L’allarme dei Garanti: “Le prigioni sono bombe a orologeria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 marzo 2025 Il rapporto: mentre la politica rimanda le soluzioni, le strutture sono al limite e i diritti umani ignorati. Mentre giovedì scorso la Camera ha approvato una mozione di maggioranza vuota di soluzioni concrete sull’emergenza carceraria, lo stesso giorno il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha incontrato i rappresentanti della Conferenza dei Garanti territoriali, in un confronto (il secondo nel giro di due settimane) che ha messo a nudo il divario tra le urgenze del sistema penitenziario e l’inerzia politica. A fare da sfondo, il drammatico dossier dell’Associazione Antigone, inviato al Parlamento in occasione della seduta straordinaria: 62.140 detenuti stipati in strutture al collasso, 20 suicidi in tre mesi, minori ammassati in celle per adulti e istituti ridotti a ruderi. Un’emergenza che la politica ha scelto di archiviare con un atto formale, ignorando le proposte di chi da anni denuncia l’abisso del sistema penitenziario. Come detto, nella stessa giornata del voto parlamentare, il ministro Nordio ha ricevuto il portavoce della Conferenza dei Garanti Territoriali, Samuele Ciambriello, accompagnato da Bruno Mellano (garante del Piemonte) e Valentina Calderone (garante di Roma). Al centro del dialogo, i dati allarmanti diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap): oltre 23.000 detenuti vivono in regime di custodia chiusa, privi di attività trattamentali, socialità e percorsi di inclusione. “Non servono tanto nuove celle o stanze di pernottamento, ma laboratori, officine scuole, spazi di vita comunitaria sportiva e formativa. Non nuove carceri, ma carceri nuove!”, ha sottolineato il portavoce Ciambriello, chiedendo nuovi investimenti nell’opera trattamentale. La conferenza dei garanti ha sollecitato provvedimenti di clemenza per alleggerire il sovraffollamento, puntando su misure alternative per detenuti con pene residue brevi o fragilità sanitarie. Sul tavolo anche la proposta di istituire Case di Reinserimento, modello ritenuto promettente per ridurre la recidiva. A tal fine, è stato annunciato un finanziamento di 1,9 milioni di euro per progetti di mediazione culturale, da approvare entro il 31 marzo tramite la Cassa delle Ammende. Particolarmente accesa la discussione sulla giustizia minorile. I garanti hanno ribadito la contrarietà al trasferimento di 70 giovani adulti nella sezione distaccata del carcere bolognese della Dozza, definendolo una violazione delle norme internazionali. “Separare minori e adulti non è un optional, ma un obbligo”, ha insistito Ciambriello, ricordando che il provvedimento, seppur presentato come temporaneo, rischia di normalizzare un approccio punitive. Critiche anche sulla chiusura dell’unico istituto per detenute madri nel Sud Italia, a Lauro (Avellino), mentre restano attive tre strutture al Nord (Milano, Torino, Venezia). “Al Sud, le madri detenute sono costrette a scegliere tra la galera e l’allontanamento dai figli”, ha denunciato la garante Calderone. Ma soprattutto, ha fatto presente che le case famiglia protette per le detenute madri sono definanziate dallo scorso anno. Il guardasigilli ha recepito questa denuncia e ha promesso di metterci mano. Detto, fatto. Nordio ha firmato un decreto che assegna al Dap l’importo di un milione di euro per il corrente anno, mentre è già allo studio un intervento normativo da inserire nella prossima legge di bilancio finalizzato a stanziare le risorse necessarie per assicurare stabilmente i suddetti interventi. Il giorno della seduta straordinaria, Antigone ha inviato un documento in Parlamento che purtroppo è stato, di fatto, ignorato. Il report, a disposizione di tutti i deputati presenti, è un atto di accusa senza precedenti contro un sistema al collasso. Attraverso dati, testimonianze e analisi dettagliate, il rapporto svela un Paese che viola diritti umani fondamentali, trasformando le carceri in luoghi di sofferenza sistematica. Al 17 marzo 2025, le carceri italiane ospitano 62.140 detenuti, contro una capienza regolamentare di 51.323 posti. Di questi, 4.518 sono inagibili per degrado, portando il tasso di sovraffollamento al 132,7%. Un aumento di 1.200 detenuti in un anno, accompagnato da un incremento dei posti non disponibili: da 3.646 nel maggio 2023 a 4.518 nel 2025. Le regioni più critiche - Lombardia, Puglia e Veneto - ospitano istituti con tassi di affollamento superiori al 200%, come Milano San Vittore (213%) e Foggia (209%). In totale, 146 strutture superano la capienza massima. Il sistema minorile, un tempo modello europeo, è in frantumi. Dopo il Dl Caivano, i giovani detenuti sono passati da 392 a 569, con una capienza degli Istituti penali per minorenni (Ipm) fissata a 559 posti. Il sovraffollamento (111,45%) ha costretto all’uso di materassi per terra a Torino, Milano e Bari, mentre a Roma i ragazzi hanno affrontato l’inverno senza riscaldamento. La decisione di trasferire 70 giovani adulti nel carcere bolognese della Dozza - violando il principio internazionale di separazione tra minori e adulti - rischia di aggravare il fenomeno della criminalizzazione precoce. Il 2025 si apre con 20 suicidi in tre mesi, tra cui una donna e un 24enne di Regina Coeli. Un trend che segue il record del 2024 (89 vittime) e che proietta il bilancio annuale verso oltre 200 morti. L’ 80% di questi episodi avviene in sezioni a custodia chiusa, dove i detenuti trascorrono fino a 22 ore al giorno in isolamento. A questi si aggiungono 48 decessi per cause diverse, legate a malattie trascurate o condizioni igienico-sanitarie disumane. Oltre il 60% delle sezioni applica il regime di custodia chiusa, abbandonando il modello a celle aperte introdotto dopo la sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Una scelta che ha trasformato il carcere in un ambiente asfissiante: niente attività rieducative, socialità limitata a poche ore d’aria, e un uso crescente di psicofarmaci e misure contenitive. Il degrado materiale è documentato in decine di istituti. C’è Sollicciano, dove muffa e infiltrazioni invadono uffici e celle, con il personale costretto a usare torce dopo il tramonto. A Regina Coeli i detenuti senza coperte, posate o tavoli per mangiare. Al carcere di Modena con i padiglioni fatiscenti con porte arrugginite e mobili bruciati. A Lodi e Taranto, tassi di affollamento vicini al 200% in strutture prive di manutenzione. Solo un terzo dei detenuti (20.240 su 62.140) svolge attività lavorative, per lo più legate alla gestione interna delle carceri. Appena il 15,53% ha accesso a impieghi esterni, mentre progetti culturali e formativi vengono sistematicamente disincentivati. “Il volontariato è visto come un fastidio, non come una risorsa”, sottolinea il rapporto, citando la chiusura di laboratori e la burocratizzazione dell’accesso alle università. Antigone avanza 15 proposte concrete: dalla deflazione del numero di detenuti attraverso misure alternative all’abolizione dell’isolamento disciplinare, dall’apertura delle celle per 8 ore al giorno all’assunzione di migliaia di operatori. L’unico segnale positivo arriva dal fronte delle case- famiglia protette, il cui fondo sarà - forse - ripristinato. Per il resto, il sistema sembra destinato a implodere. Nonostante la chiarezza delle proposte, con l’aggiunta da parte della mozione dell’opposizione (tranne il M5S) che prevedeva la proposta di legge Giachetti - Nessuno Tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale e ordinaria, il Parlamento ha approvato una mozione che le ignora totalmente. Intanto, tra muffa, suicidi e celle sovraffollate, il sistema continua a macinare vittime. “La crisi penitenziaria è una bomba a orologeria. Eppure, continuano a scontrarsi su un piano esclusivamente ideologico”, denuncia il garante Ciambriello. Detenute madri, Governo spaccato sul ddl Sicurezza di Valentina Stella Il Dubbio, 22 marzo 2025 Mentre Forza Italia e FdI aprono alle modifiche, la Lega resta irremovibile nonostante la moral suasion di Mattarella. Il tema delle detenute madri divide la maggioranza. Da un lato Forza Italia e Fratelli d’Italia sarebbero pronti a rivedere l’articolo 15 del ddl Sicurezza (che prevede che il rinvio della pena per donne incinte e madri di prole fino a un anno venga reso facoltativo), mentre la Lega sarebbe invece determinata a chiudere quanto prima nell’attuale versione già approvata alla Camera. La modifica dell’articolo 15, insieme a quella che dovrebbe interessare anche l’introduzione del reato di resistenza passiva in carcere e il divieto di acquisto di una sim a chi non ha il permesso di soggiorno, sarebbe stata sollecitata altresì mediante una moral suasion del Quirinale. Ufficialmente i tre azionisti del governo sostengono che la decisione sulla ipotesi di modifica del testo verrà presa dalla maggioranza nel suo complesso dopo che si sarà dato il mandato al relatore per l’Aula, ossia mercoledì prossimo. Tuttavia, lontano dai microfoni, sia il partito della premier che gli azzurri non vorrebbero creare una frizione con il capo dello Stato. Al contrario il Carroccio, main sponsor del provvedimento, sarebbe irremovibile e pronto a puntare i piedi per far approvare senza pit stop il disegno di legge promosso dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - di concerto con i colleghi Nordio e Crosetto - e già approvato a Montecitorio il 18 settembre 2024. Eventuali ritocchi e aggiunte dovrebbero essere demandati a un decreto successivo. Un’eventualità che ha scatenato la reazione del Pd. “Sarebbe un grave sfregio al Parlamento - ha denunciato Andrea Giorgis, senatore dem - che allo stesso tempo rivela la sensazione che la maggioranza si sta rendendo conto che il ddl ha bisogno di modifiche e che non può proseguire nella strada scelta finora”. È vero anche che tutti gli emendamenti delle opposizioni presentati per modificare la norma proprio in merito a quei punti sono stati bocciati durante l’esame congiunto delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato. Comunque non si esclude che, dovendosi intervenire in Aula per correggere alcuni aspetti legati alle coperture finanziarie, ci possa essere la possibilità di emendare gli articoli più critici e avviarsi, dunque, alla terza lettura. Ovviamente il tutto passerebbe solo se venissero presentati emendamenti da parte del governo e/o dei relatori direttamente nell’emiciclo di palazzo Madama. Di certo non attraverso l’approvazione di richieste di modifica della minoranza che, da quanto si apprende, non ripresenterà tutti i 1500 emendamenti discussi e già respinti nelle commissioni. Il testo è atteso in Aula nella prima settimana di aprile e dovrebbe essere varato, infatti, come da regolamento in tempi contingentati, nel giro di un paio di giorni di dibattito addirittura. Sempre a proposito di detenuti madri, il ministero della Giustizia ha reso noto che “al fine di dare continuità e di potenziare gli interventi destinati all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette e in case-alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino, i cui finanziamenti erano stati autorizzati dalla legge di bilancio 2021 fino all’anno 2023” Nordio “ha firmato un decreto che assegna al Dap l’importo di un milione di euro per il corrente anno, mentre è già allo studio un intervento normativo da inserire nella prossima legge di bilancio finalizzato a stanziare le risorse necessarie per assicurare stabilmente i suddetti interventi”. La comunicazione da parte di via Arenula arriva forse non casualmente il giorno dopo che maggioranza e governo sono stati aspramente criticati dalle opposizioni per la loro “vergognosa assenza” durante la seduta straordinaria della Camera convocata per discutere dell’emergenza sovraffollamento e suicidi in carcere. Erano state pure respinte le mozioni che chiedevano all’Esecutivo di adottare iniziative anche di carattere normativo per escludere dal circuito carcerario le donne con i loro bambini. Parzialmente soddisfatta, comunque, la senatrice di Avs Ilaria Cucchi per il fatto che “finalmente il governo Meloni ascolta i nostri consigli”, avendo il guardasigilli “dato seguito al nostro odg, firmando un decreto che destina un milione di euro al Dap per il sostegno alle detenute madri e ai loro bambini. È un primo passo importante per garantire continuità agli interventi già previsti fino al 2023, ma è ben poca cosa rispetto alla situazione disastrosa del sistema di accoglienza per le madri detenute”. Se “le case-famiglia protette - ha proseguito la senatrice - rappresentano un’alternativa fondamentale al carcere per le detenute madri, permettendo ai bambini di crescere in un ambiente più umano e adeguato”, tuttavia “il finanziamento stanziato non basta: servono risorse stabili e un impegno strutturale per potenziare e ampliare queste soluzioni”. Inoltre, “la maggioranza prosegue ostinatamente” nell’approvazione dell’articolo 15 del Ddl sicurezza: “Una scelta grave - per Cucchi - che dimostra ancora una volta come questo governo punti più su punizione e repressione, anziché su misure di giustizia sociale e tutela dei più vulnerabili”. Il fondo stanziato con il decreto era stato altresì sollecitato dalla garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, in un recente faccia a faccia tra Nordio e una delegazione dei garanti territoriali. Morto a Riace il presunto scafista malato terminale. Lucano: “Era innocente” di Simona Musco Il Dubbio, 22 marzo 2025 L’uomo era stato scarcerato per via di un tumore ormai al quarto stadio. La senatrice Cucchi interroga i ministri della Giustizia e della Sanità: “Come mai non è stato curato in carcere?”. Se n’è andato nel primo giorno di primavera Habashy Rashed Hassan Arafa, 52 anni, egiziano, arrivato in Italia il 19 ottobre 2021 a bordo di un’imbarcazione sbarcata a Roccella Jonica e considerato dalla legge italiana uno scafista. Un’accusa infondata, secondo Domenico Lucano, europarlamentare Avs e sindaco di Riace, che ha accolto l’uomo - affetto da un tumore al pancreas al quarto stadio - per gli ultimi giorni della sua vita. Hassan - per tutti, a Riace, Ahmed - detenuto nel carcere di Arghillà a Reggio Calabria, aveva più volte dichiarato di stare male soltanto a gennaio scorso, a poche settimane dal fine pena, è stato finalmente sottoposto a una tac, che ha fatto emergere il tumore ormai senza speranza. A febbraio 2025, dunque, il magistrato di sorveglianza ha certificato la sua incompatibilità con la detenzione carceraria e Hassan è stato scarcerato. Da Reggio Calabria è stato trasferito nel reparto di oncologia dell’ospedale di Locri, che ha poi contattato Lucano per garantire ad Hassan la terapia del dolore in un luogo che potesse accoglierlo in maniera dignitosa, ovvero Riace, che ha aperto le porte del Villaggio Globale di Riace. “Una notizia triste - ha commentato Lucano su Facebook -, il mio amico Hassan ci ha lasciati per sempre. Ha finito di soffrire. Gli ultimi giorni della sua vita tormentata li ha passati a Riace accolto nel Villaggio Globale”. Un uomo “in fuga dagli orrori delle guerre”, ha sottolineato, “semplicemente un uomo innocente dal volto leale, bello, un combattente per la libertà, un eroe sconosciuto dei nostri tempi assurdi dominati da odio, guerre, fascismi e genocidi in cui si proteggono i torturatori di bambini con le mani sporche di sangue”. Il 28 marzo Lucano proporrà al Consiglio comunale di conferire la cittadinanza onoraria per l’uomo, che verrà seppellito nel cimitero di Riace, già orientato a est come richiede la religione musulmana. Lucano, però, ora promette battaglia. “Denunceremo alla Corte penale internazionale questa vicenda”, aveva chiarito giorni fa al Dubbio, quando la situazione appariva ormai disperata. Un malato terminale tra gente che ha scelto di aiutarlo, ma senza alcuna esperienza nel campo dell’assistenza, tra dolori atroci, morfina e un destino ormai segnato. A Riace Hassan ha finalmente potuto parlare la sua lingua, grazie alla presenza di immigrati in grado di comprenderlo e tradurre le sue parole dall’arabo. Il 7 marzo, in quella che avrebbe dovuto essere la data della sua scarcerazione, Mimmo Lucano si è recato al carcere di Arghillà con il suo avvocato Andrea Daqua per comprendere l’iter che ha segnato il destino di Hassan. “Com’è possibile che solo a gennaio 2025 abbiano iniziato a occuparsi delle sue condizioni, quando ormai il tumore era in fase terminale?”, ha chiesto Lucano. Un interrogativo che pesa sulle istituzioni e su un sistema penale che troppo spesso dimentica l’umanità dei detenuti. “Ahmed mi ha raccontato di aver detto più volte di non sentirsi bene, ma non parlando l’italiano, nessuno lo ha capito”, ha spiegato Lucano. “Mi è stato detto che quest’uomo non si lamentava mai, ma la verità è che la sua malattia è stata ignorata troppo a lungo”. Il dirigente medico, stando a quanto riferito da Lucano, “avrebbe insistito tante volte per farlo ricoverare. Non si capisce perché non lo abbiano fatto ricoverare prima”. Daqua, al Dubbio, ha spiegato di aver acquisito le cartelle cliniche e di attendere, ora, tutta la documentazione relativa all’iter giudiziario, durante il quale Hassan è stato assistito di fiducia dall’avvocato Antonello Enrico Chindamo. Hassan era stato identificato da due migranti egiziani, che hanno raccontato di un viaggio durato quattro giorni, senza soste, con difficoltà dovute al mare agitato e ai forti venti, su una bagnarola dove stavano strette 297 persone. I due hanno raccontato che il peschereccio era stato pilotato per l’intera durata del viaggio da un uomo esile, con i baffi, che poi hanno riconosciuto senza esitazione in una foto di Hassan. L’uomo si è sempre dichiarato innocente, spiegando di essere un semplice passeggero. Ma ad avvalorare la tesi della procura di Locri il fatto di essere in