamento e misure alternative di Giuseppe Ariola L’Identità, 23 marzo 2025 Il livello del sovraffollamento carcerario, il principale responsabile della drammatica situazione in cui versano i penitenziari italiani, è un problema dibattuto da anni che ciclicamente torna centrale nell’agenda politica. Viene definito come un’emergenza ed effettivamente lo è, ma a differenze di tutte le altre emergenze ha un tratto decisamente peculiare, ha perso il carattere della straordinarietà. Governi sostenuti da maggioranze di diverso colore politico, negli anni, sono stati costretti ad affrontare la questione dell’invivibilità delle strutture detentive, anche su impulso del Quirinale, eppure il problema del sovraffollamento carcerario - e tutto ciò che ne consegue a cascata - è sempre lì, nonostante le varie misure tampone messe in campo di volta in volta che, come è del tutto evidente, non hanno funzionato. Per provare a capire il perché, abbiamo spostato l’attenzione dagli interventi messi in atto da governi e Parlamento concentrandoci sull’altra parte del campo, su chi tocca con mano quotidianamente questo problema, dai detenuti, agli agenti penitenziari, al mondo del volontariato attivo nelle carceri, passando per chi ricopre un ruolo istituzionale come garante dei detenuti. Ne è emerso un quadro desolante, soprattutto perché è apparso immediatamente lampante che il problema principale è rappresentato dal fatto che il quadro normativo teso a diminuire la presenza di detenuti in carcere è ampiamente inattuato. Una circostanza che vanifica ogni nuovo sforzo in tal senso. Innanzitutto, ci sono norme che vengono puntualmente disattese, su tutte quella che fissa a 70 anni il limite di età per la detenzione carceraria. “Ho visto entrare in prigione persone di oltre 80 anni, magari per scontare una pena di soli 6 o 7 mesi”, ci ha raccontato una volontaria a Regina Coeli. Ma è su tutto il circuito delle misure alternative, quello che davvero potrebbe far respirare i penitenziari, che si registra il vulnus più grave. La criticità principale è la mancanza di reali opportunità sociali in grado di garantire l’espiazione della pena al di fuori delle mura delle celle. Anche se la legge le prevede, mancano dunque tutte quelle realtà di accoglienza esterna necessarie affinché un magistrato possa firmare l’ordine di forme detentive alternative. Suona paradossale, ma uno dei maggiori problemi è rappresentato dal fatto che banalmente molti detenuti, o perché hanno perso tutto, o perché abbandonati dalle proprie famiglie, non hanno alcun indirizzo di residenza da segnalare. Un cavillo burocratico che suona come una barbarie. Tanto più alla luce del fatto che solamente il 15% della popolazione carceraria (il 16 se si considera quella straniera) è allocata in circuiti di alta sicurezza che non prevedono la possibilità di accedere a programmi di detenzione al di fuori dei penitenziari. La restante parte, invece, potrebbe avvalersi di forme detentive alternative, almeno dopo un certo lasso di tempo trascorso in carcere, se solo ne avesse la possibilità. Possibilità, invece, puntualmente negate che determinano un continuo aggravarsi della situazione. A partire dai suicidi in cella e non solo. Se, come ci ha raccontato un ex detenuto, “scendere dal terzo piano di una branda rischiando di atterrare addosso a un compagno di cella, per andare in bagno a 50 centimetri dalla cucina alla lunga ti fa venire la voglia di legare le lenzuola alle grate”, lo stesso vale per gli agenti, ovunque sotto organico rispetto al numero di detenuti. Possibile che proprio con chi è giustamente punito per aver violato la legge lo Stato non si preoccupi di rispettare le regole? Pressing, dubbi, ritardi: cosa sta succedendo con la nomina del capo del Dap di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 23 marzo 2025 Dopo le brusche dimissioni a dicembre di Russo le funzioni del Dipartimento sono state affidate a Di Domenico (sostenuta dal ministero) ma la controfirma sul decreto di nomina ancora non arriva. Sovraffollamento e carenze del personale di sorveglianza sono i malanni cronici delle carceri italiane. I numeri sulle presenze dei detenuti oltre il consentito - dai regolamenti e dal senso di umanità - sono stabili ma rimangono dentro un’emergenza che si aggrava ogni giorno facendo crescere le tensioni dietro le sbarre. Al 28 febbraio scorso, in base ai dati forniti dal Ministero della Giustizia, erano 62.165 le persone ristrette nei 190 istituti di pena, circa 11mila in più rispetto alla capienza prevista, ma ne risultano addirittura 15mila in sovrannumero se si considerano i posti letto effettivamente disponibili. Ci sono celle per 4 persone dove vivono anche in 7 o 8, come accade, per esempio, nel carcere di Foggia, dove lunedì scorso un 39enne, che aveva provato a uccidersi con una lametta alcuni giorni prima, quando era rinchiuso a Sassari, si è impiccato e la famiglia ha presentato una denuncia alla procura perché si faccia chiarezza sul caso. I suicidi continuano con una sequenza impressionante: dal 1° gennaio di quest’anno sono 21 le persone recluse che si sono tolte la vita (5 in meno rispetto allo stesso periodo del 2024, il peggiore della storia del nostro sistema penitenziario per numero di morti). La metà di questi era in attesa di primo giudizio. Parlare di un “braccio di ferro” sarebbe improprio, tenuti in conto linguaggio e aplomb istituzionale che caratterizzano il Colle più alto delle istituzioni repubblicane. Più corretto, dunque, qualificare ciò che sta avvenendo rispetto all’attesa per la nomina del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria come uno “stallo” nel confronto fra il Quirinale e via Arenula, dove ha sede il ministero della Giustizia. Un’impasse che dura da mesi e che non sarebbe dettato da questioni di puntiglio, quanto piuttosto - secondo quanto ha potuto verificare Avvenire - da una “non convergenza di vedute” fra il Quirinale e il dicastero della Giustizia sul nome da individuare. Ma, per mettere a fuoco la questione, è opportuno partire dal principio. Le brusche dimissioni di Russo - A dicembre, negli stessi giorni in cui Elisabetta Belloni comunica a Palazzo Chigi di voler rinunciare anzitempo alla direzione del Dis, un altro dirigente pubblico presenta le proprie dimissioni: è Giovanni Russo, magistrato di vaglia, che fa sapere al Guardasigilli Carlo Nordio di voler lasciare la guida del Dap, alla quale si trova solo dal gennaio 2023. Perché lascia? Di voci ne girano tante, si parla di frizioni col sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha la delega per il Dap. Fra i due - fanno notare al Sappe, sindacato della polizia penitenziaria -, non sarebbe mai scattata particolare sintonia. Ma proprio Delmastro, prima di Natale, smentisce seccamente presunti contrasti con l’uscente: “Certi retroscena non sono veri”. La reggenza di Lina Di Domenico - Sia come sia, Russo lascia il suo ufficio in largo Luigi Daga per andare a fare il consigliere giuridico della Farnesina. Le sue incombenze vengono affidate alla vicecapo del Dap, Lina Di Domenico: già magistrato di sorveglianza a Novara, dal marzo 2023 è numero due del Dipartimento. Lo è per la seconda volta, perché aveva già ricoperto quell’incarico nel 2018-2019. Ed è una “nipote d’arte”: suo zio Giuseppe Falcone (non Giovanni, come scrive qualche quotidiano, incappando in un singolare abbaglio), segnala ancora il Sappe, è stato un “compianto grande magistrato che ha fatto la storia dell’amministrazione penitenziaria”, a sua volta vice capo del Dap una trentina d’anni fa e poi reggente. Il pressing di via Arenula - Per l’esperienza maturata e per le competenze pregresse, quello della Di Domenico diventa, per il sottosegretario Delmastro e per lo stesso Guardasigilli, un profilo valido da proporre per l’upgrade alla guida del Dipartimento (sarebbe la prima donna a farlo). La scelta non trova obiezioni a Palazzo Chigi. Fra gennaio e febbraio, in via Arenula paiono convinti che il curriculum della “candidata” andrà bene. Ma è necessaria un’interlocuzione col Quirinale perché il capo del Dap è “nominato con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro di grazia e giustizia”. Nel frattempo, però, il nome trapela: alcuni quotidiani indicano Di Domenico come candidata in pectore del ministero. E ciò suscita disappunto sul Colle, dove le scelte si è abituati prima a farle e poi a comunicarle, per mettere lo spazio del confronto al riparo da condizionamenti mediatici e politici. A quel punto la decisione viene fatta decantare. L’impazienza al ministero - E veniamo a questi giorni. Nel dicastero di via Arenula fervono i preparativi per il 208esimo anniversario di fondazione del della Polizia penitenziaria: si montano in piazza del Popolo, gli stand della “cittadella della legalità”, dove dopodomani si terranno le celebrazioni. Il nome caldeggiato dai vertici del dicastero è sempre quello. E c’è chi si spinge a ipotizzare che il nodo del Dap possa essere sciolto dal Quirinale con la controfirma del decreto già nella settimana entrante, in concomitanza con le celebrazioni. Ma il Colle per ora frena: interlocuzione ancora in corso - Tuttavia, una verifica effettuata da Avvenire con fonti qualificate del Quirinale tratteggia una situazione differente: non è solo una mera questione di tempi e di “controfirma”, viene spiegato. Al momento, infatti, l’interlocuzione non porterebbe automaticamente al profilo della Di Domenico. Ci sarebbero anche altri potenziali candidati, sui cui profili al Quirinale si sta facendo una riflessione. Quali? Le fonti quirinalizie, in ossequio al rigoroso riserbo che caratterizza l’agire del Colle, non si pronunciano sui nomi, né forniscono ulteriori elementi di contorno. Ma si tende comunque a escludere che per ora il nodo possa ritenersi sciolto perché, viene ribadito con garbo, “l’interlocuzione è ancora in corso”. Bisognerà dunque attendere per vederne il punto di caduta. L’accelerata (su imput di Meloni) sull’edilizia penitenziaria - E mentre cresce l’attesa, il ministro Nordio cerca di far fronte alle fibrillazioni del mondo carcerario, legate al sovraffollamento, all’inadeguatezza delle strutture e segnato dall’alto numero di suicidi. Ha incontrato il Garante nazionale per i detenuti e quelli regionali, che gli hanno sottoposto “la delicata questione degli istituti penitenziari per minori” e ha firmato il decreto che assegna al Dap un milione di euro per “l’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case famiglia protette”. Era ora, punzecchia dall’opposizione la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani, “ma non basta per lavarsi la coscienza. Pensi piuttosto a eliminare la norma del ddl Sicurezza, che prevede che mamme e bambini finiscano in carcere e non in case protette”. A battere un colpo è pure il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Mario Doglio, avviando la gara per realizzare nel 2025 altri “384 nuovi posti detentivi in 9 penitenziari di 7 regioni, con una spesa di 32 milioni di euro”. Il 5 febbraio, in un vertice a Palazzo Chigi, la premier gli aveva chiesto di accelerare sul piano per aggiungere 7mila posti tabellari ai 50mila attuali. Da allora, ogni 15 giorni, Meloni s’informa su come vanno le cose. Lei è la prima a non volere rallentamenti su un percorso che ritiene cruciale. Doglio: “32 milioni di euro per 384 nuovi posti letto in carcere” di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 marzo 2025 Al via la gara di edilizia penitenziaria. L’annuncio del Commissario straordinario. Alla Camera, l’altro giorno, durante l’assemblea straordinaria dedicata alla cogente emergenza carceri e finita con un nulla di fatto, più di qualche deputato dell’opposizione si era chiesto che fine avesse fatto il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria Marco Doglio, nominato il 22 settembre scorso. Ed ecco che ieri è arrivata la risposta, direttamente dal ministero della Giustizia. Con l’annuncio dell’avvio di una gara pubblica per la costruzione di “384 nuovi posti detentivi entro il 2025”, per un “importo complessivo di 32 milioni di euro”. La gara “sarà gestita da Invitalia in qualità di Centrale di Committenza”. Il commissario Doglio mostra così segni di progressione nell’unico progetto che il governo Meloni ha messo in campo per contrastare il sovraffollamento carcerario, inesorabilmente in crescita peraltro grazie alle politiche panpenaliste adottate. A conti fatti, si tratta di circa 83 mila euro a posto letto, ma l’importo prevede solo l’”ampliamento strutturale di nove istituti penitenziari, situati in Calabria, Emilia-Romagna, Abruzzo, Lazio, Lombardia Piemonte e Sicilia”. Dopo aver costruito nuove celle, infatti, come ricordano spesso gli stessi sindacati di polizia penitenziaria, affinché la detenzione sia conforme al dettato costituzionale ed effettivamente capace di “tendere alla rieducazione del condannato”, bisognerà provvedere ad aumentare gli organici degli agenti e di tutti gli operatori che lavorano con i detenuti. Il comunicato stampa di via Arenula spiega che “l’aumento della capienza sarà ottenuto grazie alla fornitura e messa in opera di appositi moduli detentivi”, con un’opera “di riqualificazione e di ristrutturazione delle strutture carcerarie esistenti”. La “procedura ristretta” prevede “l’avviso pubblico e un successivo invito alle imprese che abbiano manifestato interesse” entro