Carceri, dopo la discussione straordinaria alla Camera approvata la mozione del centrodestra di Lorenzo Stasi L’Espresso, 21 marzo 2025 Polemiche per l’assenza di Nordio. Restano i dati (drammatici) dei penitenziari in Italia: da inizio anno già 20 suicidi (nel 2024 ne erano stati 89) e un tasso d’affollamento del 132 per cento. Alla Camera dei deputati era il giorno della seduta straordinaria chiesta dalle opposizioni sulla situazione delle carceri italiane. Ma in Aula, tra i banchi del governo, le opposizioni lamentano l’assenza dei ministri. Non c’è nemmeno il Guardasigilli, Carlo Nordio (ma in extremis è arrivato il viceministro della Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto). Prima delle polemiche politiche - con le forze di minoranza che hanno accusato l’esecutivo di disinteressarsi dei problemi dei penitenziari - ci sono i numeri. E parlano chiaro: “Con gli ultimi due suicidi delle scorse ore sono già 20 le persone che si sono tolte la vita in questa prima parte del 2025 in un istituto di pena - ha sottolineato il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella -. Il sovraffollamento è sempre più grave nelle carceri per adulti, con circa 16 mila persone che non hanno un posto regolamentare, ed è ormai strutturale anche negli Istituti penali per minorenni dove non si era mai registrato”. Numeri che si sommano a quelli del 2024, l’annus horribilis delle carceri in Italia, dove in soli 12 mesi si sono tolte la vita 89 persone dietro le sbarre. Va precisato, però, che i dati sui suicidi nelle carceri non sempre combaciano tra le diverse fonti. Alcuni casi così classificati da Ristretti Orizzonti, ad esempio, vengono schedati come “decessi con causa da accertare” dal Garante dei detenuti quando sono ancora al vaglio della magistratura. In alcune occasioni, poi, avviene che un detenuto tenti di togliersi la vita all’interno del penitenziario, ma poi deceda solo una volta arrivato in ospedale. In questi casi, alcuni lo contano come “suicidio in carcere”, perché provocato dalla permanenza del detenuto nella struttura, altri come suicidio fuori dal carcere, quindi da non includere nel computo totale. A volte, anche i dati del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e quelli dello stesso Garante non sono uguali. Le differenze, in sostanza, derivano dalla diversa modalità di raccolta e analisi. I dati sulle carceri in Italia - Ma non sono solo i suicidi a fotografare la situazione drammatica dei penitenziari italiani. Il tasso d’affollamento, secondo l’ultimo report pubblicato lo scorso 6 marzo dal Garante dei detenuti, è salito al 132,5 per cento: su 46.890 posti regolarmente disponibili (ma la capienza regolamentare sarebbe di 51.323), sono 62.130 le persone in carcere in Italia. In alcuni istituti queste percentuali schizzano in alto e superano il doppio del consentito, come a Milano San Vittore (218 per cento), Foggia (208 per cento) e Brescia Canton Mombello (202). Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, in soli sei anni - dal 2018 al 2023 - a causa del sovraffollamento 24.301 persone si sono viste riconoscere dai magistrati di sorveglianza la violazione del loro diritto a non essere sottoposti a “trattamenti disumani e degradanti”. Un problema, quello del sovraffollamento, che ha iniziato a riguardare anche gli istituti per minori. Un peso grosso ce l’ha avuto il decreto Caivano, adottato dal governo a settembre del 2023: in un solo anno gli ingressi nei minorili sono saliti da 764 a 889, con un incremento del 16,4 per cento rispetto ai 12 mesi precedenti. E all’appello, tra i problemi strutturali dei penitenziari italiani, ci sono anche i numeri degli agenti penitenziari, fortemente sottorganico: a fronte dei 37.389 previsti dal decreto Nordio ce ne sono 31.091 (6.298 in meno). Le mozioni discusse - Su queste basi, e su questi numeri, si è svolta la discussione straordinaria alla Camera. Alla fine, come prevedibile, è stata approvata la mozione presentata dalle forze di maggioranza, che impegna il governo “a implementare ogni iniziativa utile allo sviluppo dell’esecuzione penale esterna e della giustizia ripartiva mediante investimenti su strutture e personale, nonché modifiche normative”. Quelle delle opposizioni, invece, chiedevano all’esecutivo di “assumere iniziative, anche di carattere normativo, volte all’abbattimento del sovraffollamento fino a riportarlo a parametri coerenti con la dignità della persona, nonché, nell’immediato, ad adottare iniziative, per quanto di competenza, volte a favorire il più rapido iter parlamentare della proposta di legge Giacchetti sulla liberazione anticipata speciale e ordinamentale”. Nel documento si chiede l’assunzione urgente di polizia penitenziaria, psicologi e mediatori culturali, oltre all’impegno “a istituire una cabina di regia nazionale condivisa tra ministero della Salute e ministero della Giustizia sulla sanità penitenziaria”. Gli attacchi delle opposizioni (compatte) - Ma la discussione in Aula è stata inevitabilmente dominata dalle polemiche per l’assenza di ministri tra i banchi del governo. “Nelle celle c’è una strage e il governo non onora neanche il Parlamento - ha attaccato il segretario di +Europa Riccardo Magi -. Sostiene che, tutto sommato, le cose stanno migliorando, anzi propone di aumentare i numeri in modo che il numero dei morti aumenti”. Per Maria Elena Boschi di Italia Viva “ora è certo che l’esecutivo è l’unico responsabile di quello che sta succedendo e di quello che succederà nei prossimi mesi”. Per Anna Ascani del Partito democratico siamo di fronte a “una drammatica emergenza destinata a peggiorare per l’inerzia del governo che decide di rinunciare ad affrontarla con la rapidità e la chiarezza di idee necessarie. Il ministro Nordio, che ha preferito disertare la seduta straordinaria in Parlamento richiesta dalle opposizioni, sventola come soluzione un fantomatico ‘Piano Carceri’, cioè la realizzazione di nuove strutture penitenziarie. D’altronde cosa aspettarsi da un esecutivo che agisce con logiche securitarie, inasprendo pene e creando nuovi reati? Il governo - ha aggiunto - metta da parte la propaganda e si impegni a trovare soluzioni concrete ed efficaci, ad assumere il personale che serve, a prevedere norme per la sanità penitenziaria, a pensare a misure alternative alla detenzione”. Sulla stessa falsariga anche Valentina D’Orso del Movimento 5 stelle: “Siamo sconcertati dall’inerzia e dall’indifferenza del governo sulla tragica situazione delle carceri - ha detto in aula la pentastellata -. Vediamo un governo che scappa dalle proprie responsabilità e, andando in direzione contraria, vara il reato di resistenza passiva da contestare ai detenuti che protesteranno in maniera pacifica contro la condizione degradante delle carceri”. Suicidi loro. In un’aula semivuota, muro del Governo sulle carceri di Federica Olivo huffingtonpost.it, 21 marzo 2025 Seduta straordinaria per parlare dei drammi dei penitenziari. Respinte le proposte della minoranza. La ricetta del governo? Più penitenziari e più misure contro le rivolte (causate dal sovraffollamento). No a indulto e liberazione anticipata speciale. Protesta delle opposizioni: “Vergogna. Dov’è il ministro?”. Si parla di carceri e i banchi della maggioranza, alla Camera, sono quasi vuoti. Una manciata di parlamentari quasi tutti distratti. Quelli del governo restano vuoti. Eccezion fatta per la sventurata sottosegretaria all’Economia Sandra Savino, costretta ad annuire quando le opposizioni le dicono che il carcere non è materia sua. E a risentirsi con il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, quando - in ritardo - arriva per limitarsi a dare parere positivo alla mozione di centrodestra e negativo alle due di minoranza. Null’altro il governo dice in questa sessione straordinaria di Montecitorio dedicata ai penitenziari e ai drammi che lì dentro si registrano - dai suicidi al sovraffollamento, dai problemi psichiatrici all’assenza di servizi essenziali - e chiesta dalle opposizioni. Il ministro Carlo Nordio viene invocato più volte, non arriverà mai. Non invocato - “siamo contenti che non ci sia”, ripetono più parlamentari - ma ugualmente titolato a esserci, Andrea Delmastro, con delega alle carceri e protagonista di sortite più che infelici nei confronti dei detenuti. Le minoranze chiedevano misure per rendere il carcere un posto più vivibile. Il Movimento 5 stelle si è dissociato dalla proposta - fatta da tutti gli altri partiti di opposizione - della liberazione anticipata speciale. Si tratta di un provvedimento, proposto da Roberto Giachetti, che aumenterebbe da 45 a 60 giorni per semestre lo sconto di pena per buona condotta. Un modo per far uscire dal carcere chi ha già scontato un pezzo di pena e si è comportato bene. Per i 5 stelle è una misura deleteria. Per la maggioranza neanche a parlarle. Ma cosa propone il centrodestra per attutire i drammi delle carceri? Nella mozione a prima firma di Carolina Varchi, esclusa qualche concessione sul supporto psicologico dei detenuti e su un (generico) tentativo di ridurre il numero di detenuti in attesa di giudizio e implementare il lavoro, c’è la solita minestra riscaldata: nuove carceri, più controlli per i reclusi. Ciliegina sulla torta: “Potenziare le misure contro le rivolte penitenziarie, completando l’organizzazione del gruppo di intervento operativo”. Si tratta di un gruppo di agenti specializzati a sedare le rivolte fortemente voluto da Delmastro. Insomma: il motivo principale per cui esplodono le rivolte è il sovraffollamento. La risposta non è l’alleggerimento delle carceri, ma più repressione. E, con più reati introdotti dal 2022 in poi, più detenuti. Su detenuti e suicidi un’imperdonabile ipocrisia, che pesa più dei successi sulle intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 21 marzo 2025 Dal centrodestra un no senza appello agli sconti di pena proposti da Giachetti, che amplierebbero di poco un abbuono già in vigore da quasi 12 anni. Un round va ai garantisti, un altro all’ala rigorista. Nel giro di poche ore la maggioranza offre due volti simmetrici e opposti, sul versante giudiziario: mercoledì sera il sospirato via libera alla legge Zanettin sulle intercettazioni, che ne fissa in 45 giorni il limite di durata ordinario, ieri mattina lo spettacolo poco edificante offerto dall’intero centrodestra, governo incluso, sul carcere, con l’Aula disertata o quasi nel giorno in cui le opposizioni l’avevano convocata per affrontare il dramma del sovraffollamento e la tragedia, anzi la vergogna di Stato, dei suicidi dietro le sbarre. È così: la giustizia, per il governo di Giorgia Meloni, persevera nella vocazione double face: pregevoli interventi in campo penale, e sul processo innanzitutto, di matrice chiaramente liberale e appunto garantista, quasi sempre scaturiti, come per l’ultimo provvedimento sugli “ascolti”, da iniziative di Forza Italia; a fronte però di scelte discutibilissime sia nella misura (cioè nell’innalzamento) che nell’esecuzione delle pene, e dunque nella politica carceraria, terreno ampio in cui vincono FdI e Lega, Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, senza che il guardasigilli Carlo Nordio riesca, neppure con l’aiuto dei berlusconiani, a opporre una linea e una spinta differenti. È inutile aggrapparsi all’auspicio che il registro possa cambiare nei residui due anni di legislatura (tanto rischia di rimanere, ormai, considerata la prospettiva descritta dal capogruppo di FI al Senato Maurizio Gasparri nell’ultima riunione a via Arenula, secondo cui, se le Politiche fossero anticipate al giugno 2027, per Natale dell’anno prossimo i giochi sarebbero di fatto chiusi). Un anno fa, di questi tempi, gli azzurri ci avevano provato: Pietro Pittalis, vicepresidente berlusconiano della commissione Giustizia a Montecitorio, aveva sponsorizzato la discussione sulla liberazione anticipata proposta da Roberto Giachetti e Rita Bernardini. Ieri, sia Pittalis sia gli altri componenti forzisti della commissione Giustizia hanno condiviso col resto della maggioranza l’ampia mozione a prima firma di Carolina Varchi (FdI) che non considera neppure lontanamente uno “sconto di pena”, riepiloga sì una serie di misure e di propositi, ma si rivela insignificante al cospetto della strage dei suicidi in cella. Si potrebbe pure ricordare la battaglia condotta, a inizio luglio dello scorso anno, da drappello forzista in commissione Affari costituzionali (sempre alla Camera) per mitigare l’abnormità della norma sulle detenute madri, abbandonate alla valutazione del singolo giudice e dunque esposte al rischio di farsi la galera coi figli neonati. Niente da fare anche in quel caso: resa incondizionata di FI, confermata ora al Senato, dove il ddl Sicurezza, che comprende quella norma, è all’esame delle commissioni. Resa ribadita ieri sul carcere, col partito di Antonio Tajani che, dopo una timida campagna estiva di visite negli istituti, si è adeguato in tutto e per tutto al rigorismo propugnato da Delmastro, Ostellari e dal resto della destra intransigente. E un’ambivalenza che racconta tutte le contraddizioni in cui è ancora imprigionato il centrodestra di governo sulla giustizia. Obbediente a dogmi francamente populisti, spiegabili solo in termini di ansia per il consenso. E però dagli esiti sconcertanti. Perché quando per esempio la maggioranza pretende di slegare i suicidi dietro le sbarre dal sovraffollamento, si macchia di un deprecabile peccato d’ipocrisia. Al di là del fatto che nessuno può dire quanto pesi, nella testa di un disperato, il fatto di dover condividere la cucina- cesso della cella col doppio dei compagni che dovrebbero starci, ci sono dettagli impossibili da trascurare. Primo, sovraffollamento vuol dire sproporzione irrimediabile fra gli educatori, gli psicologi e i detenuti che, nelle carceri, andrebbero seguiti. Secondo, quando si esclude in modo apodittico lo sconto di pena, cioè la liberazione anticipata di Giachetti (che avrebbe semplicemente ampliato di 30 giorni l’anno l’abbuono già in vigore dai tempi della Torregiani), si sottovaluta (nella migliore delle ipotesi) che, per un recluso, il semplice fatto di confidare su una nuova norma in grado di assicuragli una libertà avvicinata anche di poche settimane, offre una boccata di speranza potenzialmente decisiva nel trattenere i più fragili dall’abisso suicidario. Sono banalità comprensibili a un bambino. Il fatto che, da FdI alla Lega e a FI, si faccia finta di ignorarle, è qualcosa di difficile da qualificare con espressioni a prova di querela. Resta, certo, l’apprezzatissimo sforzo compiuto dai garantisti, che sono in Forza Italia ma che esistono, pur con l’ambivalenza appena descritta, anche nel resto della coalizione, sulle intercettazioni, come avvenuto col voto definitivo di mercoledì sera alla legge Zanettin, sulla separazione delle carriere, su indagini preliminari, tutela della funzione difensiva e degli amministratori oppressi dalla paura della firma (vedi l’abolizione dell’abuso d’ufficio). Ma lo sconsolante pavore sul carcere è così imperdonabile che, se la legislatura finisse oggi, il bilancio della giustizia sarebbe di poco migliore rispetto allo score di un governo guidato dal Movimento 5 Stelle. Carceri sovraffollate, Parlamento vuoto (e il Governo svicola) di Valentina Stella Il Dubbio, 21 marzo 2025 Opposizioni furiose nella seduta straordinaria alla Camera: l’Aula si anima solo per votare la mozione di maggioranza. L’emergenza sovraffollamento e suicidi in carcere (già venti nel 2025) continua a protrarsi nell’indifferenza della maggioranza parlamentare e del governo. Oggi era stata convocata una seduta straordinaria a Montecitorio, richiesta dalle opposizioni la scorsa settimana, ma l’Aula era semi deserta e per l’esecutivo era presente solamente Sandra Savino, sottosegretaria al Mef, estranea completamente alla questione. Solo verso la fine della discussione generale è arrivato il vice ministro Francesco Paolo Sisto, limitandosi a dare parere positivo alla mozione di centrodestra e negativo alle due di minoranza. Assente il Guardasigilli Nordio. Tale scenario ha spinto le minoranze ad aspre critiche: “Abbiamo chiesto questa seduta straordinaria perché volevamo confrontarci con il governo ma i banchi sono vuoti, c’è solo una sottosegretaria che non si occupa della questione delle carceri. È un grave segno di indifferenza”, ha detto la deputata Pd Michela Di Biase che ha aggiunto: “Il nostro Paese è in piena emergenza carceri, assistiamo nell’indifferenza del governo alla violazione dei diritti umani e dell’art. 27 della nostra Costituzione, che espressamente richiama il senso di umanità cui deve richiamarsi la detenzione e la funzione riabilitativa della pena. Dovrebbero bastare i numeri drammatici dei suicidi in cella del 2024 e quelli di quest’anno, uno ogni quattro giorni, per avere in quest’Aula il ministro Nordio a rispondere alle nostre richieste”. Per la presidente dei deputati di Italia Viva Maria Elena Boschi “l’assenza del ministero della Giustizia e della maggioranza dà la cifra di quanto al governo e al ministro Nordio stia a cuore la questione delle carceri. Ora è certo che sono gli unici responsabili di quello che sta succedendo e di quello che succederà nei prossimi mesi”. La deputata M5S Valentina D’Orso ha evidenziato come “il governo Meloni ha definanziato il capitolo di bilancio dedicato all’amministrazione penitenziaria e sottratto risorse agli investimenti infrastrutturali per gli istituti penitenziari, anche se poi a parole annuncia nuove carceri. Infatti il decreto carceri si è rivelato solo propaganda e lettera morta, il commissario straordinario per l’edilizia carceraria è come un fantasma. La situazione ha bisogno di interventi molteplici, forti e incisivi”. Ma queste per i pentastellati non consistono però in misure deflattive orizzontali. Durante la discussione era arrivato anche l’appello di Roberto Giachetti di Iv a “uscire dagli schemi prestabiliti ed evitare di ridurre, come al solito, il problema a uno scontro propagandistico. Ora serve uno sforzo trasversale”. Se da Lega e Fratelli d’Italia non ci si aspettava nessun passo avanti, tanto è vero che nessuno dei loro deputati è intervenuto durante la discussione generale, lo sguardo di Giachetti insieme agli altri parlamentari di opposizione era rivolto soprattutto a Forza Italia. Gli azzurri la scorsa estate avevano mostrato una apertura sulla pdl a favore della liberazione anticipata speciale, ma poi avevano fatto marcia indietro per non rompere gli equilibri all’interno della maggioranza. E oggi le dichiarazioni di Tommaso Calderone, capogruppo FI in commissione Giustizia alla Camera, hanno fatto chiaramente intendere che a prevalere deve essere la linea rigorista degli altri azionisti di maggioranza. Da un lato, infatti, Calderone ha sostenuto che “è necessario rafforzare le misure alternative alla detenzione” per risolvere il problema nell’immediato, tuttavia poi ha espresso due concetti molto più aderenti alla linea meno garantista, garantismo invece che di solito tende a prevalere nel dna di Forza Italia. Il primo concetto è la stesso del Guardasigilli, ossia quello del “faremo”: “Il governo Meloni, in questi anni, non è che non abbia fatto nulla, non è che abbia banalizzato l’argomento, anzi. Nessuno può negare che, per esempio, in materia di edilizia penitenziaria, tanto è stato fatto: è stato istituito un commissario, che sta lavorando, e sono state investite ingenti somme per la edilizia penitenziaria; si costruiranno nuovi istituti di pena, nuove case circondariali e si ristruttureranno edifici - ahinoi - fatiscenti. Sono stati investiti centinaia di milioni; certo, questo è il lungo termine che non risolve, nella immediatezza, il problema del sovraffollamento carcerario”. Il secondo: “Il cittadino indagato