possesso di un passaporto nautico che attestava la sua competenza nella navigazione. Insomma, la sua potrebbe essere la classica storia di chi, dopo aver pagato migliaia di dollari per partire - Hassan aveva dichiarato di averne versato 10mila - viene poi abbandonato sulla nave a cavarsela da solo, con l’onere di portare in salvo tutti. “Hassan era una persona molto buona, molto intelligente. Sono davvero affranto. Negli ultimi mesi, quando ormai gli restava solo l’ultimo semestre da scontare - ha spiegato Chindamo al Dubbio, - non mi aveva mai manifestato problemi di salute rilevanti, se non qualche disturbo ai denti negli ultimi tempi. Dato il numero elevato di detenuti da seguire, lo incontravo circa ogni due settimane, ma mai ho avuto l’impressione che la situazione fosse così grave. Sono stato avvisato dal carcere di Arghillà del ricovero in ospedale - che era avvenuto il 15 gennaio - giorno 18 gennaio. Dopodiché sono rimasto molto sorpreso quando l’ospedale mi ha chiamato informandomi del quadro clinico, una forma tumorale molto aggressiva e credo dal decorso molto rapido. Leggendo poi la documentazione medica ho capito che la sua situazione era estremamente grave. L’ospedale ha poi informato il Tribunale di Sorveglianza, che il 25 febbraio ha disposto, correttamente, il differimento della pena”. Purtroppo, però, per Hassan il tempo fuori dal carcere è trascorso velocemente e tra atroci dolori, fino a questa mattina. Chindamo si è detto ora disponibile a verificare, per conto della famiglia, eventuali responsabilità in merito al trattamento sanitario di Hassan all’interno del carcere. “Hassan aveva tutti i criteri per chiedere asilo politico, ma è stato arrestato”, ha spiegato ancora Lucano. La storia di Hassan si inserisce in un contesto più ampio rispetto a quello delle condizioni degradanti nelle carceri italiane: quello della criminalizzazione della migrazione. Il suo caso non è isolato. Sempre più spesso, infatti, i migranti giunti in Italia dopo viaggi disperati vengono arrestati con l’accusa di essere scafisti, vittime di un sistema che inasprisce le pene per chiunque sia sospettato di aver facilitato l’ingresso di stranieri. L’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, ulteriormente irrigidito dal “Decreto Cutro” - finora rimasto senza applicazione concreta -, ha portato infatti a numerosi arresti e condanne sommarie, spesso senza prove adeguate. A rilanciare il caso in parlamento la senatrice di Sinistra italiana Ilaria Cucchi, che ha annunciato una interrogazione ai ministri della Giustizia e della Sanità. “Immaginate di essere costretti a passare cinque anni della vostra vita senza essere capiti da nessuno. E non cinque anni “come gli altri”, ma cinque anni in cui le vostre condizioni peggiorano fino a trasformarsi in un tramonto irreversibile, senza che nessuno intorno a voi faccia qualcosa per farvi stare meglio. Ne sono sicura, cerchereste una risposta. Vorreste sapere “com’è stato possibile?” - si è chiesta Cucchi. - Il personale della struttura avrà pensato che non dicesse sul serio, che cercasse solo un espediente per uscire. Poi il suo aspetto è cambiato, Ahmed non era più lo stesso. A gennaio, finalmente, è stato visitato. Ma era troppo tardi. È tornato in libertà con un tumore al pancreas al quarto stadio, non si può curare. Questa è la storia di Ahmed, ma è anche la storia di come la nostra democrazia muore ogni giorno nelle carceri e nei Cpr. È la storia del nostro razzismo, dell’indifferenza che ha pervaso tutte le nostre istituzioni, ormai sorde alle grida dei più deboli. Ho sentito Mimmo pochi giorni fa: oggi portiamo avanti un impegno comune per individuare i responsabili della sua sofferenza. I mandanti politici sono più che chiari, certo. Sono quelli del pacchetto sicurezza, dei porti chiusi eccetera eccetera. Quello che è successo merita però una spiegazione dallo Stato, a partire dai ministeri della Giustizia e della Sanità. Ci devono dire com’è stato possibile. Per questo, ho presentato un’interrogazione parlamentare rivolta proprio a loro. Pretendo una risposta”. Fine pena per Hassan, morto di cancro, processato senza avvocato né interprete di Angela Nocioni L’Unità, 22 marzo 2025 Da cinque anni nessuno parlava con lui. Era malatissimo. Lo accusavano di essere uno scafista, difesa zero. Le ultime ore libero, accolto da Mimmo Lucano. Ha giallo anche il bianco degli occhi. Indica il fianco, la schiena, dice in arabo che lì ha dolore, ma nessuno lo ascolta. Da cinque anni nessuno comunica con lui nella sua lingua. Nessuno al carcere di Arghillà, al nord di Reggio Calabria, parla arabo. C’è bisogno di parlare arabo per capire che una persona che si piega in due dalle fitte al fegato va portata in ospedale? Fine pena: metà marzo. Quando, a gennaio, il medico del carcere gli fa fare una ecografia, la diagnosi confermata dalla tac è “tumore al pancreas al quarto stadio con metastasi”. Il tribunale di sorveglianza decide che quello stato è non compatibile con la detenzione. Il caso non gli era mai stato segnalato prima. Non c’è un avvocato? No, al processo c’era un difensore d’ufficio ma il detenuto non sa neanche il suo nome, “ricordo solo che aveva i capelli lunghi” dice. Il 24 febbraio viene scarcerato. Ricoverato a Reggio, viene trasferito a Locri. Non sanno dove mandarlo a morire. Ormai non c’è più nulla da fare e per le cure palliative non c’è posto neanche all’hospice. Lui non può camminare, parla a fatica, come si tira su dal letto si piega in due per le fitte. La primaria di oncologia chiama il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. L’avvocato di Lucano si occupa di tutte le carte necessarie al trasferimento e il 2 marzo un’ambulanza porta il detenuto nel Villaggio globale di Riace che, smantellato da Salvini, è tornato in funzione con volontari. A Riace, di fronte a un interprete, il detenuto scarcerato per morire dice: “Finalmente posso parlare la mia lingua”. Lui è arrivato in Calabria con uno sbarco a Roccella Jonica il 19 ottobre del 2021. Condannato in primo grado per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dal Tribunale di Locri, la fabbrica degli scafisti: ne sfornano a volontà. Al carcere di Locri c’è un piano terra traboccante di mani nere che sporgono dalle sbarre: tutti immigrati, tutti giovanissimi, tutti dentro ex articolo 12 del testo unico immigrazione. Condanna confermata in appello il 17 gennaio del 2023 e in via definitiva il 2 giugno del 2023. Bisogna andarli a vedere questi processi, raccontarli. Ascoltare i testimoni, la pubblica accusa, gli interpreti della polizia, cercare gli accusatori e vedere se qualcuno s’è preoccupato d’averli disponibili per l’esame probatorio. A Riace gli chiedono di contattare la famiglia, di chiamare i suoi cinque figli. Non vuole. “Non voglio che mi vedano così, avevo promesso a tutti che dall’Italia li avrei aiutati”. Lui si chiamava Habashy Rashed Hassan Arafa, veniva dall’Egitto. È morto ieri, primo giorno di primavera. Dell’Italia ha visto solo il carcere. La legge sicurezza al traguardo finale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2025 Concluso l’esame nel merito da parte delle Commissioni Nessuna modifica al testo. Superando dubbi e perplessità interne anche alla maggioranza e la drastica contrarietà di opposizioni, sindacati e associazioni della società civile, il disegno di legge sulla sicurezza è ormai pronto per l’aula del Senato per essere definitivamente approvato. Le commissioni Affari costituzionali e Giustizia ne hanno infatti concluso l’esame nel merito; ora a mancare è solo il mandato al relatore, mentre sull’aumento dei casi di detenzione e, in particolare, sulle detenute madri il punto di equilibrio interno alle forze di governo è stato trovato nell’approvazione di due ordini del giorno. Sul piano politico un indubbio successo della Lega, il partito che più si è speso per l’approvazione senza cambiamenti rispetto al testo della Camera. Assai composito il contenuto, dall’attività di contrasto a criminalità organizzata e terrorismo, alla sicurezza urbana, passando per le carceri e le forze dell’ordine. Tra le conseguenze, la moltiplicazione del numero di reati e le condanne anche alla detenzione, in una fase, ma non è certo una novità, di assoluta emergenza per le condizioni delle carceri. Nei due ordini del giorno, da una parte si afferma un generico impegno del Governo ad assicurare una migliore vivibilità delle carceri, con un’attenzione particolare per i momenti di affettività, in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale, dall’altra si intende favorire un maggior ricorso alle case famiglia per le detenute madri. Dove su quest’ultimo punto il provvedimento fa venire meno il divieto di detenzione per le donne incinte. Il provvedimento seleziona alcune forme di criminalità ritenute di maggiore gravità e allarme. A partire dalle occupazioni abusive e dalle forme pubbliche di protesta: per contrastare le prime è introdotto un nuovo delitto nel Codice penale, l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio, e una nuova norma nel Codice di procedura penale, il reintegro nel possesso dell’immobile. La sanzione va da 2 a 7 anni di carcere. A far discutere ci sono poi le misure che trasformano in illecito penale, al posto dell’attuale infrazione amministrativa, il blocco stradale o ferroviario attuato con forme di resistenza passiva, pena poi aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite. Norme che, si polemizza, hanno più l’obiettivo di reprimere la protesta sociale, anche nelle forme, magari più discutibili, di espressione del dissenso, che quello di elevare gli standard di sicurezza. E ancora, sul fronte della criminalità “di strada”, si colpisce in maniera più pesante l’accattonaggio con l’età punibile del minore portata sino a 16 anni e le truffe, con un mix di aggravanti generali e speciali a protezione soprattutto dei soggetti deboli come gli anziani. Per le forze dell’ordine i segnali di attenzione sono diversi, dall’aumento della copertura legale per le azioni commesse in servizio, a una maggiore liberalizzazione del possesso di alcune categorie di armi fuori servizio. A essere inasprito è poi tutto il trattamento sanzionatorio per le forme di resistenza e di aggressione alle forze di polizia. Nuovi reati anche nelle carceri, per sanzionare più pesantemente le rivolte: la pena base è la reclusione da 2 a 8 anni, l’aver commesso il fatto con uso di armi è punito con la reclusione da 3 a 10 anni; l’aver causato una lesione personale ha come conseguenza l’aumento della pena fino ad un terzo; l’aver causato la morte è punito con la reclusione da 10 a 20 anni. La sola partecipazione alla rivolta è invece punita con la reclusione da 1 a 5 anni. “Folle definire la separazione delle carriere una vendetta: così si perde il referendum” di Errico Novi I Dubbio, 22 marzo 2025 E allora, presidente Beniamino Migliucci, al vertice della Fondazione Ucpi dopo aver guidato la stessa Unione Camere penali e la raccolta delle firme sulla separazione delle carriere: dopo 33 anni, i cittadini, con il Sì al referendum sulla riforma Nordio, potranno sancire il riscatto della politica dalla magistratura, e rimettere a posto l’equilibrio tra i poteri. Migliucci ci gela: “Assolutamente non è così”. E spiega una cosa che forse merita di essere compresa dalla politica innanzitutto: “Ai cittadini bisogna ricordare semplicemente che separare le carriere serve a rendere il processo più giusto. Serve a rendere il giudice davvero terzo, equidistante da chi accusa e da chi difende. E serve anche a spostare il centro della vicenda penale dalle indagini alla sentenza. C’è un significato pedagogico. La riforma è questo, ecco: contano le sentenze. Non bisogna parlare di guerra, di riforma contro i magistrati. Non ha senso. È fuorviante. Populista. E perdente”. Migliucci è un avvocato, animato da passione civile. E davvero la politica dovrebbe ascoltare chi, nel 2017, ha guidato le Camere penali italiane a raccogliere 72mila firme sul divorzio tra giudici e pm. Perché solo se si invita l’opinione pubblica a considerare il nuovo ordinamento della magistratura come il bene per tutti, anziché la punizione contro qualcuno, si possono coltivare speranze di vittoria per il Sì, a quel benedetto referendum che si celebrerà tra un anno. Ci ha convinto, Migliucci... Non può che essere come dico. E allora dovrebbero essere gli avvocati, prima ancora dei politici, i veri testimonial della campagna referendaria. O no? Allora: quando abbiamo raccolto le firme otto anni fa, non abbiamo voluto partiti al nostro fianco. Solo i radicali, che a mio giudizio non possono essere ascritti al novero dei partiti propriamente detti, e la Fondazione Einaudi. Basta. La separazione delle carriere non è la riforma di questa o quella parte politica. Realizza un’idea condivisa anche da Giovanni Falcone, che condivideva quell’idea in quanto principio coerente con la Costituzione. La politica, insomma, dovrebbe proprio cambiare registro, non parlare di carriere separate come punizione per qualcosa o qualcuno... Assolutamente. Il rischio anzi è che la magistratura trovi conveniente far passare la separazione delle carriere come uno scontro fra politica e toghe, perché una chiave simile offrirebbe alla Anm l’opportunità di dire ai cittadini: vedete, dovete scegliere tra chi i delitti li contrasta e chi, spesso, è sorpreso da noi magistrati nel commetterli. E sarebbe la fine, la sconfitta certa al referendum... È una visione populista, demagogica, che va evitata, allontanata. E la magistratura deve smettere di considerarsi come un antagonista, dovrebbe accettare il ruolo che la Costituzione le assegna: non un potere ma un ordine. Che applica le leggi. Vede, noi avvocati siamo testimoni di poche cose, ma di una certamente: del disagio vissuto da chi, nel momento in cui affronta un processo, percepisce che il giudice non è terzo. E attenzione: pretendere l’effettiva, ordinamentale terzietà del giudice non è la superfetazione linguistica di chi finge di non sapere che già ora il giudice può essere imparziale: terzietà vuol dire non essere strutturalmente connesso con alcuna delle due parti del processo. Significa essere una cosa diversa da entrambi. Dall’accusa e dalla difesa. E rispetto alla serenità dei rapporti istituzionali, vorrei notare che non è coerente con un’idea di equilibrio e armonia alzarsi, voltare le spalle e andarsene dalle cerimonie dell’anno giudiziario nel momento in cui parlano il ministro della Giustizia o altri rappresentanti del governo. Lei dice che all’Anm il conflitto conviene... Eccome. Diranno: noi siamo quelli bravi, quelli che combattono i reati, votate per noi. E poi un’altra cosa: quando l’Anm sostiene, col suo nuovo presidente, che una volta separati dai giudici, i pm smetteranno di chiedere archiviazioni e perseguiranno sempre il rinvio a giudizio, la condanna, io ribatto che no, che il pm resterà un magistrato autonomo, libero di chiedere di archiviare o processare, così come i gup saranno finalmente i controllori dei pubblici ministeri e smetteranno di limitarsi ad accompagnarli. Professori come Paolo Ferrua, e non solo l’Anm, dicono: il Csm dei requirenti è un’anomalia insostenibile che, al di là della buona fede di Nordio, potrà essere risolta solo con l’assoggettamento del pm all’Esecutivo. Di fatto, è una lettura che teme la degenerazione eversiva di una magistratura dell’accusa sganciata dai giudici... Chi nella stessa magistratura ha questa visione, ha un’idea negativa di sé. Noi penalisti, per carità, nella nostra proposta originaria, prevedemmo numeri meno sbilanciati a favore dei togati, nei due Csm. Ora si è optato per una sintesi diversa. Ma i magistrati non devono pensare male di loro stessi. Devono avere maggior rispetto per le loro prerogative. Considerare che hanno, e avranno sempre, autonomia e indipendenza. La riforma non è la vendetta 33 anni dopo Mani pulite... Sarebbe ridicolo. A meno di non considerare l’affermazione della terzietà come una vendetta. O che lo stesso Falcone, nell’invocare la terzietà, volesse vendicarsi. Quel doppio binario della procedura che rende eterne le intercettazioni di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 22 marzo 2025 I magistrati sanno benissimo come continuare a navigare senza ostacoli, nel mare delle captazioni, grazie all’eccezione della lotta alla mafia. Che la fine della pesca a strascico con l’approvazione definitiva della riforma alle intercettazioni non piaccia ai pubblici ministeri e di conseguenza ai sindacalisti della Anm è normale, vista la loro fisionomia sempre più conservatrice. Del rigetto verso ogni cambiamento in favore dei diritti dei cittadini da parte del Movimento cinque stelle, non curat praetor. Quello che fa veramente cascare le braccia è l’ormai quotidiana pervicace totale subalternità dei partiti di sinistra, in particolare Pd e Avs, in tema di giustizia, al grillismo e alle toghe. La maggioranza che nella notte di mercoledì scorso, con 147 voti favorevoli e 67 contrari, ha approvato la modifica dell’articolo 267 del codice di procedura penale, ha segnalato un solo astenuto tra le opposizioni, il senatore di Azione. Evidentemente per loro tutto quello che è accaduto in questi anni, con il controllo per mesi e anni dell’intimità di persone che spesso saranno poi prosciolte o assolte, senza che la legge ne ponesse un limite temporale, va bene così come è. E, a proposito del legame stretto con un’altra riforma, quella ancora in fieri sulla separazione delle carriere, vogliamo ricordare come sono andate fino a ora le cose? Ripassiamo la situazione esistente, come disciplinata dagli articoli 266 e 267 del codice di procedura penale. Oggi il magistrato può intercettare per 15 giorni, prorogabili per altri 15 e poi ancora, all’infinito, non essendoci limiti al numero di proroghe. E spesso