il 10 aprile 2025. Una scadenza molto ravvicinata. Il progetto annunciato dal commissario Doglio ha già ottenuto l’”apprezzamento” del Garante nazionale dei detenuti Riccardo Turrini Vita, espresso al ministro Nordio durante l’incontro di giovedì scorso. Totale condivisione anche da parte del vicepremier Tajani che ieri, durante la convention di Forza Italia dedicata alla riforma della giustizia, ha però sottolineato che le carceri hanno bisogno di un cambiamento perché “chi è detenuto perde la libertà, ed è giusto che la perda, ma non la dignità”. E anche il mattone, si potrebbe aggiungere, vuole la sua parte. S’invecchia anche dietro le sbarre: l’età media è salita di 5 anni dal 2005 di Luca Bonzanni Avvenire, 23 marzo 2025 La demografia consegna le sue criticità fino in carcere, con una “popolazione” sempre più anziana. E dunque fragile, bisognosa di cure, ma anche più isolata socialmente. È l’altra faccia della medaglia dell’emergenza penitenziaria: mentre gli istituti penali per minorenni toccano tassi d’affollamento record, e mentre sempre più giovanissimi passano dai minorili alle carceri per adulti, contemporaneamente nelle celle vivono centinaia di anziani. A fine 2024, secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, le carceri italiane ospitavano 1.238 persone con più di 70 anni d’età. Un’escalation continua, anno dopo anno: nell’ultimo decennio i detenuti over 70 sono praticamente raddoppiati, visto che erano 642 alla fine del 2014. Ma il fenomeno è di lungo periodo: nel 2005 se ne contavano appena 350, così da allora alla fine del 2024 la crescita dei ‘detenuti anziani” è stata del 253%. Si invecchia anche dietro le sbarre. È l’effetto del trend demografico che si legge anche nella società e che fa breccia anche oltre le mura dei penitenziari, di carcerazioni lunghe, ma anche - a volte, quando le condizioni sociali sono più fragili - dell’impossibilità di accedere a misure alternative, perché magari là fuori manca una casa e una famiglia, una rete di accoglienza. L’incrocio degli ultimi dati del ministero della Giustizia permette di cogliere la profondità del fenomeno. Alla fine dello scorso anno, a fronte dei 61.861 ristretti nelle carceri italiane, le persone con più di settant’anni sono arrivate a rappresentare il 2% del totale: una su 50. Nel 2013 erano solo 1’1%, nel 2005 “pesavano” solo per lo 0,6%. Di pari passo è aumentata l’età media di chi vive la propria esistenza in un penitenziario: nel 2005 si aggirava attorno ai 37 anni, oggi supera i 42 anni ed è la più alta tra le carceri del continente. Lo segnalava l’ultima relazione annuale del Consiglio d’Europa sui sistemi carcerari, spiegando che il dato italiano è legato anche a “una parte significativa di detenuti con più di 65 anni condannati all’ergastolo per reati di mafia”. Crescono anche i 60- 69enni in cella, passati dai 1.786 del 2005 ai 2.946 del 2014 e infine ai 5.050 di fine 2024. L’invecchiamento incide anche sulla salute: da inizio anno al 21 marzo, stando ai dati del Garante nazionale dei detenuti, 37 reclusi sono morti per cause naturali, in linea con i 38 del 2024 e con i 35 del 2023, ma ben più dei 25 del 2022 e dei 29 del 2021. Persone con un’età media di 56 anni, calcolava il dossier, ma spesso anche molto anziane: l’elenco dettagliato cita un 70enne (a Cosenza nella sezione per disabili), un 82enne (a Bollate, nella sezione per disabili a trattamento intensificato), un 75enne (a Lecce, in infermeria), un 70enne (a Palermo), un 73enne (a Bollate ma in articolo 21, la misura che consente il lavoro esterno), un 83enne (a Trapani, nella sezione protetti). Intanto, accanto a detenuti sempre più anziani, aumentano pure quelli più giovani. Lo raccontano ancora le statistiche del ministero della Giustizia: nel 2024 sono aumentati del 29% i reclusi tra i 18 e i 20 anni (da 755 a 974), dopo che già nel 2023 erano cresciuti del 26,9% (da 595 a 755). Una sorta di polarizzazione anagrafica che attraversa le carceri. Diritti negati ai detenuti transgender. In carcere isolamento, niente lavoro e cure a singhiozzo di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 23 marzo 2025 La prigione, per le persone transgender, diventa una doppia punizione: da un lato la detenzione, dall’altro l’emarginazione sistemica dentro un sistema penitenziario che, pur avendo preso atto della loro esistenza, non garantisce diritti né opportunità reali. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone, sono 69 le persone transgender attualmente detenute in Italia. Una popolazione distribuita in appena sei istituti penitenziari: Rebibbia Nuovo Complesso, Belluno, Como, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano e, appunto, Ivrea. Strutture che hanno predisposto sezioni protette o dedicate, spesso pensate per garantire maggiore sicurezza e tutela, ma che di fatto rischiano di produrre isolamento, invisibilità e assenza di diritti. A Ivrea, i numeri parlano chiaro: sette detenuti transgender vivono in una sezione da venti posti. Ma, come avviene in altri istituti, questa collocazione “protetta” non coincide con una reale inclusione nei percorsi trattamentali. Anzi. Il garante Cavalieri lo dice senza giri di parole: “Istruzione, formazione professionale e accesso al lavoro non sono garantiti. Per queste persone si traduce in un vero e proprio isolamento, con la conseguente violazione di un diritto fondamentale”. Il carcere, secondo la Costituzione, dovrebbe tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale. Ma per le persone transgender detenute questa funzione sembra completamente disattivata. Antigone sottolinea che la collocazione in sezioni speciali, gestite non attraverso regimi formali ma con “circuiti” informali, non consente l’accesso pieno ai trattamenti previsti per tutti gli altri detenuti. Peggio ancora: può trasformarsi in una condizione discriminatoria. “Essere trattati come un’eccezione non significa godere di maggiori diritti, ma espone a pluri-stigmatizzazione e marginalizzazione”, si legge nel rapporto. A Ivrea come altrove, mancano figure specializzate, personale sanitario formato e percorsi personalizzati. Le terapie ormonali, fondamentali per chi è in transizione, non sono sempre garantite con continuità, e la psicoterapia - altro elemento essenziale - viene spesso sacrificata per mancanza di risorse o competenze. Tutto questo produce una situazione di emarginazione interna, in cui i detenuti trans non studiano, non lavorano e non ricevono cure adeguate. Nel carcere di Reggio Emilia, la sezione “Orione” è diventata emblematica di queste criticità: attiva dal 2018, viene descritta dallo stesso garante come priva di un’offerta trattamentale paragonabile a quella riservata agli uomini cisgender. La situazione non è diversa nelle altre strutture. A Rebibbia sono ospitate 16 persone transgender su una capienza di 30 posti, a Belluno altre 16, a Napoli Secondigliano 11, di cui solo 8 effettivamente nella sezione dedicata. Anche a Como e Ivrea si registrano condizioni analoghe. Il convegno del 9 aprile, dunque, non è un evento isolato ma una chiamata pubblica alla responsabilità, che riguarda tutti gli istituti coinvolti. Se è vero che le persone transgender sono poche in termini numerici, è altrettanto vero che sono tra le più esposte alla violenza simbolica e all’abbandono istituzionale. E la detenzione, da strumento di rieducazione, rischia di diventare un buco nero in cui non esiste né reinserimento né dignità. A Ivrea, come a Reggio Emilia, non bastano le buone intenzioni o le etichette rassicuranti come “sezione protetta”. Servono investimenti, personale, formazione e coraggio politico, per smettere di considerare queste persone un’anomalia e iniziare finalmente a trattarle per quello che sono: cittadini con diritti, anche dietro le sbarre. Transgender - Il termine transgender si riferisce a una persona la cui identità di genere non corrisponde al sesso assegnato alla nascita. In parole semplici: se una persona alla nascita è stata registrata come maschio o femmina, ma crescendo si riconosce in un’identità di genere diversa da quella attribuita (per esempio si sente donna pur essendo nata con corpo maschile, o viceversa), quella persona può definirsi transgender. Essere transgender non riguarda l’orientamento sessuale (cioè chi si ama o da chi si è attratti), ma l’identità di genere, cioè chi si sente di essere profondamente, a livello psicologico e personale. Alcune persone transgender intraprendono un percorso di transizione, che può includere terapie ormonali, interventi chirurgici, oppure modifiche anagrafiche (nome e genere sui documenti). Altre scelgono invece di non modificare il proprio corpo, vivendo comunque nel genere in cui si riconoscono. Prison Fellowship Italia, iniziative in 7 istituti penitenziari per la festa del papà agensir.it, 23 marzo 2025 In occasione della solennità di San Giuseppe, appena trascorsa (19 marzo), l’Associazione Prison Fellowship Italia (PFIt), in collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS), è ritornata nelle carceri italiane, il 20 e il 22 marzo, per celebrare la “festa del papà”. Un’iniziativa per consolidare e mantenere vivo quel legame genitoriale che non può interrompersi con la detenzione. “Molti padri reclusi, infatti, spesso si ritengono delegittimati nel loro ruolo e vivono due isolamenti: quello fisico, e quello affettivo. Ma solo mantenendo viva questa relazione, oltre ai percorsi riabilitativi della detenzione, si può ricostruire quella fiducia e quel rispetto fondamentali per volere e iniziare un vero cambiamento”, si legge in una nota. Sette gli istituti penitenziari italiani in cui Prison Fellowship Italia e il Rinnovamento nello Spirito stanno portando un momento di gioia e condivisione per i padri detenuti e i loro figli: Aversa (CE) dove l’iniziativa si è svolta il 20 marzo scorso; Ivrea (TO), Fossombrone (PU), Lodi, Paola (CS), Laureana (RC) e Palmi (RC), il 22 marzo. “Un incontro speciale, un tempo da dedicare alle emozioni e ai piccoli gesti che solitamente, nella quotidianità, passano inosservati ma, in un contesto penitenziario e di privazione, ricordano ai figli che il loro papà è ancora presente. L’occasione per un abbraccio tra padre e figlio, a pochi giorni dalla festa del papà (che in san Giuseppe trova la massima espressione) per ridurre le distanze e continuare a vivere un legame che va oltre le sbarre e le mura di una prigione. Con questo nuovo progetto offriamo ai detenuti gli strumenti per essere padri migliori e per dare ai figli la speranza di una vita nuova”. Nordio, la stretta sui giudici: sanzioni per chi si schiera su questioni politiche di Francesco Bechis Il Messaggero, 23 marzo 2025 Il Guardasigilli annuncia di voler ripristinare l’illecito disciplinare per le toghe che ledono “credibilità e decoro” della magistratura. Lo sciopero? “Inopportuno”. Magistrati schierati, che dibattono e parlano in pubblico. Fuori dai ranghi e dai denti. Magari scagliandosi contro il politico di turno su Twitter, Instagram o Facebook. Ora basta, batte i pugni il Guardasigilli Carlo Nordio. Il governo valuta un inasprimento delle sanzioni disciplinari contro le toghe “di parte”. Non sono voci di corridoio. Ma un annuncio scritto nero su bianco dal ministro della Giustizia. Che ha preso carta e penna e ha risposto a un’interrogazione parlamentare firmata da Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato. “Resta tema centrale per questo governo l’eventuale reintroduzione nel nostro ordinamento, tra i doveri del magistrato, del divieto di tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria” scrive Nordio in una missiva letta in anteprima dal Messaggero. Decoro, prestigio, credibilità. In una parola: terzietà. Chi viene meno a questo sacro dovere, paga. Appena due settimane sono trascorse dal vertice fra la premier Giorgia Meloni e il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Cesare Parodi. E il clima che si respira non è esattamente idilliaco. Nordio torna sullo sciopero del 27 febbraio. La protesta che ha visto incrociare le braccia migliaia di giudici da Nord a Sud contro la riforma della separazione delle carriere è stata “inopportuna”, riflette il ministro di Fratelli d’Italia, un passato da pm. Scrive proprio così: “Appaiono assai inopportune le partecipazioni dei magistrati a convegni in sedi di partito come pure l’astensione del 27 febbraio scorso, indetta dall’Associazione Nazionale Magistrati contro il disegno di legge costituzionale che riforma la magistratura”. Scintille, di nuovo. Nordio in verità non fa che ripetere quanto ha detto nei mesi scorsi. Peraltro, fra tanti caveat. “Non si tratta di disconoscere ai magistrati, in quanto cittadini, i diritti di libertà di manifestazione e di partecipazione politica - precisa - salvo chiedere che “questi diritti siano esercitati tutelando i principi, pur’essi costituzionali, di imparzialità della magistratura e di leale collaborazione tra le istituzioni”. Però il ministro si fa capire, eccome. “Le legittime opinioni del magistrato, anche su temi politicamente sensibili, non devono essere espresse in modo tale da fare dubitare della sua indipendenza e imparzialità nell’adempimento dei compiti a lui assegnati”. Insomma occorre prudenza, avvisa le toghe, quando si parla in pubblico di politica. Magari sui social network, o a un convegno, o peggio ancora a “un evento di partito”. È