e imputato deve avere tutte le garanzie in uno Stato di diritto, ma una volta che c’è l’intangibilità del giudicato, una volta che sopravviene l’intangibilità del giudicato, la certezza della pena è un’altra nostra bandiera”. Una eco delle passate dichiarazione di Giulia Bongiorno o di Delmastro Delle Vedove. Alla fine, con l’Aula che raggiunge i 265 presenti arrivati solo per il voto, passa la mozione del centrodestra a prima firma Carolina Varchi di Fratelli d’Italia che impegna il governo a escludere generalizzati provvedimenti come amnistia e indulto, a “potenziare le misure contro le rivolte penitenziarie, completando l’organizzazione del Gruppo Operativo di Intervento”, a contrastare e prevenire i suicidi in carcere potenziando la rete di assistenza psicologica, costruire nuovi istituti penitenziari contro il sovraffollamento carcerario. Proprio la Varchi ha dichiarato: “Il sovraffollamento penitenziario non si risolve con misure clemenziali che compromettono legalità e sicurezza. La soluzione passa invece attraverso la costruzione di nuovi istituti e padiglioni, oltre alla creazione di percorsi dedicati a detenuti con problematiche specifiche, come la tossicodipendenza o il disagio psichico”. Bocciate invece le mozioni delle opposizioni. In pratica si è detto no alla liberazione anticipata speciale, all’affettività in carcere come da sentenza della Corte costituzionale, a escludere dal circuito penitenziario le donne con i loro bambini. Emergenza carceri, Governo della vergogna: l’esecutivo in fuga marina il Parlamento di Angela Stella Il Dubbio, 21 marzo 2025 Di Nordio neppure l’ombra. Unica presente alla discussione la sottosegretaria (al Mef) Savino. All’ultimo arriva trafelato Sisto, ma solo per dare parere negativo alle mozioni di minoranza e positivo a quella della maggioranza che vuol potenziare il gruppo contro le rivolte carcerarie creato da Delmastro. “Vergogna”: è la parola che più ha riecheggiato ieri dai banchi dell’opposizione alla Camera dei deputati per stigmatizzare l’assenza della maggioranza e del Governo mentre si teneva la seduta straordinaria sul tema delle carceri. L’avevano richiesta Pd, Iv, +Europa, Av, Azione e M5S la scorsa settimana presentando anche due mozioni, tra cui una elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino, per fronteggiare il sovraffollamento e i suicidi dietro le sbarre. “La condizione è a dir poco drammatica - denunciava negli stessi momenti il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Con gli ultimi due suicidi delle scorse ore sono già 20 le persone che si sono tolte la vita in questa prima parte del 2025 in un istituto di pena. Il sovraffollamento è sempre più grave nelle carceri per adulti, con circa 16mila persone che non hanno un posto regolamentare, ed è diventato ormai strutturale anche negli Istituti penali per minorenni dove non si era mai registrato”. Eppure, durante la discussione generale sulle mozioni, l’Aula di Montecitorio è quasi deserta, per l’Esecutivo è presente addirittura Sandra Savino, sottosegretaria al Mef, estranea completamente alla materia. Solo verso ora di pranzo è arrivato trafelato il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, semplicemente per limitarsi a dare parere positivo alla mozione di centrodestra e negativo alle due di minoranza. Non pervenuto il Guardasigilli Nordio: ufficialmente la sua assenza è stata giustificata perché impegnato nell’incontro con una delegazione dei Garanti territoriali dei detenuti. In realtà, proprio gli stessi Garanti hanno assistito al dibattito in Aula al termine del faccia a faccia a Via Arenula ma del ministro della giustizia neanche l’ombra. E questo ha suscitato le forti polemiche delle opposizioni. Per la deputata dem Michela Di Biase “è un fatto gravissimo” in quanto “non sentiamo la necessità di fare un monologo allo specchio” bensì di “confrontarci con il Governo”. “Noi abbiamo assistito - ha proseguito Di Biase - al Ministro Nordio che più volte è venuto a raccontarci, anche in modo enfatico, la nascita del piano carceri, che doveva determinare la riduzione del sovraffollamento degli istituti penali. Quindi Nordio è venuto e ha detto: tranquilli, ho io la soluzione. Ad oggi, invece, giusto per puntualizzare, noi, dopo otto mesi dall’annuncio del piano carceri, l’unica cosa che abbiamo visto realmente è la nomina del commissario governativo”. Molto duro Riccardo Magi (+Europa): “C’è una strage di vite che si produce quotidianamente nelle carceri italiane e il governo sostiene che tutto sommato le cose stanno migliorando”. Si è chiesto il deputato: “dove sono invece i garantisti di Forza Italia e dov’è il ministro Nordio, che in passato scriveva fiumi di inchiostro sui giornali sulla necessità di riformare le carceri ma che ora invece si ritrova commissariato dai suoi stessi sottosegretari? Anche per questo, c’è una mozione di sfiducia pendente su di lui”. Per la presidente dei deputati di Italia Viva Maria Elena Boschi “l’assenza del ministero della giustizia e della maggioranza dà la cifra di quanto al governo e al ministro Nordio stia a cuore la questione delle carceri. Ora è certo che sono gli unici responsabili di quello che sta succedendo e di quello che succederà nei prossimi mesi”. Sulla stessa scia Devis Dori di Avs: “L’interesse e l’attenzione del governo Meloni sul tema carceri sono chiari dal fatto che il ministro Nordio non è presente al dibattito straordinario: non hanno neanche vergogna, è solo un terribile e gravissimo disinteresse. In effetti non hanno fatto nulla in due anni e mezzo, Nordio si è limitato a dire che il problema c’è sempre stato!”. Durante la discussione era arrivato anche l’appello di Roberto Giachetti di Iv ad “uscire dagli schemi prestabiliti ed evitare di ridurre, come al solito, il problema a uno scontro propagandistico. Come ha scritto Gianni Alemanno in una lettera pubblicata su l’Unità, ora serve uno sforzo trasversale per riportare le condizioni delle nostre carceri nel perimetro dei diritti tutelati dalla carta costituzionale”. Ma se il muro di Lega e Fratelli d’Italia era scontato, non lo era tanto quello di Forza Italia che si era detta la scorsa estate favorevole alla pdl sulla liberazione anticipata speciale per poi fare una marcia indietro per non rompere gli equilibri di maggioranza. E ieri ha confermato la sua posizione di appiattimento su quella degli alleati: “è necessario rafforzare le misure alternative alla detenzione” ha detto Tommaso Calderone ma poi ha confessato: “il problema non si risolve soltanto nell’immediatezza, si risolve anche con provvedimenti strutturali che, magari, serviranno ai prossimi Governi per dire che non ci sono più problemi di affollamento o di sovraffollamento, perché esistono le carceri, perché sono state costruite e perché c’è la Polizia penitenziaria”. E poi l’ammissione di contagio (culturale) con Lega e Fd’I: “Il cittadino indagato e imputato deve avere tutte le garanzie in uno Stato di diritto, ma una volta che c’è l’intangibilità del giudicato, una volta che sopravviene l’intangibilità del giudicato, la certezza della pena è un’altra nostra bandiera”. Alla fine, con l’Aula che raggiunge i 265 presenti arrivati solo per il voto, passa la mozione del centro-destra a prima firma Carolina Varchi di Fd’I che impegna il Governo ad “escludere generalizzati provvedimenti clemenziali”, “potenziare le misure contro le rivolte penitenziarie, completando l’organizzazione del Gruppo Operativo di Intervento”, contrastare e prevenire i suicidi in carcere potenziando la rete di assistenza psicologica, costruire nuovi istituti penitenziari contro il sovraffollamento carcerario. Insomma la solita canzone, anche se balza agli occhi il potenziamento del Gio, fiore all’occhiello dell’assente sottosegretario Delmastro Delle Vedove. Bocciate invece le mozioni delle opposizioni. In pratica si è detto no alla liberazione anticipata speciale, a dare vita alle stanze dell’amore in carcere come richiesto dalla Consulta, ad escludere dal circuito penitenziario le donne con i loro bambini. Meloni commissaria il commissario delle carceri, l’Anm: “Non ci sono i soldi per costruirle” di Francesco Grignetti e Francesco Malfetano La Stampa, 21 marzo 2025 Le carceri scoppiano di detenuti, ma alla Camera regna il disinteresse: maggioranza e Nordio si presentano solo all’ultimo momento per votare il piano dello stesso ministro. Scena deprimente alla Camera: per una seduta straordinaria sulle condizioni del carcere, va in scena il disinteresse. Il ministro Carlo Nordio e la maggioranza si presentano solo all’ultimo momento per votare un loro documento. Le opposizioni si affannano a spiegare come e perché la situazione carceraria è sull’orlo del collasso, ma il “mantra” è il solito: il picco di suicidi non ha nulla a che fare con il sovraffollamento, e comunque stanno arrivando più celle. Perciò nessuna misura sfolla-carceri. Per dirla con le parole della mozione approvata dal centrodestra, il governo valuti “circoscritti e mirati rafforzamenti delle misure alternative al carcere con riguardo ai detenuti tossicodipendenti o in condizione di comprovata fragilità psico-fisica, escludendo generalizzati provvedimenti clemenziali” e prosegua “con le iniziative già intraprese contro il sovraffollamento carcerario, attraverso la costruzione di nuovi istituti penitenziari, di nuovi padiglioni nonché attraverso il recupero dei posti detentivi attualmente indisponibili”. Ma questa ricetta su cui l’Esecutivo tanto contava, sembra essere andata in crisi. Il commissario per l’edilizia carceraria Marco Doglio, a sua volta è finito commissariato. Direttamente da Giorgia Meloni. A pochi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione del suo piano straordinario, infatti, l’uomo scelto da lei stessa con il benestare di Matteo Salvini, secondo la premier non ha prodotto i risultati attesi. Dalla metà di gennaio, Meloni - che avrebbe il potere di sollevarlo, come indicato nel decreto di nomina che stabilisce un compenso di 100mila euro - gli ha imposto riunioni quindicinali a Palazzo Chigi. Un modo per rimediare ai ritardi, imposto attraverso un avanzamento a tappe forzate. Necessità dettata dall’evidenza, come la premier ha contestato direttamente anche al ministero della Giustizia, che il piano tanto atteso non è ancora completo. E proprio da via Arenula infatti definiscono “monco” il piano del commissario Doglio, soggetto a troppe idee non realizzate o troppo “complesse da mettere a terra”: l’uso di caserme per il carcere attenuato, ad esempio; o anche l’uso di strutture modulari simili a quelle già impiegate in Albania da 5 o 6 detenuti a stanza; ma pure l’integrazione delle comunità terapeutiche per la gestione dei detenuti tossicodipendenti. In realtà, secondo quanto è possibile ricostruire, una bozza del piano sarebbe ormai quasi definita. Fatto sta, però, che Meloni - come ha avuto modo di lamentarsi con i suoi - è stata nuovamente “costretta” a mettersi in gioco in prima persona. L’intera strategia del governo poggia su questo fatidico piano, come Nordio ha avuto modo di confermare anche in una nuova riunione con i Garanti territoriali per i diritti dei detenuti. Riunione che si è tenuta al ministero in contemporanea con il dibattito della Camera. Era presente il presidente del Garante, Riccardo Turrini Vita, che ha espresso “apprezzamento per il piano di pronto accrescimento degli spazi detentivi, con la raccomandazione di prestare speciale attenzione alla progettazione di spazi comuni e di lavoro, nonché alla presenza dei presidi sanitari, anche se non posti nella disponibilità del ministero”. Alla Camera, intanto, andava in scena lo scontro. L’associazione Antigone aveva inviato a tutti i deputati un suo documento, dove si legge: “La condizione odierna è a dir poco drammatica. Con gli ultimi due suicidi delle scorse ore sono già 20 le persone che si sono tolte la vita in questa prima parte del 2025 in un istituto di pena. Il sovraffollamento è sempre più grave nelle carceri per adulti, con circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare, ed è diventato ormai strutturale anche negli Istituti penali per minorenni dove non si era mai registrato. Molte strutture versano in condizioni fatiscenti e non garantiscono la disponibilità di servizi minimi come acqua e riscaldamenti. Una situazione che richiede provvedimenti immediati”. Ma queste parole non scaldano il cuore del centrodestra. Dice Carolina Varchi, Fdi: “Il sovraffollamento penitenziario non si risolve con misure clemenziali che compromettono legalità e sicurezza. La soluzione passa invece attraverso la costruzione di nuovi istituti e padiglioni, oltre alla creazione di percorsi dedicati a detenuti con problematiche specifiche, come la tossicodipendenza o il disagio psichico”. Oppure Jacopo Morrone, Lega: “Escludiamo che il sovraffollamento penitenziario si combatta con iniziative contrarie al principio della certezza della pena, poiché la sanzione penale deve comunque essere proporzionata e non dare l’idea di uno Stato che, per meri limiti organizzativi, non persegue i propri obiettivi di legalità e sicurezza”. Replica di Debora Serracchiani, Pd: “Il ministro Nordio ha tutti gli strumenti per intervenire e migliorare la condizione delle carceri italiane ma non ha la volontà politica: tutte le promesse sono andate perse, così come la figura del commissario straordinario per l’edilizia e della commissione di affettività. Ora da fonti della stampa sappiamo che sta pensando di acquistare moduli container nei penitenziari che andranno a occupare gli unici spazi per i trattamenti, la rieducazione e il reinserimento sociale”. La bocciatura complete del piano governativo arriva dall’Anm: “Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a parte annunciare una serie di misure che non sono state mai applicate, a cominciare dalle nuove carceri, non ha fatto altro - è la dura presa di posizione del vicesegretario dell’Anm, Stefano Celli, contattato da LaPresse -. L’ipotesi di costruire nuove carceri è un mito che serve solo a creare alibi per l’assoluta mancanza di iniziative di governo e maggioranza - conclude -. Ma non è realizzabile perché il personale non c’è e i soldi non ci sono”. L’emergenza carceri. Ancora suicidi e aggressioni: situazione intollerabile di Fulvio Fulvi Avvenire, 21 marzo 2025 Rimane grave la situazione nelle carceri italiane, dove si continua a morire, per mano propria o per motivi da accertare (e che nella maggior parte dei casi non si conosceranno mai): 21 i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, 49 i decessi determinati da altre cause. E muoiono detenuti giovani: l’età media delle vittime è di 43 anni. Gli ultimi due ristretti che si sono tolti la vita, martedì scorso, sono italiani: un 39enne si è impiccato nella cella dell’istituto penale di Foggia (uno dei più sovraffollati e turbolenti d’Italia) dove era entrato due giorni prima per maltrattamenti alla compagna, l’uomo aveva già provato a uccidersi in una precedente detenzione tagliandosi le vene ai polsi, e fu salvato dall’intervento degli agenti di polizia penitenziaria, i suoi familiari hanno inoltrato una denuncia per mancato controllo; nella struttura carceraria di Verona Montorio è stato un uomo di 57anni a morire per impiccagione, si tratta del secondo suicidio in due giorni nella Casa circondariale scaligera. Dietro le sbarre crescono pure le aggressioni e gli atti di autolesionismo: dal 1° gennaio ad oggi sono stati rispettivamente 149 e 361. I tentati suicidi invece, nello stesso periodo, ammontano a 63. Una psicologa ha subito violenza sessuale da un detenuto italiano di 38 anni nel carcere milanese di San Vittore dopo essere stata minacciata di morte con una lametta da barbiere. L’uomo che svolgeva il ruolo di “scrivano” all’interno della Casa circondariale è stato arrestato in flagranza di reato dagli agenti della Polizia penitenziaria. Per il recluso il gip Andrea Carboni ha già convalidato l’arresto. L’episodio è avvenuto lunedì. Già nell’aprile del 2016 il 38enne, durante un’uscita per permesso premio dal carcere di Bollate, era stato arrestato: aveva pedinato e violentato una ragazza di 16 anni ad Assago mentre la giovane rientrava a casa. Per questo fatto era stato condannato a quasi 7 anni. Il detenuto è stato trasferito al carcere di Sassari. A Milano stava scontando un cumulo pena che si sarebbe estinto l’anno prossimo. L’emergenza principale riguarda sempre il sovraffollamento: al 28 febbraio scorso erano 62.165 i detenuti presenti in 190 istituti, circa 11mila in più rispetto alla capienza regolamentare e addirittura 15mila in esubero se si considerano i posti letto effettivamente disponibili. Ci sono celle di 4 persone dove vivono in 7 o 8, come accade, per esempio a Foggia. E anche il sistema minorile, un tempo fiore all’occhiello dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei, è andato in tilt: istituti senza più posti disponibili, dove i ragazzi dormono per terra, assumono psicofarmaci come fossero caramelle, protestano spesso con azioni violente. Nei 17 carceri, al 15 marzo scorso erano ospitati 611 minori e giovani adulti, i più affollati risultano il Cesare Beccaria di Milano e Nisida. “Di fronte a una popolazione detenuta composta prevalentemente da persone vulnerabili - afferma il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella - la risposta istituzionale è stata la chiusura generalizzata nelle celle. I detenuti sono così costretti a stare in luoghi malsani sino a venti ore al giorno. Il Parlamento, giustamente sollecitato dalle opposizioni a occuparsi della questione carceraria (una seduta straordinaria si è tenuta ieri alla Camera, ndr), non deve lasciare il carcere, i detenuti e gli operatori nelle mani del solo governo, di chi ha mostrato indifferenza e cinismo, di chi non piange i morti e pensa che il detenuto sia un bersaglio da eliminare”. Intanto si attende la nomina del nuovo Capo del Dipartimento di Giustizia Penitenziaria, dopo le dimissioni di Giovanni Russo. Il decreto sembra essersi fermato su qualche tavolo di Palazzo Chigi, nonostante l’emergenza. E ieri, il Presidente del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Riccardo Turrini Vita, si è incontrato con il ministro di Grazia e Giustizia, Carlo Nordio. All’incontro hanno partecipato anche i Garanti territoriali. “Abbiamo ricordato al Ministro i dati ufficiali del Dap: sono oltre 23mila i detenuti che attualmente si trovano in un regime detentivo chiuso - spiega il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti, Samuele Ciambriello - che non hanno attività trattamentali significative, non hanno ore di socialità fuori dalle sezioni, non hanno percorsi di inclusione ma di mera sicurezza. In questo quadro abbiamo sottolineato che non servono tanto nuove celle o stanze di pernottamento, ma laboratori, officine scuole, spazi di vita comunitaria sportiva e formativa. Non nuove carceri, ma carceri nuove”. I Garanti hanno poi commentato la proposta di organizzare Case di reinserimento, un progetto che comporta un investimento di oltre un miliardo e 900mila euro per assicurare la presenza e l’attività di mediatori culturali: “Ci sembrano un modello e una prospettiva interessanti e feconde”. Definirla ancora “emergenza” si può, ma solo se si passa dalle parole ai fatti di Vittorio Coletti e Lorenzo Zilletti Il Dubbio, 21 marzo 2025 I numeri sono come i fatti: testardi. E le parole servono non solo a commentarli, ma a determinarsi in conseguenza. Partiamo, dunque, dalle cifre: a fine febbraio, i reclusi nelle carceri italiane erano 62.165, rispetto a una capienza regolamentare di 51.323, ma effettiva di 46.836. Un sovrannumero di 15.329 unità. Più macabra la conta dei suicidi: 62 nel 2020; 59 nel 2021; 84 nel 2022; 68 nel 2023; 91 nel 2024; 20 da inizio 