la continuità è garantita da giudici delle indagini preliminari che usano un prestampato con scritto “visto, si autorizza”. È un gesto troppo di frequente automatico, compiuto da una toga che sta nell’ufficio contiguo a quelli del pm, con cui ha condiviso gli studi, il concorso, spesso l’amicizia. Il merito del cambiamento di questa procedura che aveva radicata nel proprio corpo l’ingiustizia nei confronti dei cittadini e uno smisurato potere agli investigatori, va a Forza Italia e al senatore Pierantonio Zanettin. Agli altri gruppi della maggioranza, in particolare la Lega e Fratelli d’Italia, che si sono associati al voto, è stato delegato, in un certo senso, il compito di pensare alle eccezioni. Si tratta dei famosi “salvo che” con cui spesso sono state annacquate le buone riforme. Anche in questo, come in altri casi, abbiamo il doppio binario delle procedure. Primo binario: intercettazioni non oltre i 45 giorni, con l’unica possibilità di proroga di fronte all’ “assoluta indispensabilità” determinata dall’insorgere di nuovi elementi “specifici e concreti”. Che dovranno essere oggetto di “espressa motivazione”. Regole piuttosto stringenti, che saltano quando compare la parola destinata a vanificare qualunque tentativo di violazione, l’” antimafia”. È in quel terreno di sacralità che nascono i doppi binari, e anche le praterie dello smisurato potere dei pm e spesso il totale asservimento dei gip. La nuova legge non si sottrae alla regola della totale deregulation in tema di reati di mafia terrorismo e simili. Per “simili” si intendono, secondo la normativa “antimafia”, anche sequestro di persona, traffico illecito di rifiuti, gravi reati informatici e altri di allarme sociale. A questo va aggiunto quel che ha stabilito nel 2022 una sentenza della cassazione, che ha qualificato come “antimafia” tutti i reati associativi correlati alle specie più diverse di criminalità organizzata. Non ci sarebbe nulla di cui scandalizzarsi per questo ennesimo doppio binario della procedura. Se non fosse per il fatto che, nonostante le proteste della magistratura associata, anche nella voce del mite presidente Cesare Parodi contro la riforma, troppi pubblici ministeri e troppi gip loro associati sanno benissimo come muoversi tra i due binari. Succede tutti i giorni nei processi delle regioni del sud, in particolare in Calabria, dove ancora due giorni fa abbiamo assistito all’ennesima assoluzione del 50% degli imputati di un processo istruito da Nicola Gratteri, sulla base di centinaia di intercettazioni. Ma è capitato anche l’anno scorso in Liguria, nell’inchiesta che ha convolto Giovanni Toti e determinato la caduta della giunta. Il presidente e i suoi coimputati sono stati intercettati per tre anni e mezzo e con corsie preferenziali sulla base del fatto che a La Spezia, dove tutto era cominciato, e in seguito a Genova, ad alcuni degli indagati è stato contestato il reato di associazione mafiosa, reato di cui peraltro non si è più saputo nulla, a un anno di distanza. Risultato delle leggi speciali. I magistrati lo sanno benissimo, che potranno continuare a navigare come pesciolini nel mare delle intercettazioni, anche tra quei fascicoli che il ministro Nordio ha qualificato come “virtuali” o “clonati”, piuttosto che “antimafia”. Lo sa bene l’astuto Luca Tescaroli, che a Firenze ben si destreggiava tra le inchieste su Silvio Berlusconi e quelle nei confronti di Matteo Renzi, e che oggi, stuzzicato dal Fatto quotidiano sui reati contro la Pubblica amministrazione, ci ha tranquillizzati. Se quei reati non prevedono una pena massima inferiore a cinque anni, ha detto il procuratore di Prato, sono regolati alla pari di quelli della criminalità organizzata. Si può dunque intercettare a gogo. Eppure si lamentano. Benvenuta nuova legge, nonostante tutto, comunque. Mafia, l’appello di don Ciotti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 22 marzo 2025 L’appello di don Ciotti nel giorno del ricordo delle vittime della criminalità organizzata. “Ircu, arcu, orcu, / e ‘ppi na fogghia di zuccu tortu / unn’appi né ircu né arcu né orcu”. Secondo lo scrittore Antonino Rallo, racconta Adriano Sofri nel libro “Reagì Mauro Rostagno sorridendo”, dedicato al sociologo torinese che sfidò con la sua generosità e la sua intelligenza la mafia e fu ucciso nel 1988 nel trapanese dove aveva scelto di vivere per “vedere ingrigirsi la propria barba e magari nascere i propri nipotini”, solo lo scongiuro su citato può tenere a bada il “fantasma di di Michele in via dei Corallari”. Il quale “era un turco fatto schiavo e poi lasciato morire di fame dai padroni” e divide con una misteriosa “suora di via Garibaldi” il ruolo principale tra i fantasmi di “Ciàpani”, come il giovane regista Marco Bova ribattezzò in un film la sua città così come Trapani suona all’orecchio nel dialetto locale e spiegando: “Ciapani è Trapani senza marketing”. Sono molti di più, in realtà, i fantasmi di questa antica e bellissima città che deve il nome greco di Drepanon alla forma a falce del suo porto. Decine e decine, 38 solo in città nei tempi recenti, tra quelli falciati dalla mafia i cui nomi sono stati ricordati ieri, uno ad uno, tra i noi letti in una piazza Vittorio Emanuele invasa da sole, in chiusura del corteo della Giornata della Memoria e dell’impegno contro le mafie per i 3o anni di Libera, l’associazione delle associazioni fondata nel1995 da don Luigi Ciotti. Uno ad uno, nome per nome. Perché l’idea stessa della manifestazione, ha ricordato il prete veneto-piemontese padre del gruppo Abele nella cerimonia prima della veglia religiosa coi parenti delle vittime della mafia, della camorra, della `ndrangheta e altre mafie del mondo (inclusa quella corsa, denunciata da un amico del militante nazionalista Maxime Susini fatto fuori nel 2019) nacque dalle lacrime di Carmela, la mamma di Antonio Montinaro, uno degli agenti ucciso a Capaci il 23 maggio 1992 con Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i colleghi poliziotti Rocco Dicillo e Vito Schifani. Fu durante un ricordo funebre: “Perché non dicono mai il nome di mio figlio?”, sospirò. Aveva ragione. Tutti parlavano di Falcone e della moglie e dei “giovani della scorta”... Ma lei voleva sentire il nome di suo figlio. Perché il primo diritto di ogni persona è venire chiamato per nome. Non parliamo di numeri, pratiche, utenti... Persone. È da lì che nasce la giornata della memoria: occorre ricordare tutti con la stessa forza, la stessa dignità”. Ed ecco i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta, che il 2 aprile 1985 furono uccisi a sei anni con la mamma Barbara Rizzo, che li stava accompagnando a scuola, dallo scoppio di una bomba a Pizzolungo destinata al magistrato Carlo Palermo. E l’agente di custodia Giuseppe Montalto, assassinato solo perché aveva intercettato nel carcere dell’Ucciardone un “pizzino” recapitato in cella a boss mafiosi. E la guardia forestale Gaspare Palmeri morto con Stefano Siragusa nell’agguato a un amico coinvolto in una faida al ritorno da una partita di calcetto. E il magistrato in pensione Alberto Giacomelli, mai perdonato per aver disposto il sequestro di beni appartenenti a familiari di esponenti mafiosi. Uno dei temi centrali (fin dalla raccolta d’un milione e mezzo di firme per ottenere la legge) nelle trentennali battaglie di Ciotti oggi preoccupatissimo dai progressivi “ritocchi” che allentano le norme: “Il grande problema del nostro paese è la corruzione. Invece vedo giorno dopo giorno il tentativo di smantellare leggi preziose per individuare i “reati spia” della presenza mafiosa. Vedo la cancellazione dell’abuso di ufficio, il depotenziamento del reato di traffico di influenze illecite, la liberalizzazione del sistema degli appalti, gli ostacoli crescenti al lavoro della Corte dei conti...” Non finiva mai, letto uno dopo l’altro al microfono sul palco da centinaia di testimoni più o meno noti, l’elenco dei morti ammazzati in Italia. È aperto dal nome di Giuseppe Montalbano, assassinato il 3 marzo 1861, quattordici giorni prima della proclamazione dell’Unità, a Santa Margherita Belice, ai confini tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani, per “aver offerto sostegno ai contadini nella rivendicazione di terre pubbliche usurpate”. E giù giù fino ai morti di questi ultimi anni. E neanche tutti perché, “un’altra vergogna”, non esiste una banca dati con le persone uccise dalle mafie: è costruita giorno dopo giorno da Libera... E via via che si accavallavano i nomi compresi i più noti da Pio La Torre a Rosario Livatino, da Carlo Alberto dalla Chiesa a Paolo Borsellino, a chi conosce un po’ la storia di Trapani pareva di vedere il vento di primavera invocato da don Ciotti con le parole di Fabrizio De André (“Voi non potete fermare il vento / gli fate solo perdere tempo”) portar via le ombre dei fantasmi storici di una terra difficile. Qui il giudice borbonico Pietro Calà Ulloa, spiega il volume “Nascita della mafia” di Salvatore Bugno, definì per primo cosa fossero le consorterie mafiose. Qui la massoneria deviata germinò un’infinità di Logge dai legami ambigui. Qui la politica è scesa a patti con mondi inconfessabili al punto che uno dei padroni della città, il senatore Antonio d’Ali (i cui antenati furono così potenti da mettere in fuga col loro veliero uno scibecco barbaresco) è oggi in galera. Qui Matteo Messina Denaro riuscì per decenni a muoversi liscio come un pesce nell’acqua. Qui il pm Gaetano Paci denunciò il verminaio dello stesso palazzo di giustizia nelle indagini sull’omicidio di Rostagno: “Troppe insufficienze investigative, omissioni, sottovalutazioni”. Tutto spazzato via dalle brezze primaverili della grande manifestazione di ieri? Occhio alle ebbrezze, diffida lo stesso Ciotti. E dopo aver ricordato l’intervista a Mauro Rostagno (è su YouTube: agghiacciante) di un’altra grande a donna, Rosaria Antiochia, madre di quel Roberto ucciso con Ninni Cassarà perché volle fino all’ultimo stare accanto al commissario esposto alle vendette mafiose, spiega che “la ‘ndrangheta calabrese è presente oggi in cinque continenti e in 42 nazioni del mondo” e la stessa mafia ha colpi duri ma “nel codice genetico dei mafiosi c’è un imperativo, rigenerarsi”. Guai ad abbassare la guardia. Tanto più nei dintorni della cattiva politica. “Vincere la mafia si può”. L’onda dei cinquantamila con i volti delle vittime di Claudia Brunetto La Repubblica, 22 marzo 2025 Il vento della memoria ha soffiato forte ieri a Trapani. È arrivato dal mare per camminare sulle gambe di cinquantamila persone che hanno sfilato in corteo per ricordare le vittime innocenti delle mafie. I nomi sono stati scanditi uno dopo l’altro. In tutto 1.101. Magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici, morti per mano delle mafie. I loro familiari, in arrivo da tutta Italia, hanno risposto all’appello dell’associazione Libera nella trentesima “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, organizzata in collaborazione con Avviso pubblico. “Il vento della memoria semina giustizia - dice don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera. L’80% dei familiari delle vittime innocenti delle mafie non conosce la verità, eppure le verità passeggiano per le vie delle nostre città. Senza verità non si può costruire giustizia e la verità non può andare in prescrizione. Lanciamo un appello a chi sa, anche per quei corpi che non si sono mai trovati: diteci almeno dove sono sepolti”. Ad aprire il corteo una grande bandiera della pace, mentre in alto sventolavano quelle colorate di Libera. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha mandato un messaggio: “I nomi delle vittime di mafia sono parte della nostra memoria collettiva ed è nei loro confronti che si rinnova, anzitutto, l’impegno a combattere le mafie, superando rassegnazione e indifferenza, alleate dei violenti e sopraffattori. La mafia può essere vinta. Dipende da noi: tanti luminosi esempi ce lo confermano”. In testa, i parenti con le facce dei loro cari stampate sul petto. Graziella Accetta, mamma di Claudio Domino, ucciso a Palermo a soli 11 anni nel 1986, ha mostrato in un cartellone i volti dei bambini fatti fuori dalle mafie: 120. “Aspetto ancora la verità per mio figlio e non perdo la speranza - dice la mamma - mio figlio è sempre con me”. I nomi delle vittime hanno risuonato durante il percorso verso piazza Vittorio Emanuele, pronunciati anche dal palco da diverse personalità, fra cui gli ex procuratori antimafia Pietro Grasso e Cafiero De Raho. Migliaia gli studenti, dai piccoli delle scuole elementari alle superiori. “Ribellati”, è stata la loro parola d’ordine. “Siamo qui per ricordare chi ha perso la vita per mano della mafia, ma anche per affermare con forza che il problema della criminalità organizzata è tutt’altro che superato”, dice Martina Lembo Fazio, delegata antimafia dell’Unione degli studenti. Il lungomare di Trapani si è riempito di colori e di musica con decine e decine di striscioni. “L’Italia e le sue istituzioni si inchinano davanti al sacrificio di chi ha perso la vita per mano della criminalità organizzata - dice la premier Giorgia Meloni - Ribadiamo la nostra condanna a ogni tipo di mafia e ci impegniamo, ogni giorno, a combatterla”. “Le istituzioni devono fare muro, devono essere capaci di proteggersi e di proteggere i propri cittadini”, dice la presidente della commissione nazionale Antimafia, Chiara Colosimo. A leggere dal palco alcuni nomi delle vittime anche la segretaria del Pd Elly Schlein. “Il contrasto alle mafie deve partire dalle scuole e dalla cultura. Serve rafforzare gli strumenti di prevenzione, altro che mettere la tagliola sulle intercettazioni a 45 giorni, questo rischia di rendere più difficili le indagini su reati anche gravi. Lo Stato deve arrivare prima della mafia, non deve lasciare un centimetro in cui si infili il ricatto della mafia”. Anche il tema del lavoro al centro della manifestazione. “La mafia uccide il lavoro e uccide i diritti - ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - Per contrastarla bisogna affermare il diritto al lavoro delle persone e la loro libertà. Le persone non sono libere se sono precarie, se non arrivano alla fine del mese, se muoiono sul lavoro”. Sipario con il grazie di don Ciotti al presidente Mattarella: “Ci ricorda ogni giorno cosa è la nostra Costituzione, il primo grande testo antimafia. Ma bisogna viverla, non rimanere sulla carta”. Foggia. Suicidi in carcere, De Santis chiede l’istituzione del Garante comunale dei detenuti statoquotidiano.it, 22 marzo 2025 L’assessore alla Legalità e Sicurezza del Comune di Foggia, Giulio De Santis, ha espresso il suo profondo dispiacere e forte preoccupazione per l’ennesima tragedia avvenuta all’interno del carcere di Foggia, dove si è registrato un nuovo suicidio tra i detenuti. “La notizia di un nuovo suicidio non deve distogliere l’attenzione dalle condizioni critiche dell’istituto penitenziario. Anche se questo episodio non sembra direttamente legato al sovraffollamento della struttura, il problema del sovraffollamento e della carenza di personale di sorveglianza rimane una questione strutturale che il sistema carcerario non ha ancora risolto. Il carcere di Foggia è un esempio emblematico di queste difficoltà. È urgente un intervento concreto per ridurre il sovraffollamento, e per questo motivo abbiamo richiesto un incontro con il Provveditorato Penitenziario di Puglia e Basilicata”, ha dichiarato De Santis. L’assessore ha poi sottolineato come l’amministrazione comunale, oltre a sollecitare un intervento da parte del Governo centrale, ha compiuto un passo storico con l’inserimento nel Documento Unico di Programmazione della creazione del Garante Comunale dei detenuti. “Su mia proposta, il DUP prevede la creazione di questa figura che avrà il compito di monitorare e tutelare i diritti delle persone detenute. Il Garante si affiancherà a quello regionale e avrà una propria dotazione finanziaria per garantirne il funzionamento. La nomina non sarà un atto unilaterale, ma sarà decisa dal Consiglio Comunale, a garanzia di indipendenza, autorevolezza e rappresentatività”, ha precisato De Santis. “In un momento così delicato, respingiamo con forza ogni tentativo di strumentalizzazione politica della tragedia. Gli atti di sciacallaggio politico e le speculazioni su una morte per fini politici sono inaccettabili e qualificano chi li attua. La nostra amministrazione è impegnata in azioni concrete per affrontare i problemi senza farsi distrarre da sterili polemiche”, ha concluso l’assessore. Salerno. “Giustizia per Renato”, protesta davanti al carcere e si associano anche i detenuti rtalive.it, 22 marzo 2025 Era in carcere nonostante avesse subito due ictus. Protesta all’esterno de carcere da parte degli amici di Renato Castagno, il 37enne morto nella casa circondariale di Salerno, dove era detenuto. Alle persone con le magliette con la foto del detenuto salernitano si sono associati anche chi era nelle celle, battendo alle inferriate delle celle. Affisso uno striscione: “Giustizia per Renato!”, nel quale si chiede che emerga la verità sulla morte di Castagno. “Presenteremo subito dopo l’autopsia una denuncia alla procura della repubblica affinché accerti eventuali responsabilità del sistema carcerario nella morte di Renato Castagno”, ha affermato il legale Bianca De Concilio. L’avvocato annuncia il ricorso alla magistratura per fare luce sul decesso del detenuto Renato Castagno, morto a 37 anni dopo un malore, non si sa ancora causato da cosa. “Al momento sappiamo solo quanto hanno riferito gli altri detenuti che erano con lui in carcere a Fuorni - racconta l’avvocato De Concilio -. I compagni di cella di Castagno riferiscono che il mio assistito ha accusato un forte dolere al petto ed è sceso nell’infermeria del carcere, accompagnato da un altro detenuto. Dopo poco è svenuto e chi lo accompagnava