Il sistema penitenziario deve respirare di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 20 marzo 2025 Un morto dopo l’altro dentro quel buco nero che ci ostiniamo a chiamare carcere. Un conteggio macabro che non ha finora spostato di una virgola l’indifferenza di chi ci governa. Si ammazzano gli italiani, gli stranieri, i giovani, gli adulti. Si è ammazzata anche una donna. Ci si ammazza al nord e al sud, all’inizio e alla fine della pena. Ai ventuno morti suicidi se ne aggiungono tanti altri che muoiono per cause da accertare o che non saranno mai accertate. Molte morti sono archiviate per causa naturale, nonostante l’età media dei detenuti trovati senza vita nelle prigioni d’Italia è di circa quarantatré anni, dunque più o meno quando una persona libera si trova nel cuore della sua esistenza. Morti che non provocano reazione emotiva nei tanti uomini di potere che si professano cattolici. Morti senza nome, morti che le famiglie sanno a stento come e quando hanno perso la vita. Questo è il segno di un vero e proprio cinismo di Stato, ingiustificabile, disumano. Di tutte queste morti veniamo a sapere solo per un comunicato di un’organizzazione sindacale o per circostanze estemporanee. Non c’è quasi mai trasparenza nel racconto istituzionale di quella morte e gli operatori di periferia sono soli, nelle loro fatiche, nella loro disperazione. Vengono lasciati alla mercé di chi dall’alto degli incarichi di governo li sollecita, con parole truci, a non far respirare le persone detenute. Delle carceri sappiamo purtroppo tutto. Sappiamo che ci sono quindicimila persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Sappiamo che ci sono carceri dove non c’è spazio per stare in piedi in cella e dove il numero di detenuti è doppio rispetto a quello previsto: da San Vittore a Milano sino a Regina Coeli a Roma, fino a Foggia dove si è tolto la vita un signore italiano ieri, a due giorni dall’ingresso in carcere. Sappiamo che il sistema penitenziario minorile è al collasso per la prima volta da decenni, a causa delle nuove norme volute dal governo con il cosiddetto decreto Caivano: ragazzi che dormono per terra, psicofarmaci a iosa, proteste. Il personale è allo stremo. La risposta è sempre e solo il pugno di ferro. I poliziotti sono tornati a indossare le divise negli istituti per minori. Molte carceri versano in condizioni intollerabili. A Sollicciano a Firenze vi sono infiltrazioni e muffa ovunque. In molte celle manca il mobilio, la luce, e nel corridoio della seconda sezione dopo il tramonto il personale si muove con le torce. A Regina Coeli a Roma vi sono persone che non avevano a disposizione un tavolino su cui poggiarsi per mangiare, che erano senza coperte, posate o altri beni di prima necessità. A Modena il vecchio padiglione è fatiscente, con cimici, sporco, mobilio gravemente danneggiato e porte arrugginite. Di fronte a una popolazione detenuta composta prevalentemente da persone vulnerabili la risposta istituzionale è stata la chiusura generalizzata nelle celle. I detenuti sono così costretti a stare in luoghi malsani sino a venti ore al giorno. Il Parlamento, giustamente sollecitato dalle opposizioni a occuparsi della questione carceraria (una seduta straordinaria si terrà oggi alla Camera), non deve lasciare il carcere, i detenuti e gli operatori nelle mani del solo Governo, di chi ha mostrato indifferenza e cinismo, di chi non piange i morti e pensa che il detenuto sia un bersaglio da eliminare. Il sistema penitenziario deve respirare. Vanno prese decisioni straordinarie e coraggiose, non necessariamente popolari, per ridurre drasticamente i numeri nelle carceri per adulti e in quelli per ragazzi. Non lasciateli morire, ammalare, uno ad uno. Sarebbe criminale. *Presidente dell’Associazione Antigone Suicidi in carcere, dramma infinito e risposte insufficienti di David Allegranti La Nazione, 20 marzo 2025 Nelle fatiscenti e sovraffollate carceri italiane ci si continua a suicidare. A poche ore di distanza, due detenuti si sono tolti la vita nel carcere di Montorio, a Verona. Non ha più senso parlare di “emergenza”: i suicidi, in queste condizioni, sono purtroppo destinati a proseguire. Le cause di un suicidio possono essere molteplici e ogni suicidio fa storia a sé, è vero, ma se in una cittadina di 62.165 abitanti, tanti quanti sono i detenuti attualmente presenti (al 28 febbraio 2025) negli istituti penitenziari, ci fossero 90 suicidi l’anno (record stabilito nel 2024; ora siamo già a 20), probabilmente ci chiederemmo con insistenza, ogni giorno, cosa sta succedendo e perché. Magari un giorno uno studio scientifico ci spiegherà che il sovraffollamento non c’entra niente con la volontà di togliersi la vita, ma per ora possiamo chiederci se invece non sia proprio fra le cause che rendono la vita in prigione così insostenibile. Oltretutto, il sovraffollamento non colpisce più soltanto le prigioni per adulti, ma anche gli Istituti Penali per Minorenni. È lecito domandarsi se un giorno non assisteremo a fenomeni suicidari anche tra i giovani detenuti. Di certo non ha più senso continuare a parlare di “emergenza suicidi” in carcere perché tutto ciò che doveva emergere è già emerso. E di certo si può dire che la risposta del governo, compreso quella del ministro della Giustizia Carlo Nordio, è insufficiente. Le ragioni sono molteplici. Tuttora, dopo le dimissioni di Giovanni Russo, non è stato individuato il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, attualmente nelle mani di Lina Di Domenico, facente funzione. Di fronte alle critiche ricevute fin qui sulla gestione degli istituti penitenziari, Nordio in aula si è difeso ricordando che “il Ministero della Giustizia ha procurato un’integrazione di risorse pari a 5 milioni di euro per l’osservazione psicologica fondamentale per trovare i segnali di allarme in queste situazioni”. Cinque milioni di euro però sono una goccia nel mare perché, come ricordano i sindacati di Polizia Penitenziaria, nelle carceri italiane mancano anche gli agenti (e anche loro si suicidano, peraltro). Il segretario dell’Uil-Pa Gennarino De Fazio ricorda che mancano 18 mila agenti e “Verona, con 595 reclusi presenti a fronte di soli 318 posti disponibili, gestiti da 318 operatori di polizia penitenziaria, quando ne necessiterebbero almeno 420, si inserisce pienamente in questo contesto”. L’unica risposta del governo “concreta”, se vogliamo definirla così, sta nell’intenzione di aumentare il numero di posti in carcere. Anzitutto non si spiega quanto tempo servirebbe per costruire nuove carceri. In più, come ha spiegato di recente il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, “se anche nei prossimi tre anni il governo riuscisse a dotare la capienza delle carceri di 7.000 nuovi posti, come dichiarato dalla presidente Meloni, avremo comunque, ad oggi, almeno altre 8.000 persone detenute senza un posto regolamentare. A questo si deve aggiungere che le persone detenute sono aumentate di oltre 2.000 unità nell’ultimo anno e di oltre 5.000 unità dal 2022”. Se il tasso di crescita fosse questo “anche nei prossimi tre anni (cosa tutt’altro che impossibile a fronte delle attuali politiche penali) è prevedibile che i 7.000 nuovi posti andranno ad assorbire i nuovi ingressi, lasciando dunque il sistema penitenziario in una condizione di affollamento cronico e drammatico come quello che si registra oggi, con circa 15.000 persone in più rispetto alla capacità del sistema stesso”. Colloqui in carcere. “Basta l’autocertificazione per dimostrare di essere una coppia di fatto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2025 Con una sentenza destinata a fare giurisprudenza, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’autocertificazione prodotta da un detenuto è sufficiente a dimostrare un rapporto di convivenza more uxorio, garantendo così il diritto ai colloqui con il partner. La decisione, emessa dalla Quinta Sezione Penale, annulla una precedente ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari (Gip) di Castrovillari che aveva negato a Carmine Alfano, in custodia cautelare, la possibilità di incontrare la compagna Maria Ruotolo. La motivazione? La semplice autocertificazione e un certificato di residenza sono prove adeguate, salvo il rischio di sanzioni penali in caso di dichiarazioni false. Arrestato nel 2024 per accuse non specificate nel provvedimento, aveva chiesto di poter incontrare in carcere la sua compagna. Per dimostrare la convivenza, i suoi avvocati - Giuseppe Della Monica e Francesco Matrone - avevano presentato un’autocertificazione firmata dalla Ruotolo (datata 28 agosto 2024) e un certificato anagrafico che attestava la residenza condivisa a Scafati, oltre alla presenza della coppia nella stessa abitazione al momento dell’arresto a Cariati. Il Gip di Castrovillari aveva però respinto la richiesta, sostenendo che “il ritrovamento dell’Alfano in compagnia della Ruotolo non è indice univoco” di un rapporto stabile, potendo trattarsi di una relazione “occasionale”. La Cassazione, con la sentenza numero 7825, ha ribaltato questa decisione richiamando due principi cardine. L’autocertificazione è prova sufficiente: come previsto dalla circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria n. 544994/ 1998, l’autocertificazione (ai sensi della legge 15/ 1968) è valida per attestare la convivenza. La sentenza sottolinea che spetta alle autorità verificare eventuali falsità, ma non può essere richiesta una “prova ulteriore” rispetto a quanto previsto dalla legge. Parità tra convivenze e matrimonio: la legge 76/ 2016 sulle unioni civili equipara i conviventi di fatto ai coniugi in ambito penitenziario. La Cassazione ha ricordato che la nozione di “convivente” include chiunque condivida la vita col detenuto, senza distinzioni di sesso o tipologia di relazione (amicale, lavorativa, o more uxorio). “Il provvedimento impugnato ha compiuto un errore metodologico”, si legge nelle motivazioni. Il Gip non aveva specificato su quali basi concrete dubitasse della documentazione presentata, limitandosi a un generico riferimento a “accertamenti della polizia giudiziaria” privi di dettagli spazio- temporali. Una motivazione “carente” che viola l’articolo 111 della Costituzione, garantendo il diritto a una difesa effettiva. La sentenza precisa che, sebbene l’autocertificazione semplifichi le procedure, chi mente rischia conseguenze gravi. L’articolo 495 del codice penale punisce con fino a due anni di reclusione chi fornisce false attestazioni su qualità personali a un pubblico ufficiale. Un precedente del 2019 (sentenza Farsetta) conferma che dichiarare una convivenza inesistente è reato. La decisione rafforza i diritti dei detenuti in custodia cautelare, spesso svantaggiati dalla lunghezza dei processi. Il mantenimento delle relazioni affettive è un diritto fondamentale, compresso solo per esigenze di sicurezza. Tuttavia, le carceri potranno effettuare controlli a campione, come previsto dalle circolari, per evitare abusi. Il caso Alfano non solo ribadisce principi già esistenti, ma impone ai giudici di motivare in modo dettagliato eventuali dinieghi. Il rinvio al Gip di Castrovillari (in “diversa persona fisica”) obbligherà il nuovo giudice a valutare nuovamente i documenti, stavolta senza pregiudizi. In un Paese dove le convivenze di fatto sono in aumento, la Cassazione segna un passo verso una giustizia più inclusiva, riconoscendolo anche per chi è in carcere. Lo sgarbo a Mattarella dietro la mancata nomina del nuovo capo delle carceri di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 marzo 2025 Da tre mesi il dipartimento del ministero della Giustizia per l’amministrazione penitenziaria è senza un capo. Dietro la stasi si cela uno sgarbo istituzionale del ministero nei confronti del capo dello stato, non informato preventivamente della nomina proposta da Delmastro. Oggi alla Camera si terrà una seduta straordinaria sull’emergenza carceri (venti i suicidi fra i detenuti da inizio anno). L’aspetto più incredibile è che da tre mesi il Dap, cioè il dipartimento del ministero della Giustizia per l’amministrazione penitenziaria, è senza un capo, dopo le dimissioni di Giovanni Russo il 20 dicembre. Il ministero ha subito avviato la procedura per promuovere la vice, Lina Di Domenico, senza però interloquire prima con il presidente della Repubblica, che, in quanto capo delle Forze armate, è tenuto a firmare il decreto di nomina. Uno sgarbo istituzionale che ha generato l’imbarazzante stasi. Russo si è dimesso il 20 dicembre, soprattutto a causa del pessimo rapporto con il sottosegretario Andrea Delmastro, che ha la delega sulla polizia penitenziaria, corpo con cui l’esponente di Fratelli d’Italia ha da tempo instaurato una relazione strettissima. A rendere ancora più complicato il rapporto tra i due ci ha pensato la vicenda giudiziaria che ha investito proprio il sottosegretario (portando alla sua condanna in primo grado a otto mesi), legata alla divulgazione dei verbali secretati dell’anarchico Cospito. Ascoltato come testimone nel