2025. Risparmiamo al lettore la descrizione dell’orrore dei luoghi, ove ad esser negata non è soltanto la libertà ma la dignità della persona, limitandoci ad osservare che nessun’altra struttura destinata ad “ospitare” esseri umani (ospedali, uffici, fabbriche, scuole, ecc.) che si trovasse in questa condizione si salverebbe dalla chiusura forzata, disposta per via amministrativa o giudiziaria. Il quadro apocalittico, sì perché è in effetti apocalittico, viene ormai routinariamente definito col termine “emergenza”. Emergenza carceri, emergenza suicidi in carcere sono espressioni ricorrenti dalla forma telegrafica (ellissi delle preposizioni) tipica dei media. Ma, grammatica a parte, hanno un senso? Da quando ha cominciato (pare nel XVII secolo) a circolare, la parola emergenza ha sviluppato, accanto al significato etimologico di emersione o sporgenza, quello figurato di evento inaspettato e preoccupante, successivamente integrato, sulla spinta dell’inglese emergency, dal senso dell’urgenza, del pericolo imminente o in atto, e quindi dell’allarme. E dunque emergenza comporta: 1) negatività, in forma di danno avvenuto o pericolo minacciato (per questo uno dei primi aggettivi che il sostantivo incontra, già in un testo del 1676, e con cui oggi più si lega, è “grave”); 2) imprevedibilità (scriveva il Vocabolario della Crusca: “caso, accidente imprevisto e per lo più di qualche gravità”) e urgenza. Questi valori, più o meno intensamente compresenti, si riscontrano in locuzioni ricorrenti come emergenza neve, emergenza terremoto, stato di emergenza, chiamate di emergenza. Ma ci sono davvero, in emergenza suicidi in carcere? Il 17 marzo, quando già si contano 19 suicidi riusciti dall’inizio dell’anno (non è noto quello dei tentati), Lanotiziagiornale.it titola: “Nelle carceri italiane è emergenza suicidi”, ma già a gennaio Repubblica, quando si contavano ben 8 detenuti che si erano tolti la vita nelle prime due settimane del 2025, titolava: “Carcere, è già emergenza suicidi”. Ora, in questi usi della parola emergenza ci sono certamente i tratti della negatività e dell’urgenza con cui si dovrebbe rimediare ad essa, ma quello dell’imprevedibilità dov’è? Se il dato era già stato denunciato a gennaio, come può essere ancora imprevedibile a marzo? Se un evento drammatico si ripete tutti gli anni da anni, dove sta l’eccezionalità che giustifica l’imprevedibilità e quindi l’emergenza? Non è piuttosto normale, regolare, ordinario? Ma, se il suicidio in carcere è così frequente da non poter essere considerato imprevedibile e l’eccezionalità ha lasciato il posto alla regolarità, se quindi non è più un’emergenza inattesa ma una consuetudine, come segnalarne lo scandalo, che non solo non è negato, ma dovrebbe essere addirittura moltiplicato dalla sua terrificante ricorsività? Come lo si può nominare e denunciare? In realtà, si può, forse si deve ancora parlare di emergenza suicidi in carcere, sottolineando un altro aspetto della parola emergenza. Questa, infatti, con il valore dell’inatteso, veicola anche quello dell’eccezionalità e l’eccezionalità può verificarsi pure in eventi prevedibili quando questi si rivelano di misure, reali o figurate, straordinarie, non comuni, come nella frase “una nevicata eccezionale anche per questi territori montani”: dove l’eccezionalità non è data dall’imprevedibilità del fatto (siamo in montagna e d’inverno), ma dalla sua misura. Lo stupore e lo scandalo di fronte al numero dei detenuti suicidi legittimano che si continui a lanciare un’emergenza suicidi in carcere, un fatto gravissimo, che dovrebbe essere affrontato con urgenza, ed eccezionale non perché imprevedibile, ma, al contrario, perché così ripetuto da avere assunto dimensioni abnormi ed essere addirittura diventato una scandalosa, prevedibilissima consuetudine. E se un evento è eccezionale più per la misura della sua gravità e frequenza che per la sua imprevedibilità, è ancora più colpevole non cercare di porvi qualche rimedio. Magari cominciando con provvedimenti che possano alleggerire l’affollamento carcerario, una delle cause più probabili dell’alto numero dei suicidi o della difficoltà di prevenirli. A differenza di quel che ha sostenuto in una recente iniziativa delle Camere penali il ministro Nordio - per cui “una liberazione indulgenziale può avere un senso quando lo Stato è forte e dimostra una generosità. Se invece viene interpretata come provvedimento svuota-carceri perché non siamo in grado di contenerli (i detenuti, ndr), allora diventa una forma di debolezza e quasi criminogena” - ad esser criminogena è l’inerzia. La misura dell’eccezionalità impone misure eccezionali: amnistia, indulto, estensioni dei casi di liberazione anticipata o di detenzione domiciliare, dovrebbero essere adottate immediatamente da chi ne ha il potere. E reclamate ogni giorno, con l’insistenza della goccia che scava la lapide, con gesti politici forti e non solo a colpi di comunicati dagli avvocati e dai magistrati, che dovrebbero dimostrare di non avere a cuore la Costituzione solo quando si tratta di ordinamento giudiziario. Carceri, blitz alla Camera con la mozione di destra di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 marzo 2025 Assemblea straordinaria alla Camera: “Occasione persa”. Dibattito senza il ministro Nordio. La maggioranza c’è solo per il voto. “C’è un certo sentore di dileggio del Parlamento”, dice sardonica la dem Debora Serracchiani dopo quasi due ore di interventi a tutto tondo sulle carceri pronunciati nell’aula di Montecitorio dai deputati dell’opposizione davanti ai banchi di fatto vuoti del governo. “Un’occasione mancata”, come l’hanno definita in tanti, l’assemblea straordinaria - la prima nel suo genere - che la Camera ha finalmente dedicato ieri mattina all’emergenza carceri per discutere e votare due mozioni delle opposizioni (una del M5S e l’altra di Pd, Avs, Iv, +Europa e Azione) che proponevano soluzioni alternative alle inefficaci, quando non dannose, ricette governative. Se non fosse che all’ultimo momento è comparsa - distribuita tra i banchi - una mozione di maggioranza che sostanzialmente è un invito a continuare come e peggio di prima. E, naturalmente, è l’unica approvata (con 148 sì e 116 no); respinte le altre due. Il ministro Nordio - che Magi (+Europa) ha definito “commissariato dai suoi sottosegretari” - non si è fatto vedere. Ma in compenso in mattinata ha ricevuto il Garante nazionale dei detenuti Turrini Vita che gli ha espresso, tra le altre cose, “apprezzamento per il piano di pronto accrescimento degli spazi detentivi”. Se però il presidente del collegio nazionale nominato da Meloni avesse assistito alla seduta straordinaria della Camera, come ha fatto invece una delegazione dei Garanti territoriali, avrebbe ascoltato giudizi opposti proprio rispetto al sovraffollamento. Che, come sottolinea Dori, di Avs, “va risolto subito perché è un amplificatore di tutti gli altri problemi, e dopo il decreto Caivano per la prima volta sono al collasso anche gli Ipm per minori”. Infatti, gli adulti in carcere sono 62.165 su un numero di posti “sceso ulteriormente a 46.836 da quando siete al governo, perché avete smesso di investire anche sulla manutenzione ordinaria”, incalza la dem Di Biase ricordando che si sono perse le tracce del commissario straordinario all’edilizia penitenziaria nominato 6 mesi fa, e perfino della lista delle nuove carceri da costruire. Nessuna idea neppure su come contrastare la piaga dei suicidi, fanno notare altri. Gli interventi sono tanti, la discussione è ricca. Ma é quasi un soliloquio, perché durante il dibattito sui banchi del governo siede solo la sottosegretaria al Mef Savino, che di carceri non si è occupa. Il viceministro alla Giustizia Sisto compare appena prima del voto per esprimere il parere positivo alla mozione firmata da Fd’I, Lega, FI e Noi moderati; negativo per le altre. E perfino gli scranni della maggioranza sono pressoché deserti fino alle dichiarazioni di voto, fatto salvo per il berlusconiano Calderone che illustra la mozione delle destre e ribadisce l’apertura di FI “alla possibilità di aumentare la liberazione anticipata”. Il riferimento è alla proposta Giachetti che ha invece diviso il M5s (contrario) da tutto il resto dell’opposizione (favorevole). Diversamente dai desiderata di alcuni forzisti, il testo della maggioranza esclude completamente indulto e amnistia anche se chiede di “valutare circoscritti e mirati rafforzamenti delle misure alternative” per tossicodipendenti o detenuti fragili da inviare nelle apposite comunità private. Il governo dovrà invece proseguire con l’edilizia penitenziaria; potenziare le misure di sicurezza in cella e “contro le rivolte penitenziarie, completando l’organizzazione del Gruppo di intervento operativo”; aumentare l’organico e lo stipendio degli agenti; potenziare magistratura e Uffici di sorveglianza. E intervenire sulla custodia cautelare per ridurre i presupposti per la sua applicazione al solo “rischio di reiterazione” del reato (escludendo quello di fuga e di inquinamento delle prove). Un nodo, questo, sul quale FI tiene particolarmente e, annuncia Calderone, sta preparando una pdl: “Non pensiamo ai condannati ma ai presunti innocenti, che sono 15 mila su 60 mila”. Senza la carcerazione preventiva, conclude, “abbiamo risolto il problema del sovraffollamento”. Finora il Governo ha fatto poco sul sovraffollamento delle carceri di Luca Sofri ilpost.it, 21 marzo 2025 In due anni e mezzo il ministro Nordio ha fatto più che altro tanti annunci. Da quando è in carica il governo di Giorgia Meloni, cioè da due anni e mezzo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha spesso parlato del grave problema del sovraffollamento delle carceri italiane proponendo come soluzione soprattutto di aumentarne la capienza. In due anni e mezzo, però, di concreto è stato fatto molto poco. Nelle carceri ci sono ancora diecimila persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare, quasi sedicimila in più se si considerano anche tutte le celle inagibili per via di guasti e lavori di ristrutturazione in corso. Significa che ci sono celle con troppi letti, spazi personali ridotti, possibilità di svolgere attività ricreative o formative compromesse, e in definitiva condizioni di vita pessime o degradanti. Da tempo chi si occupa di diritti delle persone detenute fa notare che il sovraffollamento incide sul numero elevato di suicidi in carcere, che nel 2024 sono stati 91, il numero più alto da quando la rivista del carcere di Padova Ristretti Orizzonti ne tiene il conto. Dall’inizio del 2025 ci sono stati altri 21 suicidi. Fin dall’inizio del suo insediamento il governo di Giorgia Meloni ha detto di voler intervenire sul sovraffollamento aumentando le strutture detentive, cioè costruendo nuove carceri o convertendo in carceri spazi già esistenti. Lo ha ribadito Meloni alla conferenza di “fine anno” del 2024 (tra virgolette perché si è tenuta il 9 gennaio del 2025): “Secondo me il modo serio di risolvere il problema non è l’amnistia o l’indulto ma è un altro: da una parte ampliare la capienza delle carceri, e poi stiamo lavorando per rendere più agevole ad esempio il passaggio dei detenuti tossicodipendenti nelle comunità”. È un’idea dispendiosa, difficile da realizzare e che richiede molto tempo, come lo è quella di riutilizzare le caserme dismesse. Secondo chi si occupa di diritti delle persone detenute non è comunque la soluzione migliore per risolvere i molti problemi delle carceri italiane. L’associazione Antigone fa notare da tempo che oltre a rispettare la capienza regolamentare delle carceri è urgente offrire con più regolarità alle persone condannate alternative alla detenzione in carcere, anche perché è dimostrato che in questo modo si riduce il tasso di recidiva, cioè la quota di persone che tornano a commettere reati una volta uscite dal carcere. È stata la prima proposta del documento di Antigone inviato ai deputati per la discussione sulle carceri che si è tenuta giovedì 20 marzo alla Camera. D’altra parte l’obiettivo costituzionale della pena è la rieducazione della persona condannata per favorire il suo reinserimento in società, e a questo scopo la detenzione dentro al carcere non è necessariamente il metodo più utile: anzi, varie esperienze indicano il contrario. Dopo una discussione sul tema, comunque, il 20 marzo alla Camera la maggioranza ha approvato una mozione per aumentare le strutture carcerarie (la “mozione” è un atto di indirizzo senza effetti concreti, da prendere più come una dichiarazione di intenti). Il governo nello specifico punta a realizzare settemila nuovi posti nelle carceri nei prossimi tre anni: per farlo a settembre ha nominato un commissario straordinario, che deve elaborare un piano di nuovi interventi coordinandosi con gli altri lavori già avviati. In teoria la nomina di un commissario straordinario dovrebbe permettere di accelerare le procedure e risolvere in tempi rapidi uno specifico problema, ma non è sempre andata così e anche in questo caso non sta andando meglio. Il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria è Marco Doglio, un dirigente che ha lavorato per anni nel settore delle infrastrutture. Il suo incarico era stato previsto dal cosiddetto “decreto carceri”: doveva terminare alla fine del 2025 ma è stato prorogato al 31 dicembre del 2026. Doglio ha consegnato il suo progetto ai ministeri della Giustizia, delle Infrastrutture e dell’Economia, che ora dovranno studiarlo, rielaborarlo insieme e passarlo alla presidenza del Consiglio, che lo dovrà eventualmente approvare con un decreto apposito. Non si sa quanto ci vorrà per completare tutti questi passaggi, né quanti saranno i soldi che il commissario avrà a disposizione (inizialmente si era parlato di circa 250 milioni di euro per tre anni, ma l’importo definitivo sarà stabilito nel decreto-legge dopo la revisione dei tre ministeri). Gli interventi proposti dal commissario straordinario si aggiungeranno a quelli già avviati per creare un complessivo piano per l’edilizia carceraria. Tra questi ci sono per esempio quelli finanziati con il PNC, Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR: riguardano la costruzione di otto nuovi padiglioni da 80 posti ciascuno all’interno di otto carceri, finanziata con 84 milioni di euro, e una serie di lavori per l’efficientamento energetico e l’adeguamento sismico in quattro istituti penitenziari per minorenni. Questi progetti sono in ritardo, secondo le stime della piattaforma indipendente OpenPNRR, lo strumento della fondazione Openpolis che raccoglie dati sempre aggiornati sull’andamento dei progetti del PNRR da fonti dirette e indirette. Anche nella relazione sul 2024 presentata da poco dal ministero della Giustizia si legge che è stata completata l’aggiudicazione dei lavori per sette padiglioni in carceri per adulti, ma che sono iniziati solo in due, mentre in quelle per minorenni i lavori sono iniziati solo in un istituto sui quattro previsti. In più sono già emerse delle criticità: a Ferrara, per esempio, il padiglione nuovo sarà costruito in un’area dedicata ad attività all’aperto, con il rischio quindi di togliere spazio alla socialità delle persone detenute e ad alcuni progetti lavorativi dedicati al reinserimento sociale. Nel 2024 sono stati quasi completati i lavori per un nuovo padiglione da 92 posti alla casa circondariale di Cagliari e sono stati avviati vari lavori di manutenzione e ristrutturazione in diverse carceri complessivamente per 7 milioni e 700mila euro. Per Antigone e per la Conferenza nazionale dei garanti territoriali dei detenuti creare settemila nuovi posti tuttavia non è una misura sufficiente. Al 19 marzo le persone detenute erano ancora troppe rispetto alla capienza regolamentare: 62.122 a fronte di 51.323 posti teoricamente disponibili. Di questi però 4.505 sono inagibili: significa che il sovraffollamento è in media del 132,7 per cento. A questo si aggiunge il fatto che il numero delle persone detenute cambia nel tempo, e ultimamente aumenta: il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, ha fatto notare come nel 2024 ci siano state circa duemila persone detenute in più rispetto al 2023, cinquemila rispetto al 2022. Negli ultimi cinque anni è aumentato il numero di persone detenute con misure alternative, come la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali, ma per Antigone e i garanti non è ancora abbastanza. L’attuale governo si è sempre dimostrato piuttosto scettico nei confronti delle pene alternative, o anche nei confronti di soluzioni che evitino il carcere a chi commette reati lievi, e ha preferito piuttosto introdurre nuovi reati o aggravare le pene di quelli già esistenti. Aumentare il numero di posti all’interno delle carceri non risolve poi il problema cronico della mancanza di personale. Il “decreto carceri” prevede l’assunzione di mille nuovi agenti penitenziari tra il 2025 e il 2026, ma i sindacati da tempo ne chiedono molti di più. Negli ultimi anni è diminuita la capacità della polizia penitenzia di occuparsi dei detenuti, stando ai numeri: l’ultimo rapporto di Antigone dice che in Italia c’è un agente di polizia penitenziaria ogni 2 detenuti; erano 1,9 nel 2023 e 1,7 nel 2022. Mancano anche altre figure professionali, mentre nell’ultimo anno sono aumentati gli educatori. I garanti territoriali sono critici rispetto anche a un’altra iniziativa del governo per ridurre il sovraffollamento, che è stata inserita nel “decreto carceri”, e cioè l’agevolazione del percorso che consente alle persone detenute con tossicodipendenze o con disagi psichici di scontare una parte significativa della loro pena in strutture residenziali che offrono percorsi di riabilitazione e riqualificazione professionale. Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei garanti e garante della Campania, dice che non è ancora pronto l’albo delle comunità a cui le persone detenute possono rivolgersi, e che era stato previsto dal decreto. Per ora insomma da questo punto di vista non è cambiato niente. Come misura più efficace per ridurre il sovraffollamento, i garanti territoriali hanno chiesto di permettere alle persone detenute che devono scontare meno di un anno di pena di farlo a casa o in un’altra struttura esterna. Secondo i numeri citati dai garanti, le persone in carcere alle quali resta meno di un anno di pena da scontare sono più di ottomila (su circa 62mila). Il “decreto carceri” prevede anche una semplificazione delle procedure necessarie a concedere alla persona detenuta degli sconti di pena e la liberazione anticipata. Le persone che sono in carcere ma che hanno una cosiddetta buona condotta, cioè mostrano un atteggiamento rispettoso delle regole e una effettiva volontà di riscattarsi, hanno diritto a una riduzione di pena di 45 giorni ogni sei mesi. Nordio aveva detto che queste agevolazioni saranno ancora decise dal giudice di sorveglianza: per Ciambriello però “la liberazione anticipata non la dà più nessuno”, perché mancano magistrati, funzionari e cancellieri, e ci sono centinaia di migliaia di pratiche pendenti. Carceri, l’ignavia del Governo e il collasso del sistema penitenziario minorile di David Allegranti lettera43.it, 21 marzo 2025 A questa maggioranza manettara l’emergenza non interessa per nulla. Nemmeno quella degli istituti minorili finiti al collasso dopo il Dl Caivano. L’unica idea per risolvere il loro sovraffollamento? Spostare i ragazzi ristretti nelle prigioni per adulti. E tanti saluti all’approccio educativo. Un disastro dopo l’altro. Ma ci sarà qualcosa sulle carceri - un obiettivo, un proposito, un auspicio - che questo governo riuscirà a portare a termine? Giovedì alla Camera la maggioranza ha fatto passare una mozione alla camomilla e ha bocciato due mozioni dell’opposizione durante un’assemblea straordinaria sullo stato di salute degli istituti penitenziari italiani. Di straordinario però qui c’è solo l’ignavia del Governo che aveva promesso un piano di edilizia carceraria scomparso nei meandri di via Arenula. Si sa solo che dal 23 settembre 2024 c’è un commissario straordinario, Marco Doglio, che “dovrà provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari” e che “resterà in carica sino al 31 dicembre 2025 e potrà avvalersi, nello svolgimento del proprio compito, di una struttura di supporto composta da un massimo di cinque esperti”. Eppure, ha detto il vicesegretario dell’Anm Stefano Celli, a LaPresse, “il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a parte annunciare una serie di misure che non sono state mai applicate, a cominciare dalle nuove carceri, non ha fatto altro. L’ipotesi di costruire nuove carceri è un mito che serve solo a creare alibi per l’assoluta mancanza di iniziative di governo e maggioranza. Ma non è realizzabile perché il personale non c’è e i soldi non ci sono”. Magnifico. Si dirà che la versione dell’Anm è parziale, perché i magistrati non vedono l’ora di cacciare due dita negli occhi alla maggioranza. Ma è vero che il governo non ha risultati da vantare sulle carceri. Un po’ perché non gliene importa molto - basta buttare via la chiave - un po’ perché le scelte fatte fin qui vanno nella direzione opposta di una concreta realizzazione del problema, che è sovrastrutturale. C’è il sovraffollamento, ma non solo. Ci sono i suicidi, ma non solo. C’è la mancanza di personale - polizia penitenziaria: mancano 18 mila agenti - ma non solo. C’è anche il sistema minorile al collasso dopo il Dl Caivano. Lo ha denunciato giovedì Antigone, l’associazione presieduta da Patrizio Gonnella: “Sovraffollamento, psicofarmaci, privatizzazione: la giustizia minorile è allo sbando. A ottobre 2022, momento in cui si insedia l’attuale governo, le carceri minorili ospitavano 392 persone, del tutto in linea con il dato immediatamente precedente la pandemia. Un anno dopo l’entrata in vigore del Dl Caivano, i ragazzi nelle carceri minorili erano 569. Oggi assistiamo a una situazione di sovraffollamento consolidata. La capienza di tutti gli Ipm è pari a 559 posti, ma i giovani presenti nelle carceri minorili al 9 marzo sono 623. Ciò equivale ad un tasso di sovraffolamento pari al 111,45 per cento (+ 7,92 per cento rispetto a marzo 2024)”. Le condizioni di detenzione all’interno della maggioranza degli istituti sono critiche; sono stati aggiunti materassi per terra negli Ipm di Torino, Milano e Bari. A Roma i ragazzi e le ragazze hanno trascorso tutto l’inverno senza riscaldamento, dice ancora Antigone, che aggiunge: “Anche il personale è allo stremo”. Il ministero della Giustizia ha tuttavia trovato un curioso modo di risolvere la questione: esternalizzare la detenzione minorile al carcere per gli adulti, concentrando fino a 50 giovani adulti - provenienti da vari istituti - all’interno di una sezione detentiva della Casa circondariale di Bologna. I giovani ristretti saranno separati dagli adulti, ma “tutte le norme internazionali prescrivono che minori e adulti devono essere rigorosamente separati, se non si vuole costruire una fabbrica di delinquenti. L’approccio educativo che aveva caratterizzato il sistema della giustizia minorile italiano, un modello a livello europeo, è ormai superato. Fuorviante è inoltre la narrazione sul boom di omicidi commessi da minori; al contrario, rimangono pochi ed oscillano nel tempo (35 nel 2024, 25 nel 2023, ma erano 37 nel 2017)”. La voce che circola negli ambienti giudiziari è che il governo voglia rendere permanente a livello nazionale questo tipo di soluzione, che consente l’esternalizzazione dei giovani detenuti nel carcere dei grandi. Un disastro dopo l’altro con la complicità dei liberali del governo, che semplicemente nulla possono contro il manettarismo diffuso della coalizione di destra-centro. Il Garante nazionale dei detenuti Turrini Vita: “Bene il piano di accrescimento degli spazi detentivi” ansa.it, 21 marzo 2025 Si è svolto ieri mattina l’incontro tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Riccardo Turrini Vita, assieme a una delegazione della conferenza nazionale dei garanti territoriali, dando seguito ad una precedente riunione del 12 marzo scorso. Il presidente Turrini Vita, in riscontro alle comunicazioni offerte in quell’occasione dal ministro, ha espresso “l’apprezzamento” del Garante per il piano di pronto accrescimento degli spazi detentivi, con la raccomandazione di prestare speciale attenzione alla progettazione di spazi comuni e di lavoro, nonché alla presenza dei presidi sanitari, anche se non posti nella disponibilità del Ministero. In ordine alle misure contingenti per il sovraffollamento, il presidente ha preso atto dell’attenzione specifica alla fascia di quelle persone ristrette in parte finale della pena detentiva e ha chiesto di comunicare eventuali aggiornamenti al momento dell’effettivo avvio alle strutture alternative di abitazione, formazione e cura. Circa le misure amministrative annunciate per dare concretezza all’esercizio del diritto all’affettività ha allo stesso modo richiesto “una comunicazione degli sviluppi”, anche quale riscontro ad una propria lettera inviata nelle scorse settimane. Il presidente Turrini Vita ha infine accennato alla necessità di “un riordino operativo per rispondere all’accrescimento dei luoghi di visita alle frontiere per effetto dei Regolamenti UE applicativi del Patto asilo-immigrazione” e ha ringraziato per la disponibilità dell’Amministrazione penitenziaria e, per la sua parte, del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, nel sostenere con risorse umane, logistiche e flussi documentali, l’azione del Garante. A seguito dell’intervento di Turrini Vita, si sono svolti gli specifici interventi dei Garanti territoriali, che hanno annunciato alcune loro ulteriori comunicazioni e le rispondenti comunicazioni del ministro Nordio. Ciambriello (Conferenza dei Garanti territoriali): “Servono figure di ascolto, criminologi, assistenti sociali” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 21 marzo 2025 La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale aveva chiesto da tempo un incontro con il Ministro Carlo Nordio. Dopo l’incontro dell’11 marzo, nella mattinata odierna un nuovo incontro. con il Ministro della Giustizia Carlo Nordio con il Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, con il garante regionale del Piemonte Bruno Mellano e la garante comunale di Roma Valentina Calderone. Il Portavoce della Conferenza ha riportato alcuni contenuti della discussione: “Abbiamo ricordato al Ministro i dati ufficiali del Dap: sono oltre 23.000 i detenuti che attualmente si trovano in un regime detentivo chiuso, che non hanno attività trattamentali significative, non hanno ore di socialità fuori dalle sezioni, non hanno percorsi di inclusione ma di mera sicurezza. In questo quadro abbiamo sottolineato che non servono tanto nuove celle o stanze di pernottamento, ma laboratori, officine scuole, spazi di vita comunitaria sportiva e formativa. Non nuove carceri, ma carceri nuove! “Abbiamo inoltre richiamato ancora una volta l’esigenza di un segnale di clemenza per affrontare, qui ed ora, la questione del sovraffollamento, segnalando l’opportunità di diversificazione dei percorsi detentivi, almeno per i ristretti con un residuo pena basso, con una pena inflitta bassa, o per coloro che hanno problematiche sanitarie specifiche”. L’appello dei Garanti: “la proposta di organizzare Case di Reinserimento appare alla Conferenza dei Garanti un modello e una prospettiva interessante e feconda. Ci è stato comunicato un investimento di 1.900.000 euro per assicurare, tramite progetti che saranno valutati il prossimo 31 marzo dal Consiglio di Amministrazione della Cassa delle Ammende, la presenza e l’attività di mediatori culturali in carcere. Abbiamo inoltre affrontato la delicata questione degli istituti penitenziari per minori, confermando la nostra totale contrarietà al provvedimento di trasferimento dei giovani adulti all’interno della sezione distaccata della Dozza di Bologna. Ci è stato detto che è un provvedimento temporaneo di solito quattro mesi. Ci sono state invece date rassicurazioni circa il fondo per le case-famiglia protette per donne con figli, esaurito a dicembre 2024 e non più rifinanziato. Il fondo dovrebbe essere ripristinato con un milione e mezzo di euro in questi giorni. E stigmatizzato la chiusura dell’unico istituto per detenute madri nel sud che è a Lauro, mentre ce ne sono tre al nord, Milano, Torino e Venezia”. Infine, il Portavoce Ciambriello: “Il Ministro si è impegnato a verificare come assumere mediatori linguistici per i 20000 detenuti stranieri presenti negli istituti per penali per adulti e minorili. Bisogna assumere educatori, non solo laureati in giurisprudenza, ma anche come pedagogisti, laureati in scienze dell’educazione, assistenti sociali. Il vecchio bando è il retaggio di un accordo fatto con i sindacati. Sollecitiamo il Ministro in tal senso per l’avvio di nuovi bandi, per l’assunzione di figure di ascolto, criminologi, assistenti sociali.” All’incontro anche oggi come la scorsa volta era presente, invitato dal Ministro, il garante nazionale Riccardo Turrini Vita. Subito dopo l’incontro i tre garanti si sono trovati alla Camera dove c’era un dibattito sul sistema carceri. Per la delegazione dei garanti: “Un’occasione importante, ma deludente. Non sono stati approvati provvedimenti efficaci rispetto alla gravità della situazione”. Morrone (Lega): “Il nostro sistema carcerario non è da Terzo mondo” sestopotere.com, 21 marzo 2025 “L’amministrazione penitenziaria con questo Governo ha fatto grandi passi avanti rispetto alle forti penalizzazioni del passato sia sul piano delle assunzioni sia su quello dei mancati investimenti in dotazioni e strumentazioni più moderne e efficaci”. Così il deputato della Lega Jacopo Morrone in dichiarazione di voto sulla mozione di maggioranza riguardante la situazione nelle carceri, discussa alla Camera nella tarda mattinata di oggi. Dopo aver citato “alcuni punti significativi dell’azione innovatrice di questo esecutivo”, indicando, tra gli altri, le nuove immissioni di personale, in particolare di agenti del Corpo di polizia penitenziaria, Morrone è passato al tema “delicatissimo” dei suicidi in carcere. “Non vorrei entrare nella polemica dei numeri di questi gesti estremi - ha detto - per non trasformarli in un campo di battaglia dove prevalgono le strumentalizzazioni ideologiche a scapito della ricerca di soluzioni che non possono essere i provvedimenti svuota carceri. Escludiamo che il sovraffollamento penitenziario si combatta con iniziative contrarie al principio della certezza della pena, poiché la sanzione penale deve comunque essere proporzionata e non dare l’idea di uno Stato che, per meri limiti organizzativi, non persegue i propri obiettivi di legalità e sicurezza. Ma c’è anche un’altra ragione: i dati numerici, pubblicati dal ministero della Giustizia, non dimostrano un diretto nesso di causalità tra sovraffollamento e spinta suicidaria. Ogni suicidio è un dramma: banalizzare il problema adducendo un rapporto fittizio rischia di impedirne la soluzione. Al contrario servono analisi a 360 gradi per individuare i diversi fattori scatenanti di questi gesti estremi in modo da migliorare l’opera di prevenzione”. Morrone ha poi affrontato il tema del sovraffollamento citando alcuni dati: al 18 marzo 2025 i detenuti presenti sono 62.142, di cui 19.621 stranieri: “un numero su cui riflettere”. La capienza regolamentare degli istituti penitenziari è di 51.323 posti, di cui 46.839 disponibili: “tutti i detenuti - ha spiegato - usufruiscono nelle camere di pernottamento di una superficie media di almeno 3 mq come da standard fissati dalla Cedu. Ma anche sul concetto di sovraffollamento ci sono fraintendimenti che puntano al sensazionalismo senza entrare nel merito. Riteniamo quindi positivo che il Governo come soluzione prioritaria abbia individuato un potenziamento dell’edilizia penitenziaria ma da combinare con l’obiettivo che almeno una parte dei detenuti stranieri, sconti la pena all’estero”. “È sbagliato rappresentare il sistema carcerario del nostro Paese come fosse da terzo mondo per un surplus di enfasi umanitarista o ideologica. L’approccio più pragmatico - ha aggiunto il parlamentare della Lega Morrone - è non perdere di vista la dimensione oggettiva del fenomeno, evitando risposte emergenziali che non risolvono il problema. Ci sono grandi margini di miglioramento e la strada per raggiungere questi obiettivi è comunque già stata imboccata”. Passando al tema della giustizia minorile, Morrone ha rivolto “un particolare ringraziamento al sottosegretario Andrea Ostellari per la sua encomiabile azione per decongestionare le strutture custodiali minorili e renderle più efficienti sul piano trattamentale e rieducativo. Si tratta di una progettualità strategica importante anche a fronte della crescente criminalità giovanile collegata a fenomeni migratori incontrollati e a una mancata integrazione di giovani italiani di seconda e terza generazione”. Di qui l’enumerazione degli impegni richiesti al Governo che si possono sintetizzare nell’invito a “proseguire sulla strada tracciata potenziando le tante iniziative già intraprese che rispondono in pieno alle promesse fatte agli italiani”. Carceri: cosa insegna all’Italia l’esperienza di Alcatraz di Matteo Simighini* Il Cittadino, 21 marzo 2025 Il 21 marzo 1963 venne definitivamente chiuso il penitenziario di Alcatraz, che all’epoca ospitava poco meno di trecento detenuti. Un carcere particolarmente duro, giacché era stato concepito appositamente per contenere i criminali più pericolosi. Dopo solo trent’anni dalla sua apertura (1934), il governo federale degli Stati Uniti, sotto la presidenza di J. F. Kennedy, stabilì di interromperne l’attività, a fronte degli eccessivi costi di mantenimento e delle numerose difficoltà logistiche, legate soprattutto all’ubicazione del penitenziario, costruito su un’isola al largo della baia di San Francisco, in California. Inoltre, l’architettura fatiscente non era in linea con le nuove politiche carcerarie che erano state introdotte nel Paese. Il governo Kennedy, infatti, aveva approvato importanti finanziamenti per ammodernare le carceri già esistenti e per costruire nuove strutture che garantissero lo svolgimento di attività volte al reinserimento dei detenuti. Non si trattava più soltanto di punire, bensì di garantire ai prigionieri la possibilità di essere rieducati. Ed, effettivamente, le condizioni a cui erano sottoposti i carcerati ad Alcatraz non lasciavano spazio ad alcuna forma di riabilitazione. Essi, infatti, erano rinchiusi in celle angustissime (circa 2,4 m x 3m), prive di finestre, che rendevano l’esperienza carceraria ancora più angosciante e claustrofobica. Inoltre, per punire - talvolta solo per prevenire - episodi d’insubordinazione, si ordinavano punizioni assolutamente arbitrarie che colpivano anche chi non aveva commesso alcunché. In assenza di alcuna attività, e con solo un’ora d’aria al giorno a disposizione, nei detenuti era radicato un grave senso di frustrazione e d’impotenza. Dalle numerose testimonianze raccolte a posteriori emerge soprattutto un diffuso sentimento di disperazione e di distacco dalla realtà: la comune sensazione di essere stati ingiustamente svuotati della propria umanità. In effetti, come si può restare umani, con la costante percezione di essere sotto sorveglianza, senza poter più coltivare alcuna ambizione, se non quella di uscire il prima possibile da tale inferno, in un modo o nell’altro? Dinnanzi a questo drammatico scenario, i report del BOP (Bureau of Prisons) enfatizzarono come elementi positivi la sicurezza e l’ordine che imperavano ad Alcatraz. Mantenere la sicurezza era più importante che salvaguardare l’integrità psico-fisica dei detenuti. Le proibitive condizioni di detenzione (cattivo rancio, poco movimento, ecc.) erano coerenti alla pericolosità dei soggetti incarcerati. Inoltre, le numerose umiliazioni e i reiterati episodi di violenza da parte delle guardie carcerarie avevano uno scopo preciso: garantire la più rigida disciplina. Cancellare ogni speranza di migliorare la propria condizione, annichilire ogni manifestazione di dissenso, mantenere una sorveglianza costante: queste erano le linee guida da rispettare. Già nel Settecento, Voltaire, fra i più importanti esponenti dell’Illuminismo, affermava che: “La civiltà di un paese si misura dalle condizioni del proprio sistema carcerario”. Gli fece eco un secolo più tardi Dostoevskij, che scontò sei anni di carcere in Siberia fra il 1848 e il 1854, e poi, scampato miracolosamente alla fucilazione, riportò per tutta la vita i traumi di quella dolorosa esperienza. Cent’anni dopo la vicenda di Dostoevskij, la chiusura di Alcatraz divenne il simbolo del processo di riforma del sistema penitenziario degli Stati Uniti e dell’intero blocco occidentale. Garantire a chi è detenuto di mantenere la propria umanità e coltivare il progetto di ricominciare una nuova vita, una volta riottenuta la libertà, diventò imperativo. Attualmente, la convinzione che il carcere non costituisca solo un’esperienza punitiva, ma di reinserimento, è largamente radicata in Occidente. Eppure, nonostante siano trascorsi alcuni decenni dalla chiusura di Alcatraz, le condizioni carcerarie non sono migliorate ovunque. Gettando lo sguardo alla situazione carceraria in Italia, consultando i dati ufficiali pubblicati dal Ministero della Giustizia in data 15 marzo 2025, risulta che il tasso di sovraffollamento è del 132%. In altri termini, sono circa 62 mila le persone detenute, a fronte di una capienza nazionale inferiore a 50 mila posti. La situazione più critica riguarda il carcere di San Vittore, a Milano, in cui la percentuale di sovraffollamento è superiore al 215%. In più, la dimensione media di una cella singola nel nostro paese non supera i dieci metri quadrati. Certamente, dalla chiusura di Alcatraz a oggi numerosi traguardi sono stati raggiunti. Tuttavia, fintantoché la condizione dei detenuti rimarrà relegata tra le questioni non prioritarie, questo percorso di civiltà non potrà mai dirsi davvero ultimato. *Laureato in Scienze Storiche all’Università Statale degli Studi di Milano La bulimia punitiva aumenterà il consenso, ma non serve a niente di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 21 marzo 2025 Più reati e più pene, tanto più se privi di comprovabile giustificazione, accrescono il potere dei pubblici ministeri e a ingolfano la macchina giudiziaria e gli uffici della magistratura di sorveglianza, oltre a provocare inutili sofferenze ed effetti dannosi di varia natura, non solo alle persone sottoposte a pena ma anche alle loro famiglie. Una premessa. Interpellato tra altri sulla sorprendente e spericolata bocciatura da parte di Delmastro della riforma delle carriere come concepita dal guardasigilli Nordio, il vice-presidente della Camera Giorgio Mulè ha dichiarato all’intervistatore (Il Fatto del 15 marzo): “Sapesse quante cose a me non piacciono del governo, della deriva panpenalistica in giù, ma noi le votiamo per lealtà. Si chiamano compromessi e compensazioni”. Ho motivo di presumere che, tra gli esponenti di Forza Italia, non sia soltanto Mulè a non gradire l’alluvione populista di nuove incriminazioni e nuovi aumenti di pena che, per principale, impulso di Fratelli d’Italia va ingrossando il già mastodontico e malconcio corpaccione della legislazione penale nel nostro paese. Ma questo sgradimento rimane platonico, dal momento che non si traduce in concrete modalità di opposizione dura e intransigente: calare la testa, sia pure a malincuore, al panpenalismo diventa un costo