quanto va denunciando da mesi Meloni. Che si è sfogata nel vis-a-vis (non proprio disteso) con l’Anm del 5 marzo per “i ripetuti attacchi” personali via social da giudici che poi si esprimono su provvedimenti del governo. Ad esempio, annullando la convalida dei trattenimenti dei migranti nei centri in Albania. È nata da qui l’ultima, profonda frattura tra poteri dello Stato, aspettando la Commissione europea che forse scioglierà il rebus pubblicando la lista sui “Paesi sicuri” di provenienza. Su questo si incentra l’interrogazione di Gasparri da cui prende le mosse Nordio. Il veterano forzista denuncia “le sentenze, a giudizio dell’interrogante, imbarazzanti, in tema di immigrazione” e chiede al titolare di via Arenula di assumere “ogni iniziativa utile volta a porre fine alle costanti e imbarazzanti ingerenze delle citate componenti della magistratura”. Per tutta risposta Nordio fa sapere che il governo valuterà una revisione delle sanzioni disciplinari. Quale? Il ministro fa riferimento a una legge del 2006 approvata dal governo Berlusconi, firmata dall’allora Guardasigilli Castelli e abrogata pochi mesi dopo dal successore Mastella. Ebbene, fa sapere citando la norma battezzata quasi vent’anni fa dal Cavaliere, il governo potrebbe tornare a includere “tra i doveri del magistrato” tutti i comportamenti che ledono “la credibilità personale, il prestigio, il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Pena multe e provvedimenti. Il perimetro è evidentemente più ampio dell’imparzialità e della terzietà del giudice, criteri già previsti dall’attuale ordinamento. Di qui i dubbi da sciogliere. È una violazione del “decoro” e della “credibilità” di un magistrato un tweet, un post sui social particolarmente duro contro il capo del governo o un suo ministro? Magari se poi lo stesso giudice deve esprimersi su una norma del governo? È illecito lo stato whatsapp critico sul “vocione rabbioso” di Meloni pubblicato da Antonella Marrone, magistrato che mesi dopo ha bloccato i trasferimenti in Albania? Nordio si riserva di restringere il campo in futuro con una rimodulazione “aderente al principio di tipicità degli illeciti disciplinari”. Intanto il dossier è sulla sua scrivania. Materia politicamente delicata, nitroglicerina pura. Risale a novembre il blitz in Cdm, poi rinviato su consiglio del sottosegretario Alfredo Mantovano, con una norma che chiedeva ai giudici di “astenersi” per ragioni di “convenienza” quando si trovano a giudicare provvedimenti su cui già si sono sbilanciati in pubblico. Questione di tempo prima che la normativa sugli illeciti disciplinari torni in discussione. Sotto lo sguardo vigile del Colle che osserva con una certa preoccupazione questo interminabile duello tra poteri dello Stato. Forza Italia rilancia la riforma della giustizia. Tajani: “Depoliticizzare la magistratura” di Luca Sablone Il Giornale, 23 marzo 2025 Accelerare sulla riforma della giustizia, rivendicando le priorità dell’agenda del governo guidato da Giorgia Meloni, dalla separazione delle carriere alle novità sul Consiglio superiore della magistratura. È questo lo spirito che anima il convegno “La riforma della Giustizia di Forza Italia” in corso al Teatro Politeama Garibaldi di Palermo, promosso dai gruppi parlamentari di Camera e Senato del partito e in collaborazione con la delegazione italiana nel gruppo Ppe al Parlamento europeo. L’obiettivo rimane lo stesso: far sì che il sogno di una giustizia efficiente, giusta e snella - da considerarsi come un diritto fondamentale per i cittadini - diventi finalmente realtà. Tajani ha assicurato che verranno onorati gli impegni presi con gli elettori: “Siamo al governo per fare anche le riforme, quella della giustizia è la più importante per Forza Italia. È una riforma per i cittadini, non è contro nessuno. È destinata a esaltare il ruolo dei magistrati, a depoliticizzare la magistratura: è una riforma positiva i cui benefici saranno tutti a favore dei nostri concittadini italiani”. Quanto all’Associazione nazionale magistrati, ha ribadito che le porte del confronto sono aperte ma allo stesso tempo ha avvertito: “Noi ascoltiamo ma andiamo avanti perché tocca al potere legislativo, dopo aver ascoltato, decidere. Noi andremo avanti con la riforma della giustizia”. Il vicepresidente del Consiglio ha sottolineato l’importanza dell’indipendenza culturale di chi deve giudicare: il correntismo “toglie la certezza del diritto”, motivo per cui serve che “le cose cambino anche nel Consiglio superiore della magistratura, fuori la politica”. “Vogliamo svicolare la magistratura dalla politica”, ha ribadito. Tajani ha ricordato che la strategia è ampia, come dimostra anche il via libera alla riforma delle intercettazioni: “Stiamo ridisegnando un sistema che non è lassista ma che impedisce che accadano vicende come quelle che purtroppo accadono nel nostro Paese, dove il 50% di coloro che sono in carcerazione preventiva poi è innocente”. In gioco, d’altronde, c’è la libertà delle persone: “C’è anche un tema che riguarda la riforma delle carceri. Ci sono princìpi che sono stati violati nel nostro Paese, bisogna rispettare la civiltà giuridica italiana e rispettare ogni singolo cittadino, evitando abusi ed errori”. Infine ha garantito che la stabilità dell’esecutivo non è in discussione: “Il governo andrà avanti sino a fine magistratura, difenderemo le nostre idee e valori, trovando sempre accordo ma senza rinunciare alla nostra identità perché siamo leali con tutti ma siamo Forza Italia e ne siamo fieri”. E si è detto ottimista sullo stato di salute di FI: “Dopo Berlusconi ci davano per spacciati, convinti che ci saremmo sciolti come neve al sole. È successo il contrario: stiamo avendo e avremo sempre di più un ruolo non solo nel governo, ma anche nell’intero Paese. È difficile arrivare al 20% alle elezioni politiche, ma ci si può arrivare”. Nella prima parte dell’evento - iniziato con l’Inno di Mameli - è stato proiettato un filmato con alcune dichiarazioni storiche rilasciate da Silvio Berlusconi contro l’abuso della custodia cautelare, a difesa della vocazione garantista e della presunzione di innocenza. “Questa riforma deve essere realizzata nell’interesse di tutti i cittadini, che avranno finalmente il diritto a giudici imparziali. I pm di oggi dovranno diventare gli avvocati dell’accusa e avere gli stessi identici diritti degli avvocati della difesa nei confronti di un giudice terzo. Per questo è necessaria la separazione delle carriere”, aveva scandito il Cav. Nel video sono state riportate anche le parole di Tajani, secondo cui la riforma della giustizia “mette finalmente in soffitta la proposta giustizialista del governo giallorosso, riduce i tempi del processo, rimette il cittadino al centro del processo”. I saluti istituzionali sono stati riservati agli interventi di Paolo Barelli e Maurizio Gasparri - rispettivamente capogruppo azzurro di Montecitorio e Palazzo Madama - e di Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera dei deputati. A seguire hanno preso parola altri importanti rappresentanti del partito, da Alessandro Cattaneo (responsabile nazionale dipartimenti FI) a Francesco Greco (presidente del CNF) e Marcello Caruso (coordinatore regionale di FI in Sicialia), passando per i due eurodeputati azzurri Caterina Chinnici e Marco Falcone. È stato poi il turno di Francesco Paolo Sisto, che oltre alla veste di viceministro della Giustizia ricopre anche l’incarico di responsabile del dipartimento Giustizia e Affari costituzionali di Forza Italia; l’esponente del governo ha tenuto una relazione introduttiva sul tema della separazione delle carriere. Così ha preso il via una tavola rotonda alla presenza dei deputati Enrico Costa, Pietro Pittalis, Annarita Patriarca e Tommaso Calderone e del senatore Pierantonio Zanettin. Spazio anche per Renato Schifani, presidente della Regione Sicilia e del Consiglio nazionale di FI. La conclusione dell’evento è stata affidata al segretario nazionale Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. “Riforma entro l’estate, poi decide il referendum” di Luca Fazzo Il Giornale, 23 marzo 2025 Il viceministro Francesco Paolo Sisto stringe sui passaggi parlamentari. “Confidiamo di avere entro aprile il voto del Senato”. Nessuna forzatura dei tempi, ma nemmeno pause inutili, spiega al Giornale il viceministro Francesco Paolo Sisto: il governo auspica di potere completare i quattro passaggi parlamentari della riforma costituzionale della giustizia, a partire dalla separazione delle carriere tra giudici e pm, prima dell’estate o giù di lì. In questa scia, appena il Senato avrà anch’esso dato il via libera, il testo potrà tornare alla Camera per la seconda lettura. Perché i tre mesi di pausa di riflessione previsti per le modifiche della Costituzione saranno già trascorsi, visto che Montecitorio ha dato il suo primo sì il 16 di gennaio. Dicono che è una forzatura della procedura... “È l’applicazione dei tempi previsti dalla Costituzione”. Quindi cosa accadrà? “Sto seguendo metro per metro l’iter parlamentare. In prima commissione, al Senato, le opposizioni hanno presentato milletrecento emendamenti, molti di contenuto visibilmente, quanto legittimamente, ostruzionistico, che andranno affrontati e votati per l’aula: confidiamo di potere avere entro il mese di aprile anche il primo voto del Senato. Senza stressare la Carta, è possibile che in estate si possano esaurire tranquillamente i quattro passaggi parlamentari. Subito dopo, con i tempi tecnici necessari, vivremo un meraviglioso referendum, una vera festa della democrazia diretta”. Meraviglioso? Il referendum rischia di spaccare il paese... “É quasi impossibile che una legge piaccia a tutti. Il referendum, però, seda ogni conflittualità: se il popolo italiano vorrà una giustizia migliore, un luogo in cui il giudice sia davvero al di sopra delle parti, diverso da chi accusa come da chi difende, avrà l’occasione di trasformare in realtà il sogno di tanti: Matteotti, Calamandrei, Falcone, Vassalli, Terracini. Se la prossima Germania-Italia fosse arbitrata da un tedesco, che ne penseremmo?”. È così sicuro dell’esito del referendum? “Per dirla con Bertrand Russell, l’intelligenza è parente del dubbio, sempre. Diciamo che sono ottimista, fiducioso in una scelta matura degli italiani verso il giusto processo”. E poi cosa accadrà? L’Associazione nazionale magistrati dice che il prossimo passo sarà mettere i pm sotto controllo del governo... “È il papunn che le mamme baresi usano per spaventare i bambini: un fantasma inesistente. Devono ancora spiegarmi in che angolo della riforma è nascosto questo passaggio. Per chi legge, c’è scritto esattamente il contrario. Autonomia e indipendenza di tutti i magistrati sono per noi un valore non negoziabile”. Dall’incontro con il governo l’Anm è uscita a mani vuote. Qualche modifica non sarebbe stata utile a riallacciare il dialogo con la parte moderata delle toghe? “L’Anm, come qualsiasi sindacato, non esprime il pensiero della totalità dei magistrati. E comunque, non è un atteggiamento maturo pretendere a tutti i costi la modifica di un provvedimento peraltro già approvato da un ramo del Parlamento, nel pieno rispetto delle procedure previste dai padri costituenti”. L’Anm deve rassegnarsi, dunque... “Qui non c’è nessuno che deve rassegnarsi, Non c’è chi vince o perde, c’è una riforma parlamentare e popolare, attesa da anni, inclusa nel programma con cui Forza Italia e il centrodestra si sono presentati alle scorse elezioni. Siamo stati votati anche per questo, e dobbiamo rispettare l’impegno assunto. Non è una riforma contro la magistratura né in spregio alla Costituzione: si tratta, anzi, proprio della piena attuazione dei principi costituzionali”. Quindi per la riforma vede la strada spianata? “Questa riforma può essere osteggiata solo da chi ha la istintiva paura del cambiamento in quanto tale. Stretta sulle intercettazioni: “Così la giustizia ha i giorni contati” di Irene Famà La Stampa, 23 marzo 2025 Preoccupati gli investigatori e gli inquirenti: è difficile captare elementi utili nei primi 45 giorni di intercettazione. Cogliere l’attimo. Gli investigatori, con la nuova riforma sulle intercettazioni, avranno una finestra di 45 giorni per registrare le confessioni involontarie di un criminale o un assassino. Così è stabilito dalla norma voluta da Forza Italia, a firma Pierantonio Zanettin, approvata nei giorni scorsi alla Camera: l’ascolto dei sospettati da parte di pubblici ministeri e polizia giudiziaria non può durare più di un mese e mezzo. Se non di fronte ad elementi specifici e concreti che dovranno essere oggetto di espressa motivazione e che permetteranno una proroga di due settimane in due settimane. Uniche deroghe? Mafia e terrorismo. Nessuna eccezione, invece, per la corruzione, l’estorsione e l’usura, violenze e femminicidio, sequestro di persona o droga. Giusto per citarne alcuni. “Così si pone un limite agli abusi. E si tutela la privacy”, dicono i sostenitori della riforma. Preoccupati, invece, gli investigatori e gli inquirenti: sanno bene che, all’atto pratico, è difficile captare elementi utili nei primi 45 giorni di intercettazione. Indagare è anche questione di tempo. E di pazienza. Ad esempio, nelle maxi inchieste di traffico di stupefacenti o di usura. “E non si può trascurare - spiegano gli addetti ai lavori - il tempo necessario per la traduzione, in italiano, di conversazione intercettate in lingua straniera. Da cui possono emergere ulteriori spunti investigativi” che, va da sé, poi bisogna avere il tempo di sviluppare. “E se dovesse tornare la stagione dei sequestri di persona?”, si chiede il procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri ospite alla trasmissione Otto e Mezzo. “I sequestratori, prima di cinque, sei mesi, non chiamano i famigliari. Quindi come si fa? Si mettono sotto intercettazione i parenti della vittima solo sino al 45esimo giorno e poi più nulla?”