processo, infatti, l’allora capo del Dap Russo contribuì a mettere nei guai Delmastro: “Su richiesta del sottosegretario Delmastro, gli inviai due relazioni sul caso del detenuto Cospito, entrambe con la clausola ‘a limitata divulgazione’, che quindi sarebbero dovute rimanere all’interno dell’amministrazione”. Queste dichiarazioni hanno di fatto messo la parola fine al rapporto tra i due. Leggendo il carteggio tra il ministero della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura si scopre che il giorno stesso delle dimissioni di Russo, il 20 dicembre, gli uffici di Via Arenula hanno chiesto al Csm di confermare il collocamento fuori ruolo di Russo, trasferendolo al ministero degli Esteri, e, nella stessa data, di confermare il fuori ruolo anche per la vicecapo del Dap, Lina Di Domenico, per farle assumere l’incarico di capo del medesimo dipartimento. Di Domenico è ritenuta vicinissima a Delmastro: con la sua promozione il sottosegretario meloniano metterebbe definitivamente il cappello sulla gestione di una struttura così importante come il Dap. L’8 gennaio il Csm ha dato il via libera a entrambe le richieste del ministero della Giustizia. Da allora, però, l’iter si è bloccato. Il ministro Nordio non ha mai portato la proposta di nomina di Di Domenico al Consiglio dei ministri. La ragione dietro questo stop, secondo quanto riferiscono fonti di Via Arenula, è da ricondurre a ciò che viene ritenuto uno sgarbo nei confronti del Quirinale. La nomina di Di Domenico è stata annunciata ai media e proposta al Csm senza che il presidente Mattarella, come da prassi, fosse stato preventivamente informato. Spetta all’inquilino del Quirinale, che è anche capo delle Forze armate, infatti, firmare il decreto di nomina del capo del Dap. Una questione a dir poco delicata. Dopo le dimissioni di Russo, Di Domenico è diventata capo del Dap facente funzioni, ma l’adozione di alcune decisioni richiede la presenza di un capo e di un vice. In altre parole, la situazione non può durare ancora a lungo. Anche se è difficile che la faccenda possa sbloccarsi prima del 25 marzo, anniversario della fondazione della Polizia penitenziaria. Come se non bastasse l’assenza di un capo del Dap, a rendere ancora più imbarazzante la gestione dell’emergenza carceraria è il sostanziale “commissariamento” da parte del governo del commissario per l’edilizia carceraria, Marco Doglio, nominato a settembre. Visti i ritardi con cui sta procedendo il cronoprogramma stabilito per aumentare il numero dei posti per i detenuti, Doglio (il cui incarico da 100 mila euro lordi all’anno scadrà il 31 dicembre 2026) è stato strigliato prima da Nordio e poi dalla premier Meloni, che ha deciso di tenere una riunione con il commissario ogni quindici giorni per conoscere i progressi compiuti. Insomma, di fronte all’emergenza carceraria al ministero della Giustizia sembra dominare il caos. Il reato di femminicidio è una trovata antiumanista. Fermiamo il populismo penale di Massimo Donini L’Unità, 20 marzo 2025 Il reato già c’è in forma di un diritto uguale e non discriminatorio. Quello che vorrebbe introdurre il governo è un delitto populista e simbolico senza base criminologica adeguata, che differenzia ingiustamente tra i generi e aggrava senza necessità pene già elevatissime. Occorre spiegare perché il reato di femminicidio c’è già, nei contenuti adeguati ai dati criminologici nazionali, ed è scritto in forma di un diritto uguale e non discriminatorio, a differenza dell’ipotesi formulata nel recente ddl governativo, che appare espressione di un populismo penale di pura propaganda, che dissimula un antiumanesimo legislativo. È famosa la frase di Ortega y Gasset, per il quale nell’Università si riflette su idee che decenni più tardi sono oggetto di discussioni nelle pubbliche piazze. Anche per il femminicidio è stato così: materia di riflessioni criminologiche negli anni 90 del secolo scorso, da parte di studiose femministe o del femminismo (Marcela Lagarde e Diana Russell), le quali hanno coniato il termine, che si è poi affermato a livello legislativo in numerosi Stati dell’America Latina. L’analisi gender oriented dei crimini contro donne e lesbiche, per es., ha consentito di descrivere davvero le forme di discriminazione, violenza, controllo dell’uomo sulla donna fino all’uccisione della donna “in quanto donna”, ricomprendendo in questa connotazione sia gli omicidi misogini, sia quelli sessisti: il femminicidio a seguito di stupro, quello razzista, l’uxoricidio, il femminicidio di prostituta, il delitto d’onore, il lesbicidio, il femminicidio pedofilo, quello con mutilazioni genitali, etc. Sul piano criminologico vi rientra anche la “morte in vita”. Nelle condotte misogine si ricomprendono per es. i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, ma anche quella educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale (cfr. B. Spinelli, Femminicidio: dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, 2008). Sono tante forme di discriminazione che gravano sull’essere donna ben prima del femminicidio in senso stretto, ma fanno parte della “cultura” nella quale matura questo delitto. I numeri delle uccisioni di donne in America Latina sono impressionanti e per questo è sorta in quel contesto l’esigenza “culturale” di contrastare anche mediante il diritto penale una situazione di intollerabile compressione dei diritti umani. Non si sa ora quante uccisioni si sono evitate incriminando il femminicidio con pena più grave dell’omicidio comune, ma certo si è contribuito alla crescita di una consapevolezza collettiva di valori, disvalori, a una diversa attenzione sociale, pubblica e privata, verso i diritti delle donne. I risultati peraltro, nei decenni, lasciano comprendere che la prevenzione generale positiva (educativa) e negativa (intimidatorio-punitiva) ha costruito un tessuto sociale meno brutale e crudele, con diminuzione dei fenomeni più aberranti. L’esempio mondiale dell’inferno di Ciudad Juárez, la cittadina tra il Messico e gli USA teatro di omicidi sessisti seriali di centinaia di donne all’anno, oltre alle migliaia di donne scomparse tra gli anni 90 e i primi dieci anni del XXI secolo, ha costituito solo un esempio estremo, con descrizioni cinematografiche e letterarie (Bolaño), di una realtà comunque impressionante nei numeri. I nostri poco più di 300 omicidi dolosi all’anno (in maggioranza a vittima maschile) sono numericamente una esiguità rispetto agli oltre 30.000 omicidi in Messico nel 2024 o agli oltre 400 omicidi annuali nella sola città di New York (dato del 2023). Ora, in un contesto culturale e sociale come quello di molti Paesi del Centro e Sud America, che hanno statistiche non lontane da quelle del Messico, la presenza di una forte componente discriminatoria, sessista, violenta contro le donne giustifica o comunque spiega un’operazione legislativa di costruzione (in anni passati, invero) di un delitto autonomo di femminicidio (rassegne utili nei libri di E. Corn, Il femminicidio come fattispecie penale, Ed. scientifica, 2017, e F. Macrì, Femicidio e tutela penale di genere, Giappichelli, 2018). Certo, si tratta di vedere quale carattere di determinatezza abbia il ricorso frequente alla definizione legale del reato come uccisione di una donna “a causa della sua condizione di donna” da parte del marito, ex marito, compagno o ex compagno, oppure in determinati contesti di relazioni, ovvero per misoginia, o con disprezzo del corpo della vittima etc. Sono numerose le definizioni che presentano aspetti problematici. Ma prima di discutere di una legittimità formale in termini di tassatività e precisione, è la sostanza della fattispecie che deve essere valutata. Nel quadro nazionale manca il fenomeno criminologico diffuso presente nelle realtà di Paesi come Guatemala, Costarica, Nicaragua, Salvador, Cile, Perù, Messico, Bolivia, dove questa fattispecie è stata introdotta. Ma non solo. Rispetto alle intollerabili discriminazioni di genere in Italia possiamo dire che il femminicidio è già reato, ed è già sanzionato con la pena dell’ergastolo, mentre la sua prevenzione è realizzata, a livello puramente penale, dal reato di maltrattamenti e da quello di stalking, che costituiscono oggi tra le fattispecie più diffuse a livello processuale e di indagini. Occorre ricordare che nei plurimi interventi legislativi contro le discriminazioni di genere il legislatore è intervenuto finora senza differenziare comunque tra i generi, lasciando che la realtà della discriminazione e delle disuguaglianze venisse criminalizzata maggiormente ma solo di fatto, e non in astratto. È così che il delitto di omicidio è da tempo (dal 2009: governo Berlusconi IV) aggravato con la pena dell’ergastolo se il fatto è commesso: in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli 572 (maltrattamenti contro familiari o conviventi), 583 quinquies (lesioni con deformazioni permanenti al viso), 600 bis (prostituzione minorile), 600 ter (pornografia minorile), 609 bis (atti di violenza sessuale), 609 quater (atti sessuali con minorenne) e 609 octies (violenza sessuale di gruppo); dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612 bis (atti persecutori) nei confronti della stessa persona offesa. Si tratta delle situazioni più frequenti dove matura il delitto di uccisione della donna, ma non solo della donna, e comunque anche della donna “perché donna”. Tali regole hanno il pregio, rispetto al femminicidio come nomen iuris, di non differenziare i generi in modo discriminatorio e dunque di essere diritto uguale, applicabile anche a una vittima transgender per esempio (su queste riforme v. A. Merli, Violenza di genere e femminicidio, Esi, 2016). E hanno il pregio di essere diritto non certo mite, ma neppure indeterminato e ciecamente repressivo. Nella sostanza, si può dire che il reato di femminicidio esiste già. Però non è pubblicizzato in modo nominale. Ciò che si intende introdurre ora, invece, è un femminicidio come titolo autonomo di reato e a pena fissa dell’ergastolo (non come semplice aggravante dell’omicidio). Si tratta, in sostanza, di un delitto populista e simbolico che: a) non ha una base criminologica adeguata nella realtà nazionale, b) differenzia ingiustamente tra i generi, c) aggrava senza nessuna necessità pene già elevatissime. Purtroppo, occorre dire che il giornalismo nazionale ha così propagandato il termine femminicidio, anche fuori luogo, adottandolo per ogni caso di omicidio di vittima di genere femminile, da suscitare l’aspettativa di una prevenzione e repressione penale del tutto “particolare” e aggravata per questo reato anche al di là delle basi criminologiche proprie sulle quali è sorta la sua codificazione a livello internazionale. Si è da tempo creata l’aspettativa di un reato nuovo e finalmente risolutivo (sic) di un fenomeno che in realtà neppure veramente esiste (nei termini sopra detti, si noti, senza equivocare). In termini statistici abbiamo visto che la realtà italiana è del tutto incomparabile con quella dei Paesi del continente americano, per esempio, e ha un tasso tra i più bassi in Europa (consuntivo della Direzione centrale della polizia criminale, Roma, 30 dicembre 2022, quanto agli omicidi). Capisco dunque, che Giovanni Fiandaca (Il Foglio, 13 marzo) inciti i professori di diritto penale, con diversi argomenti, rafforzati dai dati che qui si ricordano, a prendere posizione contro la progettata riforma nel quadro più generale di un modo di fare legislazione penale privo di basi empiriche, del tutto simbolico e populista. Mi auguro che questa sia compresa come un’occasione favorevole per farlo: il femminicidio, come detto, anche solo inteso in un significato debolissimo come uccisione di una donna (non in quanto donna, dunque), resta fenomeno che allarma moltissimo l’opinione dei media al di là della realtà statistico-criminologica comparata nazionale e internazionale, ed è pertanto prevedibile una politica corriva a ogni aggravamento di pena, del tutto trasversale ai governi che hanno praticato simili trends in tutte le riforme penali. Si tratta, anche qui, di allarme “gonfiato” dalla stampa e dalla politica, patologia generale dell’informazione penale in Italia. Si dovrebbe invece realizzare davvero un revirement, anche a sinistra. Perché “non basta l’ergastolo”, in questo clima, occorre un ergastolo aggravato, “vero”, manifesto del penale più duro, di un giudicare che esclude per sempre la persona. Ogni attenuante, secondo la riforma prospettata, non potrà mai diminuire la pena sotto i 24 anni in concreto (ciò che oggi, invece, è possibile). Basterebbe, secondo il disegno, non solo l’uccisione di una donna in quanto donna, come atto di discriminazione o di odio, ma anche “per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”: finalità ben presenti in tanti normali omicidi. Se già l’idea di una uccisione della donna (ma anche di un omosessuale, di una lesbica, o di un maschio) “in quanto tale”, non è priva di manipolabilità applicativa in una realtà diversa da quella d’origine o da una patologia