che si è disposti a pagare per lealtà governativa. Più precisamente, in nome di una lealtà che non è motivata da una comunanza di principi e valori o da una condivisione di programmi, bensì che finisce con l’essere imposta dalla volontà di stare comunque al governo per condividerne il potere decisorio e conseguire così, in una logica di scambio, obiettivi che stanno molto a cuore (come ad esempio la riforma delle carriere dei magistrati richiesta, appunto, in particolare da Forza Italia) alla propria parte politica. Tutto ciò sorprende? Sappiamo bene, e la politologia più realista ce lo conferma da tempo, che la politica tende per quasi naturale inclinazione ad agire sulla base di mediazioni, compromessi e do ut des più o meno espliciti o sotterranei. Ma è pur vero che l’utilitarismo di parte può risultare cinico, e persino socialmente dannoso, se non incontra limiti specie in alcuni ambiti. Orbene, ritengo - e non credo soltanto per specializzazione o deformazione professionale - che, tra i settori nei quali le decisioni politiche dovrebbero obbedire il meno possibile a calcoli egoistici, rientri non ultimo quello dei reati e delle pene. La bulimia punitiva strumentale al consenso è, per lo più, priva di reale efficacia preventiva e destinata a una prevalente funzione simbolica. Una penalizzazione invasiva e straripante è illiberale, se non tout court autoritaria: cosa che, purtroppo, non viene percepita dalla maggioranza dei cittadini anche perché, come non si stanca di rilevare Angelo Panebianco, la cultura politica italiana è tradizionalmente priva di “anticorpi liberali”. Più reati e più pene, tanto più se privi di comprovabile giustificazione, oltre ad accrescere il potere dei pubblici ministeri (in contraddizione con la riforma delle carriere, che tenderebbe in vece a limitarlo!) e a ingolfare ulteriormente la macchina giudiziaria e gli uffici della magistratura di sorveglianza, finiscono - e queste sono le conseguenze più preoccupanti - col provocare inutili sofferenze ed effetti dannosi di varia natura non solo alle persone in carne e ossa sottoposte a pena ma anche alle loro famiglie. Senza contare lo spreco di risorse economiche e umane necessarie per gestire l’apparato punitivo e che, piuttosto, andrebbero meglio destinate a strumenti di intervento di ben altra natura. Eppure, la consapevolezza dell’inutilità o dannosità del troppo punire emerge qua e là sullo stesso versante politico. Ha ad esempio affermato Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, in una intervista rilasciata a questo giornale il 17 marzo: “Le pene stanno smarrendo le proprie funzioni, travolte da una valanga di fattispecie, populismo penale, assenza di alternative rispetto alla carcerazione, poveri cristi in attesa di giudizio per reati minori e in condizioni carcerarie disumane”. Ma il punto è passare da una consapevolezza teorica a battaglie concrete e credibili contro la deriva punitivista. Corresponsabili, sia pure in misura diversa, di averla assecondata o non contrastata sono anche le forze progressiste, incluso il Pd, che hanno non di rado nel passato contribuito a utilizzare il penale come rimedio urgente o tappabuchi per far fronte a mali sociali piccoli o grandi, che sarebbe stato più difficile e costoso contrastare con altri mezzi. Come professori di diritto penale, oltre ad analizzare e criticare gli scadenti mal congegnati e superflui prodotti confezionati quasi a getto continuo dalla fabbrica legislativa, dovremmo - auspicherei - farci maggiormente carico di altri due compiti. Per un verso, dovremmo diventare un po’ politologi e sociologi: per approfondire l’indagine sulle cause e le ragioni non solo politiche, ma prima ancora psicosociali per cui il punire - per dirla con Didier Fassin - è divenuto una sorta di passione contemporanea. Per altro verso, dovremmo impegnarci di più in un’azione di pedagogia collettiva, volta a spiegare al grosso pubblico perché l’impiego delle pene può risultare un rimedio inefficace, illusorio e addirittura controproducente. Confido che alcuni professori e studiosi, come si desume da loro interventi anche sulla stampa, siano oggi davvero disposti a incamminarsi lungo le due direzioni auspicate. La nipote di Peppino Impastato: “La lotta alla mafia non è una priorità per il governo” di Davide Imeneo* Corriere della Sera, 21 marzo 2025 Luisa Impastato: “Serve un piano educativo strategico che parta dai più piccoli”. Peppino Impastato è un simbolo della lotta contro la mafia, (oggi si celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, ndr.), non solo per il suo coraggio e le sue denunce pubbliche, ma anche per l’eredità di impegno civile che ha lasciato alle generazioni successive. Ripercorriamo il ricordo di Peppino attraverso gli occhi di sua nipote, Luisa Impastato, con cui abbiamo discusso il cambiamento della mafia, le politiche necessarie per contrastarla e il ruolo fondamentale delle donne nella lotta contro la criminalità organizzata. “Io non ho conosciuto direttamente Peppino, sono nata nove anni dopo il suo assassinio - racconta la giovane direttrice di Radio Aut - i ricordi che ho di lui mi sono stati trasmessi da chi c’era, in modo particolare da mia nonna, che invece ho avuto la fortuna di conoscere perché è scomparsa quando avevo 17 anni”. La mamma di Peppino Impastato, la signora Felicia, è stata essenziale per Luisa: “Grazie a lei ho sentito Peppino comunque familiare, vicino, presente, proprio perché lei, dopo il suo assassino, ha veramente dedicato la sua vita a raccontarne la storia e a vivificarne la memoria”. L’eredità lasciata dal giornalista palermitano ha lasciato un solco profondo nel contesto dell’antimafia sociale… anzi, potremmo dire che è nata con l’attività giornalistica di Peppino Impastato: “Grazie all’impegno di chi dopo di lui ha continuato a difenderne la memoria - racconta ancora Luisa - l’antimafia sociale ha dato vita a tante realtà, associazioni, movimenti che a quel tipo di antimafia si sono ispirati”. Si tratta di un’antimafia che parte dal basso, dalla partecipazione, dalla mobilitazione, dalla riflessione anche, che è diversa da un tipo di antimafia istituzionale, ma è quella fatta dalla costruzione di comunità, dalle persone. “Credo che oggi, spiega la direttrice di Radio Aut, siano ancora tante le esperienze che si ispirino a Peppino e che declinino nei loro territori anche le sue idee, le sue lotte”. Ma questo attivismo non basta per arginare il fenomeno criminale. Negli ultimi anni, infatti, è cambiata la percezione della mafia, ma è cambiata anche la mafia. “Si è adattata ai cambiamenti, spiega Lucia Impastato, anche in seguito a quello che è stato, un risveglio della società civile in seguito al clamore delle stragi e a quella che poi è stata la risposta da parte dello Stato”. La metamorfosi della criminalità organizzata ha generato una sorta di mimetismo: “Non è più percepibile e visibile come in tempi in cui si sparava per le strade quotidianamente, in cui la violenza era più manifesta. Oggi, racconta l’attivista siciliana, la mafia è meno percepita, ma continua a essere un potere criminale forte. È un problema il fatto che a volte ci sia questa illusione di calma, perché la mafia non viene considerata un’urgenza, non viene considerata una priorità neanche nelle agende di governo, come se fosse un problema marginale. E questo probabilmente da alcuni punti di vista l’ha resa anche più forte”. Ciò che occorre, invece, è un piano educativo strategico, bisognerebbe cominciare a diffondere e a costruire una cultura dell’antimafia che parta dai più piccoli, che possa aiutare a costruire veramente una società civile sana con degli anticorpi che non permettano alla mafia di trovare terreno fertile. “La storia a cui ho l’onore di appartenere, racconta ancora Lucia Impastato, si fonda sui valori della giustizia sociale, dell’uguaglianza, della difesa e della tutela dei diritti. Io penso che impegnarsi anche a salvaguardare questi valori o salvaguardare anche i diritti fondamentali come il diritto al lavoro, il diritto ad una vita dignitosa e l’uguaglianza possano essere sicuramente delle pratiche utili a interrompere poi la fascinazione della mafia nei confronti soprattutto delle vulnerabilità sociali ed economiche”. Anche il ruolo delle donne è determinante nel contrasto alla criminalità organizzata, “l’esempio di resistenza di mia nonna Felicia, racconta ancora Luisa, ha dato un contributo decisivo dopo la morte di Peppino a riscattarne la vita e a portare avanti il suo impegno”. Anche l’eredità dell’Associazione delle donne siciliane contro la mafia, nate a Palermo in anni caldissimi, negli anni Ottanta, ha dato tanta speranza nel contrasto sociale e civile alla criminalità organizzata, donne come Anna Puglisi, che ha fondato il Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato insieme al marito, portando avanti un percorso di lotta contro la mafia attraverso pratiche non violente. Dal martirio delle vittime di mafia nasce la speranza di riscatto: l’attivismo di chi non si arrende è la prova che la criminalità non potrà mai avere l’ultima parola. *Responsabile comunicazione Arcidiocesi di Reggio Calabria - Bova Cafiero de Raho: “Il disegno di questo Governo è impedire ai pm di fare le indagini” di Francesco Grignetti La Stampa, 21 marzo 2025 L’ex procuratore antimafia e deputato M5s: “Vogliono riportare la polizia sotto l’esecutivo”. Dalla stretta draconiana alle intercettazioni alla separazione delle carriere fino all’animosità di questa maggioranza verso i giudici italiani, secondo l’onorevole Federico Cafiero De Raho, magistrato antimafia prestato al M5s, c’è un filo rosso che lega il tutto. “Quando avranno impedito ai magistrati di fare le indagini, il passo successivo sarà togliere loro la potestà di farle e dare tutto il potere alla polizia, che significa l’esecutivo”. Cominciamo con le intercettazioni. È dunque legge il limite invalicabile di 45 giorni per ascoltare le comunicazioni, salvo mafia e terrorismo... “Sarà un ostacolo assoluto alle indagini. Detta in maniera facile, una strategia investigativa si fonda sulla ricerca della prova. Pensiamo ad un omicidio: se l’autore non è stato individuato nelle prime 48 ore, è evidente che bisogna iniziare un’attività investigativa calibrata su vari soggetti. Quelli che possono ritenersi essi stessi gli autori. O chi può essere un “veicolo” per arrivare a ricostruire l’omicidio. Ciò comporta l’esigenza di un monitoraggio su questi soggetti e per un periodo rilevante. L’intercettazione serve a ricostruire il quadro, a conoscere i rapporti, a individuare i percorsi, in definitiva a consentire il passo in avanti all’indagine”. Impossibile arrivarci in 45 giorni? “Ma nemmeno nel mondo dei sogni! Diciamolo: il legislatore ha fatto una legge che non consentirà più le indagini. Vale per l’omicidio, per l’estorsione, per la rapina, per il sequestro di persona, per lo spaccio di stupefacenti, per le armi, persino per le violenze verso gli anziani in una casa di riposo o verso i bambini in un asilo, e per tutti i reati da codice rosso… Tutti reati gravi, peraltro, per i quali è consentita un’indagine di 24 mesi. Siamo all’assurdo che c’è un termine per le indagini di 24 mesi, ma un limite alle intercettazioni di 45 giorni”. Risultato? “Una disciplina di questo tipo significherà il blocco totale delle indagini”. Come si collega la stretta alle intercettazioni con la separazione delle carriere? “Guardi, nel momento stesso in cui l’intercettazione si ferma dopo 45 giorni, l’indagine sostanzialmente si conclude lì. E quando le varie indagini si concluderanno nel nulla, si dirà che il pubblico ministero non è capace di arrivare ad un risultato. Perciò si dirà anche che dobbiamo trovare un sistema diverso”. Cioè? “Prima si indebolisce la figura del pubblico ministero. Quando l’hai separato e l’hai indebolito anche dal punto di vista professionale, portarlo sotto il controllo del ministro della Giustizia sarà un gioco da ragazzi. Sarà la conseguenza logica di quel che stanno creando oggi. Il fine ultimo è togliere gli strumenti di contrasto alla criminalità al pubblico ministero e di assegnare compiti diversi alla polizia. A me pare evidente che il disegno reale di questo ministro della Giustizia e del governo attuale sia di sottrarre al pubblico ministero gli strumenti per le indagini, di separare il pubblico ministero dal giudice, e infine di sottrarre al pubblico ministero la direzione della polizia giudiziaria, ridotto a un passacarte. Non sarà più un magistrato a dirigere le indagini, ma il funzionario di polizia. Il quale gerarchicamente dipende dall’Esecutivo. In sintesi: le indagini non le condurrà più la magistratura, ma il governo”. In effetti Carlo Nordio non perde occasione di dirsi affascinato dal modello britannico. E in Gran Bretagna c’è un rapporto molto diverso rispetto all’Italia tra procuratore e dirigente di polizia. Paritario, non subordinato... “Noi siamo in Italia. Qui la politica avrà il controllo totale dell’indagine e il ministro della Giustizia sarà il controllore vigilante del pubblico ministero. Così come avviene in tanti Paesi. Il disegno fondamentale è quello del controllo da parte della politica sulla magistratura, sottraendo ad essa l’esercizio obbligatorio dell’azione penale. Il pubblico ministero non sarà più il titolare dell’indagine, che verrà rimessa totalmente alle scelte della polizia. E a loro volta gli organi di polizia, nel momento in cui verranno sganciati dal pubblico ministero, saranno ricollocati nei rispettivi ministeri e seguiranno le indicazioni della politica. In definitiva, questo governo vuole sottrarre totalmente i colletti bianchi e la politica al controllo di legalità”. Riaprire processi come Garlasco non significa che la giustizia è in crisi di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 21 marzo 2025 La riapertura dell’indagine nei confronti di Andrea Sempio ci propone un revival. I telegiornali del 13 marzo hanno diffuso l’immagine dell’assalto dei cronisti televisivi all’indagato nel momento in cui, sceso da un taxi, accompagnato dai suoi avvocati, entrava a Milano nella caserma dei Carabinieri per sottoporsi al prelievo del Dna. Senza bisogno di richiamare la presunzione di innocenza, è stata una indegna gogna mediatica, irrispettosa della dignità della persona dell’indagato e, anche, della dignità della giustizia. Una scena che poteva e doveva essere prevenuta ed evitata anzitutto dai responsabili della magistratura e della polizia giudiziaria, perché, purtroppo, era prevedibile che i media non si sarebbero sottratti all’agguato. A vedere le immagini dei microfoni “scagliati” contro l’indagato con le sigle delle varie emittenti sembra non ne mancasse alcuna. Cronisti e operatori sono stati mandati sul posto, i direttori di rete hanno deciso di mettere in onda le immagini di quella gazzarra. Quale il contenuto informativo di quelle riprese? Zero. O meglio: dignità dell’indagato e corrività dei media. Tanto si è scritto sulla “gogna mediatica”, ma non è servito a nulla. Male hanno fatto le autorità competenti a non adottare agevoli contromisure. Ma non vi è spazio anche per una riflessione autocritica dei media? Che non incide sul dovere di pubblicare notizie e proporre valutazioni sull’andamento di questo, come di tutti, i casi giudiziari. La distinzione tra cronaca giudiziaria, valutazioni critiche sulle indagini e sui processi da un lato e la pretesa di fare e rifare i processi sui media è agevole da tracciare. Così come è agevole cogliere lo schierarsi delle tifoserie e degli esperti, pronti a fornire la loro decisiva prova. Magistrati intervenuti nelle prime fasi del caso ripropongono le loro tesi, omettendo di rammentare che sono state motivatamente confutate e smentite nei successivi gradi di giudizio. La mera riapertura delle indagini diviene immediato verdetto di assoluzione per chi sta, peraltro con grande dignità, espiando la pena. Il nuovo indagato è ormai avviato a sbrigativa condanna sol che la prova del Dna risulti a lui sfavorevole, dimenticando che quand’anche la coincidenza venisse accertata con quel 99,9 per cento di probabilità che si richiede in questi casi, di per sé sola nulla direbbe sulla responsabilità per l’omicidio. Infine, la coincidenza tra la riapertura di questa indagine e la decisione della Corte di Cassazione che in altro caso controverso ha rinviato alla Corte di appello competente per una nuova decisione ha indotto qualche commentatore a trarne la conclusione di “una crisi profonda di credibilità della giustizia”. Ma non è forse esattamente il contrario? Il decorso di tempi così lunghi colpisce, ma non si deve dimenticare che sono i tempi di una giustizia che rispetta le garanzie ed è cosciente della fallibilità delle decisioni umane. Naturalmente tutti vorremmo una giustizia più rapida e forse sarebbe il caso di impegnarsi di più su questo terreno piuttosto che inseguire “riforme epocali”. Tre gradi di giudizio, con la eventualità che la Cassazione rimandi alla Corte di appello per una nuova valutazione. E ancora l’assolto in giudizio non può essere sottoposto a nuovo processo, anche quando sopravvengano prove significative della sua responsabilità in omaggio al principio che ovunque si esprime con il latino ne bis in idem. Al contrario neppure la condanna definitiva è inscalfibile, quando sopravvengano nuove prove. Il criterio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio vale come monito, può solo assicurare che la decisione dei giudici arrivi a conclusione di un percorso di garanzie, di correttezza di metodo, di correzione degli errori. Ma dobbiamo rispettare questa fragile, imperfetta giustizia umana. E’ da poco in libreria la nuova edizione della “Prima lezione sulla giustizia penale” (Laterza 2025) di Glauco Giostra, un volumetto di duecento pagine fruibile anche per i non specialisti grazie alla limpidezza dell’esposizione. L’eminente studioso del processo penale ci propone l’immagine del processo “come uno stretto ponte tibetano che consente di transitare dalla res iudicanda (cioè il fatto da giudicare e l’eventuale responsabilità del soggetto a cui è attribuito) alla res iudicata (cioè la decisione sulla esistenza del fatto, sul suo rilievo penale e sulla responsabilità del soggetto accusato), che è destinata a valere pro veritate per l’intera collettività”. Ma il “Garlasco show Nuova serie” ormai è in onda, anche con il contributo di commentatori che, fra qualche tempo, riproporranno, indignati, la loro denuncia del “circo mediatico giudiziario”. Sardegna. Insulti alla Garante dei detenuti, Zuncheddu: “Nessuno può dire che quell’acqua non la berrà” L’Unione Sarda, 21 marzo 2025 Irene Testa subissata di insulti dopo aver denunciato condizioni carcerarie precarie, la difende l’allevatore di Burcei che da innocente ha passato oltre 30 anni in cella. Beniamino Zuncheddu sta con la Garante dei detenuti, Irene Testa. L’esponente dei radicali nei giorni scorsi ha denunciato inaccettabili condizioni di detenzione all’interno del carcere di Bancali, a Sassari ed è stata subissata di insulti. Sui social in tanti, troppi, si sono scagliati contro di lei e contro chi è rinchiuso dietro le sbarre, compreso un giovane che aveva iniziato lo sciopero della fame. “Chiudete anche lei”, era per Testa. “Meglio, che a breve c’è la prova costume”, era per il ragazzo che aveva iniziato la protesta. E questi sono stati i commenti più leggeri. In cella per oltre trent’anni c’è stato Beniamino Zuncheddu: una pena scontata per una strage che, secondo le sentenze, non aveva commesso. L’allevatore di Burcei ha inviato un messaggio a Testa: “Chi non conosce la realtà delle carceri e di tutto ciò che la circonda non può capire quanta sofferenza di sia”, esordisce, per poi proseguire: “Bisognerebbe provare per credere, e ringrazio