. Altra questione le indagini sui reati di usura. “Per dimostrarne l’esistenza servono mesi. Bisogna documentare le scadenze tra usurato e usuraio”. Numerose le inchieste che, con tempi di intercettazione così stringenti, non sarebbero giunte agli stessi risultati. Qualche esempio. L’indagine sul Mose, il progetto architettonico per separare la laguna di Venezia dalle acque del mar Adriatico in vista di possibili allagamenti, definita da alcuni “la nuova Tangentopoli d’Italia”, che ha visto trentacinque arresti e decine di indagati per corruzione, frode fiscale e finanziamento illecito ai partiti. Oppure l’inchiesta che ha coinvolto Giovanni Toti, ex presidente della Regione Liguria, finito nei guai per vicende di corruzione impropria e finanziamento illecito. La preoccupazione maggiore la manifestano i magistrati che si occupano di pubblica amministrazione. “Non ci sarebbe stata l’inchiesta sul nuovo stadio della Roma che ha coinvolto numerose figure politiche e imprenditoriali”, riflettono i bene informati. Sempre nella Capitale, lo scorso giugno, in un’indagine di riciclaggio è stato effettuato il più grande sequestro in Italia di criptovalute. E Franco Lee, star di Instagram, che in tre anni aveva movimentato quasi 9 milioni tra Bitcoin, Usdt, Ethereum e Matic, per pulire i soldi della criminalità, era finito in cella. Le intercettazioni erano durate mesi. Il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone offre una riflessione: “È impossibile predeterminare ab origine la durata delle intercettazioni”. Il magistrato non è preoccupato per le inchieste che riguardano la pubblica amministrazione e spiega: “La norma non ha incidenza sui reati della pubblica amministrazione perché anche su quelli si applica la norma in materia di criminalità organizzata”. A lasciarlo perplesso, semmai, è l’incidente sulle indagini sulla criminalità comune. Ad esempio quelle sui furti. “Non è una norma né utile né corretta, ma pone più ostacoli”. A chi sostiene che le intercettazioni siano un’invasione della privacy, aveva risposto l’ex procuratore capo di Torino Armando Spataro in un intervento in commissione giustizia nei mesi scorsi. Ricordando che dei limiti temporali sono già previsti (18 mesi in via ordinaria e un anno per i reati più gravi) e che già la riforma Orlando nel 2017 aveva assicurato “la doverosa riservatezza su ciò che è inutilizzabile o irrilevante” e che riguarda la vita privata delle persone. Ancona. Dramma a Montacuto, detenuto trovato morto nel letto di Federica Serfilippi Corriere Adriatico, 23 marzo 2025 Luigi Esposito aveva 38 anni. Disposta l’autopsia. Le guardie lo hanno chiamato più volte per andare a ritirare una notifica, ma lui non si è mosso dal letto. I compagni di cella lo hanno sollecitato, gli sono andati vicino. Niente. Luigi Esposito è morto venerdì pomeriggio nella sua stanza del carcere di Montacuto. Sarebbe dovuto uscire nel 2027, dopo aver scontato una condanna definitiva per reati contro il patrimonio. Il dramma si è consumato nella sezione di media sicurezza della casa circondariale. A stroncare il 38enne, che prima di finire in cella viveva è San Benedetto e faceva lavori saltuari come cameriere e operaio, è stato un arresto cardiaco. Stando a quanto rilevato, aveva patologie pregresse e assumeva farmaci. Come da prassi per i decessi avvenuti in carcere, la salma del 38enne è stata portata all’obitorio dell’ospedale regionale di Torrette in vista dell’esame autoptico. L’allarme a Montacuto è partito attorno alle 17.30. Esposito si trovava nella sua cella, coricato sul letto. Gli agenti della Polizia Penitenziaria lo hanno chiamato più volte: ad attenderlo c’era un atto che gli doveva essere notificato. I solleciti sono stati vani, così si sono mossi anche i compagni di cella. Hanno provato a svegliarlo, ma il 38enne era già morto. Immediatamente, si è attivata la task force dei soccorsi, con l’arrivo del personale medico del carcere e l’ambulanza del 118. È stato anche usato il defibrillatore, ma per il sambenedettese non c’è stato nulla da fare, se non dichiarare il decesso. La notizia della morte del 38enne si è sparsa rapidamente fino a San Benedetto. Esposito, infatti, era un grande tifoso della Samb. Il fratello Giovanni è il capo del gruppo ultras “Maledetti”. Il cordoglio dei rossoblu: “La A.S. Sambenedettese calcio a 5 si unisce al dolore che ha colpito la famiglia del nostro caro amico Giovanni Esposito capo del gruppo ultras “Maledetti” per la scomparsa prematura del fratello Luigi”. Cagliari. Il carcere che si apre a imprese e Terzo settore, una possibilità di riscatto per i detenuti di Luigi Alfonso Vita, 23 marzo 2025 Alla Casa circondariale di Cagliari-Uta sono numerosi i progetti che consentono una formazione mirata all’occupazione una volta scontata la pena. Con la piena collaborazione del tribunale di sorveglianza del capoluogo isolano. La storia simbolica di Moustafa, un giovane senegalese che ha trovato lavoro a Tiscali. Carceri sovraffollate e in gran parte fatiscenti, condizioni igieniche precarie, un elevato numero di detenuti (30-32%) con problemi di dipendenze e una larga percentuale con disagi psichiatrici, che andrebbero seguiti in strutture specializzate. Le falle del sistema penitenziario sono note e riguardano almeno l’80% degli istituti di pena italiani. La Sardegna non fa eccezione: l’ultimo caso (un giovane che da un mese fa lo sciopero della fame a Bancali, a una decina di chilometri da Sassari) richiamato dalla Garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa, è solo l’ultimo di una lunga serie. Eppure, non mancano alcuni lodevoli tentativi di garantire un minimo di dignità e offrire qualche speranza di recupero a coloro che hanno sbagliato e per questo stanno pagando con la privazione della libertà. È il caso della Casa circondariale di Cagliari-Uta, inaugurata nel novembre del 2014 quando fu chiuso definitivamente l’ottocentesco carcere di Buoncammino. Il direttore Marco Porcu, pur dovendo fare i conti con la carenza di personale e risorse, da anni dialoga con le realtà locali del Terzo settore e con le imprese. Da un paio d’anni a questa parte, inoltre, ha trovato sponda nel Tribunale di sorveglianza di Cagliari. Così, attraverso il pieno coinvolgimento di organizzazioni del Terzo settore (tra le più attive citiamo la Caritas diocesana, la fondazione Domus de Luna, le cooperative sociali La Collina ed Elan), si stanno offrendo opportunità di reinserimento sociale a decine di detenuti tra i 760 presenti a Uta. “Non finirò mai di ringraziare quanti si prodigano per aiutarci in questo percorso, con progettazioni di alto profilo”, ha sottolineato per l’ennesima volta il direttore Porcu durante i recenti festeggiamenti per il ventennale di Domus de Luna. “D’intesa con le istituzioni preposte, un certo numero di detenuti sta svolgendo lavori all’esterno, per esempio al tribunale di Cagliari, all’Oasi del Cervo e della Luna (vedi foto d’apertura) oppure presso alcune aziende private (una ventina di persone, ndr). Altri stanno partecipando a corsi di formazione professionale che sono propedeutici per impieghi mirati. Nei prossimi mesi, inoltre, sarà avviato un pastificio all’interno della nostra struttura, che consentirà di produrre e vendere una serie di prodotti di qualità, creando alcuni posti di lavoro”. Andare oltre i consueti progetti si può. “La missione di un’istituzione giudiziaria è quella di dare risposte efficaci nel più breve tempo possibile”, ricorda la presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Ornano, la quale è profondamente convinta della bontà dei percorsi di formazione per i detenuti. “Noi mettiamo la persona al centro di tutto, dando attuazione al principio costituzionale per cui la pena tende alla rieducazione del condannato. Dobbiamo portarlo a comprendere la portata del reato e supportarlo nel percorso di reinserimento nel tessuto sociale. La maggior parte delle persone che si imbattono nel penale, arrivano da condizioni di grave disagio. La consapevolezza aiuta a non cadere nella recidiva, ma anche a riconoscere le proprie fragilità e a comprendere i motivi per cui ha commesso il reato. Se non si fa questo percorso di crescita e maturazione personale, il rischio di recidiva è elevato. Oltre al necessario percorso con gli psicologi e gli educatori del carcere, occorre mettere il detenuto nelle condizioni di fruire dei diritti di cui talvolta è stato privato. Merita una seconda chance, che in certi casi è pure la prima perché magari non ne ha mai avute. A volte si tratta solo di acquisire le regole di convivenza civile e condivisione sociale. Se ci sono gli elementi (per esempio, una famiglia supportiva e un lavoro che lo attende), può bastare un’esperienza di volontariato. Ma ci sono casi difficilissimi, in cui queste persone non hanno neppure un luogo in cui andare o comunque vivono in condizioni di estrema povertà. In alcuni casi, siamo costretti a tenere in carcere detenuti a fine pena che non hanno una soluzione abitativa. Quello dell’abitazione è diventato un problema molto serio”. Ivrea (To). “Niente cibo per voi”: il carcere dice no ai pacchi del Ramadan di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 23 marzo 2025 Respinta la raccolta alimentare per i detenuti musulmani. Due rifiuti dalla direttrice. Il Centro islamico: “Mai successo prima”. Ottanta detenuti senza datteri, tè e latte per il digiuno. Il garante e l’assessora Colosso avvisati, ma tutto tace. Per la prima volta dopo anni, la raccolta alimentare del Centro islamico di Ivrea per i detenuti musulmani della casa circondariale è stata respinta. Un gesto di solidarietà che si ripeteva puntualmente ogni Ramadan rischia di sparire, bloccato da una doppia porta chiusa: quella della burocrazia e quella della prudenza istituzionale. Due le richieste inoltrate dal Centro nelle scorse settimane, entrambe respinte dalla direttrice Alessia Aguglia. La prima, inviata a metà febbraio, è stata rigettata per presunti motivi legati ai tempi troppo stretti per esaminare l’autorizzazione. La seconda, inoltrata con anticipo, è stata stoppata per ragioni di sicurezza: “i prodotti non sarebbero facilmente ispezionabili”, questa la motivazione comunicata. Un colpo al cuore per la comunità islamica eporediese, che da anni organizza questa iniziativa coinvolgendo decine di fedeli. La raccolta - simbolo di condivisione e inclusione - consiste in una lunga lista di alimenti specifici per la rottura del digiuno: datteri, tè, latte, lenticchie, biscotti, spezie, zucchero, caffè. Tutto comprato con le offerte e sistemato in bauli capienti, poi consegnato in carcere. Fino a qualche anno fa, la distribuzione era diretta: i volontari portavano i pacchi ai detenuti. Più di recente, per motivi organizzativi, gli alimenti venivano depositati in cucina e poi distribuiti dal personale penitenziario. Quest’anno, però, la macchina della solidarietà si è fermata. A occuparsi personalmente della consegna, come confermato da più fonti, sarebbe stato l’imam Mustapha Fedda, guida spirituale della comunità musulmana eporediese e punto di riferimento per i circa ottanta detenuti di fede islamica presenti nella struttura. “Non si tratta di un semplice gesto materiale, ma di un atto religioso e umano”, sottolineano dal Centro. L’assenza di un dialogo successivo ha lasciato l’amaro in bocca. Dopo i due rifiuti, la direzione non avrebbe più cercato un contatto per provare a sbloccare la situazione. Una chiusura che pesa, soprattutto nel mese sacro, quando il senso della comunità e la condivisione del cibo sono elementi centrali nella vita spirituale dei musulmani. Il Garante comunale per i diritti delle persone detenute, Raffaele Orso Giacone, è stato informato e avrebbe avviato un tentativo di mediazione con la direzione. Anche l’assessora Gabriella Colosso, impegnata da anni su progetti che coinvolgono la popolazione carceraria, è stata messa a conoscenza della vicenda. Al momento, però, tutto tace. E la sensazione è che, almeno per quest’anno, non ci sarà alcuna consegna. Ramadan - Il Ramadan è il nono mese del calendario islamico, periodo sacro per i musulmani. Dall’alba al tramonto i fedeli si astengono da cibo, bevande, fumo, rapporti sessuali e comportamenti negativi. Il digiuno (sawm) è uno dei cinque pilastri dell’Islam. Nel 2025, il Ramadan è iniziato il 28 febbraio e terminerà il 30 marzo con l’Eid al-Fitr, la festa di interruzione del digiuno. Per chi si trova in carcere, come per chi è libero, il Ramadan è un momento di riflessione, preghiera e connessione con la comunità. Il pasto serale, iftar, è il momento più atteso e simbolico della giornata: è lì che la solidarietà diventa concreta. Senza i prodotti raccolti dal Centro islamico - cibi tradizionali, speziati, nutrienti, preparati per l’occasione - molti detenuti rischiano di non riuscire a osservare correttamente i riti