è stato fatto tornare in cella. In quei frangenti è stato avverto il 118”. Secondo l’avvocato: “L’ambulanza sarebbe arrivata in ritardo, sappiamo che sarebbero trascorsi oltre 45 minuti dalla chiamata. L’autopsia dovrà appurare se Castagno sia deceduto mentre era ancora in carcere in attesa del mezzo di soccorso oppure sia morto durante il trasferimento al Ruggi. Di sicuro sappiamo che all’arrivo al pronto soccorso, Castagno era già morto”. Un particolare che non combacia con la dichiarazione dei sanitari. Il 37enne detenuto salernitano era stato condannato a sei anni e due mesi di reclusione quale partecipe di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti, nella zona di via Irno e in quella orientale della città. Castagno fu arresto nel blitz del settembre 2021. Poco mesi dopo il suo arresto, era stato posto ai domiciliari in considerazione delle sue condizioni di salute, avendo subito due ictus. Fino a settembre del 2024, quando la sentenza di condanna è diventata definitiva. In quel momento, aveva scontato già circa tre anni di condanna e non rimaneva molto da espiare, viste le riduzioni per la buona condotta. “Nonostante il suo stato di salute e le continue lamentele per improvvisi dolori di testa oltre che per i continui sbalzi pressori, il personale sanitario della struttura carceraria di Salerno non ha ritenuto opportuno trasferirlo al reparto detenuti del Ruggi”. Il legale sottolinea: “All’esterno delle mura carcerarie, il mio assistito seguiva una terapia farmacologica molto specifica per evitare gli sbalzi di pressione arteriosa e gli improvvisi attacchi di cefalea, terapia farmacologica che non veniva somministrata nello stesso modo all’interno del carcere di Fuorni”. L’avvocato De Concilio rimarca: “Castagno non aveva mai avuto una condanna prima dell’episodio che lo ha portato in carcere né aveva carichi pendenti, nonostante questo e la pena ormai per la maggior parte scontata era ancora rinchiuso in un penitenziario. Dal 13 febbraio, il magistrato di sorveglianza non aveva ancora provveduto su un’istanza corredata di certificati medici presentata dalla difesa sulla compatibilità di Castagno con il regime carcerario, nella quale avevamo chiesto anche la nomina di un perito del giudice per accertare le condizioni di salute del detenuto”. Ora si attende l’autopsia per appurare per l’ora e le cause del decesso ed eventuali responsabilità. Il procedimento è al momento contro ignoti. Reggio Calabria. La sanità penitenziaria è un problema, confronto tra le istituzioni reggiotoday.it, 22 marzo 2025 Si è riunito il tavolo fra le istituzioni interessate voluto dal garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria, Giovanna Russo: “Primo passo per un’azione permanente”. Erano presenti oltre alla Garante, per la Regione Calabria: Antonio Loprete Morabito commissario straordinario Vibo Valentia e membro regionale task force sanità penitenziaria; la dottoressa Bernardi dirigente di settore Dipartimento tutela della salute Regione Calabria in rappresentanza della dirigente generale Iole Fantozzi; il commissario Asp di Reggio Calabria Gianluigi Scaffidi, il direttore del 118 Domenico Minniti; il direttore facente funzioni dell’istituto “Panzera” di Reggio Calabria Patrizia Delfino; il coordinatore sanitario Luciano Lucania e la comandante dell’istituto penitenziario di Reggio Calabria, plesso Arghillà, Maria Luisa Alessi. Ha introdotto i lavori ed il confronto la garante Russo, condividendo con tutti i presenti l’importanza della sinergia e del confronto istituzionale, necessario al fine di trovare delle misure risolutive agli annosi problemi che investono la sanità penitenziaria. Ha detto la garante: “qui non si tratta di attaccare nessuno, ma analizzate le criticità di procedere secondo un indirizzo fattibile e condiviso che raggiunga il risultato principale: garantire e tutelare il diritto alla salute delle persone detenute”. Ed è lungimirante il garante Russo quando prospetta che una prima concreta azione da compiere deve ricadere sull’individuazione del personale medico specialistico, sulla stabilizzazione dei precari e la necessità che ci sia, in particolare per il plesso di Arghillà, un dirigente sanitario con funzioni di indirizzo e coordinamento. Una struttura che funziona equivale a raggiungere il risultato sperato: il benessere delle persone detenute. Gli interventi successivi di Patrizia Delfino e della comandante Alessi hanno contribuito a rafforzare il messaggio di sinergie necessario quando si parla di tutela della salute delle persone detenute. Entrambe hanno rappresentato non solo la volontà di fornire il loro apporto professionale, ma consentito ai presenti di fotografare le carenze che nel quotidiano vivono le persone detenute ad a cascata l’amministrazione tutta. Patrizia Delfino ha ribadito le problematiche più importanti su cui lavorare richiamando una nota del 7 marzo scorso inviata dal direttore Tessitore agli uffici competenti. Per l’Asp di Reggio Calabria è intervenuto il commissario Scaffidi il quale ha fornito una panoramica circa le difficoltà del sistema sanitario reggino, e nello specifico la problematica nel reperire personale medico che scelga di operare e prestare il proprio servizio all’interno degli istituti penitenziari, nonché le connesse disfunzioni circa le risorse economiche. In tal senso si è pensato a delle iniziative di sensibilizzazione, attraverso i rispettivi ordini professionali, dei professionisti della sanità in generale verso la realtà penitenziaria. La dottoressa Bernardi ha chiarito la linea dettata dalla Regione sulla sanità più volte rappresentata anche dal suo commissario ad acta Roberto Occhiuto. La sanità calabrese può e deve dare risposte ai calabresi tutti. Ha chiesto che vengano forniti i dati circa le visite specialistiche al fine di inserire anche gli istituti penitenziari nel sistema di recupero delle liste di attesa. Antonio Loprete Morabito nel riprendere le criticità del sistema sanitario calabrese e perciò anche reggino ha evidenziato il lavoro messo in campo dalla task force regionale che sta tracciando delle linee guida di indirizzo unico per tutte le aree della sanità penitenziaria calabrese. “Tutelare i diritti delle persone private della libertà personale ha affermato Antonio Loprete Morabito, lo dico da medico impegnato in prima linea, significa spendersi con competenza ed umanità dando risposte che siano fatti concreti e tangibili per i detenuti in primis”. Luciano Lucania ha fornito atti e documenti circa la disponibilità a reperire personale medico qualificato e si è soffermato sulla prosecuzione dei lavori afferenti l’installazione di un gabinetto radiologico che consentirebbe di eseguire gli esami direttamente in loco evitando il trasferimento dei detenuti e le conseguenti lungaggini burocratiche cui spesso si assiste. “Un passo importante che fornisce un segnale di chiara attenzione verso i detenuti” ha dichiarato Lucania. Si è ridiscusso anche del problema degli specialisti e la possibilità di individuare la figura di un coordinatore per il plesso di Arghillà. Lo aveva preannunciato la Garante che si sarebbe da subito attivata per un tavolo permanente per la salute in carcere. “Tutti i professionisti coinvolti, a qualsiasi titolo, nella gestione dei detenuti - ha concluso la garante - hanno dialogato senza se e senza ma, dimostrando grande disponibilità e costruendo in tal modo un approccio multidisciplinare/inter-istituzionale estremamente efficace che tiene in considerazione anche l’interazione tra individuo e ambiente con l’obiettivo di contemperare finalità di cura e controllo in un equilibrato bilanciamento in cui la condizione di malato non venga interamente assorbita da quella di detenuto. Si attendono adesso per il prossimo incontro i primi riscontri circa le proposte avanzate”. Roma. “Evadere” con i libri, il boom dei detenuti iscritti all’università di Chiara Adinolfi Il Messaggero, 22 marzo 2025 Studiare per costruirsi un futuro migliore fuori dal carcere, studiare per respirare un po’ di libertà attraverso i libri. Sono sempre di più i detenuti che scelgono di iscriversi ad un corso di laurea mentre stanno scontando la loro pena o sono in attesa di giudizio. A Roma sono tre le università pubbliche che offrono la possibilità di sostenere esami dentro gli istituti penitenziari, e tutti registrano una tendenza positiva delle iscrizioni. La Sapienza ha avviato il suo progetto nel 2019, quando gli studenti reclusi erano appena 12. Oggi sono diventati 71. Numeri in crescita anche per Tor Vergata, prima ad attivare i percorsi nel 2006, passata dai 41 iscritti del 2019 ai 74 del 2024. Infine, Roma Tre, l’ateneo con il numero più alto di iscritti (e terzo a livello nazionale dopo la Statale di Milano e l’Università di Torino) conta 101 studenti in carcere di cui circa dieci sono donne (erano 24 in totale nel 2016). In totale, quindi, dal 2019 ad oggi il numero di universitari reclusi è quasi raddoppiato, passando dai 128 del 2019 ai 246 attuali. Uno degli ultimi immatricolati è l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è iscritto al corso di laurea triennale in Scienze della Comunicazione di Tor Vergata. “Lo studio in carcere cambia davvero le persone, e i numeri parlano chiaro: se la recidiva media è del 68% - spiega Marina Formica, responsabile del progetto Università in carcere di Tor Vergata- nel caso di chi studia o lavora si abbassa al 2%. Questo deve farci riflettere sul valore che ha lo studio per chi è detenuto”. Le difficoltà - Ma studiare in carcere resta l’ennesima sfida, per i detenuti che già lottano con le difficili condizioni carcerarie. A Rebibbia, il principale istituto penitenziario di Roma, non esistono sezioni universitarie (che comunque restano una rarità anche a livello nazionale). Si tratta di zone degli istituti penitenziari in cui chi è iscritto all’università può avere accesso a spazi di studio e una connessione internet. Ovviamente i detenuti non possono seguire le lezioni (quindi sono tutti studenti non frequentanti) ma esiste un’attività didattica dedicata, in presenza o a distanza, svolta con l’aiuto di tutor e docenti. Anche esami e sedute di laurea si svolgono dentro il carcere, seguendo procedure particolari che prevedono sempre la presenza di una terza persona oltre al detenuto e al docente (in pochi casi sono stati attivati anche gli esami a distanza). Mentre tutte le comunicazioni esterne tra lo studente e l’ateneo sono mediate dall’istituto penitenziario: dai libri alla documentazione, ogni aspetto è gestito con la supervisione del personale del carcere. “Il progetto di aprire una sezione universitaria nella casa di reclusione di Rebibbia è ancora fermo da quattro anni, ad oggi c’è solo un’aula studio”, spiega Giancarlo Monina, docente di storia contemporanea di Roma Tre e Presidente del Cnupp (la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari). I corsi più scelti dai detenuti sono Giurisprudenza, Filosofia, e poi Lettere, Scienze della Comunicazione, Scienze Politiche ed Economia. Più difficile, per i detenuti, seguire corsi che prevedono attività laboratoriali. Anche se Tor Vergata registra un iscritto in Scienze Motorie e Sapienza ha uno studente di matematica. Il profilo - Ad iscriversi sono soprattutto uomini italiani, perché per potersi laureare è necessario avere un diploma e molto spesso i detenuti stranieri non hanno la certificazione di equipollenza. Si tratta, quindi, soprattutto di detenuti con pene medio-lunghe. “Difficilmente un detenuto che ha da scontare due anni sceglie di frequentare un corso di laurea - spiega Pasquale Bronzo, docente di diritto penitenziario e delegato della Sapienza del polo penitenziario - sulla tipologia di pena, invece, non ci sono differenze: si va da chi ha commesso omicidi a chi è coinvolto in reati minori. Ma per tutti studiare è importantissimo”. E a dimostrarlo sono anche i dati. Chi riesce a laurearsi difficilmente torna a commettere reati. “Ma al di là di chi si laurea, la sola presenza dell’università in carcere è un presidio che attenua conflitti e crea un clima di maggiore serenità”, aggiunge Monina. Tra le storie più toccanti che ricorda, quella di un ragazzo ucraino che, terminati gli studi in filosofia, si è laureato e oggi è diventato un mediatore culturale. Palermo. Piazzale Ucciardone intitolato a Marco Pannella, un omaggio al leader radicale di Eleonora Tiribocchi Il Riformista, 22 marzo 2025 Palermo rende omaggio a Marco Pannella. Allo storico leader dei Radicali verrà dedicato il giardino antistante al carcere Ucciardone. Il riconoscimento formale è atteso per venerdì 28 marzo. Non si tratta di un semplice rito simbolico e di facciata, ma di un gesto concreto per tenere viva la memoria delle sue battaglie a favore dei diritti civili e della giustizia giusta. All’intitolazione seguirà anche la collocazione di una targa commemorativa. Il sindaco Roberto Lagalla ha osservato che la lezione di Pannella è ancora attuale: “È stato un paladino libertario dei diritti e della dignità della persona, anche in un’epoca in cui affrontare questi temi non era né facile né consueto. Questa iniziativa ha radici lontane e ha iniziato a prendere forma già nella precedente consiliatura. Oggi la raccogliamo e la rilanciamo con grande soddisfazione, anche in relazione all’impegno di Marco Pannella e del Partito radicale di quel periodo, un impegno che ha sempre avuto al centro la libertà in tutte le sue dimensioni”. La dedica porta anche a riflettere sulla necessità di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, “così come si sta impegnando a fare il Tribunale di sorveglianza della nostra città, per promuovere un’intesa istituzionale che possa favorire la fruizione di alcuni diritti ma soprattutto migliorare le condizioni dei detenuti”. “L’Ucciardone è una delle primissime carceri che Pannella visitò da giovane deputato ed è stata una delle ultime che ha visitato nella Pasquetta del 2010, accompagnato da Rita Bernardini e Matteo Angeli. Il Partito radicale si è speso tantissimo per quel carcere e di interrogazioni parlamentari ne sono state prodotte tantissime, ma non hanno mai avuto grandi risposte da nessuna forza politica”, ha commentato Donatella Corleo, consigliera generale del Partito radicale. Milano. Un detenuto: “Non c’è il tasto rewind, ma una pagina nuova può essere scritta” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 22 marzo 2025 Una inedita Festa del papà si è tenuta il 19 marzo a San Vittore. Massimo Cirri, storico conduttore della trasmissione radiofonica “Caterpillar”, dall’aula bunker del carcere, e Sara Zambotti, dai microfoni dello studio di Rai Radio2 di via Sempione, hanno trasmesso la puntata per l’occasione intitolata “Un po’ dentro e un po’ fuori. Un po’ padri e un po’ figli”. Chiamati a raccontare le mille difficoltà del rapporto tra padri e figli, già di per sé complesso e faticoso, i detenuti, con il loro bagaglio di assenze ed errori, cadute e ripartenze. Non solo loro, però, perché in studio Zambotti ha ospitato un rappresentante degli agenti di Polizia penitenziaria, Luciano Esposito, il magistrato, Francesco Cajani, pubblico ministero a Milano, lo psicoterapeuta Angelo Juri Aparo, fondatore del Gruppo Trasgressione attivo in tutte le carceri milanesi, Giuseppe Galli, figlio del giudice Guido Galli, ucciso il 19 marzo 1980, e Luigi Ferraiuolo, giornalista, che ha ricordato l’uccisione di don Peppe Diana, ucciso il 19 marzo 1994. A fare gli onori di casa per l’amministrazione della giustizia, Maria Milano, provveditrice regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia. “Un tema trasversale e importantissimo” ha commentato la provveditrice “perché gli effetti della pena non devono ricadere sui figli. E su questo - ha proseguito - l’amministrazione penitenziaria ha sempre agevolato percorsi di paternità, perché il tempo della detenzione non sia un tempo inutile, ma di riflessione e approfondimento e forse, delle volte, buono per riallacciare rapporti che si erano recisi con l’entrata in carcere”. Cirri, che lavora anche come psicologo nel servizio pubblico di salute mentale, a tutti gli intervenuti ha chiesto il nome del papà, un racconto del percorso che stanno intraprendendo, un ricordo del loro esser figli o della loro paternità. Il Pm Cajani, figlio di Franco, racconta di un progetto “rivolto ai giovani adulti del carcere di San Vittore, nato tre anni fa grazie al precedente direttore dell’istituto, Giacinto Siciliano. Dieci settimane, un giovedì a settimana, dentro al reparto” assieme ad Aparo, fondatore del Gruppo Trasgressione, convocando anche gli scout e i giovani di Libera. Cajani dice di essersi accorto che “ad ogni seduta i ragazzi arrivano con meno psicofarmaci della volta precedente e iniziano a scavare alla ricerca delle loro radici”, dei talenti che - come dice Aparo - avevano sotterrato. Ma non solo di giovani adulti si parla, perché a San Vittore ci sono tanti padri e qualcuno durante questa serata si è raccontato. Antonio Tango, figlio di Michele, parlando dell’ultima carcerazione - “perché ne ho fatte tante altre” - racconta di suo figlio di 16 mesi e del senso di colpa che in quel momento lo stava distruggendo. Poi però Antonio incontra “la sua fortuna”, lo psicoterapeuta Aparo e il suo Gruppo, e il faticoso cammino di comprensione del dentro e del fuori inizia. Oggi suo figlio ha 18 anni e il loro rapporto (“non mi sembra neanche vero”) è perfetto: “mi vede come un’autorità credibile e lui, che aveva tutte le premesse per seguire la mia strada, è al quarto anno di liceo artistico, gioca a pallone, è un cittadino a tutti gli effetti”. Fanno da contrappunto ai racconti di dentro quelli che arrivano dallo studio Rai di via Sempione. Andrea Spinelli, il disegnatore di questa serata, ha raccontato di aver rubato dall’arte del padre, Bruno, pasticcere, quello