vera, tale da esigere di entrare nella mente e nella psiche dell’omicida oltre i limiti naturali e giuridici del diritto processuale penale, la riforma pensata seleziona requisiti che presentano una assoluta normalità, e che dunque non caratterizzano neppure il fatto di quella gravità criminologica che potrebbe giustificare una sua introduzione. Ma il disegno è del tutto aggravante anche per il diritto penale dell’omicidio e per i maltrattamenti, rivisitati con picchi sanzionatori mai conosciuti nella legislazione passata. Il penalista deve evidenziare una estensione simbolico-repressiva del diritto penale populista quale dimensione ordinaria della politica governativa, già rimarcata in numerosi commenti alle riforme degli ultimi due anni, che hanno conteggiato una cinquantina di nuovi reati (spesso solo con aggravamenti di fattispecie già esistenti). Non si tratta dunque di contrastare una novità, ma l’esempio forse più eclatante di una sottocultura dominante antiumanista: il vero utilizzo dell’uomo (anche se delinque) come mezzo e non come fine, chiedendo finalmente l’appoggio dei media più illuminati e non complici. Scriveva Karl Ferdinand Hommel, il “Beccaria tedesco”, che “chi stabilisce per i crimini pene più dure di quelle che richieda la necessità, è un assassino”. Questa richiesta di contrastare una politica, e non solo un disegno di legge, è un SOS non per le donne, ma per noi tutti. Il Ddl femminicidio è un caso di analfabetismo penale. L’Anm tace: nessuno vuole inimicarsi le donne di Lorenzo Zilletti Il Dubbio, 20 marzo 2025 Dieci giorni. Per dieci giorni abbiamo sperato, inutilmente. Ad illuderci, il ricordo ancora vivo del recentissimo sciopero della magistratura a difesa della Costituzione. Invece, niente baluginar di coccarde tricolori; nessuno sventolìo di cartelli inneggianti alla “più bella del mondo”; nessuna foto di gruppo - dress code togato - sulle scalinate dei palagiustizia, postabile sui social più en vogue; nessun flash mob. Eppure, se c’è un’iniziativa legislativa del governo che liquida inappellabilmente il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e quello di determinatezza della legge penale (art. 25 Cost.), è proprio il ddl partorito il 7 marzo scorso sul cosiddetto femminicidio. Svolta storica ed epocale, l’ha trionfalisticamente battezzata il team ministeriale delegato alla propaganda urbi et orbi. Poche reazioni - In un certo senso, è difficile dar torto a quegli entusiasti artefici del postdiritto punitivo: come ha detto - magistralmente - Giovanni Fiandaca, siamo di fronte a “un insulto ai princìpi di un diritto penale costituzionalmente orientato”, tale da meritare una protesta “visibile ed eclatante” dei professori di quella materia, con sospensione di lezioni ed esami e promovimento di pubbliche manifestazioni di dissenso. Un insulto, dunque, che a una paladina incrollabile della (o sulla?) Carta, come si autoproclama Anm, avrebbe dovuto ispirare quantomeno le medesime reazioni suscitatele dalla tanto vituperata riforma di ordinamento giudiziario. Nutrendo quest’ aspettativa, abbiamo navigato sul web, compulsato testate giornalistiche, setacciato rassegne stampa. La ricerca è stata deludente, se si eccettua l’intervento critico di Riccardo Di Vito sul sito Volerelaluna.it, ma che, come noi qui, si esprime a titolo personale. Il commento di Parodi - Ad oggi, dunque, dobbiamo registrare come unico commento targato Anm quello pronunciato l’8 marzo dal suo presidente, dottor Parodi (la conferenza stampa è disponibile su YouTube). Per quanto egli abbia premesso di parlare del ddl non come leader del sindacato dei magistrati, resta il fatto che quella veste la incarna; pertanto, le sue parole pesano in modo diverso. Vediamole: le indicazioni del governo sono per lui “tutte in astratto condivisibili, perché vengono a rafforzare un sistema di tutela che risponde a un’esigenza effettiva e straordinaria del Paese”. Non basta: Parodi riconosce una “forte valenza a livello politico e di indicazione generale” al “voler sottolineare la rilevanza di questo fenomeno dove la donna viene uccisa in quanto donna”. L’unica preoccupazione che -condivisibilmente, beninteso - lo affligge è di tipo organizzativo, laddove il ddl imporrebbe l’obbligo per i pm di raccogliere personalmente le dichiarazioni in indagini della persona offesa: si crea “un problema pratico di proporzioni colossali”, non essendo coniugabile questo “principio bellissimo” con le carenze di organico e gli incombenti delle Procure. Dubbi di costituzionalità? Nessuno. Attribuzioni improprie di funzioni pedagogiche alle norme penali? Nessuna. Figuriamoci l’”insulto” di Fiandaca. Il silenzio alimenta un sospetto - Capirete, dunque, perché prima di buttar giù queste righe abbiamo aspettato che il ben noto pluralismo culturale, espresso dalle correnti, potesse trovare sfogo. Il silenzio prolungato alimenta un sospetto, anzi due, tra loro alternativi (evitiamo la citazione andreottiana del peccatore indovino): tutta Anm la pensa come il suo presidente; a qualcuno il ddl non piace, ma il braccio di ferro col governo sulla riforma di ordinamento giudiziario sconsiglia di aggiungere critica a critica, anche perché - con questi chiari di luna - essere screditati dinanzi all’opinione pubblica come nemici delle donne è un attimo. In entrambe le ipotesi, quel silenzio disarma chi crede per davvero, con Fiandaca, che “in uno Stato liberaldemocratico è più coerente astenersi dall’assegnare alla repressione anche il compito di cercare di correggere o orientare inclinazioni etiche, tipi di mentalità o atteggiamenti interiori”; essendo piuttosto tipico “degli Stati autoritari confondere legalità e moralità”. E trasmette il messaggio che certi appelli alla Costituzione siano soltanto pura propaganda. Non è mai troppo tardi per smentirci - Oh, non è mai troppo tardi per smentirci, almeno finché quel ddl non diventerà legge, con il verosimile sostegno unanime di un Parlamento ridotto all’analfabetismo penale, nutrito di populismo ed ebbrezza punitiva: magistratura, università e avvocatura saranno capaci di convergere in una battaglia di civiltà per dire no a quello che Ucpi ha stigmatizzato come il “tempo delle grida”? Valente (Pd): “Con il reato di femminicidio si fotografa l’idea di dominio sulla donna ma l’educazione resta prioritaria” di Marianna de’ Micheli Il Riformista, 20 marzo 2025 Il disegno di legge sul femminicidio, approvato di recente dal Governo, presenta luci e ombre. Valeria Valente, esponente del Partito democratico ed ex presidente della Commissione Femminicidio del Senato, è fiduciosa: “Aiuterà ad avere consapevolezza, impedirà a tanti di negarne esistenza e specificità, agevolerà i giudici”. Ma al tempo stesso invita a discutere sull’ergastolo e lancia l’allarme: “Sta crescendo la violenza maschile in tutte le sue forme di fronte alla maggiore libertà conquistata dalle donne”. Con l’approvazione del ddl sul femminicidio si dà al reato una sua specificità, una diversità rispetto all’omicidio. Ce la spiega? “Il disegno di legge introduce l’articolo 577-bis nel Codice penale per definire la fattispecie del femminicidio come uccisione di una donna in quanto donna, come atto di discriminazione o di odio o per limitarne i diritti, la libertà e l’espressione della personalità. È una definizione che si può migliorare: personalmente valuterei di eliminare la parte su discriminazione e odio che può valere in molti casi e verso soggetti diversi, dettagliando di più la seconda parte che invece contiene finalmente il riferimento esplicito alla matrice culturale del femminicidio, che riguarda l’asimmetria di potere, la volontà di sopraffazione e di controllo di un uomo nei confronti di una donna, in una relazione non paritaria. Si fotografa, rendendolo finalmente parte integrante della fattispecie criminosa, non il movente o l’elemento psicologico del reo in quel momento, ma un particolare comportamento riconducibile all’idea del dominio dell’uomo sulla donna, che anni fa giustificava il delitto d’onore e oggi ancora tante forme di violenza e sopraffazione”. Da circostanza aggravante a reato autonomo: un grande salto a livello culturale… “Proprio in quanto fenomeno strutturale di natura culturale, sappiamo bene che la violenza contro le donne si combatte soprattutto sul piano dell’educazione. Ma riconoscere il femminicidio come tale, chiamare le cose con il loro nome, aiuterà ad avere consapevolezza, impedirà a tanti di negarne esistenza e specificità, agevolerà i giudici. Il linguaggio dà significato alle cose. Non è la pena a fare da deterrente, ma lo è il chiaro e condiviso disvalore sociale rispetto a quel comportamento maschile. Si vuole discutere dell’ergastolo? Lo si faccia non solo per questa fattispecie, sarei d’accordo”. Secondo il ddl, la figura della vittima o dei suoi familiari - in fase d’indagine o anche successivamente - può intervenire efficacemente nella relazione con i giudici. In che modo? “Si stabilisce, per esempio, che per giungere al patteggiamento con il reo o per stabilire permessi premio e benefici penitenziari, il magistrato debba avvisare la vittima di stalking, stupro o maltrattamenti e i famigliari della vittima di femminicidio e tenere conto delle loro indicazioni”. A livello di effettiva prevenzione del reato, per esempio nel caso una donna si dovesse trovare in una situazione di emergenza, è soddisfatta dei sistemi attualmente esistenti per l’attivazione immediata dei soccorsi? “Si deve fare di più e meglio. L’ascolto diretto della vittima da parte del pm in un tempo breve può essere prezioso se fatto da personale specializzato, ma ad oggi è irrealizzabile se non si dotano gli uffici giudiziari di più risorse umane e strumentali. Lo stesso vale per i braccialetti elettronici. Vanno rafforzati anche il sostegno alle forze di polizia, ai centri antiviolenza e alle case rifugio che accolgono le vittime”. Al di là dei risvolti giudiziari, una chiave importante per la risoluzione di questo problema è senza dubbio l’educazione delle nuove generazioni al rispetto dell’emancipazione femminile. C’è qualche progetto in cantiere, che coinvolga magari dei giovani studenti? “L’educazione dei giovani dalla scuola elementare all’università, la formazione e la specializzazione dei docenti, degli operatori della giustizia, della sanità, della comunicazione sono la vera carta vincente, non c’è dubbio. Di progetti e di buone pratiche ce ne sono tanti. Il Pd ha un suo ddl per l’educazione al rispetto e all’affettività. Il ddl del governo dispone l’obbligo della formazione per i magistrati anche per favorire maggiore collaborazione con la parte offesa e con i centri antiviolenza, che sanno come si intraprende il percorso di fuoriuscita dalla violenza”. Nel 2024 si sono registrati meno femminicidi, ma più casi di stalking e maltrattamenti. Si potrebbe interpretare questi dati come una maggiore consapevolezza femminile nel dire “basta” e denunciare? “Sulla violenza contro le donne le fonti di dati sono molte e le interpretazioni diverse; per avere statistiche ufficiali bisognerebbe attuare la legge 53 che abbiamo approvato nel 2022. È vero che le donne denunciano di più, ma sta crescendo anche la violenza maschile in tutte le sue forme di fronte alla maggiore libertà conquistata dalle donne, che gli uomini non accettano. Ecco perché serve un cambio di passo: una condanna corale e collettiva condivisa, come è accaduto per il fenomeno mafioso con effetti innegabili”. Intercettazioni, sì al ddl con il limite dei 45 giorni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2025 Possibili deroghe solo se emergono elementi specifici e concreti. Sulle intercettazioni limite di durata a 45 giorni. Nella notte il voto della Camera sull’approvazione definitiva del disegno di legge che, per la prima volta, introduce un limite cronologico alle operazioni di ascolto. Al tetto di 45 giorni è possibile derogare quando l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore è giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, elementi che devono essere oggetto di espressa motivazione. Un intervento che è solo l’ultimo in ordine di tempo di una sequenza che ha visto via via introdurre misure asseritamente a tutela della privacy, freni contro gli ascolti “a strascico”, obblighi di rendicontazione economica per i pm, rafforzamento delle motivazioni sull’uso dei trojan. Una progressione contestata dalla magistratura che vi vede solo ostacoli anche assai significativi allo svolgimento delle indagini. Sinora il decreto del pubblico ministero che dispone l’intercettazione indica modalità e durata delle operazioni. Durata che non può superare i i5 giorni. Tuttavia, qualora siano ancora attuali i presupposti dell’attività di intercettazione, il giudice può autorizzare una proroga per periodi successivi di 15 giorni, senza limitazioni quanto al numero di proroghe. La legge approvata ieri prevede però un’eccezione, riconoscendo la specificità dei procedimenti per alcuni più gravi reati : in particolare per i reati di