religiosi. E soprattutto di sentirsi isolati, dimenticati, tagliati fuori da un gesto che negli anni ha unito fede e umanità. Quest’anno, quel ponte si è spezzato. Ravenna. “Giocare dentro”: un progetto educativo che per 8 anni ha fatto giocare i detenuti ravennanotizie.it, 23 marzo 2025 Mettere i detenuti attorno ad un tavolo, insegnar loro le regole e, per un paio d’ore la settimana, scoprire insieme il fascino dei giochi di società. È un’idea semplice quella che sta dietro al progetto “Giocare dentro”, ma di grande impatto formativo. È venuta qualche anno fa agli “Educatori Ludici” della Cooperativa La Pieve di Ravenna, Gabriele Mari e Christian Rivalta, abituati ad utilizzare i cosiddetti “giochi da tavolo” come strumenti ricreativi, ma anche educativi, in molti altri contesti: dalla scuola al mondo della disabilità, per creare connessione sociale attraverso lo svago. Per chi si lamentasse del fatto che i detenuti sono in carcere per scontare una pena e non per divertirsi, oltre a sottolineare che la reclusione e la privazione della libertà personale sono già di per sé una pena severa, risponde Mari: “L’organizzazione carceraria è surreale, fatta di tanto tempo libero, che potremmo meglio definire vuoto, e di vite sospese. In questo contesto, la mente tende a vagare, spesso verso pensieri bui. Se ci uniamo il fatto che lì dentro si possono solo conoscere persone che hanno commesso crimini, ecco che è più facile uscire con maggiore voglia di delinquere di quando si è entrati, che il contrario. I progetti sociali sono proprio pensati per offrire strumenti, per quella funzione rieducativa della pena che la detenzione dovrebbe portare con sé. Scoraggiando le recidive e facendo emergere le potenzialità delle persone”. Il progetto è partito nel 2015 e in otto anni di attività ha fatto giocare oltre 60 persone diverse, per un totale di circa 300 ore di laboratorio. Purtroppo, dal 2024 in avanti, non ci sono più state le condizioni per portarlo avanti a Ravenna, ma essendo stato un vero e proprio progetto pionieristico, è nata l’idea di costruire un format, da replicare in qualunque altro carcere d’Italia, con un percorso formativo specifico, studiato dagli operatori della Cooperativa La Pieve. Recentemente poi, gli “Educatori Ludici” ravennati sono approdati al carcere di Santa Maria Capua Vetere in Campania, dove sono stati chiamati a dar vita ad un’esperienza simile. Ed è in procinto di uscire sull’Italian Journal of Educational Technology, rivista dedicata alle tecnologie educative, un articolo scritto da Luca Decembrotto, professore associato in Didattica e Pedagogia speciale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, che racconta il valore sociale del progetto. Ci spiega meglio come è partito il tutto e verso dove sta navigando il progetto, uno dei suoi ideatori, Gabriele Mari. È vero che quando è nato era sostanzialmente una novità? Sì, in Italia c’erano stati tentativi di questo tipo, per esempio a Milano, sia a San Vittore che ad Opera, ma in modo sporadico e poco organizzato. Nello studiare il progetto per Ravenna, mi sono ispirato a quelle esperienze e, un po’ all’arrembaggio, siamo partiti. È stato un successo, anche inaspettato. Era molto richiesto dai detenuti, lo amavano. Come funzionava? Ogni settimana, io e Christian Rivalta, il mio socio di Educatori Ludici, andavamo alla Casa circondariale di Ravenna, nella “saletta dei laboratori” e per due ore facevamo giocare un gruppo di massimo 15 detenuti. Per aderire, come a qualsiasi altra attività del carcere, è necessario presentare una richiesta, compilando la cosiddetta “letterina”: chi voleva partecipare, doveva prenotarsi segnandosi su un foglio appeso in corridoio e poi, previa autorizzazione della direzione, poteva presentarsi per la sessione di gioco. L’attività dai detenuti era molto molto apprezzata, hanno frequentato il laboratorio le persone più diverse tra loro: italiani, stranieri, originari dell’Est Europa, dell’Africa o di altri Paesi ancora, alcuni nemmeno in grado di parlare la nostra lingua, ma il gioco diventava un vero e proprio modo per conoscersi. Quali obiettivi vi eravate dati? Abbiamo lavorato molto sull’incontro: pensavamo di trovare un gruppo molto coeso e invece si trattava quasi sempre di persone che tra loro non si conoscevano, arrivate lì da contesti diversissimi. Il gioco diventava un modo per passare un po’ di tempo in un ambiente rilassante e conoscersi. Questo ha permesso di lavorare anche alla prevenzione dei conflitti, perché tanti screzi nascono dalla diffidenza per l’altro, considerato un potenziale nemico. Conoscersi stempera questo clima e porta a risolvere situazioni conflittuali. Da un altro punto di vista invece, il gioco è diventato un modo per sublimare i conflitti: chi aveva qualcosa in sospeso con qualcun altro, finiva per sfidarlo al tavolo da gioco e “fargliela pagare” sì, ma a suon di partite vinte e non di cazzotti. Dopo i primi incontri, il passaparola tra i detenuti ha dichiarato il successo dell’iniziativa: c’era chi portava il compagno di cella, chi il connazionale conosciuto in giardino. È stato molto bello partecipare a creare questo contesto di condivisione. Che giochi avete proposto? Abbiamo fatto prove sul campo, inizialmente avevamo puntato sui giochi cooperativi, ma non sono piaciuti, perché non c’era già un clima di squadra: non conoscendosi, oppure conoscendosi e avendo attriti tra loro, non c’era proprio il desiderio di lavorare insieme. Quindi abbiamo cominciato a proporre giochi a squadre competitivi: sfidarsi, tra di loro e con se stessi, diventava un modo per dimostrarsi competenti in un qualche campo e quindi per riconoscersi un valore. L’ambiente carcerario è molto competitivo, devi sembrare forte e capace per non soccombere, e lo puoi fare anche attraverso i giochi. Seduto al tavolo, anche il mingherlino preso in giro in cortile, poteva dimostrare di essere capace nell’uso della strategia o della logica, acquisendo uno status diverso all’interno del gruppo. Uno dei giochi che piaceva di più era Grande Dalmuti, il rifacimento di un gioco di carte molto noto, in cui viene ricreata la gerarchia sociale di una civiltà medievale. Un gioco alla “Uno”, in cui devi liberarti delle carte e il primo che ci riesce sale la scala sociale, perché i posti attorno al tavolo determinano anche la gerarchia: a capotavola c’è il re e via via a scendere fino allo schiavo. Era divertente, perché si immedesimavano in questa gerarchia sociale e mano dopo mano c’era la scalata sociale o la discesa nel baratro, con ruoli molto ribaltati. Incredibilmente, questo gioco che pensavamo potesse essere deleterio per la conflittualità, si è dimostrato essere molto accettato e tra i più giocati e desiderati. Abbiamo provato più di 100 giochi. Oltre a socializzare, cosa offre il gioco in quel contesto? Sotto sotto c’è anche una metafora di legalità che parte dal gioco: è come ricreare una società che si riunisce attorno ad un tavolo seguendo delle regole. Se tu sei lì dentro, vuol dire che qualche regola non l’hai seguita, ma lì hai la possibilità di sperimentare come può funzionare una relazione tra persone che seguono le regole e si divertono anche facendolo. Il gioco nel suo piccolo produce l’immagine di un’interazione sociale che funziona. Qualsiasi interazione umana è fondata su delle regole: se stiamo insieme con altre persone è perché stiamo seguendo delle regole, a scuola, come al lavoro, in famiglia come tra amici. Il gioco anche inconsciamente, veicola questo messaggio legalitario e per questo funziona molto bene in contesti come quello carcerario. Ci sono persone che ci hanno detto “se quando avevo 15-16 anni avessi avuto un contesto come questo, con giochi di questo tipo, penso che non avrei fatto quello che ho fatto e che mi ha portato qua”. Come è stato per voi educatori l’impatto con il carcere? Era un contesto per noi completamente nuovo, al quale è facile arrivare con una serie di pregiudizi, alimentati anche da un immaginario cinematografico legato a criminali, gang, bulli. In realtà, abbiamo trovato persone molto più simili di quanto si pensi a chiunque fuori da lì. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che nella vita hanno incontrato storie di droga, soprusi e violenza e se ne sono fatte traviare. Sono spesso persone ad un passo da noi, che se la vita avesse fatto giri diversi, avremmo potuto essere noi. È molto profondo il legame che si crea con loro: formalmente non ci si racconta niente, ma giocando o nelle pause, finiscono per uscire spaccati di vita che raccontano di loro: è stato toccante. Il contesto del gioco diventava un ambiente in cui si stava bene, rilassati e ci si poteva parlare. C’è chi ci ha detto “tra poco uscirò, non vedo l’ora, così potrò comprarmi questi giochi e giocarci con i miei figli, che mi mancano tanto”. Il rapporto umano con i detenuti è stato per noi l’aspetto più bello del progetto. Dopo la fine di Giocare Dentro avete deciso di esportare l’esperienza altrove? Sì, perché l’esperienza che abbiamo accumulato è un unicum a livello italiano, per questo siamo stati chiamati a condividerla in diversi contesti. Abbiamo preso anche contatti con Cesena, per replicare il progetto in quella provincia, ma per ora non se ne è ancora fatto niente. Due anni fa ci hanno poi chiamato dall’Università di Firenze per formare operatori che potessero andare in carcere a fare interventi di questo tipo. Abbiamo collaborato con una cooperativa umbra del settore e vorremmo creare una rete con altre cooperative e associazioni per costruire progetti di formazione. Abbiamo contatti con realtà di Milano, Reggio Emilia, della Sardegna. Vorremmo creare una sorta di standard per interventi di questo tipo, in modo da poterli replicare ovunque. Ora è nata questa bellissima collaborazione con la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere in Campania. Parlacene meglio... Giochi Uniti è una delle case editrici di giochi più nota in Italia, con cui io collaboro da tanto anche come autore di giochi. Una realtà molto attenta anche all’aspetto sociale del contesto ludico, oltre che alla distribuzione e sapendo del nostro progetto ha deciso di realizzare questa collaborazione con Santa Maria Capua Vetere. Quell’istituzione carceraria è molto aperta a nuovi progetti e alla funzione rieducativa della pena, soprattutto dopo i “fattacci” del 2020, quando in piena epoca covid ci fu un gravissimo episodio, con pestaggi di detenuti durante una rivolta per la sospensione dei colloqui. Da allora è stata inaugurata una nuova epoca, sono stati processati un centinaio di guardie carcerarie e si sta cercando di trasformare quel carcere: ci sono tantissimi progetti, come ad esempio una sartoria interna che produce cravatte per l’esterno, stanno mettendo su un ristorante, ci sono progetti artistici per realizzare il più grande murales del mondo all’interno delle mura di un carcere, fanno teatro e tanto altro. Giochi Uniti ha proposto un progetto sul gioco da tavolo ed è stata adibita una stanza a ludoteca, con una sessantina di copie di giochi donati dalla casa editrice. Noi siamo stati chiamati a fare quattro laboratori per insegnare come sfruttare al meglio questa ludoteca fornitissima, che tra l’altro farebbe invidia a tante realtà simili esistenti all’esterno. Poi il patrimonio di giochi resterà a disposizione dei detenuti. La sala è stata inaugurata a fine febbraio. Del progetto si parlerà anche su una rivista di settore? Uscirà a breve un articolo sulla rivista Italian Journal of Educational Technology, una rivista italiana, anche se scritta in inglese, che si occupa di tecnologie educative. Se ne è occupato Luca Decembrotto un professore universitario dell’università di Bologna, impegnato su marginalità e pedagogia speciale, da sempre interessato ai progetti educativi in carcere. È suo anche un libro molto interessante: “Educare in carcere”. Lo scopo è dare supporto al settore educativo in carcere perché purtroppo la situazione rieducativa a livello italiano è scarsissima, con tutto quello che ne consegue. Si vuole mettere in luce cosa è stato fatto e che conseguenze ha avuto, per fungere da punto zero dei progetti rieducativi sul gioco in carcere. Ora è in fase di approvazione da parte del comitato scientifico della rivista, presto dovrebbe essere pubblicato e poi sarà disponibile gratuitamente. Bologna. Il 9 aprile un convegno sulla situazione dei detenuti transgender italpress.com, 23 marzo 2025 La situazione della minoranza transgender in carcere è al centro del convegno promosso dal Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, in programma mercoledì 9 aprile, dalle 14 alle 18, nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna in viale Aldo Moro 50 a Bologna. “Il transgender in carcere è soggetto a una situazione di doppia difficoltà, in quanto limitato della libertà e per la sua appartenenza a una particolare minoranza. Viene considerato di frequente parte ‘divisiva’ del sistema penitenziario e per questo servirebbe attivare percorsi personalizzati che tengano conto di questa condizione particolare e che non trascurino l’aspetto del disagio psichico che queste persone spesso manifestano”, spiega il garante Roberto Cavalieri. Durante il convegno, dal titolo “Carcere, transessualità e limitazione della libertà personale. Dall’esperienza di Reggio Emilia all’Italia”, è previsto anche uno specifico