che poi gli sarebbe servito nella sua professione. Luciano Esposito, agente di Polizia penitenziaria, figlio di Vincenzo, che ha abbracciato il suo lavoro per vocazione: “mio cognato, agente, me ne parlava, io a mia volta entrato in Polizia penitenziaria ne ho parlato a mio figlio che è diventato un collega”. Ma soprattutto parla dell’umanità che si respira in carcere, “un posto pieno di emozioni, dove si vede l’essere umano in tutto le sue facce” e nota con dolore come negli ultimi anni sia aumentato il numero di giovani rispetto a prima. “Quando io sono arrivato, a 18 anni, sembravo il più piccolo dell’istituto, adesso mi rendo conto che c’è troppa presenza di giovani detenuti e questa è una tristezza, perché i giovani sono il nostro futuro”. Ci sono anche tre giovani fra le persone che affollano l’aula bunker, che sono figli e con i loro padri, quando ci sono, hanno dovuto imparare a costruire un rapporto. Dallo studio interviene Giuseppe Galli, figlio del giudice Guido che il 19 marzo 1980 fu assassinato a Milano alla Statale, dove stava per tenere lezione come docente di criminologia, e che “quando viaggiava trovava sempre il tempo - ricorda Giuseppe - per mandare una cartolina ‘un bacino, papà’“. Ognuno ha portato il proprio fardello di dolore e spaesamento, ma sono arrivate anche storie di ripartenze, faticose sì, tutte in salita, ma ora che il sentiero si é fatto meno impervio, un ex detenuto analizzando la sua storia ha detto: “Non c’é purtroppo il tasto rewind, che torna indietro e puoi rivedere il film oppure cambiare la scena, quel che é fatto é fatto, però non é detto che non si possa scrivere una pagina nuova”. Tanto da dire, ancor più da immaginare. Due ore sembrano tante ma sono in verità un tempo troppo breve, eppure si percepisce un vento nuovo, fatto di ascolto e propositi; di chi ha voglia di esporsi, di capire fino in fondo gli errori commessi; di chi è disposto ad accettare la fatica pur di ricostruire il rapporto con la propria figlia - “che si é sempre vergognata” di lui - perché “la vergogna può essere superata con la fiducia che si costruisce col tempo e con le azioni positive”. Milano. Cirri: “La comunicazione cambia le persone e diminuisce la recidiva” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 22 marzo 2025 Emozione. Se volessimo riassumere con un solo sostantivo le due ore di trasmissione, sarebbe il termine corretto. “Ci siamo emozionati anche noi” conferma Massimo Cirri che ha condotto dall’aula bunker della casa circondariale di San Vittore la puntata di Caterpillar del 19 marzo 2025 assieme a Sara Zambotti ai microfoni di via Sempione. “Eppure siamo milanesi quindi gente cinica” e per chi lo conosce e lo segue in radio da quasi oramai 30 il tono dissacrante non stupisce; è questo l’approccio, che sembra allontani ma in realtà forse vuole governare proprio l’emozione. Lo intercettiamo poco prima di andare in onda su Radio2 e cerchiamo di strappare allo psicologo che esercita nel servizio pubblico di salute mentale, sensazioni, pensieri laterali. Cercare di capire se anche lui abbia percepito le stesse sensazioni di chi ha seguito la trasmissione. I detenuti chiamati a intervenire durante la trasmissione nel giorno della festa del papà hanno raccontato il loro rapporto padre-figlio, e abbiamo ascoltato “persone che si sono messe in discussione, in movimento” ha riconosciuto Cirri, che ha considerato “l’esercizio di comunicazione” messo in campo con questo incontro “non un semplice atto di buonismo ma un investimento sul futuro. Può cambiare qualcosa per le persone e diminuisce la recidiva”. In conclusione di una brevissima chiacchierata gli abbiamo chiesto un pensiero sull’agente di Polizia penitenziaria, Luciano Esposito, che per evitare di portarsi il lavoro a casa “ha portato la sua famiglia al lavoro”, Cirri ha confermato la nostra sensazione: “Bravissimo, senza retorica né supponenza. Mantenendo precisamente il suo ruolo e allo stesso tempo incrociando questa offerta di disponibilità con le vite piene di interrogativi delle persone detenute. Un vero campione di saggezza”. Lo salutiamo e all’ultimo ci dice “Ugo, mio padre si chiamava Ugo e oggi avrebbe avuto 101 anni”. Palermo. “Spazio Acrobazie”, progetto di attività carcerarie di Fabrizio Rostelli Il Manifesto, 22 marzo 2025 I ficus secolari sono ancora lì a scandire il tempo, o forse ad ignorarlo. Un gatto nero annoiato si stiracchia all’ingresso della lavanderia e poi scappa spaventato dal rumore dei carrelli. Attraversiamo il cortile interno passando accanto alle sezioni V (dove oggi si trova il polo didattico) e VI e arriviamo nell’area verde del carcere, una zona fino a poco tempo fa abbandonata. Il vociare aumenta dietro i finestroni con le sbarre e il giardino inizia a popolarsi di detenuti, tra abbracci e sigarette accese. La mattinata sarà un momento di condivisione e l’occasione per presentare le opere realizzate dai detenuti di Spazio Acrobazie, il laboratorio produttivo e di riqualificazione attraverso la mediazione artistica. Torno all’Ucciardone dopo quasi 5 anni e il progetto si è ramificato ed esteso anche materialmente, all’esterno nella città. Partita nel 2019 da un laboratorio di arte contemporanea, curato dall’artista Loredana Longo all’interno dell’istituto penitenziario palermitano, la sperimentazione negli anni ha trovato nuovi spazi, nuove connessioni e anche nuovi protagonisti. Il programma prevede: lezioni di arte contemporanea in carcere, laboratori settimanali con artisti e figure del mondo dell’arte, della giustizia e del sociale, visite guidate nei luoghi culturali, mostre e rassegne di cinema in carcere, incontri sul diritto attraverso le arti visive. Spazio Acrobazie - “Spazio Acrobazie raccoglie l’eredità dell’Arte della Libertà, che era un progetto destinato all’Ucciardone e che coinvolgeva circa 15 detenuti e una piccola rete di partner - mi spiega Elisa Fulco (ass. Acrobazie), ideatrice e co-curatrice del progetto insieme ad Antonio Leone (ass. Ruber.Contemporanea) - e si pone l’obiettivo di generare cambiamento sociale riqualificando spazi e relazioni attraverso l’arte contemporanea. Abbiamo sviluppato ulteriormente la formula del workshop con l’artista e oggi lavoriamo su tre target differenti: l’Ucciardone con i detenuti con pena definitiva, il carcere minorile Malaspina e l’esecuzione penale esterna. I destinatari del progetto non sono solo le persone detenute ma il gruppo misto che collabora durante i workshop, io le chiamo le famiglie organizzative. La nostra idea è che attraverso la pratica artistica si possano aggregare istituzioni e persone differenti. Siamo riusciti a far sedere al tavolo dell’arte la sanità, il mondo della ricerca, il Terzo settore, l’accademia, la rete dei musei, il carcere, con l’idea di generare, attraverso questi percorsi artistici orizzontali, un nuovo modo di co-progettare mettendo insieme bisogni e desideri. La pratica artistica funziona perché non ha un approccio giudicante e non c’è nessuna vocazione terapeutica. Le persone sono invitate a progettare e a fare arte insieme con obiettivi che cambiano di volta in volta in base al progetto”. Arte in carcere - L’installazione luminosa “Volare per una farfalla non è una scelta” di L. Longo è la prima opera d’arte ad essere entrata in carcere nel 2021 ed ora si trova nella sala colloqui interna. “Out of Stock” è invece il nome del murale realizzato nel 2023 sul muro che circonda l’area verde dall’artista Paolo Gonzato, in collaborazione con il gruppo composto da persone detenute, operatori socio-sanitari, operatori culturali e docenti universitari. Sullo sfondo figure geometriche colorate, nel giardino invece uno scivolo, dei giochi per bambini, due sgabelli con dei nani e inaspettatamente due container in ferro, trasformati in moduli abitabili. “Guardati intorno - mi dice Alla con un accento nordafricano - ti dimentichi di stare in carcere. Abbiamo acceso una candela in una casa buia e l’abbiamo illuminata”. Alla è uno dei 30 detenuti della Casa di Reclusione Calogero Di Bona - Ucciardone che ha partecipato per circa due anni ai laboratori di Spazio Acrobazie. Il percorso di co-progettazione ha portato alla riqualificazione dell’area verde e alla realizzazione, grazie all’intervento dell’artista Flavio Favelli, di due container che saranno utilizzati per i colloqui tra detenuti e familiari. “Ci troviamo in un container, come quelli che vedete nei porti - continua Alla - abbiamo trasformato un oggetto apparentemente insignificante in un luogo di abbracci, di bellezza, di creatività, di arte. Questa luce abbraccia i detenuti, i loro familiari e gli operatori, è una cosa meravigliosa. Durante il biennio abbiamo realizzato diverse opere d’arte: il container, il murale, i collage e alcune di queste sono arrivate all’esterno del carcere. Raggiungere l’esterno da un posto così doloroso è una grande soddisfazione. Inoltre, con dei docenti universitari, affrontiamo temi di grande attualità che qui dentro sembrano temi intoccabili; c’è uno scambio di opinioni ed è straordinario. Si è creato un gruppo molto forte, non vediamo l’ora di incontrarci”. Seguendo questa prospettiva, la mostra dell’artista Marzia Migliora dal titolo Minuto Mantenimento, che si terrà dal 21 marzo al 25 maggio a Palazzo Abatellis a Palermo, rappresenta un ponte tra la popolazione carceraria e la comunità esterna. L’esposizione presenta per la prima volta un ciclo di opere inedite, frutto degli incontri e dello scambio con il gruppo dell’esecuzione penale esterna: 30 disegni di progetto raccolti nel Quaderno 58, Minuto Mantenimento. L’artista ha raccolto e tradotto le parole e le immagini emerse durante i workshop. L’installazione Minuto Mantenimento racconta della funzione sociale del lavoro come fattore comune tra persone provenienti da storie di vita differenti, in cui il carcere, la pena scontata nei servizi sociali, lasciano il posto al recupero dei sogni di quando si era bambini. Voci dal container - Se da fuori i container potrebbero apparire come due corpi estranei in quel contesto, entrando ci si trova di fronte a due stanze ben arredate e luminose. Favelli mi racconta com’è nata l’idea: “A me è stato chiesto di rinnovare questo giardino, che era un po’ trascurato, perché il direttore pensava si potesse usare per i colloqui con i familiari dei detenuti. Visto che non si poteva costruire nulla, ho pensato che la cosa più semplice poteva essere portare qui un container. Ne abbiamo presi due. Il container è un oggetto che dà precarietà, si usano per le grandi emergenze, e anche qui siamo in emergenza in un certo senso. Abbiamo aperto delle asole con un fabbro e aprire dei grandi buchi in un oggetto che è sempre chiuso è già un’operazione che dà una visione differente. Li ho dipinti insieme ai detenuti con questo motivo bianco e nero che genera un effetto ottico. Poi c’era l’esigenza di stare un po’ comodi, quindi abbiamo messo delle finestre e realizzato degli arredi. All’interno sono stati appesi dei disegni e dei collage fatti da loro a partire dalle illustrazioni della storica rivista Sicilia. Ora è diventato un posto abbastanza confortevole e il progetto ha dato l’energia per rivitalizzare anche il giardino”. Salvatore e Michele mi spiegano il valore del progetto nella quotidianità di chi vive il carcere: “Quando facciamo i colloqui di persona l’intimità è un po’ limitata, magari si ritrovano 6, 7 famiglie nella stessa stanza e non bisogna disturbarsi a vicenda. Questi container invece danno una parvenza di libertà perché ci permettono di parlare serenamente con i nostri familiari, mentre i nostri figli giocano nel giardino. È un progetto futuristico”. “Era un po’ di tempo che non incontravo i detenuti e ho visto dei grandi sorrisi spontanei - continua Favelli - questo mi sembra l’aspetto più importante. La questione delle carceri in Italia non è semplice, in questo caso mi ha stupito la tranquillità e il clima di collaborazione che ho trovato, non ci sono state mai frizioni. I curatori conoscevano il mio lavoro ma è stato un percorso artistico libero, non c’era una meta. Quando si invita un artista i progetti devono essere liberi, poi accade quello che accade. La spontaneità e l’eccezionalità credo siano due grandi virtù, anche perché in un ambiente di costrizione come questo non possiamo essere noi a porre degli obiettivi”. Nessuno di salva da solo - Ciò che mi aveva sorpreso della sperimentazione dell’Arte della Libertà erano stati i legami interpersonali che si erano instaurati tra i partecipanti e l’umanità che attraversava l’intero gruppo. Tutti elementi che continuano a caratterizzare il progetto e che si percepiscono anche dalla gestualità e dagli sguardi che accompagnano la giornata. “Durante gli incontri si crea una sorta di sospensione dei ruoli che ci permette di lavorare sul senso di comunità” mi avevano raccontato i protagonisti qualche anno fa. Anche la prassi di uscire dal carcere per visitare musei e mostre si è rafforzata in questi anni. Roberto mi confessa sorridendo: “Non ho mai avuto voglia di andare a scuola, qui ho scoperto tante cose nuove come l’arte, la pittura, l’architettura. Mi sono messo in gioco e ne sono fiero. Sono tra le persone che escono in permesso grazie al progetto, andiamo a visitare delle mostre anche con le nostre famiglie. Questo mi permette di ampliare la mia cultura ma soprattutto di dimostrare ai miei familiari che le persone possono cambiare”. “Non avrei mai creduto di conoscere degli artisti e di poter creare una struttura del genere ma ci siamo riusciti - mi racconta soddisfatto Maurizio - Come può aiutarci questo progetto per il futuro? Concretamente non lo so ancora ma ci ha liberato la mente”. Michele mi spiega che per lui “l’arte prima era un tabù ma ora penso che sia anche pazzia perché puoi esprimere con un oggetto o un disegno tutto ciò che ti rappresenta interiormente. Ciò che è importante è quanto metti di te stesso in quello che fai”. Secondo il direttore del carcere Fabio Prestopino: “Il valore aggiunto di Spazio Acrobazie è sicuramente quello di aprire la mente di chi vi ha partecipato e di chi fruirà di questo spazio. Quando i detenuti lavorano in gruppo riescono a superare ogni presunta differenza o qualsiasi astio. Progetti del genere devono essere poi accompagnati da percorsi di inserimento lavorativo. Speriamo che le aziende e il tessuto sociale rispondano anche su questo aspetto. La recidiva infatti non viene originata dal carcere ma dalle condizioni culturali, sociali ed economiche delle persone che in carcere vi finiscono. Ci vuole concretezza e questo vuol dire creare occasioni di formazione, lavorative e anche abitative”. Fulco sottolinea come “il fatto che i detenuti possano incontrare e confrontarsi su un piano umano e alla pari con assistenti sociali, o referenti dell’azienda sanitaria è un valore prezioso perché permette loro di acquisire informazioni e competenze che non hanno a che fare solo con l’arte ma con la capacità di stare nel mondo e di gestire quei rapporti quando si troveranno all’esterno. Chi è contaminato da Spazio Acrobazie è chiamato ad innovare le istituzioni, i servizi, l’accademia. È come stare dentro una complessità di saperi che ha bisogno di cambiamento, più che mai è valida la frase ‘nessuno si salva da solo’”. Il tempo a disposizione scorre inesorabile e Ramzi, all’inizio un po’ in disparte, mi chiede se può farmi ascoltare una canzone rap che ha scritto per il progetto. Si esibisce con una cadenza tunisino-palermitana circondato dal gruppo, poi mi mostra il suo quaderno con canzoni e disegni dedicati alla figlia, all’amore, alla libertà. “Sono solo dentro una cella, penso alla vita fuori che è troppo bella. Guardo la luna e vedo una stella, viaggio con la mente e un cuore sorridente, lacrime che escono come un colpo di corrente. Silenzio che non mente, libertà che non si vende…”. L’arte messa alla prova - Il giorno precedente (21 febbraio) si è tenuto a Palermo, presso il Palazzo Branciforte, una giornata studio dal titolo “L’arte come messa alla prova” che ha visto la partecipazione di istituzioni, docenti universitari, assistenti sociali, operatori sanitari, artisti e referenti del Terzo settore. “Abbiamo provato a riflettere sull’analogia - ha commentato Fulco - tra la possibilità di scontare la pena nei servizi sociali e l’arte, come mediazione, che esce dai suoi contenitori abituali come i musei, le gallerie, gli spazi d’artista, per inserirsi nel reale e nel sociale. È un nuovo modo di pensare la pena, non più come punizione ma come riconciliazione. L’obiettivo del progetto è tenere in tensione la cultura e il welfare”. All’evento è intervenuta anche Maria Concetta Di Natale, presidente della Fondazione Sicilia e partner di Spazio Acrobazie: “Questo è un progetto che entra nel carcere per dare un messaggio all’esterno. Dobbiamo pensare al futuro di queste persone e dargli un’opportunità perché probabilmente non ne hanno mai avuta una nella loro vita”. Secondo Stefano Consiglio, presidente di Fondazione Con Il Sud, altro partner del progetto: “Usiamo l’arte come strumento di ricostruzione di legami e di coesione sociale, è uno degli strumenti che troviamo sempre in qualunque processo di rigenerazione sociale che ha avuto successo”. La giornata si è conclusa con una proposta alla politica: la creazione di un tavolo intersettoriale permanente che sviluppi le buone pratiche a partire dall’esperienza e dalla rete costruita in questi anni dal progetto Spazio Acrobazie. Pallone rosanero - Tra i numerosi workshop realizzati con i detenuti tra il 2022 e il 2024, una menzione speciale se l’è aggiudicata il lavoro del duo artistico Genuardi/Ruta che ha ideato, insieme ai ragazzi dell’Istituto Penale per minorenni di Palermo Malaspina, la grafica del pallone di calcio adottato e distribuito dal Palermo Football Club. “Per noi è stata la