criminalità organizzata, per quelli commessi con metodo mafioso o per agevolare un’associazione mafiosa, perle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, per i reati commessi con finalità di terrorismo, per il sequestro di persona a scopo di estorsione, per la minaccia via telefono, peri reati informatici e contro la inviolabilità dei segreti. Il limite di 45 giorni non si applicherà alle indagini su questa tipologia di reati, confermando una particolarità prevista già anche in materia di presupposti. Per questi ultimi infatti, già la legislazione attuale prevede che gli indizi da “gravi” scalano a “insufficienti” e l’“indispensabilità” per le indagini si abbassa a “necessità”. Uno sguardo a quanto accade in Europa: in Francia, dopo la riforma del 2016, la durata non può essere superiore a quattro mesi e le operazioni possono proseguire alle stesse condizioni di forma e di tempo, senza che la durata complessiva dell’intercettazione possa superare un anno o due anni nelle indagini per i reati più gravi. In Germania l’ordine perla sorveglianza delle telecomunicazioni e la sorveglianza acustica al di fuori di locali privati deve essere generalmente limitato a un massimo di tre mesi e non può essere prorogato per più di tre mesi per un totale massimo di sei mesi; la sorveglianza acustica di locali privati, invece, deve essere generalmente limitata a un periodo di un mese e non può essere prorogata per più di un mese. In Spagna la durata massima iniziale degli ascolti è di tre mesi, prorogabili per periodi successivi di pari durata sino ad un periodo massimo di diciotto mesi. Corte di Cassazione e migranti. La libertà di parola non deve ridisegnare i confini tra i poteri di Giovanna De Minico* Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2025 Sembrerebbe che il Governo abbia solo espresso la sua opinione sulla sentenza della Corte di Cassazione in tema di migranti illegittimamente trattenuti. Quindi, il Governo sarebbe come un privato cittadino che parla al bar sorseggiando un caffè con un suo amico; salvo il fatto che il dissenso rispetto l’operato della Corte non è manifestato all’amico del bar, ma opportunamente diffuso a tutti i cittadini. La differenza riguarda dunque il solo ambito soggettivo dei destinatari dell’opinione governativa; o un occhio più attento coglie una più significativa distanza? Un passo indietro ci può aiutare a districare la matassa. Nel 2015 il Consultative council of european judges aveva appunto consigliato quattro cose ai governi nazionali: * Il rispetto della divisione dei poteri finalizzato a trattenere ciascun ordine entro il proprio steccato, frenando i tentativi di sconfinare nell’orto altrui. * La base giuridica della legittimazione dei giudici. * La ricaduta di questo regolamento dei confini sia nel divieto di sostituzione tra i poteri che nel dovere di controllo reciproco per assicurare che ciascuno faccia il suo lavoro, non quello del vicino, pur in un ininterrotto dialogo. * La facoltà per il Legislatore e l’Esecutivo di criticare le decisioni dei giudici, a condizione di non comprometterne l’indipendenza. L’ultimo punto è proprio il parametro che ci occorre per capire se la dichiarazione del Governo sia legittima o meno. Il Consiglio consultivo dei giudici europei, il cui pensiero è stato ben chiarito dal Primo presidente della Corte di cassazione, ha posto un unico limite al diritto di parola del Governo: il suo discorso non deve minacciare, né tantomeno alterare, l’indipendenza, attributo inalienabile della Magistratura in quanto prerogativa a difesa dei diritti, e non privilegio di casta. In caso contrario, le parole da atto lecito diverrebbero un fatto illecito. Domanda: quando la parola ha questo potere eversivo? Lo avrà quando il dire proietta un’ombra sulla valutazione obiettiva della Corte che induce i cittadini a pensare che la Corte abbia reso un giudizio politico, in luogo di uno sereno e neutrale, contro la maggioranza di governo. Ritengo che questo punto sollevi pochi dubbi, ma a me non basta questo limite e invito il lettore a un’ulteriore riflessione sulla sua insufficienza. Questo è l’unico divieto al quale il Governo si deve attenere? Oppure, l’art. 21 Cost. ha per il Governo un’estensione più ristretta di quella riferita al comune cittadino perché alle parole dell’autorità possono seguire atti o le stesse possono essere precedute da atti di concreto compimento del pericolo, non più dunque solo minacciato? Il discorso tanto asciutto quanto tagliente della Presidente Meloni rientra proprio in questa ipotesi: la sua critica è l’epilogo di una politica, che, con la scusa di mettere in sicurezza le parti processuali, vuole in realtà allontanare il pm dal giudice per attrarlo a sé e, in ultima istanza, vuole bruciare l’indipendenza della magistratura. E con essa si cancellano altresì secoli di cultura liberale a difesa dell’autonomia dei giudici dalle mire espansive degli altri poteri. Qui non è stato minacciato un evento futuro e incerto, vale a dire la perdita della credibilità popolare dei giudici a causa della loro parzialità, ma annunciato il suo accadere con l’approvazione del disegno di legge di revisione costituzionale sulla separazione delle carriere. La dichiarazione della Presidente del Consiglio non andava fatta, non per bon ton istituzionale, merce davvero rara dopo le quotidiane lezioni della coppia Trump/Musk, ma per ragioni di difesa dello Stato di diritto. La rule of law non può significare solo - come dice il Consiglio consultivo dei giudici europei - che le critiche governative non devono costituire un attacco all’indipendenza, perché il principio ci dice ben altro. La libertà di parola, in quanto ancella della funzione pubblica, non deve lavorare come una leva per ridisegnare asimmetricamente i confini tra i poteri a vantaggio di uno solo, l’Esecutivo. Le nostre libertà, bene ultimo affidato alle cure della giustizia, richiedono invece che i giudici siano autonomi perché l’unica dipendenza legittima è quella verso la legge e quindi verso i diritti da essa riconosciuti. Il principio di legalità, al quale nessun potere si può sottrarre, assicura che le nostre libertà siano rispettate a prescindere dal colore della maggioranza di turno. Pertanto, la protezione non meteoropatica dei diritti varia in ragione del grado di indipendenza assicurato ai magistrati. In sintesi, il Governo dovrebbe esternare meno e proteggere di più. *Professore di Diritto Costituzionale Università Federico II di Napoli Salerno. Detenuto di 37 anni muore in ospedale dopo un malore di Marilia Parente cronachesalerno.it, 20 marzo 2025 Un detenuto del carcere di Fuorni, Renato Castagno, è deceduto dopo aver accusato un forte dolore al petto e essere stato trasportato in ospedale. A riferirlo è la sua legale Avvocato Bianca De Concilio, che ha espresso profondo rammarico per non essere riuscita a fare di più per lui. Castagno, 37 anni, era entrato in carcere per scontare una pena definitiva, ma aveva già sofferto di diversi ictus e di pressione alta. La sua avvocata aveva presentato un’istanza al Magistrato di Sorveglianza per verificare la compatibilità delle sue condizioni con la detenzione, ma il decesso ha reso vano ogni tentativo. “La giustizia, anche in questo caso, si è fatta beffare dalla morte”, ha commentato la legale, sottolineando il dolore della famiglia, in particolare della figlia piccola, che nel giorno della Festa del Papà ha perso per sempre il padre. Pescara. Detenuto 28enne in coma dopo un tentativo di soffocamento di Silvia Pollice Il Messaggero, 20 marzo 2025 L’episodio è accaduto un mese dopo la rivolta nel carcere San Donato, scoppiata in seguito al gesto volontario del 24enne egiziano. A meno di ventiquattro ore dall’inizio dello sciopero degli avvocati penalisti proclamato dalla Camera penale di Pescara dal 18 al 20 marzo, con l’obiettivo di mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema del sovraffollamento del carcere San Donato di Pescara e sulle condizioni precarie di detenuti e personale penitenziario, un altro detenuto ha tentato di togliersi la vita soffocandosi con un panino servito alla mensa. L’uomo, un 28enne italiano, è stato soccorso tempestivamente dagli agenti della casa circondariale e trasportato all’ospedale cittadino, dove è stato sottoposto alle dovute cure mediche, ma le sue condizioni sono piuttosto gravi. Attualmente, infatti, il giovane è entrato in coma dopo un arresto cardiaco ed è in prognosi riservata. Esattamente un mese fa, al carcere San Donato un detenuto egiziano di 24 anni, con problemi di tossicodipendenza, si era tolto la vita impiccandosi. Un evento che aveva innescato una rivolta, con materassi date alle fiamme e disordini, costringendo al trasferimento di alcuni detenuti in altre case circondariali del Lazio e facendo scendere il numero di persone da 450 a 380, a fronte di una capienza regolamentata di 276 posti. Tra questi, “almeno la metà è affetta da problemi psichiatrici o di tossicodipendenza” aveva evidenziato il sindaco Carlo Masci durante l’incontro che si è svolto martedì mattina nella Sala “Figlia di Iorio” del palazzo della Provincia martedì scorso, al quale hanno partecipato anche il deputato Luciano D’Alfonso, il Procuratore capo Giuseppe Bellelli, l’aggiunto Annarita Mantini e il presidente dell’ordine degli avvocati Federico Squartecchia, insieme al consiglio direttivo della Camera penale composto dagli avvocati Massimo Galasso, Franco Perolino, Roberto Mariani, Alessandra Michetti e Luisa Gabriele. Nel pomeriggio, invece, si è svolto il consiglio comunale straordinario, in cui la garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Monia Scalera, aveva ribadito “la piena disponibilità a mettermi a disposizione per assicurare la tutela dei detenuti e la volontà di questa Autorità regionale di porsi da ponte tra le realtà carcerarie del territorio e le istituzioni, per la realizzazione di tutti gli obiettivi”, riferendosi ai progetti Ama-Es (sulla formazione per chi è sottoposto a esecuzioni penali esterne), quelli finanziati con i fondi Fse (7 milioni di euro in percorsi formativi e l’implementazione di psicologi nelle carceri, per scongiurare il rischio di suicidi) e infine l’iniziativa del Social Housing (per coloro che non hanno un domicilio o una residenza). La garante dei detenuti della Regione Abruzzo aveva poi annunciato per oggi “un tavolo tecnico dedicato alla giustizia riparativa che vedrà confrontarsi tutti gli attori coinvolti come i direttori degli istituti di pena, il Tribunale di Sorveglianza, i centri di giustizia riparativa, i sindaci, l’Anci, l’Uepe, il Prap e i presidenti degli ordini degli avvocati”. Sassari. Carcere da incubo, ma sui social insulti a chi denuncia il sovraffollamento sassaritoday.it, 20 marzo 2025 Irene Testa, Garante delle persone private della libertà in Sardegna, è stata bersagliata da insulti sui social dopo la sua denuncia sulle condizioni disastrose del carcere di Bancali. Dopo la sua denuncia sulla situazione disastrosa del carcere di Bancali, Irene Testa, Garante delle persone private della libertà in Sardegna, è stata oggetto di un’ondata di insulti sui social. La sua accusa riguardava il sovraffollamento estremo, le condizioni igieniche precarie e l’abbandono delle persone detenute in uno degli istituti penitenziari più problematici dell’isola. In particolare, Testa aveva descritto le celle sovraffollate, i soffitti umidi e la presenza di detenuti psichiatrici che vivevano in condizioni insostenibili, culminando nel caso di un giovane detenuto di 20 anni, in sciopero della fame da più di un mese, che aveva perso oltre 15 kg. Ricapitolando - La denuncia, accompagnata da una visita in loco insieme alla garante comunale Anna Cherchi, ha sollevato il velo su una realtà troppo spesso ignorata o minimizzata, portando alla luce la sofferenza e il degrado all’interno del carcere. Tuttavia, la risposta che Testa ha ricevuto non è stata di sostegno, ma di aggressione verbale. Molti commenti sui social hanno preso di mira Testa, insultandola e cercando di delegittimare la sua figura e il suo operato. “Mi limito a pubblicare solo alcuni dei messaggi che leggo in queste ore”, ha dichiarato Testa, scegliendo di condividere solo una parte degli insulti ricevuti, ma mettendo in evidenza un fenomeno che va oltre il singolo episodio: il tentativo di sminuire chi denuncia le ingiustizie sociali. Sovraffollamento carcerario - Il sovraffollamento nelle carceri italiane ha ormai raggiunto livelli critici: al 31 gennaio 2025, i detenuti erano 61.916, ben oltre i 51.300 posti disponibili. Di questi, oltre 4.400 non sono effettivamente utilizzabili a causa di sezioni chiuse, lasciando circa 15.000 persone senza un posto letto adeguato. Il tasso di affollamento reale ha superato il 132 per cento, con punte del 134 a Uta. In numerosi istituti penitenziari, il tasso di affollamento è pari o superiore al 150 per cento, ovvero tre persone per ogni due posti disponibili. Questa situazione non è solo una questione di numeri. Tradotta