approfondimento sulla sezione dedicata ai transgender nel carcere di Reggio Emilia, l’unica in Emilia-Romagna. Nella sezione reggiana (attiva dal 2018), denominata Orione, sono presenti una decina di transgender. Il problema per questa particolare categoria di detenuti, a Reggio Emilia come nel resto d’Italia (una settantina nelle carceri italiane), riguarda l’offerta di servizi rientranti nel trattamento in carcere, decisamente più carente rispetto ai detenuti maschi. L’istruzione, la formazione professionale e l’accesso al lavoro, elementi essenziali nel percorso rieducativo rivolto ai detenuti, non vengono ancora garantiti ai transgender detenuti a Reggio Emilia. Situazione che si traduce per queste persone in un vero e proprio isolamento, con la conseguenza della violazione di un diritto fondamentale. L’assistenza sanitaria è un altro diritto inviolabile che deve essere garantito alle persone detenute. Nel caso dei transgender deve essere assicurata la fruizione delle terapie ormonali e della psicoterapia a supporto del percorso di transizione. Un aspetto che, però, non trova piena attuazione a Reggio Emilia, a causa della carenza in struttura di personale sanitario. I relatori al convegno, oltre allo stesso Garante Roberto Cavalieri, sono Elena Carletti (presidente della commissione Parità dell’Assemblea legislativa), Marco Bedini (magistrato di sorveglianza a Reggio Emilia), Silvio Di Gregorio (provveditore dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche), Giovanni Torrente (docente dell’Università di Torino), Giulia Fabini (presidente dell’associazione Antigone in Emilia-Romagna), Sofia Ciuffoletti (direttrice dell’associazione Altro Diritto), Samuele Ciambriello (garante dei detenuti della Campania), Bruno Mellano (garante dei detenuti del Piemonte), Annalisa Rabitti (assessora al Welfare nel Comune di Reggio Emilia), Antonietta Cozza (avvocata del Movimento identità transessuale), Cecilia Di Donato (responsabile della scuola di teatro MaMiMò di Reggio Emilia), Christian Cristalli (responsabile nazionale politiche trans per l’Arcigay), Maria Di Palma (funzionaria giuridico-pedagogica del PRAP Emilia-Romagna e Marche), Carmen Bertolazzi (giornalista, attivista e presidente dell’associazione Ora d’aria di Roma), Carmela Gesmundo (funzionaria giuridico-pedagogica degli Istituti Penali di Reggio Emilia), Daniela Falanga (responsabile nazionale carceri per l’Arcigay), Silvia De Giorgi (volontaria nel carcere di Ivrea), Francesco Santin (presidente della cooperativa Bhlyster di Belluno) e Porpora Marcasciano (presidente della commissione Parità del Comune di Bologna). Il convegno vuole anche essere un momento introduttivo alle tante iniziative collegate alla giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia che si celebra il 17 maggio. Il convegno è promosso anche dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche. Rovigo. Arriva l’Ipm per il Triveneto, domani un confronto promosso dalla diocesi agensir.it, 23 marzo 2025 “E se fosse un’opportunità?” è il titolo della serata di confronto che la diocesi di Adria-Rovigo promuove per lunedì 24 marzo, dalle 18, presso il Cinema Teatro Duomo di Rovigo nel forte desiderio di prepararsi e preparare la città ad accogliere l’arrivo in città del nuovo Istituto penale per minori (carcere minorile) per il Triveneto. L’incontro è aperto a tutta la cittadinanza. “Non è semplicemente un’occasione di confronto e approfondimento ma l’inizio del cammino di una rete di soggetti sensibili al tema, uniti dal desiderio di guardare al nuovo carcere minorile come un’occasione per rinnovare la capacità del nostro territorio di attivare sinergie generative”, chiarisce la diocesi. Nella serata di lunedì si alterneranno momenti di ascolto a momenti di dialogo con il pubblico poiché il desiderio espresso dal vescovo Pierantonio Pavanello è che sia questo il simbolico avvio di un percorso condiviso che potrà arricchirsi del contributo di chiunque condivida il desiderio della diocesi di vivere questo cambiamento come un’opportunità di crescita. Interverrà Michele Visentin, rodigino, del Centro studi Olivotti, che proverà ad andare a monte del carcere minorile e cioè a dare “uno sguardo inaudito alla sofferenza delle nuove generazioni”. Dopo di lui Lorenzo Cattelan, dirigente del Ministero della Giustizia, parlerà del “diritto al bello negato: la reclusione negli Ipm di chi non è mai stato bambino”. Il terzo intervento sarà di don Domenico Cambareri, sacerdote e cappellano dell’Ipm di Bologna, che si propone di offrire il suo pensiero sul “perché alla Chiesa fa bene sognarli fuori”. A concludere la serata sarà il vescovo Pierantonio Pavanello che, negli ultimi mesi, ha voluto e coordinato un tavolo diocesano sul carcere minorile che riunisce alcuni esperti e alcune persone e realtà che per il loro servizio diocesano sono state chiamate a mettersi in gioco. Foggia. Incontro e protocollo d’intesa tra Aiga e Garante dei detenuti foggiacittaaperta.it, 23 marzo 2025 È di qualche giorno fa la notizia dell’ennesimo suicidio avvenuto nelle carceri italiane. Stavolta, e non è la prima, è avvenuto nella Casa Circondariale di Foggia: la struttura, stando agli ultimi dati, risulta essere l’istituto tra quelli con il più alto tasso di sovraffollamento in Italia. È in tale preoccupante contesto che la Sezione Aiga di Foggia, unitamente ad Aiga Nazionale, all’Osservatorio Nazionale Aiga sulle Carceri e al Coordinamento Aiga Puglia, ha deciso di organizzare, proprio a Foggia, un incontro per mettere a fuoco la situazione delle carceri pugliesi. L’obiettivo è, da un lato, quello di fornire una fotografia dell’attuale stato dell’arte e dall’altro di individuare le direzioni da intraprendere, concretamente, per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno delle strutture penitenziarie. “Siamo fieri - dichiara la Presidente di Aiga Foggia, l’avvocata Simona Lafaenza - di aver organizzato a Foggia un evento di tale portata sul tema carceri, in considerazione delle attuali e note criticità della Casa Circondariale della nostra città e, più ampiamente, di gran parte delle strutture penitenziarie della nostra Regione e del nostro Paese. Sarà l’occasione - conclude la Presidente - per un dibattito proficuo e altamente professionale su una questione che riguarda non soltanto i giuristi, ma l’intero tessuto sociale ed economico del nostro territorio”. L’evento - nell’ambito del quale sarà sottoscritto un protocollo d’intesa tra Aiga Puglia e il Garante Regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, con il comune intento di intensificare e rendere ancora più proficua e immediate l’interlocuzione tra le parti - vedrà la partecipazione delle più alte rappresentanze del mondo istituzionale e giuridico impegnate nel dare quotidiana attuazione alle norme dell’ordinamento penitenziario ed alla effettiva funzione della pena. “La sottoscrizione del protocollo di intesa con il Garante Regionale - dichiara la Coordinatrice Regionale dell’Aiga, l’avvocata Daniela Santamato - rappresenta non già un punto di arrivo ma un punto di partenza per tenere alta l’attenzione sul tema delle carceri pugliesi e realizzare progettualità con il comune intento di monitorare la situazione in essere e in divenire ed individuare l’apporto concreto al fine di migliorare le condizioni di vita all’interno delle Carceri”. Dopo i saluti istituzionali della Sindaca di Foggia, del Vicepresidente della Regione, della Direttrice della Casa Circondariale di Foggia, dell’Università di Foggia, della Coordinatrice regionale dell’Aiga e del referente regionale dell’Onac, interverranno sul tema il provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata, il dott. Carlo Berdini, il Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Foggia, il dott. Silvio Marco Guarriello, la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bari, la dottoressa Silvia Maria Dominioni e il Garante Regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, l’avvocato Piero Rossi. “Sarà l’occasione - dichiara il Referente Nazionale dell’Onac, l’avvocato Mario Aiezza, che modererà l’incontro - per illustrare anche in tale sede il progetto di riforma elaborato dall’Aiga, e presentato al Ministro Nordio, avente ad oggetto modifiche in tema di misure alternative alla detenzione, ed aspetti inerenti i detenuti tossicodipendenti e i detenuti stranieri, che costituiscono una percentuale particolarmente incidente sul tasso di sovraffollamento. Il confronto con chi quotidianamente opera in ambito penitenziario - conclude l’avvocato Aiezza - ci consentirà di ottenere ulteriori dati ed elementi utili per poter proseguire nelle nostre attività propositive e formative”. L’incontro, patrocinato dal Comune di Foggia, dall’Università degli Studi di Foggia e dall’Ordine degli Avvocati di Foggia, si svolgerà venerdì 4 aprile (ore 15.30), presso la splendida cornice della Sala Fedora, all’interno del Teatro Umberto Giordano di Foggia. L’incontro è aperto alla partecipazione della cittadinanza Roma. Libertà religiosa e carcere: una via per contrastare le disuguaglianze di Matilde Trippanera radiosapienza.net, 23 marzo 2025 Venerdì 21 marzo, presso l’aula Calasso nell’Edificio di Giurisprudenza si è tenuto un altro brillante appuntamento in merito al difficoltoso rapporto tra donne detenute e libertà di religione. Ciò che ha aggiunto il “quid” in più all’evento è stata la presenza autorevole non solo di innumerevoli docenti esperti, tra cui la stessa relatrice Beatrice Serra e il preside della facoltà Oliviero Diliberto ma anche la magnifica rettrice Antonella Polimeni e il presidente della Conferenza espiscopale italiana il cardinale Matteo Maria Zuppi. Nel contesto di un incontro che ha trattato tematiche complesse e attuali, la rettrice ha sottolineato le grandi sfide della società contemporanea, mettendo in evidenza come La Sapienza abbia dato un importante contributo attivo al dibattito e alla ricerca. Un esempio concreto è rappresentato dalla creazione, nel 2021, di un polo universitario penitenziario. Queste iniziative pongono al centro una riflessione fondamentale: come la libertà religiosa possa diventare un elemento di contrasto alle disuguaglianze vissute all’interno del sistema penitenziario. Il discorso ostico si è voluto subito mettere in chiaro tramite la lettura della citazione di una detenuta che, in un incontro con Papa Francesco, ha descritto la sua esperienza in carcere con una frase particolarmente forte: “Noi viviamo un inferno camuffato da giustizia”, testimonianza che evidenzia la durezza della realtà carceraria, dove non solo si vive un’esperienza di privazione della libertà, ma si affrontano anche forti discriminazioni. In carcere, infatti, persistono forme di doppia marginalizzazione: quella legata al genere e quella legata alla libertà religiosa. Purtroppo, in molti casi, non esiste una riflessione adeguata su come il diritto alla tutela religiosa, che secondo la Costituzione dovrebbe essere una priorità assoluta, venga garantito nelle carceri, in particolare per le donne. In questo scenario, la Chiesa cattolica ha avuto un ruolo importante nel mediare e facilitare il dialogo tra le istituzioni penitenziarie e i ministri religiosi. Questo impegno, che ha visto il coinvolgimento diretto del cardinale Zuppi, è stato sottolineato durante l’incontro. Il cardinale, definito da Papa Francesco un “uomo di universalità e grande dialogo”, è stato scelto per il suo lavoro di mediazione in conflitti complessi, come quello tra Russia e Ucraina. Zuppi ha evidenziato come, in alcune circostanze, i diritti siano trattati da concessioni, a scapito della dignità dello stato e delle persone. Secondo lui, la dimensione “riparativa” del contesto detentivo è profondamente influenzata dalla religione, che può impedire la creazione di “identità clandestine”, portando così a una maggiore integrazione e inclusione sociale. In questo contesto, le iniziative promosse da Papa Francesco nell’anno del Giubileo, come l’amnistia e i percorsi di reinserimento, rappresentano segnali di speranza. È fondamentale anche il coinvolgimento delle comunità locali e delle parrocchie, che spesso affiancano i detenuti nel loro percorso di reintegrazione. Il fattore religioso gioca quindi un ruolo cruciale nella ricomposizione sociale delle donne in carcere, restituendo loro dignità e offrendo un’opportunità di riscatto. Da tali iniziative ci si augura una, che non passi attraverso l’isolamento, ma attraverso un percorso di crescita e riscoperta di sé. Le esperienze di riscatto e spiritualità possono infatti contribuire a guarire le ferite emotive e sociali causate dalle difficoltà della vita, permettendo alle donne di valutare e riconsiderare il proprio cammino. Piazze piene di persone ma vuote di politica di Filippo Barbera Il Manifesto, 23 marzo 2025 “Oggi, più che mai, sentiamo l’urgenza di impegnarci a promuovere e difendere i valori che ci hanno uniti in questi decenni: democrazia, pace, giustizia sociale e rispetto per l’ambiente”, scrivono sindaca e sindaco di Firenze e Bologna, Sara Funaro e Matteo Lepore. Una nuova “piazza per l’Europa”, chiamata a raccolta per il 6 aprile, un giorno dopo la prima data annunciata (il 5 aprile) che si sarebbe sovrapposta con la manifestazione indetta dal Movimento cinque stelle a Roma. Ma qual è la posta in gioco? Quali sono gli obiettivi strategici? Quale il