prima esperienza all’interno di un istituto penale, è stata una sfida - mi hanno raccontato i giovani artisti palermitani - In questi contesti spesso è difficile immaginare una strada diversa da percorrere ma l’arte e la cultura riescono sempre a creare dei luoghi dell’abitare, anche in carcere. Il pallone è la prima idea che ci è venuta in mente incontrando i ragazzi perché ciò che li univa più di ogni altra cosa era la passione per il calcio. Abbiamo lavorato in gruppo coinvolgendo anche gli operatori e la polizia penitenziaria. Siamo partiti dai disegni realizzati dai detenuti per arrivare poi alla proposta che il Palermo calcio ha accettato, trasformandola nel pallone ufficiale”. Un appello al ministro - All’Ucciardone il tempo per le visite è scaduto e come sempre la linea di demarcazione è tra chi resta e chi può andare via. Mi trattengo qualche minuto a dialogare con Alla, a cui lo attendono altri 20 anni di carcere dopo i 10 già scontati. Pensieri e parole che volano molto più in alto delle mura di cinta del carcere. “La mia è una storia particolare - mi racconta - non voglio entrare nei dettagli, ho cercato sempre di vivere il carcere come un’opportunità, forse sono l’unico pazzo al mondo che ha questa idea. Ho fatto tanti progetti in carcere ma questo mi ha sorpreso per la sua versatilità; è un progetto largo ed inclusivo che mette insieme l’arte e la cultura. Tramite questo percorso siamo alla scoperta di noi stessi e vogliamo dare un segnale di partecipazione anche al di fuori di qui. Oggi l’arte contemporanea è diventata uno strumento di lotta e io credo nella cultura come il più grande strumento di inclusività e legalità. Il mio suggerimento è che il Ministro della Giustizia prenda questo progetto come modello da portare in tutte le carceri italiane. Dovrebbero studiarlo, vedere gli aspetti positivi e le criticità e utilizzarlo come esempio. Come dice qualcuno: la cultura ci salverà”. Un disegno di legge per depotenziare ancora di più il Parlamento di Vitalba Azzollini* Il Domani, 22 marzo 2025 L’eccessivo ricorso a decreti d’urgenza esautora il ruolo delle camere. E sarà anche peggio con il ddl presentato da Fratelli d’Italia vuole portare a 90 giorni il termine di approvazione dei decreti legge. Ciò rischia di amplificarne l’abuso e di depotenziare il ruolo dell’aula. Da anni il ruolo normativo del governo si espande a discapito del parlamento, soprattutto a causa dell’eccessivo utilizzo dei decreti legge. Nonostante, in base all’art. 77 della Costituzione, vi si possa ricorrere solo “in casi straordinari di necessità e di urgenza”, essi sono ormai diventati lo strumento prevalente e ordinario attraverso cui l’esecutivo esercita l’iniziativa legislativa. Ciò determina in alcuni momenti ingorghi normativi, che rendono difficile il rispetto dei 60 giorni previsti per la conversione da parte delle Camere. Per questo motivo, un disegno di legge costituzionale presentato da Fratelli d’Italia, a prima firma di Domenico Matera, vuole portare tale termine a 90 giorni. Non è la prima proposta in questo senso. Già nel 2023 ci aveva provato Forza Italia. Se la maggioranza continua a ritenere che allungare il periodo di conversione sia la soluzione, evidentemente non ha individuato il vero problema da risolvere: l’abuso della decretazione d’urgenza. Abuso che la proposta, se approvata, rischia di amplificare. Come rende noto Openpolis, “l’attuale esecutivo emana decreti legge allo stesso ritmo di quelli che hanno dovuto fronteggiare le fasi più concitate della pandemia”. Ma all’epoca le condizioni di “necessità e urgenza” c’erano veramente. Tra le storture determinate dal continuo utilizzo della decretazione d’urgenza c’è il monocameralismo “di fatto”. I 60 giorni previsti per la conversione permettono a un solo ramo del parlamento l’esame reale dei provvedimenti. Alla seconda camera non resta il tempo di apportare modifiche al testo e rimandarlo alla prima per l’approvazione entro il termine fissato. Ciò trova riscontro nei dati dell’ultimo monitoraggio svolto del Servizio studi di Montecitorio: nei primi 28 mesi di legislatura per tutte le leggi di conversione c’è stata una sola lettura in ciascuna Camera. E non è tutto. Per aggirare il limite dei 60 giorni che, come visto, l’abuso della decretazione d’urgenza rende difficile rispettare, si utilizza l’artificio di recepire nella legge di conversione di un decreto legge in via di approvazione il contenuto di un decreto prossimo alla scadenza o già decaduto. Sempre secondo i dati della Camera, degli 86 decreti legge emanati alla data del 13 febbraio scorso, 10 sono decaduti perché non convertiti in tempo, ma il loro contenuto è stato salvato con le modalità indicate. “Nel caso in cui si renda necessario al fine di garantire l’esercizio collettivo della funzione legislativa delle Camere e qualora ne facciano domanda un decimo dei componenti di una Camera” - recita la proposta di legge di Fratelli d’Italia - il decreto “può essere convertito in legge entro novanta giorni dalla sua pubblicazione”. Nella relazione di accompagnamento si spiega che il fine è quello di “permettere un esercizio più equilibrato della funzione legislativa tra le due Camere riducendo il rischio che una delle due sia costretta a causa di tempi ristretti per il suo esame, a confermare il testo trasmesso dall’altro ramo del Parlamento senza possibilità di esaminarlo con attenzione e, eventualmente, apportare modifiche, pena la sua decadenza”. Si afferma, inoltre, che ciò rafforzerebbe “la centralità del Parlamento nel procedimento legislativo”. Di fatto, è vero l’opposto. Un parlamento irrilevante - La proposta di FdI non solo “legittima” indirettamente l’abuso di decreti legge, ma lo rende anche più agevole. Come ha detto Giuliano Amato, “avendo il peccatore ancora qualche pudore nel commettere il peccato, si vuole che lo commetta del tutto tranquillo”. C’è anche un altro aspetto da considerare. L’allungamento a 90 giorni del termine previsto dall’art. 77 impegnerebbe più a lungo il parlamento nella conversione dei decreti del governo, riducendo il tempo a sua disposizione per svolgere la funzione legislativa che gli è propria. Tutto questo, lungi dal restituire ad esso centralità, lo depotenzierebbe ulteriormente a favore dell’esecutivo. È la stessa conclusione cui si giunge riguardo alla riforma del premierato. Quest’ultima, anziché ripristinare un bilanciamento tra poteri nella produzione normativa - disponendo ad esempio “corsie privilegiate” per determinate leggi, affinché i decreti siano usati solo in casi effettivi di necessità ed urgenza, o il monocameralismo, per superare la crisi del bicameralismo paritario - rende il parlamento ancora più irrilevante. Sorge il sospetto che vi sia un disegno unitario in questo senso. E forse non è solo un sospetto. *Giurista Adozioni e non solo: se tocca alle Corti sostenere i nuovi diritti delle persone di Mariano Croce* Il Domani, 22 marzo 2025 Questa rivoluzione, che parte dal basso e si irradia sulle istituzioni più elevate, ci restituisce oggi un poco di speranza. In tutto il versante euroamericano, l’azione dei tribunali non solo fa da limite all’ipertrofia esecutiva, ma lo fa restituendo dignità alle rivendicazioni della cittadinanza. Si chiama “rivoluzione dei diritti”: è una politica operosa e vitale mediante cui i cittadini incidono direttamente sulle regole della convivenza sociale per adattarle alle loro mutate esigenze. È una rivoluzione tanto dirompente quanto pacata, dacché prende piede nelle Corti e segue i protocolli ordinati del diritto. Quando i parlamenti sembrano irretiti in un persistente stato vegetativo, le Corti vengono chiamate dalla cittadinanza ad accogliere rivendicazioni cui la politica si è fatta sorda. Eppure, con la sentenza 33/2025 sull’adozione da parte delle persone singole, questa rivoluzione segna un ulteriore passo. In essa c’è l’indiretta ma palese presa di posizione contro una politica - quella favorita dagli esecutivi forti - che vuole avocare a sé il potere di stabilire chi in uno stato abbia diritto a cosa. Sulla scia di altre decisive sentenze, la Consulta ha ribadito un principio cardine dello stato costituzionale di diritto: la legge è uno “strumento vivente”, da interpretarsi alla luce delle rinnovate esigenze dei cittadini - anche a dispetto, e se necessario contro, gli ideali politici di parlamenti e governi. L’idea di una rivoluzione dei diritti tramite la legge che si fa strumento vivo piace poco alla politica. La storia moderna ha legato a doppio filo la nozione di democrazia a quella di sovranità popolare, la quale si esprime per voce dei suoi rappresentanti seduti in parlamento. Le camere fanno le leggi, il governo vi imprime un indirizzo direttivo e i giudici presiedono alla loro applicazione. Una tale concezione del rapporto tra poteri, valida forse un secolo fa, si scontra da alcuni decenni con la vistosa migrazione della politica dai parlamenti alle Corti, ampiamente sostenuta dalla cittadinanza. Questa politica “giudiziale” è tanto influente e pervasiva da indurre alcuni critici a coniare lemmi come “giuristocrazia” o “suprematismo giudiziario”. Basti menzionare due recenti esempi, tra loro molto diversi, di interventi della Consulta che hanno segnato il cambio di passo. La sentenza 1/2014 ha annullato la formula proporzionale tra liste bloccate con premio di maggioranza e l’ha sostituita con quella dell’elezione proporzionale con voto di preferenza unica. L’ordinanza 207/2018 sul caso Fabo-Cappato ha stabilito l’incompatibilità dell’articolo 580 del codice penale con il principio di tutela della dignità individuale (costruito per via interpretativa). L’esito di queste sentenze, e altre come queste, può ben dirsi epocale: si afferma la preminenza del ruolo della Corte nella tutela e nell’attuazione di quanto previsto dalla Costituzione. “Vita privata” - Un esito di tanto eccezionale portata trova sintesi in due punti cruciali. Primo, la Costituzione fissa dei vincoli che sono indisponibili a qualsiasi organo dello stato, compreso il legislatore. Secondo, è compito della Corte costituzionale, di concerto con le corti di diritto europeo, esprimersi sul bilanciamento tra diritti in potenziale conflitto e stabilire quindi quale debba prevalere. La sentenza 33/2025 ribadisce tale dirompenza politica. Secondo la Corte, la nozione di famiglia tradizionale (uno dei nuclei fondanti della piattaforma ideologica della destra) non può limitare il diritto alla “vita privata”, protetto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non è legittimo dunque insistere sulla presunta maggiore dignità della vita di famiglia rispetto a chi, persona singola, può garantire una vita dignitosa a un bambino adottato. Tutt’altro che mero tecnicismo: i giudici indugiano sul significato di “vita privata”, sulle sue evoluzioni, su quali altri diritti essa implichi e sul perché la politica non possa limitarli. Insomma, i giudici costituzionali si fanno interpreti non solo del diritto, bensì anche della vita sociale e delle sue necessità più urgenti. Questa rivoluzione dei diritti, che parte dal basso e si irradia sulle istituzioni più elevate, ci restituisce oggi un poco di speranza. In tutto il versante euroamericano, l’azione dei tribunali non solo fa da limite all’ipertrofia esecutiva, ma lo fa restituendo dignità alle rivendicazioni della cittadinanza. Capace di elevarsi oltre le divisioni di parte, il diritto prodotto dalle Corti rammenda gli strappi e rende compossibili le divergenti visioni della vita. Non è tanto uno scontro tra poteri, perciò, quanto l’emergere proattivo di un organo dello stato che presta ascolto a chi chiede di risolvere problemi urgenti e soddisfare interessi legittimi. E se lo strappo con la tradizionale idea di democrazia è innegabile, converrà forse mettere a punto un qualche suo aggiornamento. *Filosofo Incostituzionale vietare l’adozione dei minori stranieri ai single di Patrizia Macciocchi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2025 La Corte costituzionale, sentenza numero 33, depositata ieri, ha dichiarato illegittimo l’articolo 29-bis, co. 1, della legge n. 184/1983, nella parte in cui non include le persone singole fra coloro che possono adottare un minore straniero residente all’estero. Anche le persone singole possono adottare minori stranieri in situazione di abbandono. È quanto si legge nella sentenza numero 33, depositata oggi, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 29-bis, comma 1, della legge numero 184 del 1983, nella parte in cui non include le persone singole fra coloro che possono adottare un minore straniero residente all’estero. La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla disciplina dell’adozione internazionale che non include le persone singole fra coloro che possono adottare, ha affermato che tale esclusione si pone in contrasto con gli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La disciplina dichiarata illegittima comprimeva, infatti, in modo sproporzionato l’interesse dell’aspirante genitore a rendersi disponibile rispetto a un istituto, qual è l’adozione, ispirato a un principio di solidarietà sociale a tutela del minore. L’interesse a divenire genitori, pur non attribuendo una pretesa a adottare, rientra nella libertà di autodeterminazione della persona e va tenuto in considerazione, insieme ai molteplici e primari interessi del minore, nel giudizio sulla non irragionevolezza e non sproporzione delle scelte operate dal legislatore. La Corte ha, dunque, rilevato che le persone singole sono in astratto idonee ad assicurare al minore in stato di abbandono un ambiente stabile e armonioso, fermo restando che spetta poi al giudice accertare in concreto l’idoneità affettiva dell’aspirante genitore e la sua capacità di educare, istruire e mantenere il minore. Tale accertamento può tenere conto anche della rete familiare di riferimento dell’aspirante genitore. Evidenziate le garanzie poste a tutela del minore, la Corte ha altresì osservato che, nell’attuale contesto giuridico-sociale caratterizzato da una significativa riduzione delle domande di adozione, il divieto assoluto imposto alle persone singole rischia di “riflettersi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso”. Single, sì alle adozioni. Navarretta, la giudice che cambia la storia mentre il Parlamento tentenna di Valentina Petrini La Stampa, 22 marzo 2025 Dal doppio cognome alle adozioni, fino all’attesa pronuncia sulla Pma. La Corte parla di responsabilità genitoriale, dimenticata dalla politica. C’è una donna dietro alcune delle sentenze della Corte Costituzionale degli ultimi tre anni che stanno di fatto riscrivendo il diritto in materia di genitorialità e uguaglianza di genere. Questa donna è la giudice Emanuela Navarretta. Nel 2022 con la sentenza n. 131 la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede, riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assuma il cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. La redattrice della svolta che ha riconosciuto la parità tra il cognome paterno e quello materno era proprio la giudice Navarretta. Ieri c’è stata la sentenza n. 33/2025: anche le persone singole residenti in Italia potranno presentare dichiarazione di disponibilità per adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al Tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza, che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione. Giudice redattrice - anche stavolta - Emanuela Navarretta. E adesso si attende un terzo pronunciamento della Corte che potrebbe ampliare ulteriormente i diritti delle donne single a cui oggi è negata la possibilità di accesso alla procreazione medicalmente assistita nei centri di fecondazione in Italia. E chi è la relatrice anche di questo terzo caso? Sempre Emanuela Navarretta. Classe 1966, allieva ordinaria presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode presso l’Università di Pisa, dottorato di ricerca alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, poi ricercatrice, professoressa associata di Diritto privato, professoressa ordinaria di Diritto privato, fino ad essere anche direttrice del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dal 2016 al 2020. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ha nominata giudice della Corte costituzionale a settembre 2020, il decreto è stato controfirmato dall’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Navarretta così è subentrata alla professoressa Marta Cartabia. C’è una scia di equiparazioni di responsabilità e diritti genitoriali che la Corte sta percorrendo. Forse è casuale, certamente è interessante. L’interesse superiore del minore resta centrale, ma il fatto che anche il singolo possa diventare genitore eleva il concetto di responsabilità. Il principio base dell’adozione qual è? Dare una famiglia a un bambino che non ce l’ha più, o non l’ha mai avuta. Ora questa possibilità si apre anche a famiglie monogenitoriali. Una possibilità per tutti, insomma. Una svolta. L’elemento che colpisce è il riconoscimento (seppur ancora non pieno) della libertà di autodeterminazione di una persona che può fare una scelta e nel caso del pronunciamento contenuto nella sentenza n. 33 la scelta è l’assunzione di una responsabilità nei confronti di un bambino che già c’è ed è solo al mondo. Certo resta il ruolo fondamentale del giudice che - caso per caso - dovrà valutare chi ha davanti e questa è una garanzia perché sempre, nel caso delle adozioni, sia che si tratti di una coppia, che di un single, è necessario sapere, conoscere, approfondire, chi è che chiede di adottare. È una giusta cautela. Non c’è una scuola per diventare buoni genitori. Non c’è per i figli che nascono naturalmente e non c’è per i bambini che vengono da esperienze dove perdono una famiglia e già sono traumatizzati, situazioni molto delicate. Ma forse è anche importante ribadire che i figli sono anche della comunità in cui nascono e crescono e la responsabilità del loro futuro e benessere è anche collettiva. Quindi, tornando alle sentenze della Corte, doppio cognome, madre e padre, adozione anche per le persone singole in ambito internazionale e adesso aspettiamo la prossima decisione sulla Pma. L’interesse migliore di un nato non dipende dal fatto che ci siano due genitori, o uno, o in base al sesso ma in base all’assunzione di responsabilità genitoriale. Questa è stata l’impostazione dell’udienza dell’11 marzo scorso in materia di accesso alla fecondazione assistita per donne singole. Il passo avanti fatto ieri sulle adozioni internazionali in un certo senso legittima la famiglia monogenitoriale e non può non farci aprire gli occhi anche sulla legge sulle adozioni in Italia, ferma nel tempo. Il paradosso è che un single potrà adottare un minore straniero qualunque sia il suo stato di salute, e invece in Italia può adottare un bambino italiano solo in casi particolarissimi e residuali: se non c’è nessuna coppia che lo vuole, se il minore è affetto da disabilità o patologie gravi. E allora non riesco a capire perché una persona sola può essere considerata all’altezza di gestire situazioni così complesse, dolorose e costose e non è invece adeguato per crescere anche un bambino o una bambina sana. È una forma di razzismo verso i minori stranieri adottabili, o verso coloro con disabilità, patologie, sindromi croniche. Ma questo non è ambito di competenza della Corte, che rimuove ciò che è incostituzionale, caso per caso, non fa riforme politiche, quelle spettano al Parlamento, che però non le fa ed è sempre un passo indietro rispetto alla società. Fino alla prossima decisione che si attende, quella sull’accesso alla fecondazione assistita per le donne singole. Fine vita. Filomena Gallo: “Gli occhi di chi soffre mi spingono a difendere la libertà di morire” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 22 marzo 2025 L’avvocata segretaria dell’Associazione Luca Coscioni: “La legge della Regione Toscana sul suicidio assistito è corretta, rispetta la sentenza sul caso di Dj Fabo. Conoscere Luca mi ha cambiata, rimasi incantata dalla sua forza”. “Ricordo che andavo a scuola dalle suore, c’era anche il collegio e io avevo 8 anni. Una bambina che viveva in collegio spesso la notte bagnava il letto e poi il giorno dopo veniva punita in classe. Un giorno ho finto di non stare bene per andare nella stanza della suora superiora e dirle che la mia amica veniva umiliata in classe, che nessuno si meritava di essere trattata così e che avrei chiesto ai miei genitori di accompagnarmi a denunciare. La superiora è intervenuta e tutto è cambiato”. Filomena Gallo ripesca dalla memoria quel ricordo lontano perché stiamo cercando di ricostruire dov’è nato il suo amore per i diritti, la cura e l’aiuto degli altri. In realtà, ci spiega, non fu quell’episodio ad accendere la sua passione civile anti-soprusi. È che lei è nata così. Se fosse possibile inserire un tratto del carattere nel certificato di nascita, sul suo ci sarebbe scritto: segni particolari = allergica alle prepotenze e portatrice sana della libertà di scegliere. Lei c’era. Con la sua voce bassa che però arriva forte e chiara al cuore della Giustizia. Era nelle aule dei tribunali, con il suo team di legali iperspecializzati, a “costruire pezzi di diritto”, come dice lei, “che tutti assieme diventano il puzzle di garanzie per il rispetto delle nostre libertà”. Cominciamo dall’attualità: la legge di iniziativa popolare toscana sul suicidio assistito. Può una regione legiferare sul fine vita? “Quello che ha fatto la Regione è materia di organizzazione sanitaria. Non ha toccato le condizioni del malato, non ha modificato nulla sui requisiti per accedere al fine vita che, come sappiamo, sono stati definiti dalla Corte Costituzionale. Con la sentenza sul caso di Dj Fabo nel 2019 la Corte ha stabilito a quali condizioni con verifica del Servizio sanitario nazionale si può accedere al suicidio assistito e ha chiesto più volte al Parlamento di intervenire con una legge che preveda il pieno rispetto delle scelte di fine vita, tutte. In Parlamento nulla è stato fatto e quindi oggi si può accedere alla morte volontaria se sono rispettate le indicazioni della Corte costituzionale perché la sentenza della Corte ha portata di legge. Ora: il titolo quinto della Costituzione prevede che le Regioni possano organizzare i servizi sanitari a livello regionale stabilendo i tempi per l’erogazione dei servizi. Ecco. È esattamente questo che ha fatto la regione Toscana”. Non bastava la sentenza della Consulta? “Si, è sufficiente la sentenza Cappato della Corte costituzionale e vorrei ricordare che cosa prevede. Dice, in sostanza, che il sistema sanitario nazionale verifichi i requisiti per accedere al suicidio assistito, e quei requisiti sono: che la persona sia pienamente capace di autodeterminarsi; che sia affetta da una malattia irreversibile; che quella malattia determini sofferenza per lei intollerabile; che sia mantenuta in vita da trattamento di sostegno vitale. È necessario il parere del Comitato etico competente e devono essere verificate le modalità per procedere. Solo in questi casi l’aiuto alla morte volontaria non è reato, ed è possibile. Abbiamo constatato però, che i tempi di attesa di chi chiede le verifiche per accedere al suicidio assistito, variano dai tre mesi ai due anni e dipendono dalla volontà politica della regione. Ma spesso un malato che soffre non ha tutto quel tempo. Stabilire tempi certi di verifica e risposta come ha fatto la Toscana significa rispettare la persona e la sentenza della Corte”. Il governo non è della stessa idea... “E infatti vogliono impugnarla e sollevare questioni di legittimità costituzionale. Va bene, lo facciano e vedremo”. Oggi in Italia esiste la possibilità del suicidio assistito grazie alle sue battaglie giudiziarie in difesa della disobbedienza civile di Marco Cappato. Se dovesse descrivere questo argomento con un’immagine quale sceglierebbe? “Gli occhi delle persone malate che ho seguito in questi anni perché chiedevano di poter dire basta alla sofferenza. La loro riconoscenza immensa per averli resi liberi nel finale della loro vita oppure, in alcuni casi, per averci provato. Perché, a proposito di tempi, c’è stato chi ha aspettato invano l’ok della Asl che non è mai arrivato. Sentire le loro voci fino all’ultimo momento mi ha fatto capire sempre più che la morte fa parte della vita e che tutti dovremmo fermarci, ogni tanto, ad apprezzare la vita che abbiamo”. Lei è cattolica? “Ho il mio modo di vivere la fede e sono cristiana non praticante. Ma non ne faccio una bandiera, non è l’etichetta che mi definisce”. “Gli occhi di chi soffre mi spingono a difendere la libertà di morire” Se un giorno toccasse a lei di decidere del suo fine vita? “Beh... io sono stata poco bene. Sapevo che il mio era un momento passeggero ma se non lo fosse stato avrei fatto la mia scelta. Mi sono comunque premurata di fare testamento biologico, ho messo nero su bianco che se mi fossi mai trovata in uno stato vegetativo irreversibile, e se più medici avessero confermato che non c’era più niente da fare, dovevano staccare tutto immediatamente. Quando arrivi a ringraziare chi ti sposta un capello dal viso perché tu non ce la fai, ti chiedi: che vita è questa? Per me non è vita”. La sua storia professionale racconta una donna che si è occupata soprattutto di due temi: inizio e fine vita... “Sembrano due fronti opposti ma non lo sono. Perché alla fine l’obiettivo è lo stesso, e cioè la libertà di scelta. Il mio compito è rimuovere gli ostacoli che causano sofferenze perché negano il diritto di scelta alla persona. Penso con orgoglio al fatto che grazie a tutte le lotte per la riforma della legge 40 sulla fecondazione assistita, ogni anno nascono 14 mila bambini e nell’ultima relazione al Parlamento sono 16 mila! E ci sono ancora divieti da rimuovere. Per esempio abbiamo embrioni non idonei alla gravidanza che restano crioconservati e non si capisce perché non possono essere donati alla ricerca scientifica. Però in compenso importiamo le cellule staminali dall’estero...”. È vero che i suoi primi casi davanti al giudice riguardavano le nascite? “Sì. Erano persone che chiedevano di provare ad avere un bambino con l’aiuto della fecondazione medicalmente assistita; ancora non c’era una legge. Mi sono ritrovata nel mezzo del dibattito parlamentare sulla legge 40, appunto”. Che fu osteggiata dal mondo scientifico e giuridico. “Esatto. Mi sono avvicinata all’associazione Coscioni quando Luca Coscioni propose il referendum per modificarla. Rimasi incantata dalla sua forza, era una persona piena di vita anche se paralizzata e se comunicava con il puntatore oculare. Capii da lui l’importanza dell’impegno che mi sarei assunta”. Alla fine quella legge è stata riformata... “Non è ancora finita. Aspettiamo nei prossimi giorni una risposta dalla Corte Costituzionale sull’accesso alla fecondazione assistita per le donne singole. Capita ogni tanto di parlare del lavoro che facciamo con l’associazione Coscioni e trovarmi davanti persone stupite”. Stupite da cosa? “Dal fatto che questo o quello non sia ancora possibile nel nostro Paese. Mi dicono: ma davvero non si può fare? Molti non hanno idea di quanto ci sia ancora da fare sui diritti finché non finiscono impigliati in un caso giudiziario”. Sono i suoi genitori che l’hanno cresciuta a pane e diritti? “Dai miei genitori ho imparato il senso profondo della famiglia che c’è sempre, nel bene e nel male. Ho imparato che cosa significa essere uniti, accoglienti. Mi hanno educata al rispetto dell’altro e delle regole. E da loro ho ereditato il pensiero che la cosa più importante nella vita è la libertà. Libertà di essere sé stessi, di poter crescere come siamo e di poter decidere”. L’ha influenzata qualcuno nella scelta della carriera universitaria? “No, avevo la passione per i diritti, ero affascinata dalle libertà ed ero contro le ingiustizie. Non potevo far altro che l’avvocato, anche se per un certo periodo ho insegnato all’università di Teramo: Etica e legislazione nelle biotecnologie in campo umano. È stato bello e forse mio padre, che mi voleva insegnante, non aveva sbagliato per tutto. Ma fare l’avvocata mi corrisponde di più”. Qual è stato il caso più duro che ha mai affrontato? “La battaglia di una coppia sulla diagnosi pre-impianto. Scoprirono di essere portatori di una patologia genetica dopo la nascita della loro bambina, la videro morire a sei mesi di una malattia che si poteva intercettare durante la gravidanza. La piccola cresceva ma non sgambettava e la pediatra chiese esami diagnostici: si scoprì che non aveva scampo e che sarebbe morta per paralisi progressiva fino alla morte per soffocamento. Quale genitore vorrebbe vedere la propria figlia morire? La loro storia divenne una bandiera per il diritto alla fecondazione e alla diagnosi pre-impianto di coppie come loro, e cioè fertili ma portatrici di patologia genetica. Vinsero in tribunale, ma nell’attesa cambiarono le condizioni di salute per avere una gravidanza e non hanno più avuto figli. Furono loro ad aprire la strada per una condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia per discriminazione, e dopo 5 anni con altre coppie abbiamo ottenuto la cancellazione del divieto per tutti - coppie fertili e non - tramite la Corte costituzionale”. Lei ha figli? “No ma ho tre nipoti di cui sono molto fiera. Sono i figli di mio fratello con cui ho un legame speciale. Lui e sua moglie mi hanno sempre coinvolta nella loro vita familiare”. Relazioni affettive. “Vivo con un compagno che è un grande amore da molti anni ma è meglio non dire quanti... Si chiama Rocco ed è un uomo straordinario”. Torniamo ai tempi delle suore. Che bambina è stata? “Una bambina felice. Sono rimasta fino a 4 anni in Svizzera, dove i miei si erano trasferiti per lavoro, e poi ci siamo spostati per tre anni in Valtellina, in montagna. Uno spasso. Ricordo muri di neve e tantissimi amici. Però io e mio fratello avevamo un problema con l’altitudine quindi siamo andati a vivere con i nonni materni, in provincia di Salerno. E lì è stata felicità pura: i nonni vivevano in campagna avevano una fattoria quindi maiali, mucche, giocavamo con i vitellini e con il cavallo. Per noi era tutto un gioco. Andare a scuola era una distrazione”. Era una brava studentessa? “Sì, studiare mi è sempre piaciuto. Ero un po’ la prima della classe; con il fatto che ero un po’ più grande di statura mi avevano messo in fondo all’aula e questo per me era un dramma perché volevo sempre rispondere per prima, intervenire per prima”. Al di là della famiglia, per chi è il suo grazie più grande? “Per Marco Cappato e Mina Welby e, in generale, per l’Associazione Coscioni che, mi creda, è un crocevia di persone uniche e meravigliose”. “I tagli agli aiuti umanitari dell’Unhcr rischiano di aumentare la pressione migratoria” di Marika Ikonomu Il Domani, 22 marzo 2025 Sono diversi i Paesi che hanno deciso di sospendere o ridurre i fondi destinati alle missioni umanitarie, a partire dagli Stati Uniti. Anche l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) è coinvolta dal taglio dei finanziamenti e si trova “in una fase molto difficile”, costretta “a drammatiche scelte su quali interventi ridurre o tagliare”, spiega Chiara Cardoletti, rappresentante per l’Italia, la Santa sede e San Marino dell’Unhcr. L’Italia, aggiunge Cardoletti, non è tra i paesi che hanno ridotto i fondi destinati agli interventi umanitari dell’agenzia e “nel 2024 è stata tra i maggiori donatori a livello mondiale”. Il nostro paese gioca un ruolo che Cardoletti definisce “cruciale” in un contesto “di forte aumento delle migrazioni forzate”. Per questo, continua, giudica positivamente le iniziative del governo, che promuovono “una cooperazione paritaria”, come il Piano Mattei per l’Africa. Un progetto che, però, per le ong che lo monitorano assomiglia più a un piano di sfruttamento delle risorse del continente. Le persone in fuga in tutto il mondo sono 120 milioni, dieci anni fa erano la metà. Nel 2024 avete risposto a 43 scenari di crisi, il numero più alto dal 2015. Cosa raccontano questi dati? Raccontano che il mondo sta vivendo una conflittualità senza precedenti. Nuovi conflitti che si aggiungono a situazioni di crisi in corso da anni. E raccontano che, in aggiunta agli sforzi della comunità umanitaria, bisogna risolvere i conflitti e sostenere lo sviluppo dei paesi più fragili, che ospitano circa il 70 per cento delle persone in fuga. Le ricette necessarie includono pace, sviluppo e mitigazione dei cambiamenti climatici. Tuttavia, il settore umanitario e in parte quello della cooperazione allo sviluppo da anni si confrontano con una insufficienza di fondi a fronte dell’aumento esponenziale dei bisogni delle popolazioni sfollate. Cosa significa concretamente? Siamo grati ai nostri donatori pubblici e privati per il loro sostegno. Tuttavia, siamo in una fase molto difficile, e la carenza di fondi può esacerbare le crisi umanitarie, favorendo condizioni di insicurezza e instabilità, minando le prospettive di sviluppo e creando quindi le premesse per un aumento della pressione migratoria lungo le rotte. Questa situazione mette l’Unhcr di fronte a drammatiche scelte su quali interventi ridurre o tagliare, inclusi i beni di prima necessità e servizi essenziali come la fornitura di acqua o di cibo. I paesi più colpiti dalla scarsità di fondi? In questo momento colpisce tutte le nostre operazioni. Le situazioni più critiche le registriamo in Africa, in particolare in Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Ciad, ma anche in Ucraina, Yemen, Siria, Libano e Colombia. In Sudan, ad esempio, una delle maggiori emergenze al mondo, molto spesso dimenticata e che ha costretto quasi 12 milioni di persone a fuggire da violenze indescrivibili, il piano regionale di risposta nel 2024 è stato finanziato solo al 30 per cento. A causa della riduzione dei fondi, molti decidono di spostarsi alla ricerca disperata di alternative per la sopravvivenza. Il rischio di tragedie umanitarie, di forte instabilità e di movimenti secondari fuori controllo, anche verso l’Europa, diventa uno scenario sempre più plausibile. Dopo la decisione degli Usa di congelare gli aiuti umanitari, pensate che l’Europa possa fare lo stesso, mentre parla di riarmo? Gli Stati Uniti sono da tempo un leader mondiale nella protezione dei rifugiati. Contribuendo in modo rilevante al budget globale, incluso il nostro (coprono un quinto del budget dell’agenzia, ndr), di aiuti umanitari e di cooperazione allo sviluppo, il loro ruolo è fondamentale. In questa fase alla sospensione dei fondi degli Usa, si aggiunge la decisione di alcuni paesi europei di ridurre le risorse. Da parte nostra, esortiamo tutti i donatori a sbloccare le donazioni il prima possibile, ad aumentare i finanziamenti non vincolati per permetterci di allocare i fondi dove sono più necessari, e individuare fonti alternative di sostegno per il settore umanitario. L’Italia, paese donatore, che impatto ha sul budget dell’agenzia? La fiducia che l’Italia ripone nel nostro lavoro è dimostrata anche dal continuo sostegno finanziario alle nostre operazioni. Nel contesto globale attuale di forte aumento delle migrazioni forzate, il ruolo dell’Italia è cruciale. È importante che il governo abbia intrapreso varie iniziative sulla dimensione esterna, come il Piano Mattei, che, pur dovendo affrontare sfide molto complesse, hanno promosso il dialogo multilaterale, una cooperazione paritaria nella gestione delle crisi umanitarie, dello sviluppo e delle migrazioni forzate, specialmente in Medio Oriente e Africa. La Commissione Ue ha presentato la proposta per un sistema di rimpatrio, aprendo ai Return