nella realtà quotidiana, significa celle sempre più anguste, letti sovrapposti, bagni condivisi da un numero crescente di detenuti, e uno spazio vitale che si riduce drasticamente. Le attività a cui i detenuti possono accedere sono limitate e il lavoro degli operatori penitenziari diventa ogni giorno più difficile. Il sovraffollamento crea un ambiente di tensione crescente, dove le aggressioni e le violenze diventano una triste normalità. Piacenza. “Alle Novate cento detenuti in più in un anno”. Due su tre sono stranieri piacenzasera.it, 20 marzo 2025 Alla Novate il numero dei detenuti - il 69% dei quali stranieri - è aumentato di oltre cento unità in meno di un anno. È uno dei dati sul carcere di Piacenza che emerge dal tradizionale report dell’associazione Antigone, che nel 2023 ha visitato tutti gli istituti di pena della regione, proseguendo con la sua attività di monitoraggio sulle condizioni di detenzione. Al momento della visita - avvenuta il 27 settembre 2024 - le persone detenute erano 490, di cui 16 donne (in regime di Alta sicurezza 3) e 340 stranieri (il 69% del totale), per una capienza di 416 unità. “La popolazione detenuta - viene sottolineato è aumentata di più di 100 unità in meno di un anno: gli ingressi provengono per un terzo dalla libertà e per due terzi da altri istituti, anche fuori regione: molti arriverebbero con provvedimenti disciplinari a carico. Numerosi anche i detenuti senza fissa dimora (218) e i giovani adulti (52)”. L’istituto è composto da due edifici, il vecchio padiglione (6 sezioni maschili su tre piani, infermeria e sezione femminile) e il nuovo padiglione (4 sezioni su 4 piani) e “presenta condizioni strutturali decisamente migliori rispetto a qualche anno fa, seppure permanga una netta differenza tra i due edifici. In particolare, le docce comuni del vecchio padiglione versano in condizioni pessime e gli ambienti sono più sporchi e angusti rispetto al nuovo padiglione”. Il report segnala la “mancanza di corsi scolastici” nella sezione femminile: “Le donne lavoratrici (6) operano in cucina, ma per il resto le attività lavorative, professionalizzanti, sportive e ludico ricreative scarseggiano”. Evidenziato anche “l’impegno della Direzione nel creare connessioni tra carcere e territorio e nel costruire nuove opportunità lavorative e corsi professionalizzanti, sebbene il lavoro (call center, trasformazione agroalimentare, cura delle serre, del verde e orto botanico, cucina) riguardi un numero ancora limitato di detenuti. Vi è un esempio virtuoso costituito da un laboratorio di musica rap ideato dai giovani adulti e finanziato dall’esterno, che riguarda però due detenuti”. Infine, “il Rop (reparto di osservazione psichiatrica) è stato chiuso, sebbene sia ancora in uso per casi con problematiche sanitarie, fisiche o psichiche”. Il dossier di Antigone intende restituire la fotografia dello stato attuale dei dieci istituti penitenziari per adulti presenti in regione e dell’istituto per minorenni di Bologna. “L’incremento generale delle persone detenute nell’anno 2024 (da 3572 a 3820, dati ufficiali del Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2024) sfiora il 7% - evidenziano dall’associazione - portando la regione Emilia Romagna a un tasso di affollamento che rasenta il 128%, contro il 120,5% del tasso nazionale. Gli istituti più sovraffollati sono Bologna (171%), Ferrara (162%) e Modena (153%), mentre altri istituti si collocano al di sotto della capienza regolamentare (Piacenza, Reggio Emilia, Forlì, Ravenna)”. “Con questo report vogliamo ribadire come le condizioni di detenzione non dipendono solo dal numero di persone ristrette, ma anche da come e dove queste siano detenute. Al sovraffollamento, che rimane un elemento cruciale di analisi, si aggiungono altri fattori che incidono gravemente sulla qualità della vita in carcere e sulla salute psico-fisica delle persone ivi ristrette, quali: strutture a volte fatiscenti, carenza di attività e di personale, maggiori chiusure delle sezioni, e più isolamento. In questo contesto si inserisce il drammatico dato sulle morti e i suicidi in carcere. In regione, nel 2024, si sono tolte la vita 9 persone; dal 31 dicembre ad oggi, in poco più di due mesi, sono 8 i decessi già registrati nelle nostre carceri. L’ultima morte è avvenuta solo pochi giorni fa nell’istituto bolognese. Sono innumerevoli i fattori di rischio presenti all’interno degli istituti penitenziari italiani. L’elevato tasso di suicidi cui stiamo assistendo - mai così elevato - ci deve mettere in guardia rispetto all’estrema afflizione e sofferenza prodotta dal carcere. Modi della pena che, oltre a non rispettare i criteri di dignità sanciti dalla Costituzione, finiscono per favorire la recidiva piuttosto che abbatterla”. “Un altro punto che desta forte preoccupazione - aggiungono - riguarda il trasferimento di giovani adulti da vari Ipm italiani nel carcere per adulti di Bologna. Questa decisione, che interrompe il percorso trattamentale dei giovani detenuti che saranno trasferiti, pone l’istituto minorile di Bologna in una situazione di sovraccarico mai vista e rischia, inoltre, di compromettere le prospettive di reinserimento sociale di questi giovani. Questa misura è solo l’ultima manifestazione di un tentativo di rivoluzionare la cultura della pena e della penalità in senso repressivo che osserviamo con preoccupazione e a cui ci opponiamo fermamente almeno dall’emanazione del Decreto Caivano”. Modena. “Carcere, situazione allarmante” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 20 marzo 2025 Un indice di sovraffollamento preoccupante e in continua crescita, addirittura del 153 per cento per quanto riguarda il nostro carcere e un numero di morti, soprattutto di suicidi, ancora più allarmante. È il drammatico quadro che emerge nel report dell’associazione Antigone sulle carceri dell’Emilia-Romagna, basato sulle visite della stessa associazione nei 10 istituti della regione e nel carcere minorile di Bologna nel corso del 2024. Lo stesso parla poi di “strutture a volte fatiscenti, carenza di attività e di personale, maggiori chiusure delle sezioni e più isolamento”, oltre al “drammatico dato sulle morti e i suicidi in carcere”, che ha visto nove suicidi in regione nel 2024 e otto decessi dall’inizio del 2025. Antigone segnala appunto “l’indice preoccupante del sovraffollamento”, rilevando che “tra gli istituti con il tasso più alto ci sono quelli di Bologna (171%), Ferrara (162%) e Modena (153%). Per quanto riguarda la media di detenuti stranieri in regione, è del 47%, superiore a quella nazionale del 33% circa, con percentuali più alte a Piacenza (69%) e appunto al Sant’Anna che registra un 60%”. Tra le cinque sezioni femminili, invece, “al momento della visita risultava sovraffollata solo quella di Bologna”. Per quanto riguarda i suicidi e le morti in carcere, Antigone afferma senza mezzi termini che “anche in Emilia-Romagna il dato appare particolarmente preoccupante”. Nel 2024 si contano, infatti, “nove suicidi (tre a Parma, due a Bologna e uno a Ferrara, Modena, Reggio Emilia e Piacenza)”, e in questi primi mesi del 2025 “il numero di morti e suicidi nelle carceri della regione è altrettanto allarmante”, visto che si è già arrivati a otto decessi. Come noto all’interno del Sant’Anna tra fine anno e inizio 2025 si sono registrati ben quattro suicidi, su due dei quali la procura ha aperto distinti fascicoli con l’ipotesi di reato in un caso di istigazione al suicidio e, nell’altro, di omicidio colposo. Nei giorni scorsi anche la senatrice Ilaria Cucchi si era recata al Sant’Anna per verificare le condizioni di vivibilità all’interno della struttura. “Quello che ho trovato nel carcere di Modena rispetta esattamente la realtà di tutte le carceri italiane: dal sovraffollamento al sottodimensionamento degli agenti” aveva dichiarato all’esito dell’ispezione. Cremona. Rivolta in carcere ai tempi del Covid. I difensori: dovete assolverli tutti di Pier Giorgio Ruggeri Il Giorno, 20 marzo 2025 A processo 15 detenuti: volevano essere sottoposti al tampone per essere tranquillizzati sulle loro condizioni, visto che avevano saputo (notizia rivelatasi poi falsa) che due guardie carcerarie e un detenuto sarebbero stati positivi al coronavirus e loro temevano che il contagio si propagasse rapidamente. La sentenza attesa il 30 aprile. “Assolveteli tutti”. È la richiesta della mezza dozzina di avvocati che tra il 12 marzo e ieri nel tribunale di Cremona hanno concluso l’iter di un processo che vede alla sbarra quindici detenuti nel penitenziario di Ca’ del Ferro i quali, l’8 marzo 2020 diedero vita a una rivolta perché volevano essere sottoposti al tampone per essere tranquillizzati sulle loro condizioni, visto che avevano saputo (notizia rivelatasi poi falsa) che due guardie carcerarie e un detenuto sarebbero stati positivi al Covid e loro temevano che il contagio si propagasse rapidamente tra di loro. Sgabelli spaccati, finestre divelte, sbarre lanciate contro gli agenti, sedie in plastica e coperte date alle fiamme, un box sfondato, vetri infranti, telecamere rotte, plafoniere distrutte. Alla fine, due agenti intossicati, un altro colpito al naso con un pugno. Una rivolta in piena regola, come tante altre nelle carceri italiane che si scatenarono in quel periodo, difficile e incerto per tutti, con la pandemia che allargava le sue spire a macchia d’olio, seminando morte e terrore. “Se questa situazione non rappresenta uno stato di necessità - ha detto al giudice l’avvocato Corrado Locatelli, difensore di uno degli imputati - diventa difficile pensarne una più calzante. E neppure l’adunata sediziosa sta in piedi, visto in quale cornice si sono svolti i fatti. I detenuti chiedevano solo di essere sottoposti a tampone e di capire se vi erano persone contagiate che avrebbero potuto infettare tutti. Per questo abbiamo tutti chiesto l’assoluzione dei nostri assistiti”. Dello stesso parere i legali Andrea Brambilla e Gianluca Pasquali, che hanno chiuso gli interventi previsti ieri. Non era stata di questo parere la pm Silvia Manfredi che, invece, nel corso dell’udienza del 12 marzo aveva chiesto al giudice Francesco Sora di condannare cinque detenuti a due anni di reclusione, sei a un anno e mezzo e di assolverne altri quattro. Il giudice si è riservato di leggere le sentenze e ha preso tempo, convocando tutti per le 14 del prossimo 30 aprile. Oltre a questi quindici detenuti, a giudizio erano finiti altri tre che però avevano scelto il rito abbreviato, evitando le testimonianze: tutti e tre erano stati assolti. Oggi di queste quindici persone a giudizio, in carcere ne restano solo tre, mentre le altre dodici hanno terminato di scontare la pena e sono tornati uomini liberi. Genova. Inaugurata “Casa Maddalena” per il reinserimento dei detenuti senza una rete familiare di Emilie Lara Mougenot telenord.it, 20 marzo 2025 La struttura, realizzata in un immobile sequestrato alla criminalità, offrirà alloggio e percorsi di formazione per ex detenuti in difficoltà. Genova, inaugurata “Casa Maddalena” per il reinserimento dei detenuti senza una rete familiare. Una casa per chi esce dal carcere senza un posto dove andare, realizzata in un immobile confiscato alla criminalità, confiscato a Zappone nel 2017. È stata inaugurata oggi a Genova “Casa Maddalena”, una struttura destinata a detenuti privi di riferimenti familiari o abitativi, con l’obiettivo di agevolarne il reinserimento sociale e lavorativo. Il progetto, promosso dalla Veneranda Compagnia della Misericordia, nasce dalla collaborazione tra istituzioni, terzo settore e volontariato, dimostrando come i beni sottratti alle mafie possano essere restituiti alla collettività con finalità sociali. Supporto fondamentale - “Abbiamo tantissimi detenuti stranieri e persone senza riferimenti esterni - ha dichiarato Tullia Ardito, direttrice del carcere di Marassi - e per loro è molto più difficile ottenere misure alternative alla detenzione”. L’assenza di una casa, infatti, rappresenta un ostacolo al reinserimento, rendendo iniziative come questa essenziali per garantire un percorso di autonomia. Ruolo delle istituzioni - Il facente funzioni di sindaco, Pietro Piciocchi, ha sottolineato l’importanza del progetto: “È una sinergia tra Comune, Agenzia per i beni confiscati e amministrazione penitenziaria. Il nostro obiettivo è non dimenticare chi sta scontando una pena, perché è comunque un cittadino della nostra città”. Un impegno confermato anche dalla recente approvazione unanime in consiglio comunale di una mozione sulla condizione dei detenuti. Percorsi individualizzati - Laura Bottero, direttrice dell’Uepe di Genova, ha spiegato che i destinatari di “Casa Maddalena” saranno ex detenuti con situazioni di forte marginalità. “L’housing è fondamentale: senza un tetto, il rischio di recidiva aumenta. La permanenza nella casa sarà temporanea, fino a un anno e mezzo, e accompagnata da percorsi di formazione e lavoro”. Progetti e controlli - La gestione della casa sarà in autogestione, ma con un monitoraggio costante. “Non