significato politico? Stare in piazza, manifestare, protestare, sono anzitutto azioni che aumentano la “densità morale” delle società e che ne potenziano l’intensità e la complessità delle interazioni sociali. Si tratta di rituali che producono endorfine e quindi generano un senso di rassicurante piacere e soddisfazione in chi vi partecipa. Stare in piazza con altre persone è anzitutto una cosa piacevole. Del resto, anche la domenica del pedone può avere gli stessi effetti, così come assistere all’arrivo del giro d’Italia o partecipare a una qualche performance collettiva artistico-musicale. La piazze piene chiamate a raccolta da giornali e sindaci vorrebbero essere qualcosa di diverso: nella narrazione invalsa dovrebbero avere una specifica capacità politica, richiamare un qualche modello di convivenza, tracciare una rotta de seguire, chiedere delle priorità d’azione. Non solo “mobilitazione nello spazio pubblico”, ma azione collettiva “per un obiettivo pubblico”. Per farlo, però, ci vorrebbero organizzazioni politiche capaci sia di mobilitare le piazze con parole d’ordine e scopi specifici, sia di raccogliere, organizzare, selezionare e convogliare le energie prodotte dalla mobilitazione in azioni politiche, fuori e dentro le istituzioni. Che rapporto c’è tra queste piazze e il voto dei partiti al Parlamento europeo sul Rearm Europe appena ribattezzato dalla Commissione Europea Readiness 2030? Sulla crisi produttiva del settore automobilistico? Sulla contrazione della sanità pubblica, sui salari fermi al paolo sull’ulteriore precarizzazione dell’Università e della ricerca? La protesta collettiva, senza l’organizzazione politica, rischia di generare “bolle di partecipazione”, tanto piacevoli quanto inutili. Lo testimoniano le primavere arabe, come scrive Vincent Bevins in Se noi bruciamo (Einaudi 2024). Dal 2010 al 2020 siamo stati spettatori di un’eccezionale esplosione di proteste di massa che annunciava cambiamenti profondi verso modelli di società più equi, una politica più rappresentativa, un’economia nuova e all’altezza delle grandi sfide del mondo. Oggi, osservando retrospettivamente gli esiti di quelle “rivolte senza rivoluzioni”, non si può che constatare come nella maggior parte dei casi le cose siano andate diversamente. Le piazze di Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen, Bahrain, Algeria, Marocco e Giordania hanno agevolato cambi di regime che non hanno migliorato la situazione precedente. Anche il caso tunisino - l’unico dove c’era stata una transizione democratica relativamente riuscita - è tornato nel cono d’ombra dell’autoritarismo. Le proteste di massa apparentemente spontanee, coordinate attraverso i social media, organizzate in modo orizzontale e prive di leader formali e di meccanismi di selezione della classe politica, funzionano bene per aprire varchi, ma lasciano il vuoto. Sono “bolle di politica” mosse dalla rabbia, dall’indignazione, dalla paura e dal disorientamento che non alimentano una trasformazione più giusta delle società. Senza un raccordo organizzato tra piazze e politica, si ha solo “iperpolitica”, concetto che lo storico belga Anton Jäger (Iperpolitica. Politicizzazione senza politica, Nero edizioni, 2024) rimanda a un fenomeno in cui la politica diventa onnipresente e altamente spettacolarizzata, ma al tempo stesso svuotata di capacità trasformative reali. La lezione più generale è che per creare effetti politici le piazze piene dovrebbero accompagnarsi a un’organizzazione mobilitante, una nuova forma della politica, che, anche partire da quelle piazze, avvii un percorso dove i gruppi dirigenti, le correnti e gli iscritti siano messi a confronto con le persone, l’associazionismo, i sindacati, le esperienze di cittadinanza attiva, gli intellettuali, le realtà di autogestione, i movimenti per i diritti, i lavoratori e le lavoratrici in sciopero o in cassa integrazione, gli esperimenti di innovazione sociale radicale nei territori. Come risultato minimo si potrebbe così arrivare a una più chiara comprensione delle differenze tra interessi, visioni e prospettive su quel significante vuoto che è l’Europa invocata da quelle piazze. Nel migliore dei casi, la speranza è che tale processo generi un nuovo oggetto politico che, anche senza un soggetto sociale omogeneo, riveli soluzioni possibili a problemi comuni. Ddl Sicurezza e università: perché ci riguarda? di Francesca Martelli L’Espresso, 23 marzo 2025 Tra gli articoli più controversi c’è il 31, che amplia i poteri dell’intelligence, obbligando atenei e enti pubblici a fornire dati. Il ddl Sicurezza, approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, introduce un nuovo reato: quello di blocco stradale. Se partecipi a una manifestazione che interrompe la circolazione stradale o ferroviaria rischi fino a 2 anni di carcere (se il blocco viene commesso con più persone). È la forma di protesta scelta negli ultimi anni dagli attivisti per il clima di Ultima generazione o ad esempio dagli operai che manifestano davanti ai cancelli della fabbrica per cui lavorano, se rischia la chiusura. Le misure più controverse - In questo disegno di legge ci sono alcuni nuovi reati e per altri che già c’erano vengono invece inasprite le pene. Chi provoca ad esempio dei danneggiamenti in luogo pubblico durante i cortei si rischia fino a 5 anni di carcere e fino a 15 mila euro di multa. Vengono aumentate le pene se si protesta in modo “violento e minaccioso” contro opere pubbliche considerate strategiche, come la Tav o il Ponte sullo Stretto. Sarà vietato vendere sim ai migranti che non hanno il permesso di soggiorno. I servizi segreti nelle università - C’è poi un articolo molto controverso, il 31. Impone alle università e agli enti pubblici di fornire dati e assistenza all’intelligence italiana. Fornire cioè dati personali, riguardanti il reddito e perfino le opinioni politiche ai servizi segreti. Questo finora era previsto, per legge, solo su base volontaria. Per le opposizioni, che chiedono di ritirare questo articolo, si tratterebbe di una “schedatura di massa”. La discussione parlamentare - La Lega spinge da mesi, all’interno della maggioranza, per un’approvazione rapida del provvedimento che aveva avuto il via libera del consiglio dei ministri a novembre 2023. Ora il testo, approvato alla Camera a settembre 2024, sarà discusso in senato ed è proprio a Palazzo Madama che potrebbe essere modificato dal centrodestra. Si ipotizzano interventi per modificare alcune coperture finanziarie ma non è escluso un intervento anche su temi specifici: il ddl dovrebbe in questo caso tornare di nuovo alla Camera. L’opposizione considera in toto il ddl Sicurezza una misura da bocciare perché limiterebbe la possibilità di manifestare il proprio dissenso, ma perplessità su alcuni punti (tra cui proprio il divieto di sim ai migranti) erano arrivate anche da fonti vicine al Quirinale. La scuola non divida ricchi e poveri, nel mare del web serve una gerarchia di Eraldo Affinati La Stampa, 23 marzo 2025 A scuola non contano i metodi, bensì la qualità della relazione umana che si riesce a realizzare: questa chiara consapevolezza è presente, con stili e sensibilità diverse, in tutti i grandi educatori del XX secolo, da John Dewey a don Lorenzo Milani. Purtroppo, nonostante i convegni e i proclami, anzi spesso proprio a causa di certe contrapposizioni ideologiche precostituite, se ci limitiamo a considerare i fondamenti strutturali dell’istruzione pubblica, non solo italiana, le formidabili intuizioni di Maria Montessori e Mario Lodi, Albino Bernardini e Alberto Manzi, per citarne solo alcuni, sono rimaste in gran parte non dico voci inascoltate, ma, nel migliore dei casi, irraggiungibili stelle comete capaci di brillare solo in alcuni firmamenti speciali, fuori e dentro l’istituzione, pronte a svanire oltre i grigi tetti dei ministeri intitolati al Merito dove si fanno i veri giochi. Da “Lettera a una professoressa” (pagina 127 della vecchia gloriosa Libreria Editrice Fiorentina): “Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla”. Chi, in tutta coscienza, può negare che in troppe aule del Bel Paese la situazione resti simile a questa evocata dai cosiddetti “piccoli montanari” di Barbiana? Poche righe dopo troviamo un’altra perfetta, indimenticabile sintesi della “finzione pedagogica”, basata sulle domande-trabocchetto, fatte apposta per ingannare l’interrogato, ancora imperante in molti licei e istituti tecnici e professionali: “Per contentare lei basta sapere vendere la merce. Non star mai zitti. Riempire i vuoti di parole vuote. Ripetere i giudizi del Sapegno con la faccia d’uno che i testi se li è letti sull’originale”. Dove la battuta più amabilmente perfida viene affidata alla nota a piè di pagina: “Sapegno = libro di storia della letteratura. Il suo autore ha letto molti libri. Li confronta tra loro e li giudica. I professori si contentano che si ripeta quello che dice lui”. A scanso di equivoci, chi ritenga che tale dichiarazione preludesse alla semplificazione libertaria di marca sessantottina, dovrebbe continuare a leggere il brano: “Un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille. Non deve aver soddisfazione. A scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro”. Come dimenticare la lettera spedita da don Milani a un professore di Vicchio che aveva organizzato la proiezione per gli studenti di Roma città aperta, finita in gazzarra? “Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia”. Ma allora come si fa a conquistare la fiducia degli allievi? Per prima cosa è necessario accorciare le distanze, staccandoci dagli scranni del ruolo che pure ci legittima, nel tentativo di avvicinarci agli studenti, senza illuderci che i test di orientamento ai quali essi hanno provato a rispondere a settembre possano aiutarci a conoscerli davvero. Dobbiamo essere molto più ambiziosi: scoprire la stazione di partenza di ognuno, talvolta anteriore alla nascita, ripercorrendo a ritroso il cammino degli adolescenti a cui ci rivolgiamo. Chi sono i tuoi genitori? Come trascorri i pomeriggi? Quali passioni ti attraggono? Gli educatori che assumono tale prospettiva non possono evitare di confrontarsi con le proprie motivazioni recondite: perché ho scelto di fare questo lavoro? Cosa voglio ottenere? C’è forse nel mio passato un nodo irrisolto da sciogliere? Così la trama dell’io s’intreccia fatalmente a quella del noi: la storia che ritenevi fosse soltanto tua, diventa comune; sfiori la radice a cui senti di essere legato e ti accorgi che stai facendo vibrare tutta la pianta. È la potenza dell’insegnamento che, quando si dipana nella verità del confronto autentico, non può venire ridotto a mera esecuzione del mansionario, chiamando in causa la dimensione più autentica della responsabilità, pre-giuridica, pre-sociale, pre-morale. Prendersi in carico lo sguardo degli scolari, nella prospettiva dell’I care, significa guidarli verso l’esplorazione del futuro che li attende, a loro stessi quasi sempre ancora ignoto. Strumento essenziale per dialogare col nostro maestro interiore, secondo l’immortale lezione di Sant’Agostino, resta il linguaggio, assai più che un semplice mezzo di comunicazione: se la struttura verbale risulta incompleta, i nostri sentimenti sono destinati a restare grumi emotivi inespressi. Il che riguarda sia gli immigrati di prima generazione, impegnati a risolvere il medesimo problema dei bambini del Mugello, i quali svelarono al priore lo scandalo della povertà culturale, spingendolo a mettere sotto accusa la sua matrice borghese, sia i ragazzi italofoni apparentemente ben inseriti, eppure bisognosi di adulti in grado di incarnare i precetti che vogliono far rispettare. Pierino e Gianni, i due bambini sui quali si appuntava la riflessione milaniana, sono vivi e vegeti: l’uno privilegiato, con tutte le carte in regola, l’altro svantaggiato che annaspa nella retrovia polverosa. Non dobbiamo dividerli: è quanto cerchiamo di fare nelle scuole Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della nostra lingua agli immigrati, formando gli studenti italiani come piccoli docenti dei loro coetanei arabi, africani, bengalesi, slavi, sudamericani. Questo vale tanto più oggi nel tempo della rivoluzione digitale. La scuola dovrebbe ripristinare le gerarchie di valore nel grande mare del web, mostrando ai giovani quello che è importante rispetto a ciò che non lo è. Abbiamo bisogno di bussole di orientamento basate su valori etici in grado di legare pensiero e azione per rinnovare lo spirito profondo, vitalmente provocatorio, di don Lorenzo Milani: “La scuola costa poco, un po’ di gesso, una lavagna, qualche libro regalato, quattro ragazzi più grandi a insegnare, un conferenziere ogni tanto a dire cose nuove gratis”. La vicenda di Andrea Prospero e il lato oscuro della solitudine digitale di Mariapia Ebreo L’Espresso, 23 marzo 2025 Intervista a Giuseppe Lavenia. Il presidente dell’associazione Di.Te che si occupa di dipendenze digitali sul caso del 19 enne ritrovato senza vita, afferma: “Non è solo una storia di internet e sostanze, ma una storia di assenze. Assenza di ascolto, di dialogo”. Quello che non conosciamo fa paura, e il “deep web” e il “dark web” sono forse fra gli strumenti più misconosciuti, e spaventosi, con cui molti ragazzi maturano una familiarità che è difficile da capire, e tracciare, e può avere risvolti drammatici come nel caso di Andrea