ogni giorno che ci sono persone con un cuore umano che si prendono cura degli ultimi”, è il pensiero per la garante. Poi l’avvertimento: “Nella vita nessuno può essere certo che di quest’acqua non ne berrà: anch’io purtroppo non avrei mai pensato che mi potesse accadere una cosa del genere, perciò mai dire “a me non succederà”. Io ringrazio tantissimo tutte quelle persone che come te si prendono a cuore i carcerati, così come le famiglie”. Salerno. Si sente male in carcere e muore a 37 anni, aperta un’inchiesta di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 21 marzo 2025 La Procura apre un fascicolo sul decesso del 37enne Renato Castagno: sequestrata la salma, disposta l’autopsia. “Presenteremo subito dopo l’autopsia una denuncia alla Procura di Salerno affinché accerti eventuali responsabilità del sistema carcerario nella morte di Renato Castagno”. L’avvocato Bianca De Concilio annuncia il ricorso alla magistratura per fare luce sul decesso del detenuto salernitano Renato Castagno, morto a 37 anni dopo un malore accusato a Fuorni, non si sa ancora causato da cosa. Gli uffici guidati dal procuratore Giuseppe Borrelli, intanto, hanno già aperto un fascicolo per appurare le cause di una morte che resta avvolta nel mistero: al momento, il procedimento è contro ignoti, la salma è stata sequestrata e nelle prossime ore si procederà con il conferimento dell’incarico per l’autopsia. Le incongruenze - La situazione, però, viene monitorata dal legale del giovane. “Al momento sappiamo solo quanto hanno riferito gli altri detenuti che erano con lui in carcere a Fuorni - racconta l’avvocato De Concilio. I compagni di cella di Castagno riferiscono che il mio assistito ha accusato un forte dolore al petto ed è sceso nell’infermeria del carcere, accompagnato da un altro detenuto. Dopo poco è svenuto e chi lo accompagnava è stato fatto tornare in cella. In quei frangenti, è stato avverto il 118”. Qui il primo problema, secondo l’avvocato: “L’ambulanza sarebbe arrivata in ritardo, sappiamo che sarebbero trascorsi oltre 45 minuti dalla chiamata d’emergenza. L’autopsia ora dovrà appurare se Castagno sia deceduto mentre era ancora in carcere in attesa del mezzo di soccorso oppure sia morto durante il trasferimento al Ruggi. Di sicuro sappiamo che all’arrivo al pronto soccorso, Castagno era già morto”. Reggio Calabria. Scarcerato ormai in fin di vita, muore in Casa di accoglienza a Riace di Elisabetta Cina gaeta.it, 21 marzo 2025 La morte di Habashy Rashed Hassan Arafa, migrante egiziano, solleva interrogativi sulle condizioni sanitarie nei penitenziari italiani e l’importanza dell’accoglienza nella comunità di Riace. La notizia della morte di Habashy Rashed Hassan Arafa ha colpito profondamente la comunità del comune di Riace, noto per la sua accoglienza ai migranti. L’uomo, di origini egiziane, era stato condannato con l’accusa di scafismo e aveva trovato rifugio a Riace dopo aver trascorso quasi quattro anni in carcere. Il sindaco Mimmo Lucano ha condiviso il suo cordoglio attraverso i social media, descrivendo Hassan come un amico e rivelando come le sue ultime settimane siano state segnate dalla sofferenza e dall’umanità di un uomo costretto a combattere contro un sistema che lo ha emarginato. Un destino segnato dalle ingiustizie - Habashy Rashed Hassan Arafa era stato rilasciato il 24 febbraio scorso, a pochi giorni dalla fine della sua pena. La sua libertà era stata concessa a causa delle precarie condizioni di salute, considerate non compatibili con il regime carcerario. Questo scenario ha messo in luce una questione cruciale riguardante la salute dei detenuti e le scelte dei magistrati. Mayor Lucano ha dichiarato di aver vissuto la situazione di Hassan come un paradosso: un uomo gravemente malato, rilasciato solo poco prima della conclusione della sua pena, mette in discussione i protocolli di trattamento sanitario all’interno delle carceri italiane. Hassan aveva affrontato un lungo percorso di sofferenza in carcere, con un passaggio drammatico dalla vita di migrante in fuga da conflitti e guerre a quella di accusato. Arrivato in Italia il 19 ottobre 2021, Hassan è stato immediatamente arrestato, lasciando alle spalle una storia di speranza e sogni infranti. Nonostante le sue difficoltà, il suo spirito combattente rappresentava una luce in un contesto spesso oscurato da pregiudizi e discriminazione. L’impatto della sua morte sulla comunità - La morte di Habashy ha suscitato reazioni significative all’interno della comunità. Il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, ha promesso che il giorno 28 farà una proposta al Consiglio comunale per conferirgli la cittadinanza onoraria, un gesto simbolico che evidenzia l’importanza della sua vita nella lotta per i diritti dei migranti. Questo riconoscimento non solo intende onorare la memoria di Hassan, ma anche fungere da monito sul valore dell’accoglienza e della solidarietà. Lucano, noto per il suo impegno nell’integrazione dei migranti, ha ribadito che la storia di Hassan e di tanti altri come lui deve servire da esempio. L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita e portare alla luce le ingiustizie che si verificano nel sistema di giustizia italiano. La sua visione si allinea con un appello più ampio per una maggiore umanità nelle politiche migratorie, affinché casi come quello di Hassan non si ripetano più. La questione delle cure nei penitenziari - Un aspetto che emerge dalla vicenda di Hassan è il tema delle cure adeguate all’interno degli istituti penitenziari. Durante la sua visita al carcere di Arghillà il 7 marzo, Lucano aveva sollevato interrogativi riguardo alla mancanza di assistenza sanitaria per detenuti affetti da gravi malattie. Secondo il sindaco, le strutture carcerarie non possono sostituire le cure mediche di cui tali individui hanno bisogno. I detenuti, anziché ricevere le adeguate attenzioni mediche, sono spesso abbandonati a se stessi. Questo dibattito si lega a una discussione più ampia su come il sistema penale italiano gestisce la salute dei suoi detenuti. Le considerazioni di Lucano pongono interrogativi sull’efficacia e sull’umanità delle misure correttive imposte, spingendo le istituzioni a riflettere su come offrire condizioni di vita più dignitose. La storia di Hassan rimane una testimonianza della necessità di riforme nel sistema carcerario, affinché i diritti fondamentali degli individui siano sempre rispettati, qualunque sia la loro situazione legale. Reggio Calabria. Detenuto con tumore fino agli ultimi giorni di vita, Cucchi (Avs) presenta interrogazione lacnews24.it, 21 marzo 2025 “I migranti dietro le sbarre sono gli ultimi tra gli ultimi”, denuncia la senatrice che si rivolge ufficialmente si ministri Nordio e Schillaci. Il caso di Ahmed, che dopo l’interessamento di Mimmo Lucano trascorrerà i suoi ultimi giorni a Riace. “In Italia i migranti detenuti sono gli ultimi tra gli ultimi, privati delle cure essenziali e abbandonati nell’indifferenza. La vicenda di Habashy Rashed Hassan Arafa, detto Ahmed, ne è una tragica conferma. Gravemente malato di tumore, è rimasto per ben cinque anni dietro le sbarre del carcere di Reggio Calabria, invisibile, senza visite specialistiche, né assistenza adeguata, ostacolato da barriere linguistiche e dall’incapacità del sistema penitenziario di tutelare i più vulnerabili. Solo quando era ormai troppo tardi è stato visitato e grazie all’intervento di Mimmo Lucano, Ahmed ora potrà trascorrere gli ultimi giorni della sua vita con dignità nel Villaggio Globale di Riace. Su questa storia di violazione dei diritti umani esigiamo una spiegazione dal governo Meloni”. Lo afferma la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi, che sul caso ha presentato un’interrogazione ai ministri della Giustizia e della Salute, Carlo Nordio e Orazio Schillaci, “per fare piena luce e chiedere misure concrete affinché simili tragedie non si ripetano mai più”. “È indispensabile garantire mediatori culturali in ogni carcere, rafforzare il diritto all’assistenza sanitaria per tutti i detenuti e investire nella sanità pubblica, soprattutto nel Mezzogiorno, dove le criticità sono più gravi - prosegue Cucchi -. Inoltre, va riconosciuto e sostenuto il lavoro delle realtà del terzo settore, come il Villaggio Globale di Riace, che suppliscono alle gravi carenze dello Stato. Ignorare la sofferenza di chi è già ai margini è inaccettabile. La giustizia non può e non deve essere disumana, il diritto alla salute deve valere per tutti, senza eccezioni”, conclude Cucchi. Forlì. Delegazione del Consiglio comunale alla scoperta delle attività svolte in carcere forlitoday.it, 21 marzo 2025 Durante la visita, i consiglieri hanno potuto confrontarsi con la dirigente e dialogare con i detenuti impegnati in attività funzionali al reinserimento sociale, al rispetto della legalità e alla costruzione di percorsi lavorativi. Martedì una delegazione di consiglieri comunali ha visitato il carcere di Forlì. Accompagnati dalla dirigente Carmela De Lorenzo e dal sostituto commissario della Polizia Penitenziaria Gennaro Zampella, gli amministratori sono stati accompagnati a conoscere i percorsi formativi e le attività presenti all’interno della struttura, tra cui la cartiera Manolibera e i tre laboratori artigianali di assemblaggio elettrico della sezione protetta. La visita ha poi interessato i locali infermieristici, la biblioteca, le cucine, la sezione femminile e la chiesa. Durante la visita, i consiglieri hanno potuto confrontarsi con la dirigente e dialogare con i detenuti impegnati in attività funzionali al reinserimento sociale, al rispetto della legalità e alla costruzione di percorsi lavorativi. Nel frattempo l’associazione Antigone Emilia Romagna ha prodotto un resoconto delle visite effettuate nel 2024 nelle carceri dell’Emilia Romagna, fornendo una fotografia dello stato attuale dei dieci istituti penitenziari per adulti presenti in regione e dell’istituto per minorenni di Bologna. “L’incremento generale delle persone detenute nell’anno 2024 (da 3572 a 3820, dati ufficiali del Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2024) sfiora il 7%, portando la regione Emilia Romagna a un tasso di affollamento che rasenta il 128%, contro il 120,5% del tasso nazionale - si legge nel dossier -.Gli istituti più sovraffollati sono Bologna (171%), Ferrara (162%) e Modena (153%), mentre altri istituti si collocano al di sotto della capienza regolamentare (Piacenza, Reggio Emilia, Forlì, Ravenna)”. “Con questo report vogliamo ribadire come le condizioni di detenzione non dipendono solo dal numero di persone ristrette, ma anche da come e dove queste siano detenute - viene comunicato dall’associazione Antigone -. Al sovraffollamento, che rimane un elemento cruciale di analisi, si aggiungono altri fattori che incidono gravemente sulla qualità della vita in carcere e sulla salute psico-fisica delle persone ivi ristrette, quali: strutture a volte fatiscenti, carenza di attività e di personale, maggiori chiusure delle sezioni, e più isolamento. In questo contesto si inserisce il drammatico dato sulle morti e i suicidi in carcere. In regione, nel 2024, si sono tolte la vita 9 persone; dal 31 dicembre ad oggi, in poco più di due mesi, sono 8 i decessi già registrati nelle nostre carceri. L’ultima morte è avvenuta solo pochi giorni fa nell’istituto bolognese. Sono innumerevoli i fattori di rischio presenti all’interno degli istituti penitenziari italiani. L’elevato tasso di suicidi cui stiamo assistendo - mai così elevato - ci deve mettere in guardia rispetto all’estrema afflizione e sofferenza prodotta dal carcere. Modi della pena che, oltre a non rispettare i criteri di dignità sanciti dalla Costituzione, finiscono per favorire la recidiva piuttosto che abbatterla”. Per quanto riguarda lo stato del carcere di Forlì, “l’istituto presenta i consueti problemi strutturali, dovuti al fatto che il carcere è ricavato all’interno di una rocca; dunque, mancano gli spazi per la socialità, le celle risultano piccole e anguste, una sezione del terzo piano è ancora chiusa in attesa di ristrutturazione a seguito dei danni provocati dall’alluvione dello scorso anno e i lavori per la costruzione di una nuova e più idonea struttura risultano ancora bloccati - si legge nel dossier dell’associazione, frutto di una visita effettuata lo scorso luglio -. Come ogni anno, tuttavia, Forlì compensa la mancanza degli spazi con la forte vocazione trattamentale che lo caratterizza ormai da tempo, mantenutasi anche con il recente cambio della Direzione, avvenuto a marzo 2023”. “L’offerta trattamentale risulta essere ricca, così come le attività offerte dal volontariato, molte delle quali, va segnalato, sono svolte-frequentate da detenuti e detenute insieme. In seguito all’applicazione della circolare volta alla riorganizzazione della media sicurezza, tutte le sezioni sono a trattamento intensificato, tranne una, adibita al trattamento ordinario. In questa sezione le celle dovrebbero rimanere chiuse - viene aggiunto -. Tuttavia, la Direzione ha chiesto una deroga a tale chiusura per il periodo estivo. Infatti, le celle delle sezioni maschili mancano di cancelli e si chiudono solo mediante blindi. Tale mancanza, insieme con le ridotte dimensioni delle finestre, rende la permanenza nella sezione chiusa durante i mesi estivi particolarmente dura, sebbene nelle celle vi siano però ventilatori”. Viene segnalata una migliore condizione del reparto femminile, “dove le celle sono più ampie e i locali doccia risultano essere meglio manutenuti. Non c’è, invece, una sezione ex articolo 32, ma solo una cella al terzo piano che può essere utilizzata a questo scopo in caso di necessità. In questo istituto è garantita copertura medica 24 luglio. Il clima generale appare disteso, e solida la collaborazione tra le diverse figure che operano nell’istituto. Si segnala, infine, la difficoltà di contatto dei detenuti con il magistrato di sorveglianza, che nell’anno 2023, si è recato in istituto una sola volta”. Genova. “Il carcere è divisione: o fuori o dentro, esseri umani liberi o privati della libertà” di Irina Smirnova farodiroma.it, 21 marzo 2025 Le parole di padre Marco Tasca sull’inclusione dei detenuti e il cammino della Chiesa. Nel suo messaggio per la Quaresima, padre Marco Tasca, arcivescovo di Genova, ha richiamato l’attenzione dei cattolici sulla condizione dei detenuti, invitando a un atto di misericordia concreta verso chi vive nel mondo del carcere. Il messaggio prende spunto dal monumento dedicato alla Polizia Penitenziaria al cimitero di Staglieno, un simbolo di separazione tra la libertà e la privazione della stessa. Il presule, riferendosi al carcere, ha osservato: “Il carcere è divisione: o fuori o dentro, esseri umani liberi o privati della libertà. Un mondo separato dalla comunità esterna, al punto che la sua vita nascosta è solitamente ignorata da chi vi passa accanto”. Ha poi proseguito con una riflessione profonda sulla divisione: “Noi crediamo in un Dio che è comunione, e percepiamo tutto ciò che divide come qualcosa di contrario alla sua volontà, contrario al vangelo e infine all’uomo stesso”. Nel suo messaggio, padre Tasca ha sottolineato la necessità di guardare ai detenuti con uno sguardo non giudicante, ma con “occhio cristianamente compassionevole”, richiamando l’esempio di Gesù, che ha posto la visita ai carcerati tra le opere di misericordia. “La riflessione sul carcere può esserci di stimolo a considerare tutto ciò che può limitare le nostre libertà personali”, ha aggiunto, invitando a una maggiore consapevolezza delle nostre fragilità e dei peccati che ci imprigionano, come le dipendenze e i pregiudizi. A tal proposito, l’arcivescovo ha posto il carcere in relazione con la parabola del “Padre misericordioso”, dove il figlio più giovane, dopo essersi allontanato dalla casa paterna, torna pentito, come segno della possibilità di un ritorno e di una nuova vita. “La pena calcolata in un tempo, giorni, mesi, anni, non può essere solo inutile separazione dalla società, ma deve essere un’opportunità di ripensamento”, ha continuato. Padre Tasca ha inoltre lodato l’impegno della Chiesa nell’assistenza ai detenuti, attraverso cappellani, religiosi e laici impegnati, sottolineando l’importanza di offrire ascolto e vicinanza senza scopi di proselitismo. “La testimonianza che una vita migliore è comunque possibile e vale la pena di riscoprirla e di riabbracciarla”, ha dichiarato, sottolineando che il cammino di conversione e pentimento è centrale per un reinserimento reale nella società. Nel suo messaggio, l’arcivescovo ha anche menzionato l’istituzione di un “Centro di Ascolto Diocesano” per le necessità dei detenuti e delle loro famiglie, un servizio pensato per rispondere alle difficoltà quotidiane e per promuovere il reinserimento sociale. “Le risorse sono sempre pochissime, ma forse potrebbero aumentare attraverso una sensibilizzazione e una disponibilità capillare da parte delle parrocchie e anche delle associazioni”, ha sottolineato, rimarcando la necessità di un coinvolgimento strutturato e continuo della Chiesa. Il messaggio si conclude con un appello a non lasciare indietro nessuno nel cammino quaresimale, che sarà coronato dal Triduo Pasquale, e una promessa di gesti simbolici di vicinanza verso i detenuti. “Questo anno Giubilare e questo tempo quaresimale siano per tutti noi nuova occasione per non lasciare indietro nessuno”, ha esortato padre Tasca, concludendo con una preghiera alla Madre della Speranza, affinché il cammino verso Cristo sia fonte di gioia e salvezza per tutti. Potenza. Misurare il tempo dietro le sbarre: il tema al centro del primo Tedx tenuto in un carcere di Fabiana Cofini rainews.it, 21 marzo 2025 È stato il primo a tenersi in un istituto penitenziario in Italia e il secondo in Europa. Dieci speaker, fra cui anche due detenuti, hanno raccontato la loro esperienza dietro le sbarre e come ‘dentro’ lo scorrere dei minuti abbia una valenza diversa. Come scorre il tempo quando non si ha la libertà di impegnarlo liberamente? I 60 secondi che compongono un minuto si misurano sempre alla stessa velocità? Al diverso ritmo che il tempo acquisisce quando si è in carcere e alle varie dimensioni che lo scorrere delle lancette assume a seconda delle proprie esperienze di vita, è stato dedicato il TEDxCarcerediPotenza. È la prima volta che il format inventato in California, una piattaforma globale che condivide e valorizza spunti e idee innovative in ogni parte del mondo, fa tappa in un istituto penitenziario in Italia. La seconda volta in Europa. Dieci speaker, e, fra questi, anche due detenuti hanno raccontato la loro esperienza dietro le sbarre e come il trascorrere dei minuti, in quei luoghi, abbia una valenza diversa. “Il tema del tempo è stato scelto - ha spiegato il direttore dell’Istituto penitenziario, Paolo Pastena - poiché è una dimensione che ci accomuna tutti, pur assumendo significati diversi a seconda delle nostre esperienze di vita. All’interno del carcere pare dilatarsi, aprendo spazi per la riflessione e l’introspezione. Al di fuori, corre invece frenetico, quasi sfugge di mano. Esploreremo come il tempo influisca sulle nostre vite, sulle nostre decisioni e sulle relazioni che costruiamo”. “É stata l’occasione -ha spiegato Gianmaria Ferretti, uno degli organizzatori dell’evento- per esplorare come il tempo influisca sulle nostre vite, sulle nostre decisioni e sulle relazioni che costruiamo”. “Soprattutto - ha sottolineato Fabrizio Manna, un altro degli organizzatori - c’è il tempo dietro le sbarre, dove tutto è diverso. Quasi come fosse ‘senza tempo’. Un altro mondo, parallelo al nostro”. Piperno: “Il tempo sospeso nello spazio vuoto della cella” - Fra le testimonianze particolarmente toccanti quella della blogger Alessia Piperno, arrestata a