si tratta di assistenzialismo - ha precisato Bottero - ma di un’opportunità per ricostruire un futuro”. Il garante regionale dei detenuti, Doriano Saracino, ha aggiunto: “Senza una casa, spesso il ritorno al reato è inevitabile”. Altre iniziative - “Casa Maddalena” si aggiunge ad altre realtà simili già attive in città, come la struttura per uomini in Mura delle Grazie e quella per donne inaugurata nel 2024. Tuttavia, i posti disponibili restano pochi: “Su tutto il territorio parliamo di meno di 20 unità - ha sottolineato Saracino - serve un investimento maggiore nell’housing sociale”. Un altro tema aperto è la normativa regionale che attualmente esclude dalle case popolari chi ha una condanna fino a 5 anni, anche se di breve durata. “È un aspetto su cui bisogna riflettere” ha concluso. Mancati inviti, mancate informazioni - All’inaugurazione non sono state invitate le associazioni che fanno parte dell’Osservatorio dei beni confiscati, che non erano nemmeno state informate dell’evento. “Non entriamo nei meriti del progetto che non consociamo ma proprio per la disponibilità data in questi anni ci aspettavamo maggiore condivisione - ha comunicato con un post sui social l’associazione Ama (abitanti della Maddalena) -. Per la dedizione e fatica che ogni giorno facciamo per curare e sensibilizzare una partecipazione attiva, questo episodio mette noi e gli abitanti in zona in seria difficoltà perché i prevenuti già da tempo continuano a “ronzare” attorno a beni a loro confiscati e il timore che possano fare prevaricazioni nei confronti di queste tre persone già così in difficoltà è dietro l’angolo. Siamo preoccupati che quello che abbiamo già vissuto sulle confische Caci e Canfarotta, possa ripetersi ancora e ancora e che come già in passato siamo noi a doverne far le spese”. Iniziative simili infatti avevano portato gli ex proprietari, appunto Caci e Canfarotta, a rientrare nei beni anche dopo la confisca. L’ex proprietario di questo immobile, Cecilio Zappone, aveva anche cercato di vendere i beni dopo la confisca. Udine. Carcere e lavoro, si può. Lo raccontano le persone detenute di Flavio Zeni lavitacattolica.it, 20 marzo 2025 “Frontiere e sconfinamenti. Il lavoro in carcere” è il titolo dell’incontro pubblico che si terrà giovedì 20 marzo, alle ore 18, nella Sala convegni della Fondazione Friuli in via Gemona, 1 a Udine per iniziativa del Centro culturale Enzo Piccinini. Introdurrà l’incontro l’avvocato Andrea Sandra, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Udine, mentre Nicola Boscoletto, socio fondatore e presidente della Cooperativa sociale Giotto di Padova, illustrerà le attività svolte da oltre 40 anni per creare opportunità lavorative di cui hanno beneficiato migliaia di carcerati. All’incontro pubblico interverranno anche alcune persone detenute con esperienza di lavoro in carcere. Nell’occasione sarà presentato il libro “La Cooperativa sociale Giotto. Una normalità eccezionale” che, per le edizioni Il Mulino. Storie d’imprese, è stato curato dalla professoressa Vera Zamagni dell’università di Bologna. Come racconta lo stesso Boscoletto, “attualmente la Giotto dà lavoro a oltre 600 persone, tra le quali 100 detenuti operanti sia in carcere che in attività diurne esterne, e da 4 anni ha una sede ad Alcamo, in Sicilia, dove lavorano 40 persone, come carcerati operanti in lavori esterni e diverse persone svantaggiate”. Ma è la professoressa Vera Zamagni a ricordare che la Giotto ha contribuito anche alla rivisitazione della legislazione italiana, ottenendo l’incremento delle possibilità lavorative dei detenuti, ha ispirato la riformulazione dell’organizzazione carceraria brasiliana e ha collaborato all’introduzione delle attività lavorative per i detenuti in un carcere americano. Venezia. I detenuti si riprendono la vita con piccoli gesti. “Volontari alle sagre per l’inclusione sociale” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 20 marzo 2025 Protocollo tra carcere e associazioni. Riprendersi la vita attraverso piccoli impegni che possono diventare grandi occasioni. È questa la filosofia alla base del protocollo siglato giorni fa tra il carcere maschile di Santa Maria Maggiore e Il Granello di Senape, della durata iniziale di un anno, finalizzato all’inserimento dei detenuti in progetti di pubblica utilità. L’associazione, da sempre in prima fila all’interno degli istituti penitenziari con più progetti, ha chiesto infatti che i detenuti possano prestare un aiuto volontario in occasione di sagre come l’allestimento di San Pietro di Castello o San Francesco della Vigna, manifestazioni come la Venice Marathon o eventi come il Festival Poesia che si terrà il 21 alla Fondazione Querini Stampalia. Più che un inserimento lavorativo, in questo caso l’accordo ha una funzione in prevalenza educativa. “La firma del protocollo rappresenta un passo significativo per l’inclusione sociale dei detenuti e per la loro riabilitazione attraverso esperienze concrete nel mondo del lavoro e del volontariato - dice direttore del carcere Enrico Farina. Venezia offre molte opportunità per mettere a disposizione dei detenuti attività che non solo hanno un valore formativo, ma che permettono loro di contribuire attivamente alla comunità”. L’accordo consentirà ai reclusi con i requisiti previsti, di partecipare attivamente a iniziative di rilevanza sociale, culturale e artistica nel contesto veneziano, grazie alla collaborazione con l’associazione e i suoi partner sul territorio. L’obiettivo è coinvolgere i detenuti in lavori di pubblica utilità; favorire la ripresa dei contatti con il tessuto sociale; promuovere l’impegno e il rispetto delle regole attraverso attività svolte a stretto contatto con volontari e operatori culturali. I detenuti potranno offrire supporto in cucina, aiutare nelle attività di carico e scarico materiali per la logistica degli eventi, montare strutture come palchi e tendoni per manifestazioni pubbliche. Per loro sarà l’occasione di mettersi in gioco con le relazioni esterne e con gli impegni, dimostrando soprattutto a loro stessi che una seconda vita è possibile. Ovviamente non tutti potranno accedere al protocollo, ma solo chi ha dimostrato serietà nel percorso interno. “Lo abbiamo chiamato progetto Way Out ed è stato approvato dal Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria - spiega Maria Voltolina, presidente dell’associazione - Si tratta di progetti di reinserimento che hanno una profonda connotazione educativa”. Napoli. Siti web e lavoro agli ex detenuti: “Giustizia vicino alla città” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 20 marzo 2025 Presentati i portali di Corte di Appello e Procura generale. Siti web per informare cittadini e utenti della giustizia, un protocollo con la Regione per favorire la formazione e l’impiego degli ex detenuti in progetti di pubblica utilità, infine l’abbattimento degli arretrati. Sono queste le coordinate su cui viaggia la giustizia napoletana, alla luce del lavoro messo in campo dai vertici degli uffici napoletani. Una svolta culturale prima ancora che organizzativa, che punta a rendere più facile l’approccio ai siti web della Presidenza della Corte di Appello di Napoli e della Procura generale del distretto. Nuova grafica, nuovi contenuti, un rapporto “friendly” con utenti e cittadini, secondo quanto emerge dalla conferenza stampa tenuta ieri nell’Arengario del Palazzo di giustizia. Spiega il presidente della Corte di Appello Maria Rosaria Covelli, mostrando le slide a colleghi, forze dell’ordine ed esponenti delle categorie professionali: “Abbiamo avuto una prospettiva distrettuale ma, soprattutto, vogliamo attuare un’informazione costante, completa e aggiornata sulle varie complesse attività che sono espletate dai nostri uffici”. Dunque, i portali della giustizia si rifanno il look, con un obiettivo dichiarato: “Un’informazione che soddisfi principi di trasparenza per semplici cittadini, ma anche per avvocati, professionisti, commercialisti, consulenti e tutti coloro che hanno bisogno di informazioni legate al lavoro che svolgiamo nel Palazzo di giustizia”. Proviamo a fare qualche esempio delle nuove informazioni in rete: iscrizione in ruolo dei procedimenti, la fissazione delle date di udienza per i processi in appello, albi di consulenti, link con il mondo professionale, un osservatorio del giudice di pace, un tavolo permanente sul nuovo processo telematico, sezioni legate alla formazione, alla pubblicistica, alle aste giudiziarie, alle delibere del Consiglio e degli altri organi istituzionali, ma anche laboratori di confronto su fenomeni come la violenza di genere. Sul punto il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Napoli, Aldo Policastro: “Abbiamo ritenuto di dover implementare e rinnovare il sito della Procura Generale di Napoli perché riteniamo che sia uno strumento ormai indispensabile per i cittadini, per far conoscere ciò che facciamo e per avere gli i canali di accesso ai nostri servizi. Ma anche per avere un punto di vista complessivo su tutto il distretto in relazione alle buone pratiche”. E poi ha aggiunto: “La comunicazione istituzionale ormai è aperta, disponibile, trasparente, come si dice “friendly” in modo che il cittadino possa, con facilità, usare i nostri strumenti. L’altro aspetto è che noi puntiamo ad aggiornare il sito con continuità, quindi aspettiamo eventuali sollecitazioni anche da parte di chi si occupa di informazione per capire dove migliorare il sito, anche dal punto di vista della fruibilità”. Una rivoluzione culturale e tecnica, su cui hanno lavorato in questi mesi il giudice Alessandra Maddalena (coordinatrice dell’ufficio innovazione), il giornalista Massimiliano Minervini (coordinatore dell’ufficio comunicazione), la dirigente della Procura generale Flora Lionetto. Ma non solo web, si lavora anche su progetti di formazione e di inserimento degli ex detenuti. Tra i protocolli, ad esempio, vi sono quelli stipulati con le Case Circondariali, con la Regione, per i lavori di pubblica utilità anche a favore dei detenuti che verranno a lavorare nei Palazzi di Giustizia. Un protocollo su cui sono al lavoro i vertici di tutti gli uffici giudiziari del distretto. Ieri nella sala Arengario, era presente il presidente del Tribunale per i minori di Napoli Paola Brunese, il procuratore di Nola Marco Del Gaudio, il presidente dei penalisti Marco Muscariello. Tutti al lavoro, anche sulla necessità di abbattere arretrati e definire sopravvenienze: sempre a proposito di buone prassi della giustizia. Pescara. “Sulla scena del crimine”: un ciclo di incontri sul carcere e il recupero dei detenuti ilpescara.it, 20 marzo 2025 L’associazione Voci di Dentro, con il patrocinio della Provincia, organizza delle iniziative che pongono al centro i carcerati, “Persone con gli stessi diritti di altri cittadini”. Gli incontri si svolgono al Caffè Letterario, dal 24 marzo al 29 maggio. Il recupero e il reinserimento dei detenuti passa anche attraverso le storie di chi prova a tendere una mano, superando rancori e pregiudizi nei confronti di chi ha avuto problemi con la legge, nel corso della propria vita. Ed è su questi presupposti che l’associazione Voci di Dentro, presieduta da Francesco Lo Piccolo, ha organizzato, in collaborazione con la Provincia di Pescara e il carcere di San Donato, il ciclo di incontri “Sulla scena del crimine”, in programma da lunedì 24 marzo a giovedì 29 maggio, negli spazi del Caffè Letterario, in via delle Caserme. La scelta del tema non è casuale, visto che in carcere le persone perdono la vita (83 morti nel 2024 - almeno fino al 20 dicembre), ma non solo. “Scena del crimine è riferibile a tutta l’istituzione carcere, perché tra quelle mura, si materializza quello che non si deve materializzare”, spiega Lo Piccolo. “Violenza, mancato riconoscimento della dignità della persona e dei suoi diritti”. Il programma dell’iniziativa è stato presentato nella mattina di mercoledì 19 marzo, all’indomani del consiglio comunale straordinario, richiesto dagli esponenti dell’opposizione per far luce sulle problematiche della casa circondariale di San Donato. I fatti di cronaca del mese scorso hanno riacceso i riflettori su una serie di criticità, che in realtà si ripetono da anni, tra carenza di agenti e sovraffollamento. E poi mancanza di sicurezza e ambienti insalubri. “Per non parlare della presenza di numerosi tossicodipendenti o di detenuti con patologie che non dovrebbero essere rinchiusi nelle strutture penitenziarie”, dice ancora Lo Piccolo, che non condivide la posizione di chi vuole delocalizzare il carcere di San Donato. Il percorso di incontri è stato pensato per raccontare cosa accade nelle strutture penitenziarie, senza tralasciare quelle delle donne, in cui si riscontrano altre criticità. “Il carcere ci riguarda, perché i detenuti sono cittadini che hanno gli stessi diritti di altri. Il carcere dovrebbe essere un luogo in cui le persone vanno aiutate”, sottolinea Lo Piccolo. “Di qui anche l’esigenza di riqualificare le strutture”. All’incontro di presentazione