hub in paesi terzi. I richiedenti asilo e i rifugiati sono raccontati come la vera minaccia in Italia e nel mondo occidentale, i loro diritti sono considerati sacrificabili in nome della sicurezza. Perché? Un rafforzamento della politica unica europea in materia di ritorni mi sembra possa rappresentare un aspetto importante nell’ambito della più ampia attuazione del Patto Ue su migrazione e asilo. Stiamo ancora studiando la proposta in materia di Return Hub, ricordando che riguarda persone che non hanno più diritto di rimanere nell’Ue. I Cpr potrebbero essere opportunamente esplorati, entro certi parametri e in linea con gli standard dei diritti umani, come complemento ad altri sforzi per la gestione delle migrazioni irregolari. Il rimpatrio sicuro e dignitoso delle persone che non necessitano di protezione internazionale è infatti fondamentale per l’efficace funzionamento del sistema di asilo. Io credo che l’esigenza di sicurezza dei cittadini vada ascoltata e compresa, e che la risposta passi anche attraverso un’informazione più accurata sui bisogni di protezione delle persone in fuga e misure che portano a una gestione giusta ed efficiente del fenomeno migratorio nel suo complesso. Consiglio europeo flop sull’Ucraina. Ma per la premier è una manna dal cielo di Paolo Delgado Il Dubbio, 22 marzo 2025 Che Bruxelles non sia in grado di prendere un’iniziativa forte su Kiev è un vantaggio per la presidente del Consiglio, stretta tra Forza Italia e Lega. Sono sempre i particolari a indicare il senso della totalità di un tema. Il particolare eloquente in questione è il nome del Piano di riarmo proposto dalla presidente von der Leyen. Il nome era bellicoso, esplicito, a modo suo onesto: ReArm Europe. Questo aveva in mente la presidente e questo era nell’interesse della Germania e questo recitava il titolo del Piano. L’Italia aveva chiesto di modificarlo in Defend Eu, per chiarire che “il dominio della difesa va molto oltre l’acquisto o la produzione di armi”. Era una richiesta sensata anche se l’Italia faceva trapelare l’intenzione di usarla per forzare di molto i confini del progetto, sino al finanziamento delle forze dell’ordine e all’immigrazione in nome dell’assioma per cui “la prima difesa è la difesa dei confini”. Rigida, la presidente Ursula si è rifiutata di modificare il nome, salvo poi ripensarci quando anche altri Paesi hanno manifestato il loro dissenso. Il ReArm è diventato così Readiness 2030, Prontezza 2030, probabilmente il titolo più anonimo che sia venuto in mente ai cervelloni di Palazzo Berlaymont: pronti a che cosa? Segreto! La formula in questione di sensato non ha invece niente. Può rispondere infatti a una sola esigenza: quella di mascherare agli occhi dell’opinione pubblica di alcuni Paesi un progetto di riarmo considerato impopolare. In sé secondario, la fattarello è in realtà rilevante perché indica che l’Unione è ancora avviluppata nella ragnatela di interessi particolari che la paralizza da sempre. Non è in grado di muoversi con efficacia e drasticità perché non sa come comporre gli interessi contrastanti dei 27 Paesi. Sulla carta la scelta del riarmo è condivisa da tutti. Sul finanziamento del progetto invece non c’è condivisione di sorta. Il problema posto dall’Italia già nel corso del precedente Consiglio straordinario e informale, il fatto cioè che con gli strumenti scelti da von der Leyen il debito ricade tutto sulle spalle dei singoli Stati a solo vantaggio di chi dispone di ampio spazio fiscale, è stato sollevato da mezza Unione, inclusa la Francia. Se ne dovrebbe riparlare tra 40 giorni, data fissata come termine per scegliesse se adottare o meno la possibilità di addossarsi ulteriore deficit senza incorrere nei rigori del Patto di Stabilità. Parigi ha già deciso per il non uso di quello strumento. Roma mette le mani avanti e sottolinea che il termine è troppo vicino. In campo c’è anche la proposta Meloni di ricorrere a investimenti privati garantiti non dai singoli Stati ma dall’Ue. Proposta sgradita però da molti a Bruxelles e a Berlino. Le chances di arrivare a una soluzione entro aprile, o entro giugno per quanto riguarda i 150 mld di prestiti europei anch’essi ballerini, sono molto vicine allo zero. Quadro persino più desolante sull’Ucraina. Ufficialmente tutti, tranne l’Ungheria, giurano che resteranno con Kiev sino alla fine (non essendo però specificato cosa si intenda per “la fine”). Ma la proposta dell’Alta commissaria Kallas di stanziare 40 mld per le armi all’Ucraina è finita subito nel cestino. Ne sono stati stanziati 5 e solo per i proiettili. Che la proposta Kallas fosse destinata a essere ridimensionata era chiaro anche alla viglia ma questo va molto oltre anche il più drastico ridimensionamento. Von der Leyen, del resto, fa filtrare di non condividere la proposta dell’Alta commissaria, avanzata senza consultare la presidente. La quale peraltro, a propria, volta aveva evitato di concordare con la responsabile della politica estera dell’Unione il suo piano di riarmo. L’Europa è relegata oltre i margini della trattativa sull’Ucraina non solo e non tanto perché poco armata, o più precisamente armata in modo caotico e dissipatorio, ma perché per tre anni è stata inesistente, senza mai azzardare una propria ipotesi autonoma, senza intraprendere iniziative di sorta. Apparendo, ed essendo, superflua. È destinata, per la via che ha imboccato, a esserlo sempre di più. Per qualcuno tuttavia la palude europea è un lieto evento: per Giorgia Meloni. La premier italiana dovrebbe trovarsi in condizioni disperate proprio sul fronte sin qui più fortunato, quello della politica estera. Non può sottoscrivere il piano di riarmo, perché la Lega si ribellerebbe. Non può neppure bocciarlo, perché in quel caso a insorgere sarebbe Forza Italia. È nei guai sino al collo o lo sarebbe se dovesse vedersela con una situazione tanto chiara da rendere impraticabili o almeno difficilmente praticabili soluzioni all’insegna dell’ambiguità. Per sua fortuna e per grazie dell’eterna insipienza europea così proprio non è. “Prontezza 2030”: adesso la guerra cambia nome di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 22 marzo 2025 Non più “ReArm Europe”: von der Leyen spinta dai problemi politici sul debito fa il “rebranding”. Ma Meloni resta in trappola. Dall’annuncio di un “Riarmo dell’Europa” all’esilarante, ma non meno minaccioso, piano sulla “Prontezza 2030”. Con questa espressione presa dal titolo del “Libro bianco Ue sulla difesa” (Il Manifesto, 20 marzo), e ispirata probabilmente a un manualetto di strategia militare in cui non mancheranno idiozie sulla “proattività”, la Commissione Europea ieri ha inteso dire di “Essere pronta alla guerra entro il 2030”. Data entro la quale si presume che la Russia di Putin agirà contro qualche Stato membro. Al termine di quindici giorni politicamente disastrosi, e dopo un nuovo passaggio a vuoto del Consiglio europeo con i capi di governo dei 27 paesi dell’Unione Europea, ieri mattina la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha ufficializzato il rebranding del “ReArm Europe” deciso con i governi degli stati membri. “Abbiamo iniziato in modo relativamente ristretto - ha detto - ma ora il concetto [di riarmo, ndr.] è cresciuto, o è maturato, in Readiness 2030 [cioè “Prontezza”, ndr.]. L’ambito è più ampio, non c’è solo il finanziamento alle armi. Ci sono infrastrutture, mobilità militare, missili, droni, artiglieria e guerra elettronica moderna”. Von Der Leyen ha accolto i lamentosi richiami del governo italiano, e non solo, che ha ottenuto la “mutazione semantica” chiesta da Giorgia Meloni prima che lanciasse l’amo-Ventotene che ha fatto sparire il vero problema del governo: aumentare il debito pubblico, spremere i cittadini e costruire cannoni. Lo si vedrà presto. Entro il 10 aprile Meloni e Giorgetti devono presentare alle Camere il nuovo Documento di economia e finanza, ora chiamato “Piano strutturale”. Di solito è un testo pieno di cose farlocche. La domanda è: dove il governo prenderà i soldi per rispondere al ricatto di Trump sulla spesa militare della Nato tra il 2 e il 5% del Pil? E come li darà alla “Prontezza 2030”? War-washing: l’operazione non è ancora terminata. A testimonianza delle idee confuse che ci sono a Bruxelles ieri è intervenuto uno dei portavoce di von der Leyen che ha sostenuto di preferire un altro acronimo: “Safe”, che significa “Security Action for Europe”. “Il nome ReArm Eu può scatenare alcune sensibilità in alcuni stati membri e rende più difficile trasmettere il messaggio ai cittadini” ha detto. Va ricordato che “Safe” è una delle due gambe del piano di riarmo Ue. Sono i 150 miliardi in prestiti che l’Ue darà agli Stati per pagare i militari. E che i governi non intendono usare, come del resto i 650 miliardi di euro in debito pubblico in quattro anni. Il problema non è di comunicazione. C’è un cambio di paradigma in atto: da securitaria l’idea della difesa si fa militarista e coinvolgerà tanto il civile quanto le divise nell’”Europa Fortezza”. Il problema è soprattutto politico e spinge molti governi a fare resistenza passiva contro la Commissione Ue e il suo principale azionista: la Germania del prossimo Cancelliere Merz, il collega del Partito Popolare Ue di von der Leyen. Quello in atto è un cortocircuito tra le regole dell’austerità che impediscono di fare debito pubblico (a cominciare dall’Italia) e l’esigenza di premiare le lobby militari con 800 miliardi, più teorici che reali, mentre si taglia il Welfare, la sanità è a pezzi, i salari sono bassi. Due elementi strutturali vanno considerati. Il primo è che la Germania - ieri le sue classi dominanti hanno festeggiato l’approvazione definitiva della modifica costituzionale sul bilancio da parte del Bundesrat - intende riavviare una competizione iniqua e squilibrata liberandosi dal “freno del debito” e imponendolo agli altri. Un classico dell’Europa austeritaria dal Trattato di Maastricht nel 1992. Il secondo elemento è la trappola del debito pubblico segnalata l’altro ieri nel rapporto Ocse sul debito mondiale: da un lato, ovunque aumenta il debito pubblico (100 mila miliardi di dollari), dall’altro lato aumentano gli interessi. Le emissioni di bond pubblici e privati valgono più del Pil di Germania e Giappone. Nella fatale contraddizione si dimena anche il “riarmo” dell’Ue. Meloni si trova in questa trappola. Gli effetti li pagheranno gli italiani, e non solo. Ricominciare dalla cultura e dalla scienza, non dalle armi di Salvatore Settis La Stampa, 22 marzo 2025 Tre giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump mandò all’Europa due messaggi. Parlando a Davos il 23 gennaio, ingiunse ai membri europei della Nato di aumentare le spese militari “come avrebbero dovuto fare anni fa”, indicando il traguardo del 5% del Pil. Negli stessi giorni riprese un tema-chiave della sua campagna elettorale, promettendo la pace in Ucraina mediante trattative dirette con Putin. Nella brutale pedagogia del presidente americano, questi due punti sono complementari, ma hanno trovato in Europa un’accoglienza opposta: NO al dialogo con Putin in vista della pace, SI’ al riarmo, se pure a quote meno iperboliche. Incoraggiato dall’Unione con una clausola di salvaguardia che libera le spese militari dai vincoli del Patto di stabilità, il riarmo corale dei Paesi europei è ormai dato per scontato. Anzi, con una capriola logica prima che politica, si presenta non per quello che è (la fedele osservanza al diktat di Davos), ma come una reazione al dialogo Trump-Putin, in nome della continuità negli aiuti alla Kiev di Zelenski, che alcuni Paesi, anzi, dicono di voler di soccorrere con l’invio di truppe. Di che cosa è segno quest’evoluzione nel Vecchio Continente? E in che direzione ci porta? Verso l’America di Trump o contro di essa? Verso la guerra o verso la pace in Europa? Pur con la sua aria ondivaga e capricciosa, la linea politica del presidente americano sembra ispirata al vecchio precetto Si vis pacem, para bellum, “se vuoi la pace, preparati alla guerra”: trattative diplomatiche da un lato (anche con Putin), riarmo dall’altro. A quel che pare l’Europa condivide questa linea: solo che la pace di Trump (accordo immediato con Putin) è l’opposto di quella voluta da von der Leyen, Starmer, Macron e così via (sostegno a ogni costo a Zelenski). Il terreno su cui si svolgono queste manovre politiche è della più grande instabilità. L’inatteso trionfo elettorale di Trump costringe tutti a un graduale aggiustamento dei linguaggi e degli obiettivi, che col nuovo presidente devono comunque fare i conti. E se l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 aveva reso ostile a Putin anche chi fino alla settimana prima era in fitto dialogo con lui, ora l’apertura di Trump a Mosca costringe cancellerie e opinionisti alle acrobazie della doppia verità: immarcescibile sostegno all’Ucraina da un lato, dall’altro qualche cauto spiraglio (in crescita) verso l’intesa col bieco nemico di ieri. In questo scenario di troppe astuzie verbali, l’Unione Europea brilla per incoerenza. I 27 Stati membri hanno poco meno di 27 posizioni diverse, al punto che l’ipotesi di una linea comune può partire, paradossalmente, da uno Starmer che non rinnega lo strappo Brexit ma al tempo stesso si sente europeo e però anche legato agli Usa dalla storica special relationship anglosassone. Intanto von der Leyen ostenta una sicurezza che non ha, giostrando uno slalom acrobatico fra istituzioni comunitarie e governi nazionali. A livello europeo come a quelli nazionali (per esempio in Italia) le radicali discordie anche all’interno dei singoli schieramenti politici generano intanto il frutto marcio di una retorica bellicistica che credevamo sepolta da generazioni. Ma due guerre mondiali non sono bastate all’Europa: ed ecco che si torna a parlare di “pace che intorpidisce” (Galimberti), di necessario “spirito combattivo” (Scurati), di un’Europa che “non può più avere una mentalità di pace” (Cavo Dragone), e anzi deve “usare il linguaggio della forza”. È a loro che risponde, con risplendente coerenza morale, papa Francesco: “Le parole non sono mai soltanto parole, sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti” (18 marzo). Il confuso vocío sul riarmo cavalca un equivoco dopo l’altro, e dall’oceano di parole che inonda l’Europa emerge un senso di impotenza sostanziale. Chi deve riarmarsi, i singoli Paesi o l’Unione Europea (con o senza il Regno Unito?), o la Nato? Solo la prima e l’ultima alternativa sono immediatamente praticabili: ma un riarmo Nato presuppone la sintonia col Grande Fratello Usa (e dunque oggi non può giustificarsi in funzione anti-Putin), mentre la deterrenza dei singoli Paesi non è in grado di determinare gli scenari mondiali. Ultima spiaggia per giustificare gli armamenti, l’ipotesi (indimostrabile) che Putin intenda invadere l’Europa fino al Portogallo; ma nessuno prende sul serio Trump quando davvero minaccia di annettere Groenlandia e Canada. Intanto, l’Osservatorio Conti Pubblici della Cattolica diretto da Carlo Cottarelli ha dimostrato che la spesa militare europea è già superiore del 58% a quella russa, e che la crescita degli armamenti dei singoli Paesi senza avere un esercito unico dell’Unione (di là da venire) è del tutto vana. Due domande si fanno sempre più necessarie. Primo: per che cosa o per chi dovrebbe combattere l’Europa? L’idea di Europa unita, nata dalle macerie della guerra, ha il suo cuore nella convivenza pacifica, nella prosperità in nome di ideali come l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà sociale, la cultura diffusa, la costruzione del futuro nella fedeltà alla storia. Ma l’Europa che abbiamo costruito ha messo tutto al margine, ponendo al centro il potere economico privato che divora il pubblico bene e i diritti sociali, a cominciare dalla salute, dall’istruzione, dalla lotta alle disuguaglianze. La congenita debolezza dell’Europa ha una sola radice: la rinuncia a costruire la propria identità intorno a un forte nucleo ideale. Seconda domanda: in mancanza di un’idea condivisa di Europa, a chi giova la corsa al riarmo? Cui prodest? C’è un’unica risposta: giova a chi fabbrica armi sempre più sofisticate e le vende a prezzi sempre più alti. Ditte americane ed europee (anche italiane), che con la sola prospettiva del riarmo accumulano profitti stellari. E se scoppiasse la pace, dove andranno queste armi? Non meno di 56 (cinquantasei) conflitti armati sono oggi in corso, spesso con più o meno occulta presenza europea: la sovrabbondanza di armi non finirà con l’alimentare questo scenario di guerre locali? E il crescente potere della lobby mondiale delle armi non genererà uno stato permanente di quasi-guerra, un continuo trasferimento della capacità di spesa pubblica dalla sanità, dall’istruzione, dalla cura dell’ambiente all’acquisto di armi distruttive? Se da qualcosa si deve ricominciare, non è dalle armi ma dalla cultura, dalla ricerca, dalla scienza, terreno di dialogo fra gli Stati. Pochi ricordano che proprio in questi anni di tensione fra Russia e “Occidente” l’International Space Station continua a ruotare a 400 km di altezza intorno alla Terra con equipaggio misto Usa-Russia-Giappone-Europa-Canada. Il video Nasa del 16 marzo scorso dove astronauti americani e russi si danno il cambio sull’IIS abbracciandosi vale mille dichiarazioni di politici, diplomatici, opinionisti. È dal dialogo con obiettivi comuni (come la scienza) che può ripartire un futuro di pace. All’opposto, la guerra. Un grande regista giapponese, Shin’ya Tsukamoto, ha presentato a Venezia nel 2023 un film, Ombra di fuoco, ambientato in un’Hiroshima all’indomani della Bomba. Protagonista, un bambino fra i detriti di un mondo devastato. “Dato che il mondo si sta allontanando dalla pace”, ha scritto il regista, “mi sono sentito in dovere di girare questo film, come se fosse una preghiera”.