Prospero, il diciannovenne di Perugia ritrovato senza vita lo scorso gennaio. C’è stata ora una svolta nelle indagini, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha emesso l’ordinanza cautelare con l’accusa di istigazione o aiuto al suicidio nei confronti di un diciottenne di Roma, ora ai domiciliari, che su una chat Telegram avrebbe convinto Prospero a ingerire i farmaci e a morire. Il problema non è solo tecnologico: alla base della tendenza a cercare rifugio nel web nascosto c’è un disagio profondo, fatto di solitudine, bisogno di riconoscimento e assenza di ascolto. Come possiamo arginare questa deriva senza scadere nella retorica del terrore? Giuseppe Lavenia, presidente dell’associazione Di.Te, esperto di dipendenze digitali, ha raccontato a L’Espresso il suo punto di vista, sottolineando che se il web offre illusioni di potere e trasgressione, il vero antidoto è costruire un senso di appartenenza e comprensione nel mondo offline. Da questa vicenda emerge una certa facilità nell’accesso al deep web e nel reperimento di sostanze illecite. È davvero così? “Più di quanto vogliamo ammettere. Il deep web non è una leggenda metropolitana, ma un’autostrada invisibile dove tutto è in vendita, compresa l’illusione di una fuga dalla realtà. La droga si compra come un paio di scarpe online, con pochi clic e senza contatti umani. Il problema non è solo la facilità di accesso, ma il vuoto emotivo che spinge i ragazzi a cercare soluzioni chimiche per anestetizzare il dolore”. Come possiamo rendere i giovani più consapevoli dei pericoli che possono incontrare online senza spaventarli o allontanarli dalla tecnologia? “Smettendo di trattarli come bambini da proteggere e iniziando a considerarli persone da responsabilizzare. Terrorizzarli non serve, demonizzare la tecnologia neanche. Bisogna educarli all’uso critico, far loro vedere le conseguenze reali delle proprie azioni, raccontare storie vere, senza filtri. La consapevolezza non nasce dalla paura, ma dall’esperienza guidata”. Cosa spinge un giovane a trasformarsi da vittima della solitudine a carnefice di altri coetanei in situazioni come questa? “La solitudine non è solo assenza di compagnia, è assenza di significato. Quando un ragazzo si sente invisibile, cerca modi per esistere. Se non trova riconoscimento nel bene, lo cerca nel male. Il potere che deriva dalla sopraffazione diventa un’arma contro il senso di inutilità. È una vendetta contro il mondo che lo ha ignorato. Ma chi si vendica su altri ragazzi fragili non diventa più forte, diventa solo più solo”. Esistono iniziative o modelli educativi che hanno dimostrato di essere efficaci nel prevenire episodi di istigazione al suicidio online? “Certo esistono, ma funzionano solo se la società smette di guardare altrove. Programmi di prevenzione, educazione emotiva nelle scuole, supporto psicologico accessibile a tutti. Ma nessuna iniziativa funzionerà mai davvero se continuiamo a insegnare ai ragazzi a essere “vincenti” invece che felici, se li lasciamo affogare nella solitudine digitale mentre ci lamentiamo dell’invadenza dei social”. Su questa vicenda c’è una cosa che non è stata ancora detta, e che invece è fondamentale per capirne i risvolti? “Sì. Che non è solo una storia di internet e sostanze, ma una storia di assenze. Assenza di ascolto, di dialogo, di adulti presenti. Insegniamo ai ragazzi a difendersi dagli sconosciuti online, ma chi li difende dal silenzio che li circonda offline? I mostri digitali esistono, ma spesso sono solo il riflesso del vuoto che li ha generati”. Il suicidio assistito torna in Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 marzo 2025 Il suicidio assistito torna in Corte costituzionale, per la quarta volta dal 2019. Mercoledì prossimo, in udienza pubblica, i giudici della Consulta affronteranno di nuovo la questione, sollevata questa volta dal gip di Milano, relativa alla definizione di dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale”, uno dei requisiti richiesti al malato terminale affinché possa accedere al suicidio medicalmente assistito, con la sentenza 242/2019 Cappato-Antoniani. Un punto, questo, sul quale la Consulta si era già espressa l’anno scorso ampliando il significato di “sostegno vitale” (ad es. estendendolo anche alla dipendenza da caregivers), e allo stesso tempo lasciando al giudice la prerogativa di decidere caso per caso. Il procedimento del 26 marzo prossimo prende il via dall’autodenuncia di Marco Cappato dopo aver accompagnato in Svizzera nel 2022 una donna malata terminale di cancro e un uomo affetto da Parkinson. I pm di Milano, Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, avevano chiesto l’archiviazione per Cappato. E la gip Sara Cipolla ha trasmesso gli atti alla Consulta. Migranti. Salute mentale nei Cpr, prende il via la campagna nel nome di Basaglia di Sandro Marotta Il Manifesto, 23 marzo 2025 Parte dal Cpr di Torino, ormai pronto a riaprire, la campagna di sensibilizzazione per la salute mentale dentro i Centri di permanenza per il rimpatrio. La campagna, promossa dalla rete No Cpr e il Forum per la Salute mentale, vuole dire “no ai Cpr perché sono dei lager, esattamente come Basaglia definì i manicomi”, spiegano gli organizzatori. Il simbolo scelto è “Marco Cavallo”, una scultura di 4 metri di colore azzurro, in vetroresina (l’opera originale venne realizzata nel 1973 dai reclusi del manicomio di Trieste, diretto proprio da Franco Basaglia). La scultura prende il nome dal cavallo che trasportava la biancheria all’interno della struttura psichiatrica e a cui gli internati si erano affezionati. Il drammaturgo Giuliano Scabbia e l’artista Vittorio Basaglia (cugino dello psichiatra) lo disegnarono cavo, in modo che i malati potessero inserirci lettere e poesie. Basaglia volle che quest’opera uscisse dal manicomio per rappresentare la lotta contro tutte le istituzioni totali. “Oggi i Cpr sono il luogo peggiore dove un essere umano possa vivere - spiega Nicola Cocco, medico infettivologo e attivista della Rete Mai più lager, No ai Cpr - Anche per questo molte persone detenute all’interno hanno dei problemi di salute mentale. Come il carcere, questi centri sono istituzioni totali perché privano della libertà e condizionano la vita in tutti gli aspetti. Con questa prima tappa inauguriamo un viaggio per ribadire il messaggio basagliano: la libertà è la prima cura per chi soffre di problemi mentali”. La campagna proseguirà in autunno negli altri Cpr, ma si è scelto di partire dal centro piemontese perché a breve tornerà ad essere operativo sotto la gestione della coop Sanitalia, dopo la chiusura avvenuta nel 2023 dopo le proteste dei detenuti originate dalla morte di Moussa Balde, ospite con gravi problemi psichici lasciato per 9 giorni in una gabbia di isolamento. Sulla morte di Moussa Balde è ancora in corso il processo di primo grado che vede alla sbarra il medico responsabile del centro, Fulvio Pitanti, e l’ex direttrice del centro per conto di Gepsa, Annalisa Spataro. I capi di imputazione da accertare nella prossima udienza di settembre sono omicidio colposo, cooperazione in delitto colposo e responsabilità per morte in ambito sanitario. “La riapertura di questa struttura ci impone di essere attenti. - dice l’avvocato dei familiari di Moussa -Dobbiamo più che mai pretendere di vedere, rimanere vigili, chiedere delle visite e obbligare la prefettura a controllare il rispetto dei diritti umani”. Iran. In cella a Evin regna il silenzio di Fariba Adelkhah* Corriere della Sera - La Lettura, 23 marzo 2025 Fariba Adelkhah, antropologa franco-iraniana, è stata arrestata in Iran il 5 giugno 2019, mentre stava conducendo una ricerca sulla formazione del clero solita nella provincia di Qom. È stata detenuta per quattro anni e mezzo, che ha trascorso per la maggior parte nella prigione di Evin. Questa è una riflessione scritta per “la Lettura” sulla sua detenzione. Sia chiaro. Non sono mai stata una prigioniera politica, ma una prigioniera scientifica: una ricercatrice che non fa politica, incarcerata dal potere politico per ragioni presumibilmente politiche, anche se non mi è mai stato chiaro quali fossero. Né mi è chiaro se il fatto di essere franco-iraniana abbia provocato, aggravato o alleviato la mia sventura. Comunque sia, il mio sguardo sul carcere è necessariamente diverso da quello delle attiviste politiche, delle militanti per i diritti umani o delle ambientaliste che si sono schierate mettendo a rischio la propria libertà. Non intendo nemmeno mettere sullo stesso piano la mia battaglia per la libertà scientifica, che in un certo senso mi è stata imposta dalle autorità iraniane, e le istanze di queste donne pronte a grandi sacrifici personali e familiari per dare il loro contributo a un futuro migliore. Il mio racconto della prigione ha le sue specificità e i suoi limiti. Per quanto probabilmente sia cambiata e non abbia più molto a che vedere con ciò che è stata in passato, Evin rimane il regno del silenzio. Il silenzio imposto dalle autorità sui veri motivi della detenzione, sul contenuto dei fascicoli, sui processi “giudiziari”, sugli scambi di prigionieri e persino sulle esecuzioni. Ma anche il silenzio dei detenuti che cercano di proteggere la propria causa, il proprio onore e quello della propria famiglia, i propri legami. I due silenzi, quello dell’oppressore e quello dell’oppresso, si coniugano, spesso deliberatamente, fino a rendere Evin un luogo di cacofonia assordante. È facile dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità quando si tratta di un monologo e si è soli e responsabili solo dei propri atti, davanti a un tribunale incaricato di giudicare. Ma diventa molto più complicato, se non impossibile, quando si vuole far luce, anche solo su alcuni aspetti frammentari della vita carceraria post-rivoluzionaria. Sono un’antropologa, per me è importante l’osservazione dei fatti, delle pratiche, delle trasformazioni, siano esse positive o negative, pubbliche, invisibili o persino relegate nell’isolamento carcerario. La responsabilità che sento risponde a una logica irriducibile alle opposizioni classiche tra verità e menzogna, tra verità e crimine, tra verità e consenso. Il mio racconto della detenzione non può limitarsi alla contrapposizione tra oppressore e oppresso. Mio malgrado ho conosciuto giovani donne che non sapevano nulla di politica ma che frequentavano ambienti politici, la cui prigionia era funzionale allo scontro fra opposte fazioni. Ho imparato che non finiamo in prigione tutte per le stesse ragioni, e che alcune in prigione maturano progetti di emigrazione non necessariamente di natura politica, altre vi trovano un rifugio per studiare lontano dai vincoli familiari, altre ancora un’occasione per costruirsi un capitale politico o simbolico. Mio malgrado ho appreso che la Repubblica Islamica accumula prigionieri e prigioniere, possibilmente stranieri, per negoziare le sue condizioni finanziarie e le sue relazioni diplomatiche. Ho capito che non vi sono solo oppositori della Repubblica Islamica nel mondo dei prigionieri politici, ma vi sono anche alcuni dei suoi servitori e sostenitori, membri delle famiglie dei martiri, comandanti delle Guardie della Rivoluzione, deputati e ministri. Come all’inizio della rivoluzione, i legami tra i prigionieri e il regime sono spesso stretti. Mio malgrado ho imparato che ogni prigioniera poteva essere utile, ad esempio come istitutrice inconsapevole e non retribuita delle giovani reclute dei servizi segreti o dei pasdaran. Ho appreso, infine, che durante gli interrogatori, in mancanza di prove politiche, ci si concentra sulla vita privata delle detenute, sui loro legami affettivi e sessuali, si fruga nel loro computer e nel loro cellulare, per avere a disposizione armi efficaci contro donne che non hanno né la mia età né la mia autonomia, e che vivono nella paura che la loro vita privata venga sbattuta sulla pubblica piazza. È certamente necessario fare luce su ciò che è stato commesso, sul come e sul perché. Ma che dire del silenzio mantenuto sul prima e sul dopo, per non parlare di ciò che succede durante? Ciò che oggi ostacola la verità è la verità stessa, perché la verità non esiste al singolare. Ci preoccupiamo meno del significato della storia, che pensiamo di conoscere, che degli uomini che l’hanno fatta, spesso senza saperlo, e che, in un certo senso, ne sono stati i burattini almeno quanto ne sono stati gli attori. Un problema eterno che gli storici del Secondo conflitto mondiale, dell’occupazione tedesca della Francia, del fascismo in Italia o della guerra d’indipendenza algerina conoscono bene. La guerra civile iraniana - perché si tratta proprio di questo - si è svolta in gran parte nelle carceri. Non ho cercato di conoscerne i retroscena, perché ciò significherebbe rompere il silenzio, cosa che non mi è permessa né dalle autorità della Repubblica Islamica né dalla sua opposizione, che ha già iniziato a rimproverarmi per i miei scritti, come in passato. Il silenzio è parte del mondo carcerario e ha una funzione strutturante. Manterrò il silenzio e rimarrò nella mia solitudine di ricercatrice, a guardare, analizzare, rispettare, senza poter scrivere tutto, perché all’impossibile nessuno è tenuto. Tuttavia scriverò sempre a chi (e per chi) può interessare. La cosa peggiore del silenzio è che si può sapere perché lo si rompe, ma non sempre perché lo si mantiene. *Traduzione di Irene Bono