c’erano anche il presidente della Provincia Ottavio De Martinis, che ha annunciato la consegna di un premio, il prossimo 29 aprile, a chi si è distinto per aver contribuito al reinserimento di uno o più detenuti; la consigliera di Parità Paola Sardella e Luigi Di Fabio, titolare del Caffè Letterario. Quest’ultimo ha deciso di aderire all’iniziativa, mettendo a disposizione gli spazi del proprio locale, perché vicino a una persona che ha saputo ritrovare la propria strada. Nel suo locale lavora, da circa sette mesi, un ex detenuto. Gli eventi si svolgeranno tutti alle 17.30. Si comincia lunedì 24 marzo con La Prima pietra, alla presenza di Licio Di Biase e Francesco Lo Piccolo. Giovedì 27 marzo ci sarà l’incontro La prigione delle donne, con Donatella Marchese Suela, Paola Sardella e Giampiero Corelli. Lunedì 31 marzo Gattabuia, con Suela, Isabella De Silvestro e Don David Maria Riboldi. Il 10 aprile sarà la volta di Tagliate male, con Anna Paola Lacatena e Denise Amerini. Il 14 aprile Una storia semplice e straordinaria, con Claudio Bottan e Simona Anedda; il 15 maggio è previsto l’incontro Affamati, con Gabriella Stramaccioni e Rita Bernardini; il 22 maggio Il Bastone e la carota, con Vincenzo Scalia e Giuseppe Mosconi. Il 24 maggio Scrivere Salva, con Sandro Bonvissuto, Emidio Paolucci e Claudio Bottan. Il 29 maggio il percorso si chiude con È la stampa bellezza, con Paolo Pagliaro, Stefano Pallotta e Francesco Lo Piccolo. Potenza. In carcere la conferenza “Tedx”: è la prima volta in Italia di Anna Martino La Repubblica, 20 marzo 2025 Otto speaker tra giornalisti, docenti universitari ed esperti si confronteranno sul tempo, tra loro anche due detenuti. Il “Tedx”, la conferenza nata oltre trent’anni in California per condividere e valorizzare spunti e idee innovative in ogni parte del mondo, per la prima volta in Italia si svolgerà in un carcere. Sarà la casa circondariale “A. Santoro” di Potenza ad ospitarla domani per un’iniziativa nata da un gruppo di giovani under 30 e dal supporto della Fondazione Eni Enrico Mattei, Fondazione Carical, Fondazione Potenza Futura, con la piena collaborazione della direzione del carcere e il patrocinio del Parlamento europeo. Otto gli speakers, più due detenuti, che offriranno la loro visione sul tempo e sul mistero che avvolge lo scorrere delle lancette. Parteciperanno Alessia Piperno, arrestata ingiustamente a Teheran e detenuta nello stesso carcere di Cecilia Sala; Fabio Bolzetta, giornalista di Tv 2000 e docente universitario; Andrea Lo Sasso, laureato in fisica teorica e sistemi complessi, si dedica alla data science e AI; Luisa Torsi, professoressa di chimica analitica presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”; Cathy La Torre, avvocata e attivista italiana specializzata in diritti umani, con particolare attenzione alle discriminazioni per l’orientamento sessuale e l’identità di genere; Gelsomina Pappalardo, direttore dell’Istituto di Metodologie per l’Analisi Ambientale del Cnr e che ha fondato l’Osservatorio Atmosferico del Cnr-Imaa (Ciao); Giuseppe Ferraro, già professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Napoli Federico II, da oltre trent’anni porta la filosofia fuori dalle aule accademiche, tenendo corsi nelle carceri, nelle scuole “a rischio”; Simone Spadino, apprezzato violinista potentino conosciuto in tutto il mondo. “Il tema del tempo - spiegano gli organizzatori - lo abbiamo scelto poiché è una dimensione che ci accomuna tutti, pur assumendo significati diversi a seconda delle nostre esperienze di vita. All’interno del carcere pare dilatarsi, aprendo spazi per la riflessione e l’introspezione. Al di fuori, corre invece frenetico, quasi sfugge di mano. Durante il Tedx esploreremo come il tempo influisca sulle nostre vite, sulle nostre decisioni e sulle relazioni che costruiamo”. “Ci siamo posti l’obiettivo - sottolinea Federica D’Andrea, presidente della Fondazione Potenza Futura - di guardare oltre, per immaginare e costruire opportunità dove spesso si vedono solo limiti. Abbiamo scelto di sostenere il TEDx all’interno della Casa circondariale A. Santoro di Potenza perché crediamo che il futuro non sia un privilegio di pochi, ma un diritto di tutti. Il carcere è un luogo in cui il tempo sembra scandito da un orologio a parte. Le idee e le connessioni stimolate da questo evento, incentrato proprio sul tema tempo, riusciranno a offrire agli ospiti della Clcasa circondariale di Potenza strumenti per ripensarsi, per scoprire nuove possibilità, per sentirsi parte di un dialogo più ampio”. Il TEDxCarcerediPotenza, presentato da Isabella Romano, giornalista e conduttrice del Tg1, incarna pienamente anche la mission della Fondazione Carical: “Crediamo fermamente che il reinserimento sociale dei detenuti inizi dalla diffusione di una cultura del dialogo e dell’innovazione - ha aggiunto Egidio Comodo, consigliere d’amministrazione della fondazione - Questo evento, svolto in un contesto particolarmente simbolico, dimostra come la condivisione di idee possa abbattere barriere e aprire nuove strade verso l’inclusione e il cambiamento sociale”. Sulla stessa linea si pone la Fondazione Eni Enrico Mattei, che da tempo promuove la cultura come fattore di crescita condivisa: “L’adesione e il sostegno della Fondazione Eni Enrico Mattei all’iniziativa - spiega Annalisa Percoco, ricercatrice senior di Feem - si inseriscono nelle attività volte a promuovere la cultura come leva per realizzare l’Agenda 2030 e costruire una società più equa e inclusiva”. L’accesso al carcere sarà consentito dalle 14.30 e sarà gratuito, ma i posti sono limitati (70 persone). Gli organizzatori chiederanno a ogni partecipante di portare beni di prima necessità (pasta, scatolame, prodotti a lunga conservazione). I beni verranno donati all’associazione di Potenza Magazzini sociali che li distribuirà alle persone più vulnerabili del territorio lucano. Al termine, in collaborazione con This Unique, verranno donati assorbenti compostabili per le detenute della sezione femminile, in apertura il prossimo mese. Un gesto concreto che testimonia la volontà di rispondere ai bisogni reali di chi vive la realtà carceraria, nel pieno rispetto dell’ambiente. “Noi fuori - la voce dei detenuti di Rebibbia”, il nuovo libro di Suor Emma Zordan di Antonio Picano news-24.it, 20 marzo 2025 Si piange quando si entra, si vien presi da un senso di smarrimento, tendente al timore, in prossimità dell’uscita. Una situazione che ben conosce Emma Zordan, l’ammirevole suora di Sabaudia, che da anni agisce da volontaria, accanto ai detenuti, presso il carcere di Rebibbia dove ha impiantato, tra l’altro, un laboratorio di scrittura per renderne meno dura la permanenza e cercare di indirizzarli sulla strada giusta. Ed è proprio questo stato d’animo, che si impossessa dei suoi assistiti in procinto di reinserirsi in una società da cui presumono di essere emarginati, il leit motiv del nuovo libro, uscito in occasione del Giubileo del mondo del volontariato, a cura della religiosa appartenente all’Ordine delle Adoratrici del Sangue di Cristo, lo stesso delle consorelle che sin dalla fondazione hanno sostenuto non solo spiritualmente la comunità di Sabaudia, “Noi fuori - la voce dei detenuti di Rebibbia”: indicativo il titolo della sua ultima fatica letteraria, dove Suor Emma dà appunto voce ai reclusi nel momento del fine pena, quando cioè la paura del domani, del reinserimento nella vita di tutti i giorni comincia a far capolino, fino a diventare un incubo. “Noi fuori siamo considerati scarto. Noi fuori siamo e saremo sempre nessuno”, il doloroso grido d’aiuto che emerge dalle testimonianze raccolte nel corso della sua preziosa opera di volontariato dalla suora sabaudiana. “Soprattutto per i detenuti che escono dopo aver scontato condanne molto lunghe - come ha affermato la religiosa in una recente intervista rilasciata a Vatican News - quel ‘fuori’ è particolarmente difficile anche perché troveranno la società molto cambiata. Alcuni sanno già che saranno soli e questa è una nuova condanna, anche peggiore della precedente”. E allora di estrema importanza si rivela l’aiuto della famiglia come pure il lavoro: “I familiari devono essere bravi ad accogliere il tormento che queste persone provano a causa del reato che hanno commesso, e il lavoro come lo studio, poi, è l’unico ponte reale tra l’interno e l’esterno” Edito da Il Levante, con prefazione del Vescovo della Diocesi di Latina, Monsignor Mariano Crociata, il volume sarà presentato alle ore 17,00 di giovedì prossimo, 27 marzo, presso la sala adunanze della Chiesa Santissima Annunziata. L’incontro sarà aperto dal saluto del Parroco Don Massimo Castagna, a seguire la testimonianza di un ex detenuto. Lettura dei testi affidata a Daniela Carfagna. Moderatrice Rosalba Grassi. Meloni: “L’Europa di Ventotene non è la mia”. E in aula scoppia il caos di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 20 marzo 2025 Le opposizioni insorgono dopo le parole della premier sul testo di Spinelli: “Vergogna, è oltraggio alla democrazia”. Seduta sospesa due volte. Il dem Fornaro si accascia sul seggio suo con gli occhi lucidi, mentre i suoi compagni di partito fanno a gara per consolarlo. È la scena madre di una mattinata tumultuosa, a Montecitorio, che in realtà era partita in un modo tranquillo come martedì al Senato, e che improvvisamente si è infiammata, tanto da costringere il presidente Fontana a sospenderla per due volte. Il coup de théâtre ce l’aveva in serbo la presidente del Consiglio, che in sede di replica, dopo aver sostanzialmente ripetuto quanto già detto a Palazzo Madama, ha aggiunto in coda un ingrediente la cui esplosività forse era stata sottovalutata dalla stessa Giorgia Meloni. Incalzata, nel corso del dibattito, dagli esponenti del centrosinistra sulla sua lealtà all’Ue, fortemente messa in discussione, a loro avviso, dalle affermazioni in difesa del presidente americano Donald Trump, la premier ha raccolto la sfida di quanti le chiedevano una dichiarazione univoca di ossequio agli ideali fondativi dell’Europa unita. Diversi, non a caso, dai banchi del Pd e di Avs erano stati il riferimento al manifesto di Ventotene, scritto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli durante il confino decretato per loro dal regime fascista, e considerato da molti l’atto fondativo dell’europeismo. Un assunto energicamente contestato in aula da Meloni, che per sottolinearne l’anacronismo e la distanza dal suo punto di vista, ha ritenuto efficace leggerne in aula (“a beneficio di chi ci guarda da casa e per chi non dovesse averlo mai letto”) alcuni passaggi, e in particolar modo quelli che evidenziavano una visione anticapitalistica e rivoluzionaria, figlia della dialettica politica del tempo e della reazione alla dittatura fascista. “La rivoluzione europea”, ha citato la premier, “per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”, “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”, “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”; “Il partito rivoluzionario attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e attorno ad esso la vera democrazia”. A quel punto, Meloni si è rivolta con fare di sfida verso i deputati dell’opposizione, dopo aver affermato di non avere “chiarissima neanche la vostra idea di Europa, perché nella manifestazione di sabato a piazza del Popolo e anche in quest’aula è stato richiamato da moltissimi partecipanti il Manifesto di Ventotene”. Dopo la lettura, dunque, Meloni ha chiuso bruscamente il crescendo polemico affermando: “Non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia”. E a quel punto nell’emiciclo si è scatenato il caos, con una prima sospensione da parte di Fontana. Alla ripresa, immediati gli interventi di protesta, aperti col citato e accorato sfogo di Fornaro: “Non è accettabile fare la caricatura degli uomini protagonisti del Manifesto di Ventotene”, ha detto, “lei, presidente Meloni, siede in questo Parlamento anche grazie a loro. Noi siamo qui grazie a quei visionari di Ventotene che erano confinati politici. Si inginocchi”, ha concluso visibilmente alterato, “di fronte a questi uomini e queste donne, non insulti la loro memoria”. Inevitabile l’accusa di strumentalizzazione e, soprattutto, di apologia di fascismo, vista la vicenda personale e politica degli autori del manifesto, tanto che alla seconda ondata di schermaglie tra maggioranza e opposizione Fontana ha nuovamente interrotto la seduta. Ma la polemica aveva già superato il livello di guardia: per la segretaria del Pd Elly Schlein “Giorgia Meloni non solo non ha il coraggio di difendere i valori su cui l’Unione è fondata dagli attacchi di Trump e di Musk, ma ha deciso in aula di nascondere le divisioni del suo governo oltraggiando la memoria europea. Noi non accettiamo tentativi di riscrivere la storia”, mentre per il leader di Iv Matteo Renzi “la Meloni non ama Ventotene perché la storia di Ventotene dice il contrario della storia di Giorgia Meloni. Le prossime elezioni saranno un referendum tra