Teheran e detenuta nella prigione di Evin in Iran, la stessa dove è stata recentemente rinchiusa Cecilia Sala: “Il tempo lì -racconta nel video- è come se fosse sospeso. Un inferno dove perdi la dignità e ogni nozione. Ci sono stati giorni interi in cui non mi hanno portato da mangiare”. “In cella le ore si misuravano non attraverso le lancette di un orologio, ma attraverso le cose da osservare. Noi detenute eravamo a terra in questo spazio vuoto senza letti -spiega ancora la blogger- Anche per andare al bagno dovevamo suonare un campanello e aspettare a lungo che ci venissero a prendere”. La Torre: “Il tempo sospeso di chi attende giustizia” - L’avvocata e attivista italiana Cathy La Torre, specializzata in diritto antidiscriminatorio, ha fatto una riflessione pubblica sul tempo nella giustizia: “Il tempo è sospeso per quattro milioni di persone che attendono una sentenza. In Italia il tempo di attesa per una sentenza può essere lunghissimo e per chi la attende sono anni di vita persi”, ha spiegato. “In questo tempo chi aspetta giustizia è vessato dalla lentezza e chi deve entrare in prigione ha già sprecato 10 anni di vita in attesa della condanna”. L’attivista Cathy La Torre: “Il tempo sospeso di chi attende una sentenza” - La manifestazione si è aperta con il saluto della vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno che ha sottolineato come “i tanti direttori lungimiranti spesso si scontrano con l’opinione pubblica che tratta il tema carcerario in modo populista e repressivo. La nostra Costituzione all’art. 27 sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. L’Italia ha spesso dimenticato questo postulato, facendo diventare il carcere un HUB criminogeno. Oggi - ha concluso - dobbiamo fare tantissimi passi in avanti affinché questo mondo rientri nei parametri della civiltà giuridica, che guida l’ordinamento del nostro Stato democratico”. L’evento, presentato dalla giornalista Isabella Romano, è nato dall’iniziativa di un gruppo di giovani under 30 e dal supporto della Fondazione Eni Enrico Mattei, Fondazione Carical, Fondazione Potenza Futura, con la collaborazione della direzione della Casa Circondariale e sotto l’Alto patrocinio del Parlamento Europeo. Lucera (Fg). Al via i progetti “Sportivi inside” e “Libera…mente sport” nella Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 21 marzo 2025 Acquisire la capacità di rispettare le regole di una disciplina sportiva per imparare ad allenarsi alle regole della società civile. È l’obiettivo condiviso da tutti gli interlocutori che hanno preso parte alla conferenza stampa di presentazione dei progetti “Sportivi inside” e “Libera…mente sport”, finanziati nell’ambito dell’avviso “Sport di tutti - Carceri”, svoltasi del salone del Circolo Unione di Lucera giovedì 20 marzo. I due progetti prenderanno il via ad aprile 2025 e dureranno 18 mesi, promuovendo all’interno della Casa Circondariale di Lucera la pratica di diverse discipline sportive e non solo. “Sportivi Inside”, promosso dall’associazione Sportiva Dilettantistica Gagliarda e rivolto a 50 detenuti adulti della Casa Circondariale di Lucera, prevede l’alternarsi di attività sportive (come ginnastica posturale, rugby, sala pesi) e di attività a carattere sociale (come laboratori di fotografia e di ceramica), il tutto accompagnato da una formazione su corretti stili di vita, primo soccorso, sicurezza sui luoghi di lavoro e interventi di orientamento e accompagnamento al lavoro. “Libera…mente sport”, promosso dall’ASD Polisportiva Opera San Giuseppe, coinvolgerà 48 detenuti adulti della casa Circondariale di Lucera nella pratica di tre discipline sportive (atletica, calcio e ping pong) e in attività aggiuntive extra-sportive che coinvolgeranno i partecipanti in ulteriori momenti di aggregazione e di confronto, come: proiezione di film che raccontano storie legate al mondo dello sport ma allo stesso tempo affrontano tematiche formative come il fair-play, il rispetto delle regole, la disciplina, il sacrificio che porta al raggiungimento degli obiettivi; lezioni IN-OUT con la possibilità anche di accogliere all’interno della struttura altri praticanti degli sport proposti cosi? da “abbattere idealmente” la situazione di reclusione; tornei o open day che possano prevedere la possibilità di un sano confronto anche con il mondo extra-carcerario; uscite didattico-formative per conoscere altre discipline sportive (equitazione, scherma, tiro con l’arco, ...). “Offrendo la pratica di più discipline sportive, non si vuole solo interrompere la monotonia delle giornate in carcere, ma far scoprire che uno stile di vita sano è possibile e gratificante; si vuole sollecitare la persona a rimettersi in gioco avendo come faro il rispetto dell’altro, a cominciare dall’avversario e, con questa premessa, portarla ad impegnarsi per il raggiungimento del risultato. L’obiettivo è di far acquisire il rispetto delle regole come modalità inderogabile di condurre la propria esistenza, dalle regole dello sport a quelle del vivere civile, con adesione e consapevolezza, per una vita soddisfacente e socialmente adeguata anche dopo la scarcerazione”, ha sostenuto la direttrice della Casa Circondariale di Lucera Immacolata Mannarella. Lo sport, che è per tutti un elemento imprescindibile della vita quotidiana, diventa ancor di più un elemento trainante all’interno degli istituti penitenziari, come ha evidenziato il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia e la Basilicata Carlo Berdini: “Lo sport è sicuramente un elemento del trattamento indicato espressamente dall’ordinamento penitenziario, ed è un momento anche per rompere le barriere tra interno ed esterno, quindi iniziative come quelle presentate oggi sono veramente fondamentali perché permettono al detenuto di sfruttare al meglio il momento della pena, che deve assolutamente essere utile”. A ribadire l’importanza di questi progetti è stato anche il Garante Regionale della Puglia dei Diritti delle Persone sottoposte a Misure Restrittive della Libertà Piero Rossi, che ha detto: “Le attività sportive sono tra le manifestazioni di espressività personale, individuale ma anche collettiva tra le più importanti. Trascureremo tutte le questioni riguardanti il profilo educativo e l’adesione alle regole che sono comunque elementi estremamente importanti per la crescita personale, ma direi che soprattutto in questo momento di particolare difficoltà del sistema penitenziario generale, il fatto di dover occupare il tempo utilmente, facendo delle cose di senso e che diano senso anche alla prospettiva trattamentale fondamentale è centrale”. Entusiasta e orgoglioso di portare l’attività sportiva nelle carceri è il coordinatore regionale Sport e Salute Francesco Toscano, che ha fatto un resoconto delle attività: “Siamo partiti nel 2023 con altre sette carceri in Puglia, adesso stanno partendo altri nove progetti, di cui uno nel carcere minorile di Bari. Abbiamo ricevuto una grande accoglienza da parte dell’amministrazione penitenziaria, da Lucera a San Severo fino a Lecce sono tutti entusiasti di questa iniziativa di Sport e Salute che finanzia lo sport sociale in tutta la Puglia”. Ad illustrare nel dettaglio le attività che saranno messe in campo a Lucera sono stati Michelangelo Rubino e Gianni Finizio. “Questo progetto è un’occasione per guardare alla ricchezza di ogni essere umano con un atteggiamento privo di pregiudizi, vicino alla persona nella sua umanità, in modo da creare le condizioni affinché la persona sottoposta al regime penitenziario possa esprimere le proprie qualità, trarne consapevolezza ed eventualmente, acquisire competenze”, ha affermato Michelangelo Rubino, rappresentante legale dell’ASD Gagliarda che promuove il progetto “Sportivi Inside”. “Il nostro è un progetto che punta sulla libertà, sulla libertà che lo sport regala alla mente e al corpo dei detenuti. Siamo convinti che sarà un evolversi di emozioni che ci permetterà di vivere un’esperienza particolare e bellissima” ha sostenuto Gianni Finizio, coordinatore del progetto “Libera…mente sport” dell’ASD Polisportiva Opera San Giuseppe. Alla conferenza sono intervenuti anche Bruna Piarulli, direttrice dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Puglia e la Basilicata; l’ispettrice di polizia penitenziaria Carmen Russo e il consigliere e presidente del consiglio comunale di Lucera Pietro di Carlo. Partner del progetto “Sportivi Inside” sono: Associazione San Benedetto aps, Associazione Irsef aps, La Compagnia della Pera Cocomerina s.c.s.s.d., Csi Comitato Provinciale Foggia, Università Popolare Eugenio Corti, Cla s.c.s, Consorzio Icaro s.c.s, Opes Italia. Partner del progetto “Libera…mente sport” sono: A.S.D. Running Academy Lucera, Murialdomani srl Impresa Sociale, Parrocchia Cristo Re, Coop. Soc. Paidos onlus, Ass. cult. Strumenti e Figure, APS 5 Porte Storiche Città di Lucera. Ferrara. Per la Quaresima il concerto ispirato alla Passione con il coro degli ex detenuti a San Vittore Corriere della Sera, 21 marzo 2025 L’evento promosso dall’associazione milanese Amici della Nave OdV, in collaborazione con Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio: alle 20.30 di sabato 22 marzo 2025, nella Chiesa della Conversione di San Paolo. La voce degli ex detenuti del carcere milanese di San Vittore unita a quelle dell’Accademia Corale Vittore Veneziani e de I Cantori del Vòlto. Gli archi e i fiati dell’Orchestra Antiqua Estensis, con cantanti e musicisti solisti d’eccezione come Paolo Ghidoni. E le voci recitanti del Macró Maudit Teáter di Milano. Insieme per interpretare a Ferrara, in questo tempo di Quaresima, i temi de La Passione evangelica nella sua attualità: alle 20.30 di sabato 22 marzo 2025, nella Chiesa della Conversione di San Paolo. È l’evento promosso dall’associazione milanese Amici della Nave OdV, in collaborazione con Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e Parrocchia della Conversione di San Paolo, con l’aiuto di Amf - Scuola di Musica Moderna di Ferrara. Ingresso libero. I volontari e le volontarie dell’Associazione svolgono la loro attività nell’ambito del recupero di persone detenute o ex detenute con problemi di dipendenza. Tali attività si svolgono a Milano sia all’interno della casa circondariale di San Vittore, presso il reparto di trattamento avanzato La Nave gestito da Asst Santi Paolo e Carlo, sia all’esterno in collaborazione con i Servizi Dipendenze del territorio. Tra le esperienze dell’Associazione vi è quella del canto corale cui partecipano volontari, detenuti, ex detenuti e pazienti dei SerD, in due formazioni denominate Coro La Nave di San Vittore con le persone detenute e Coro Amici della Nave di San Vittore con quelle già uscite dal carcere. Il momento del coro, diretto da Paolo Foschini, rappresenta per i ragazzi e i volontari coinvolti una esperienza inclusiva e umana di rara intensità. È questo il percorso, in carcere e fuori, da cui è nato il progetto dedicato alla Passione. Rappresentata la prima volta a Milano nella Basilica di Sant’Ambrogio con la partecipazione di artisti dei Teatri alla Scala e La Fenice, rinnovata nel convento di Santa Maria dell’Olivo a Maciano di Romagna, La Passione approda ora a Ferrara con collaborazioni nuove. È concepita come un “oratorio laico-spirituale” sui temi della Passione calati nel nostro tempo. Sia musicalmente, in un percorso che spazia dai corali di Bach al repertorio più contemporaneo; sia nei contenuti, con il filo conduttore dei testi evangelici intrecciato alle riflessioni che persone detenute hanno scritto in relazione alle proprie storie personali e al tempo storico che stiamo vivendo. Scuola. Armi di distrazione culturale: l’ossessione “gender” di Barbara Piccininni e Massimo Prearo Il Manifesto, 21 marzo 2025 Le “Nuove indicazioni” nazionali per il primo ciclo di istruzione del ministro Valditara stanno facendo discutere molto. Un passaggio decisamente preoccupante è quello relativo alla necessità di rifondare i rapporti tra scuola e famiglia che sembra di fatto un preludio all’istituzione del cosiddetto consenso informato previsto dai progetti di legge presentati da due esponenti della maggioranza. Il 19 febbraio 2025 a Roma, l’associazione ProVita & Famiglia ha convocato una conferenza stampa per lanciare un ultimatum alla maggioranza sul tema della “libertà educativa” delle famiglie. Sorprendente, considerato che dall’arrivo di Meloni al governo le dichiarazioni pubbliche di questi attivisti pro-life e anti-gender tendono generalmente ad applaudire tutta una serie di iniziative contro quello “sbaglio della mente umana” - così si esprimeva papa Francesco - che sarebbe la cosiddetta “ideologia gender”. Detto fatto. Appena una settimana dopo il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Alessandro Amorese, e poi il deputato leghista Rossano Sasso, hanno annunciato di aver depositato una proposta di legge per introdurre “il requisito del consenso informato per la partecipazione dello studente minorenne ad attività scolastiche vertenti su materie di natura sessuale, affettiva o etica”. Queste proposte di legge si collocano nella continuità della “mozione anti-gender” voluta e fatta approvare dalla commissione Cultura dallo stesso Sasso, fiero paladino della lotta contro l’ideologia gender. Per chi segue l’evoluzione della nuova reazione cattolica e ultraconservatrice - che va dal Family Day al governo Meloni - è chiaro che questo tiro incrociato è il risultato di una continua stigmatizzazione delle minoranze di genere e sessuali. L’idea di fondo è che la visibilità pubblica (e quindi anche a scuola) delle persone Lgbtqia+, del loro universo esistenziale e delle loro diversità - che nulla hanno a che vedere con gli stereotipi triviali gridati quotidianamente da questi detrattori - sarebbe un pericolo per i bambini. Putin prima e Orbán a seguire, d’altronde, con le loro “leggi anti-Lgbt” avevano già aperto la strada che Trump ha non solo imboccato, ma addirittura esteso. Questa specie di “obiezione di coscienza” scolastica che la proposta di legge chiesta dai movimenti anti-scelta traduce nell’idea di un consenso informato preventivo si fonda sulla convinzione secondo cui la libertà di insegnamento “non è arbitrio” e “deve confrontarsi con la libertà di scelta dei genitori”, unici “titolari dell’istruzione dei propri figli”, i quali possono esercitare anche il diritto all’esonero “attraverso lo strumento del consenso informato preventivo”, così dicono. Alla base, c’è una visione conflittuale del rapporto genitori-scuola, in cui quest’ultima viene derubricata a servizio subordinato alla famiglia, ma soprattutto luogo ostile di “indottrinamento” abitato da docenti “sinistri” e pericolosi. Il consenso informato diventa dunque un’arma di difesa preventiva delle famiglie. Ma non si tratta solo di temi legati all’educazione sessuale e alle questioni Lgbtqia+. Lo spauracchio del “gender” è solo un aspetto di una strategia di contenimento del pensiero critico. Disattivare l’immaginazione per impedire che mondi e vite diversi diventino desiderabili, pensabili e praticabili. Così, tra gli argomenti tabù, ci sono anche gli obiettivi dell’Agenda 2030, il contrasto agli abusi sui minori, alle violenze contro le donne e al femminicidio, l’educazione alla cittadinanza, ecc. Questo consenso informato preventivo, spacciato per una misura di “buon senso”, mira in realtà a mettere in difficoltà il personale docente e le scuole stesse. In questo modo si subordina lo svolgimento di lezioni o progetti in orario scolastico all’unanimità del consenso delle famiglie perché le carenze strutturali di organico non permetteranno alle scuole di garantire attività à la carte in quelle ore, come richiesto dai difensori della famiglia tradizionale. Quindi si finirà per condizionare la stessa pianificazione dell’offerta formativa, dove a prevalere sarà la logica di prevenzione dei problemi a discapito della ricchezza e della complessità. In discussione e in pericolo c’è la scuola pubblica, c’è il modello di società cui aspiriamo. Tutto questo dovrebbe allarmarci e portarci a costruire un’alleanza larga e plurale con e a partire dai genitori che, nella stragrande maggioranza, non sono certo rappresentati da ProVita & Famiglia e chiedono invece che l’educazione rimanga pubblica e democratica. Migranti. Dopo Al Masri in Italia c’è anche il capo della milizia libica accusato di crimini contro l’umanità di Irene Famà La Stampa, 21 marzo 2025 Sparizioni forzate, torture, uccisioni illegali e altri crimini di diritto internazionale. È lunga la lista di accuse che pesano su Abdel Ghani al-Kikli conosciuto come Gheniwa. Il capo delle milizie di Tripoli è tornato in Italia dopo essere stato visto lo scorso luglio alla finale del campionato libico di calcio organizzato a Roma dal governo libico. Al-Kikli guida dal gennaio 2021 l’Autorità per il sostegno alla stabilità (Ass), milizia creata dal governo della Libia incaricata di garantire la sicurezza delle sedi e delle autorità di governo, partecipa ai combattimenti, arresta persone sospettate di reati contro la sicurezza nazionale e collabora con altri organismi di sicurezza. Nonostante le accuse non è noto se sia tra gli ufficiali libici nel mirino della Corte Penale Internazionale come Al Masri. Ma l’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) ha denunciato nel 2022 all’Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale 501 casi di omicidi, stupri e torture. Al-Kikli è tornato in Italia insieme a ambasciatori e l’elite del governo libico, per visitare il ministro libico degli Affari Interni Adel Juma ricoverato in un ospedale romano dopo essere stato ferito in un attentato. Husam El Gomati, il dissidente libico tra gli spiati nel caso Paragon, fa sapere che Al-Kikli è arrivato nella Capitale con un jet privato alle 18 di ieri per poi muoversi verso l’ospedale. Il 19 aprile 2022 Amnesty International ha scritto alle autorità libiche chiedendo la destituzione di “Gheniwa” e del suo ex vice Lotfi al-Harari da ogni posizione nella quale potrebbero commettere ulteriori violazioni dei diritti umani, interferire in eventuali indagini - sollecitate dall’organizzazione per i diritti umani - o garantirsi l’impunità. “Gheniwa” ha diretto il Consiglio militare Abu Salim, poi Forza di sicurezza centrale-Abu Salim, mentre al-Harari ora dirige l’Agenzia per la sicurezza interna di Tripoli, implicata in gravi violazioni dei diritti umani. Sono peraltro le stesse autorità libiche ad ammettere il ruolo dell’Ass nelle violazioni dei diritti umani: rappresentanti del ministero dell’Interno di Tripoli hanno confermato ad Amnesty International che l’Ass intercetta migranti e rifugiati in mare e li porta nei centri di detenzione sotto il suo controllo. Il ministero dell’Interno non ha alcun potere rispetto alle attività dell’Ass, poiché questa milizia risponde del suo operato al primo ministro. Le ultime denunce di violazioni dei diritti umani compiute dall’Ass, Amnesty International le ha ricevute durante una sua visita in Libia, nel febbraio 2022. In quel mese, centinaia di migranti sono stati portati nel centro di detenzione di al-Mayah, gestito dall’Ass: un luogo sovraffollato e dalla scarsa ventilazione, nel quale i detenuti ricevevano poco cibo e ancora meno acqua ed erano costretti a bere quella degli scarichi dei gabinetti. Pestaggi, lavori forzati, prostituzione forzata, stupri e altre forme di violenza sessuale erano all’ordine del giorno. L’Ass non fornisce informazioni sul numero di persone detenute ad al-Mayah né consente l’accesso alle organizzazioni indipendenti. Sempre nel febbraio 2022, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, un’operazione di intercettamento in mare da parte dell’Ass si è conclusa con un migrante morto e altri feriti. Amnesty International ha rinnovato la richiesta all’Unione europea e agli stati membri di sospendere urgentemente ogni forma di cooperazione con la Libia in tema d’immigrazione e controllo delle frontiere e di assicurare che future forme di cooperazione siano vincolate alla fine, da parte delle autorità libiche, della detenzione arbitraria di migranti e rifugiati e allo svolgimento di indagini efficaci sui crimini commessi ai loro danni. Migranti. Monsignor Perego: “Il silenzio del Governo sul naufragio nasconde le sue responsabilità” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 marzo 2025 Il presidente della Fondazione Migrantes sui quasi 50 morti davanti Lampedusa: “Bisogna accompagnare le persone, non bloccarle. Dobbiamo difenderci dal riarmo, non dai migranti. Pensare che avere un arsenale pieno sia uno strumento di sicurezza è un’illusione che qualcuno vuole coltivare”. Dieci superstiti, sei cadaveri e altre quaranta persone inghiottite dal mare è il bilancio dell’ennesima strage avvenuta martedì a poche miglia da Lampedusa, nel mutismo di autorità e governo. “Un silenzio che aggrava il disinteresse rispetto a una politica del Mediterraneo che si prenda cura delle persone in fuga”, afferma monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Confederazione episcopale italiana (Cei). Il governo non ha rilasciato nessuna dichiarazione su questo grande naufragio. Aveva altre priorità o è una scelta? Mi pare sia una scelta per cercare di lasciar cadere in secondo piano la sua forte responsabilità, quella di un governo che ha sostanzialmente abbandonato la cura del Mediterraneo e delle persone che lo attraversano. Il silenzio aggrava questo disinteresse a una politica del mare che non sia di abbandono, rimpatrio e affidamento ad altri del doversi occupare delle persone in fuga anziché farlo in prima persona. Con un’operazione che avrebbe dovuto coinvolgere ancora una volta l’Europa. Anche i media, con poche eccezioni, hanno evitato di dare rilevanza alla nuova strage. Dopo Cutro l’Italia si è stancata di vedere questi morti? Si è girata dall’altra parte. Purtroppo si mostra disinteresse per l’appello che papa Francesco fece a Lampedusa chiedendo “Dov’è tuo fratello?”, le parole della Genesi con cui il Signore ricordava a Caino di Abele. C’è un’indifferenza che cresce anche dentro un’opinione pubblica fortemente condizionata dall’idea di arrendersi di fronte al dramma di queste persone. Migrantes ha parlato di “una tragedia evitabile”. Come si possono evitare queste tragedie? Lo abbiamo detto tante volte. Il Mediterraneo è una delle strade attraverso le quali rigenerare l’Europa con persone che sono in fuga, ma dentro di sé hanno anche tanta speranza, grande capacità e forza di rinnovamento. L’abbandono del Mediterraneo è il primo aspetto colpevole, mentre ci dovrebbe essere attenzione a farlo diventare una strada per vie legali di ingresso, per la capacità di ciascuno di riconoscere in queste persone una risorsa importante per le nostre città che, come sappiamo, stanno morendo. Poi si possono evitare anche attraverso i canali legali, che mancano da vent’anni perché sono sostituiti da quote per quanto riguarda i lavoratori e da nessun interesse, se non quello dei corridoi umanitari, per quanto riguarda i richiedenti asilo e i rifugiati. Secondo la premier Meloni il modo per fermare le morti in mare è bloccare le partenze. Magari con gli accordi con Tunisia e Libia. È d’accordo? Assolutamente no. Noi non abbiamo bisogno di bloccare le persone, abbiamo bisogno di accompagnarle nei luoghi, nelle città, nei territori dove hanno già una comunità di riferimento, dove c’è esigenza non di manodopera da sfruttare ma di nuovi lavoratori e nuovi lavori, di persone che con la storia, la freschezza e la capacità che hanno dentro possano da una parte rigenerare le nostre città e dall’altra costituire una risorsa per una vera cooperazione allo sviluppo nel loro paese, come lo furono i nostri emigranti. Non dimentichiamo che le rimesse sono sempre state il volano più importante per la cooperazione allo sviluppo: le politiche migratorie e di sviluppo camminano insieme. Diversamente c’è il rischio che una annulli l’altra. Secondo il governo un altro strumento per ridurre le traversate sono i centri in Albania, che dovrebbero produrre un effetto dissuasivo. Funzioneranno? È sotto gli occhi di tutti che, al di là di rappresentare un grande spreco di risorse gettate a mare, al momento sono chiusi. Anche se potrebbero tornare a essere delle carceri, dei lager per persone che si vogliono non rimpatriare ma mandare in un luogo altro rispetto al loro paese. Da questo punto di vista sono una soluzione, oltre che costosa, disumana e già condannata dal diritto internazionale. Oggi ci sono leader statunitensi ed europei che dicono: la principale minaccia per l’Europa non è la guerra, ma i migranti. Dobbiamo difenderci? Dobbiamo difenderci dal riarmo, questo sì. Pensare che avere un arsenale pieno di armi e le città vuote di migranti sia uno strumento di sicurezza è un’illusione che qualcuno vuole coltivare. Ma non genera altro che morte perché diventa il sonno della ragione, come diceva Piero Calamandrei. La scorsa settimana papa Francesco ha scritto “la guerra è assurda, disarmiamo la terra”. È una prospettiva utopistica o persino in un momento come questo c’è spazio per praticarla? Anche adesso, anzi ancora di più adesso c’è spazio per praticarla. Perché armarsi equivale ad avere in casa e fuori casa un pericolo in più. Il disarmo significa invece avere sicurezza e pace, che è la condizione necessaria perché le persone possano crescere e le città rinnovarsi. La guerra è frutto della nostra natura, ma non è inevitabile di Emilio Carelli L’Espresso, 21 marzo 2025 L’umanità ha dimostrato che la giustizia, la pace e la comprensione reciproca possono prevalere. In un periodo in cui venti di guerra sono tornati prepotentemente a spirare in molte parti del mondo, mi ha molto colpito per l’attualità delle questioni poste, il libro di Gianluca Sadun Bordoni, “Guerra e natura umana” (vedi pagina 20). È un’analisi penetrante e provocatoria che affronta un tema tanto antico quanto attuale: la guerra come manifestazione intrinseca della natura umana. L’autore si distingue per il suo approccio rigoroso e multidisciplinare, attingendo a conoscenze provenienti dalla biologia, dalla storia, dalla psicologia e dalle scienze sociali. Il saggio non si limita a esaminare le guerre passate, ma si interroga sulle radici profonde che caratterizzano ogni conflitto, chiedendosi se l’umanità sia in grado di liberarsi per sempre dalla morsa della guerra e della violenza. È l’auspicio che tutti noi condividiamo, anche se la storia dell’umanità finora lo ha sempre disatteso. La tesi che emerge si basa sulla convinzione che la guerra non sia una cattiva invenzione culturale, ma piuttosto un comportamento con profonde radici nella nostra storia evolutiva. Di conseguenza la teoria che indica la guerra come un’aberrazione comportamentale scaturita da una società civilizzata e da fattori culturali si dimostra - secondo Sadun - inadeguata di fronte alla realtà storica e antropologica che ci dimostra invece come le dinamiche belliche siano state sempre una costante inevitabile della condizione umana. A questo punto dovremmo arrenderci e considerare inarrestabile lo scoppio di nuove guerre? Non sarebbe meglio tentare di contrastare queste posizioni, portando alla luce argomenti che possano mettere in discussione l’idea che il conflitto sia una condanna per l’umanità? L’evoluzione non è una semplice ripetizione di comportamenti passati, ma un processo dinamico. La capacità umana di adottare norme sociali, etiche e culturali diverse ha dimostrato che anche cooperazione, empatia, solidarietà e pacifismo possono essere espressioni della natura umana. Le evidenze antropologiche suggeriscono che molte società, in particolare quelle primitive di cacciatori-raccoglitori, hanno dato spazio a pratiche basate su cooperazione e risoluzione non violenta dei conflitti. Tutto ciò ci porta a concludere che la guerra non è una risposta inevitabile, ma uno dei molteplici percorsi che l’umanità può scegliere. La Storia recente ha dimostrato che movimenti pacifisti e risoluzioni diplomatiche possono efficacemente prevenire i conflitti. Gli sforzi globali per il disarmo nucleare, per esempio, hanno portato a una significativa riduzione delle tensioni tra diverse potenze. L’idea che l’umanità non possa superare l’orrore dei conflitti non considera le profonde trasformazioni avvenute in molti contesti, dove il dialogo e la cooperazione hanno preso il sopravvento sulle armi. Le società moderne hanno sviluppato strutture legali e internazionali capaci di affrontare le dispute attraverso negoziazioni pacifiche, suggerendo che la cultura della guerra può essere sostituita da una cultura di pace. Sostenere che la guerra sia intrinsecamente legata alla nostra natura significa rinunciare all’idea di cambiamento e sviluppo umano. La nostra capacità di apprendere dagli errori del passato e di evolverci come società è ciò che ci distingue come specie. Sebbene il conflitto sia parte della nostra storia, non è una condanna inevitabile per il futuro. L’umanità ha dimostrato, e continuerà a dimostrare, che la giustizia, la pace e la comprensione reciproca possono prevalere sulla guerra. Mai come in questo momento risuona attuale il messaggio di Papa Francesco di questi giorni: “Nella malattia, la guerra mi sembra ancora più assurda. Bisogna disarmare la Terra”. Stati Uniti. Trump contro i magistrati. Come mai nessuno prima di Elena Molinari Avvenire, 21 marzo 2025 La rotta di collisione fra Donald Trump e la magistratura americana impartita dai primi atti della nuova Amministrazione Usa ha prodotto il temuto impatto. I suoi effetti non sono ancora chiari, ma bisogna accettare l’idea che è solo il primo scontro e che altri Big Bang costituzionali sono dietro l’angolo. Nell’ultima settimana il capo della Casa Bianca ha ignorato gli ordini di vari tribunali federali, rifiutandosi di revocare la sospensione degli aiuti esteri, le deportazioni di categorie protette di immigrati, alcuni tagli alla spesa federale e il licenziamento massiccio di dipendenti pubblici. È un Rubicone che nessun presidente americano aveva attraversato prima, almeno negli ultimi 150 anni, ma a rendere la crisi costituzionale particolarmente spaventosa è quanto fosse prevedibile e inevitabile allo stesso tempo. Trump infatti è sul piede di guerra con i giudici americani da almeno quattro anni, durante i quali ha accusato a più riprese quelli che hanno pronunciato sentenze contro di lui di essere terroristi, pericolosi estremisti di sinistra o malati di mente. Nessuno allora poteva illudersi che scherzasse quando, all’inizio di febbraio, ha scritto sui social media che “chi salva il suo Paese non viola alcuna legge” e, poco dopo, che nessun giudice “dovrebbe essere autorizzato” a pronunciarsi contro la sua Amministrazione. Eppure il mondo legale americano si è trovato spiazzato davanti alla sfacciataggine con la quale negli ultimi giorni gli avvocati di Trump hanno messo in discussione la legittimità dell’ordine restrittivo di James Boasberg, il giudice distrettuale capo degli Stati Uniti a Washington che ha imposto alla Casa Bianca di sospendere le espulsioni di cittadini venezuelani. I voli di deportazione sono continuati e Trump ha chiesto l’impeachment e la rimozione del magistrato. La sorpresa forse deriva dal fatto che, da quando si è insediato, il presidente americano ha invocato a più riprese l’intervento della magistratura a suo favore, in particolare chiedendo alla Corte Suprema di legittimare la serie di ordini esecutivi che ha firmato a una velocità e su una scala mai viste, provocando decine di ricorsi. Fino a una settimana fa, infatti, gli accademici spiegavano il comportamento di Trump argomentando che stava cercando di rilanciare, in forma estrema, un principio vecchio di 40 anni e noto come la teoria dell’esecutivo unitario, in base alla quale i presidenti dovrebbero avere il controllo totale del governo, anche violando le tutele sancite dal Congresso. Negli ambienti legali americani si sentiva dire che l’Amministrazione Trump voleva ristabilire l’esecutivo unitario a suon di sentenze, contando in particolare sul fatto che il presidente dell’attuale Corte Suprema, John Roberts, in due casi che coinvolgevano Trump aveva affermato che la presidenza ha bisogno di un “esecutivo energico”. Ora una tale visione appare ingenua. La situazione è degenerata tanto, e tanto velocemente, che questa settimana lo stesso Roberts, che l’anno scorso ha concesso a Trump una certa immunità legale, ha risposto con un raro rimprovero alla richiesta di impeachment del giudice Boasberg. “Per più di due secoli - ha scritto Roberts - è stato stabilito che la rimozione non è una risposta appropriata al disaccordo riguardante una decisione giudiziaria. Il normale processo di appello esiste per quello scopo”. In realtà, i due comportamenti apparentemente contraddittori di Trump - attaccare i giudici e appellarsi al massimo tribunale Usa - non fanno che mettere in evidenza una visione altamente strumentale del potere giudiziario. E anche l’esistenza, in questo momento negli Usa, di un ramo esecutivo che opera solo sulla base della sua capacità di farla franca, sia politicamente che legalmente. Allora forse conviene aprire gli occhi e accettare che gli Stati Uniti sono già andati oltre la crisi costituzionale e sono in mano a un governo che vuole imporre un potere di tipo dittatoriale. O, come ha sostenuto un ex magistrato che non può essere accusato di aver mai nutrito alcuna simpatia per la sinistra, J. Michael Luttig, a un regime che “ha dichiarato guerra allo Stato di diritto”. Se è così, la domanda da porsi non è più fino a che punto si spingerà l’Amministrazione Trump, ma chi potrà fermarla. Turchia. C’è “aria di golpe” dopo l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem ?mamo?lu di Mariano Giustino Il Riformista, 21 marzo 2025 La storia si ripete, prima come tragedia, poi come farsa. Erdo?an fu vittima di un regime che lo mise dietro le sbarre per estrometterlo da primo cittadino e dalla scena politica; adesso è lui a mettere in carcere il suo principale rivale. Hanno sfidato ogni divieto, i giovani studenti in marcia lungo le strade di Istanbul verso Saraçhane, per manifestare la loro rabbia e il loro sostegno per il sindaco dietro le sbarre. Hanno superato barricate, hanno affrontato i famigerati Toma (i cannoni ad acqua), hanno sfidato i lacrimogeni della polizia in assetto antisommossa. Hanno marciato a migliaia in una megalopoli militarizzata, giovani e anziani, donne e bambini, studenti e lavoratori; hanno camminato per ore e per chilometri, pacificamente. Si sono recati a piedi in quella piazza del municipio diventata il cuore simbolico di una lotta di resistenza per la difesa della democrazia, perché il servizio di trasporto pubblico era stato sospeso dalle autorità per rendere difficili le adunate. Un fiume si è recato lì, a Saraçhane, davanti alla sede centrale della Municipalità metropolitana di Istanbul (?BB), nel distretto di Fatih, per stare idealmente accanto al loro sindaco, Ekrem ?mamo?lu, arbitrariamente arrestato assime a oltre 100 altri oppositori, tra cui sindaci distrettuali e diversi funzionari di area del Partito repubblicano del popolo (Chp). Özgür Özel, presidente del partito repubblicano, ha tenuto il suo discorso dal balcone e ha subito sottolineato il fatto che il sindaco arrestato sarà comunque nominato candidato del Chp nelle primarie di domenica 23 marzo nella sfida contro Erdo?an alle presidenziali, perché, a maggior ragione, il suo arresto contribuirà ad aumentare i consensi dell’opinione pubblica, come stanno rilevando i più prestigiosi istituti demoscopici turchi i quali ora danno a ?mamo?lu un vantaggio su Erdo?an di oltre due milioni e mezzo di voti. “Se il governo nominerà un amministratore fiduciario per defenestrare dalla carica di sindaco ?mamo?lu, noi resisteremo e non lasceremo il palazzo del Municipio di Istanbul nelle mani del governo”, ha minacciato Özel. Molti manifestanti si sono lamentati anche delle difficoltà finanziarie che il Paese attraversa. La valuta turca è crollata a un minimo storico. La Borsa valori è in caduta libera. La Banca centrale in pochissimi minuti ha bruciato 10 miliardi di dollari per stabilizzare la lira dopo la notizia dell’arresto di ?mamo?lu. ?mamo?lu e gli altri oltre cento oppositori arrestati, sono accusati in due indagini separate riguardanti la lotta contro il terrorismo e la corruzione. Il sindaco era pronto a candidarsi alle primarie presidenziali del Partito repubblicano, il suo partito, domenica, 23 marzo, giorno della sua nomination. ?mamo?lu è considerato da tutti gli analisti il più insidioso rivale del presidente Recep Tayyip Erdo?an per la corsa alle presidenziali. Sul tetto dell’autobus dove i politici di opposizione stavano tenendo i loro discorsi alla folla, c’era anche la moglie del sindaco, Dilek ?mamo?lu, che ha preso la parola e ha detto: “Non è stato arrestato solo mio marito, ma è stata arrestata anche la volontà di 16 milioni di abitanti di Istanbul. Oggi, assieme a ?mamo?lu, sono stati incarcerati lo stato di diritto, la democrazia e la giustizia”. È importante sapere che Erdo?an non sta solo cercando di impedire a Ekrem ?mamo?lu di diventare presidente, ma vuole anche riprendersi Istanbul. Infatti, con l’annullamento del suo diploma di Laurea, per un pretestuoso vizio di forma, gli impedisce di candidarsi alle presidenziali. Mentre con l’accusa di terrorismo, lo rimuoverebbe dalla carica di sindaco per nominare al suo posto il governatore di Istanbul. Il leader turco ha deciso di essere Putin, ma la Turchia non è la Russia. L’opposizione c’è, è forte e inossidabile; ha diversi leader molto popolari, non si fa intimidire e grida al golpe. L’arresto dell’esponente politico di opposizione più popolare del Paese, vicino alle cancellerie europee, potrebbe costare molto caro al presidente. Al momento, nelle carceri turche sono rinchiusi i leader di tutti i maggiori partiti d’opposizione, dietro le sbarre abbiamo il leader carismatico curdo Selahattin Demirta?, il presidente del Partito della Vittoria (Zafer Partisi) Ümit Özda? e ora Ekrem ?mamo?lu. Siamo all’esportazione del modello putiniano in Turchia. Proprio come ha fatto Putin in Russia, Erdo?an modella le elezioni a suo vantaggio molto prima che queste si svolgano, per preparare il terreno a lui più favorevole per garantirsi una sicura vittoria arrestando oppositori, politici, attivisti della società civile e neutralizza gli avversari più insidiosi. Erdo?an scommette qui, con la pratica dell’eliminazione dei leader d’opposizione per via giudiziaria, che Trump non si preoccuperà affatto per l’arresto di ?mamo?lu dati gli interessi degli Stati Uniti in Siria, ma soprattutto perché questa amministrazione Usa dei diritti umani e delle democrazie non sa che farsene. E scommette inoltre, sul fatto che l’Europa avrà probabilmente una reazione smorzata dato che ora sembra percepire la Turchia come un sempre più comodo e prezioso alleato a protezione del suo fianco sudorientale, dopo la sostanziale rottura operata da Trump del patto euroatlantico e come un alleato che fornisce un sostegno all’Ucraina, che è fondamentale per il contenimento di Mosca nel Mar nero e nel Mediterraneo e che può tornare utile nella costruzione dell’architettura di sicurezza e di difesa europea. La storia si ripete, prima come tragedia, poi come farsa. Un tempo Erdo?an fu vittima di un regime che lo mise dietro le sbarre per estrometterlo dalla carica di sindaco di Istanbul e dalla scena politica, oggi è lui a mettere in carcere il suo principale rivale per eliminarlo dalla competizione elettorale.