chi crede nelle idee di Ventotene e tra chi crede in Giorgia Meloni. Noi non abbiamo dubbi”, ha concluso, “su da che parte stare”. E mentre la diretta interessata, dopo aver lasciato la Camera per recarsi al Quirinale per il consueto incontro col presidente della Repubblica preparatorio al vertice Ue di oggi e domani, postava sui suoi profili social il suo intervento aggiungendo “giudicate voi”, dal centrodestra arrivavano numerosi attestazioni di sostegno, con l’eurodeputato meloniano Nicola Procaccini che parla del “muro di Berlino che oggi cade anche in Italia” e il leghista Borghi (soddisfattissimo come tutto il partito di Salvini per l’intervento della premier) che definisce “testo ripugnante” il manifesto di Ventotene. Più cauto e rispettoso il segretario di Forza Italia Antonio Tajani, il quale si è limitato a ribadire che la sua Europa è quella di De Gasperi e Adenauer, forse chiedendosi in modo implicito quale sia il modello della presidente del Consiglio. Su Ventotene dalla premier una provocazione strumentale di Vittorio Pelligra Avvenire, 20 marzo 2025 L’operazione messa in atto dalla Presidente del Consiglio sembra ispirata da un misto di arroganza, malafede e smaccata ignoranza. Citare, come ha fatto Giorgia Meloni, il Manifesto di Ventotene in quella maniera è come citare il Vangelo dove leggiamo, tra le altre cose, “Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada” (Mt 10,34) e concludere che Gesù è un estremista guerrafondaio. È chiaramente una provocazione, una mossa strumentale che può avere presa su molti, purtroppo, in particolare su chi non conosce la storia del nostro Paese e la vita di coloro che hanno redatto quel manifesto. Erano dei giganti che Mussolini codardamente aveva condannato al confino per paura delle loro idee. Idee che per fortuna e grazie al loro coraggio e a quello di Ursula Hirschmann e Ada Rossi superarono i confini dell’isolotto e cambiarono la storia. Andando più nel merito, se la Presidente ha letto la biografia di Altiero Spinelli, uno degli estensori del Manifesto, ha sicuramente modo di comprendere il contesto e la natura di quel documento, così superficialmente disconosciuto in diretta nazionale. Scrive Spinelli: “Nel tetro inverno ‘40-’41, quando quasi tutta l’Europa continentale era stata soggiogata da Hitler, l’Italia di Mussolini ansimava al suo seguito, l’Urss stava digerendo il bottino che era riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora neutrali e l’Inghilterra sola resisteva, trasfigurandosi agli occhi di tutti i democratici d’Europa in loro patria ideale, proposi a Ernesto Rossi di scrivere insieme un “manifesto per un Europa libera e unita”, e di immetterlo nei canali della clandestinità antifascista sul continente (...) Mi sono spesso chiesto cosa abbiamo apportato di originale nel Manifesto. Non dicevamo cose nuove, né quando parlavamo della crisi della civiltà europea, né quando presentavamo l’idea della federazione. Altri l’avevano già fatto, certamente meglio di noi”. Poi Spinelli aggiunge una considerazione che rende la citazione della Meloni ridondante e ne evidenzia la malafede: “Il Manifesto conteneva inoltre alcuni errori politici di non lieve portata - continua Spinelli -. Il primo era l’ottimismo di tutti coloro che lanciando una nuova idea credono sempre che essa sia di imminente realizzazione. Poiché però questo errore si ritrova dal Vangelo che credeva di essere impostato tutto sull’idea dell’imminente fine del mondo, al Manifesto del partito comunista che credeva di essere fondato anch’esso tutto sull’imminente rivoluzione socialista, si può considerare veniale l’errore identico del Manifesto federalista”. Più grave era il fatto che non avevamo in alcun modo previsto che gli europei, dopo la fine della guerra, non sarebbero rimasti più padroni di sé nella ricerca del loro avvenire, ma, avendo cessato di essere il centro del mondo, sarebbero stati pesantemente condizionati da poteri extraeuropei. Tutta la parte finale che invocava la necessità di un partito rivoluzionario federalista si è anche rivelata caduca, perché l’esigenza, giusta, della necessità di guidare e non di seguire le masse e i loro moti, era espressa ancora in termini troppo rozzamente leninisti. É lo stesso Spinelli che ammette e riconosce i limiti della forma del Manifesto. Per poi sottolineare come rimanesse un testo vivo “grazie a due idee politiche che gli erano proprie: la prima era che la federazione non era presentata come un bell’ideale cui rendere omaggio per occuparsi poi d’altro, ma come un obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire ora, nella nostra attuale generazione”. La seconda idea significativa consisteva “nel dire che la lotta per l’unità europea avrebbe creato un nuovo spartiacque fra le correnti politiche, diverso da quello del passato”. Qui arriva poi la parte che Meloni avversa maggiormente, e per la quale occorre fare in modo che il Manifesto venga condannato senza essere letto: “La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari - afferma ancora Spinelli - cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Ecco, il Manifesto di Ventotene fa chiedere a chi governa per cosa usi il suo potere. Personalmente, mi auguro che prima o poi Meloni si scusi per aver provato a disonorare la memoria di quei grandi uomini. Così come fece pubblicamente Sandro Pertini quando - al Quirinale, da Presidente della Repubblica - prese la parola e si scusò con Spinelli per aver inizialmente aderito al Manifesto e per aver successivamente ritirato la sua adesione a seguito delle pressioni fattegli dai compagni di partito. E stiamo parlando di Pertini. L’autobiografia di Spinelli è intitolata “Come ho tentato di diventare saggio”, quella di Meloni, invece, “Io sono Giorgia”. Qualcosa vorrà pur dire. Se il passato diventa un comodo alibi per sfuggire alla realtà di Alessandro De Angelis La Stampa, 20 marzo 2025 La classe dirigente italiana si accapiglia sulla Seconda Guerra Mondiale, mentre si rischia la Terza. Mentre la politica, quella che rischia di metterci nell’angolo come Paese, la fanno altri. Altrove. Non è la prima volta che accade questo: nel discorso in vista del Consiglio europeo Giorgia Meloni assume un tono prudente, istituzionale, senza picchi. Poi, nelle repliche, si libera dai freni inibitori. Ci si potrebbe affidare alla spiegazione psicologica di un inconscio a fatica represso. Oppure - più probabile - alla tesi del format perfettamente voluto: tanto più è costretta al vincolo esterno (sulle armi, in fondo, ha detto sì e sull’Ucraina non ha ceduto), tanto più deve regalare poi, a mo’ di compensazione, un po’ di sangue alla curva. Sia come sia, questa volta ad equilibrismo estremo e quasi noioso al primo giro, ha corrisposto una provocazione altrettanto estrema al secondo sul Manifesto di Ventotene, presentato quasi come un inno al socialismo reale. Provocazione piuttosto ardita sia rispetto alla verità della storia e anche all’opportunità istituzionale. Giova ricordare che è dedicata ad Altiero Spinelli un’ala del Parlamento europeo, in omaggio alla sua vita spesa per la costruzione di un’Europa libera, unita, democratica, fondata su quei valori della persona umana che il fascismo aveva represso. Sono proprio queste le parole utilizzate da Sergio Mattarella, durante un incontro con gli studenti in occasione dell’ottantesimo anniversario del Manifesto di Ventotene, quando lo definì una “lezione senza scadenza e senza tempo, che parla anche a noi con grande attualità”. Insomma, maramaledeggiare su Spinelli prima di un pranzo al Quirinale e di un vertice europeo è un po’ come bestemmiare prima di una visita a San Pietro. In fondo, però, per Giorgia Meloni è tutto perfetto: la rottura del galateo è funzionale a rinverdire il mito della sua diversità; l’euroscettismo è utile a non perdere il monopolio dell’immaginario sovranista, su cui avverte la sfida di Matteo Salvini che insiste sul no alle armi; la gazzarra successiva è utile per rimuovere l’oggetto della discussione, e cioè il ruolo (debole) del governo italiano in Europa sul terreno della difesa e della sicurezza. Hanno ragione le opposizioni nel merito storico però, in definitiva, anche per loro il “caso Spinelli” diventa l’occasione per assecondare una fuga, per quanto nobile, dalla realtà, coprendo le divisioni progettuali sul vero terreno della contesa. Il meccanismo è rivelatore di una classica trappola delle identità: la discussione, in Europa, è sulla sua sfida esistenziale, ovvero su come, finita l’era della sicurezza gratis, esercitare un ruolo di deterrenza per contare qualcosa nel mondo. Sono temi impegnativi, non a costo zero in termini di consenso. Rifugiarsi nel passato è un modo per fare i conti con l’assunzione di responsabilità del qui e ora, anteponendo la comfort zone dell’identità e delle proprie bandiere. Tutto questo racconta di una estrema fragilità del sistema Paese di fronte alla posta in gioco. In Francia, ad esempio, Marine Le Pen ha assunto una postura critica su Trump perché ha capito che non può lasciare a Macron il “Francia First”, inteso come orgoglio nazionale di fronte al disimpegno e all’aggressività americana. In Germania un Parlamento pressoché sciolto ha votato col consenso delle principali forze politiche a favore della riforma che consente di fare debito investendo centinaia di miliardi di euro in spese militari e infrastrutture. Qui nulla scalda più delle polemiche sulla storia. È la legge del più forte che riscrive l’ordine mondiale di Diego Motta Avvenire, 20 marzo 2025 Dall’aggressione russa in Ucraina alla dottrina Trump, passando per quel che accade a Gaza, il diritto internazionale è sotto attacco. I giuristi: bisogna resistere ai disegni dei padroni del mondo. Nel tempo della guerra e della forza, gli uomini al comando dispongono e decidono, mentre gli altri si adeguano, sperando di limitare i danni. Sembra essere questo lo scenario con cui fare i conti, in una tremenda accelerazione mondiale partita con l’aggressione della Russia all’Ucraina nel febbraio 2022 e proseguita il 7 ottobre 2023 con il pogrom di Hamas e la successiva, smisurata vendetta di Israele su Gaza. Anche nella definizione di possibili tregue e cessate il fuoco, la legge del più forte vince a mani basse. Sessanta giorni di “dottrina Trump” in materia sono lì a dimostrarlo: se va bene, si decide tutto tra lo Studio ovale, Mar-a-Lago e i caminetti convocati via via in “Paesi sicuri”. Viene meno tutto il resto, a partire dal rispetto del diritto internazionale. Non solo: l’offensiva della Casa Bianca nei confronti di istituzioni come la Corte penale internazionale e l’Oms, la decisione di Washington di uscire dagli accordi sul clima di Parigi e l’insofferenza mostrata verso soggetti come l’Onu e la stessa Nato dimostrano che non siamo in presenza di colpi di testa del tycoon, ma di una vera e propria strategia. Qual è l’obiettivo? E quali sono i rischi? L’ impressione è che per le due grandi superpotenze più una (Usa e Cina, più la Russia) da cui dipende una parte dell’assetto mondiale, si debba procedere a un progressivo riallineamento del sistema politico e diplomatico, dopo una fase di disordine internazionale che ha messo in crisi soprattutto il quarto attore-chiave, l’Europa. Il tutto deve avvenire a partire da un principio base: esistono gli Stati, che possono fare e disfare a loro piacimento, come se intorno a essi non ci fosse nulla. La regolazione dei rapporti tra gli Stati pare prescindere da entità sovranazionali, in una prospettiva di disintermediazione sorprendente: il pallino è in mano ai singoli leader, che si mostrano all’opinione pubblica dotati di superpoteri, compresi quelli di provocare le guerre o decretarne la fine. Eppure le norme internazionali non sono cambiate, dal divieto all’uso della forza come strumento di risoluzione delle controversie internazionali (con le eccezioni previste espressamente dalla Carta delle Nazioni Unite, quali la legittima difesa e il sistema di sicurezza collettiva) al perseguimento di coloro che sono ricercati per crimini internazionali contro l’umanità. “Attraversiamo una fase storica che chiede alle democrazie di resistere su quelle leggi e su quei principi che le hanno ispirate” spiega Chiara Ragni, ordinario di Diritto internazionale all’Università degli Studi di Milano. Una resistenza che va attuata a partire dal legame di cooperazione e mutuo riconoscimento alla base di soggetti come la Corte penale internazionale, che in questi giorni è tornata a far parlare di sé con l’arresto di Rodrigo Duterte, già presidente delle Filippine, accusato di essere responsabile di migliaia di stupri, torture e omicidi commessi da persone sotto il suo comando. Un caso “eccellente”, che dimostra semmai ce ne fosse stato bisogno, la necessità e la centralità della Cpi, messa pesantemente nel mirino a febbraio dagli Usa. “È il segnale che il diritto internazionale funziona e non è affatto cambiato. Non è in atto alcuna ridefinizione. Semmai - osserva Edoardo Greppi, professore di Diritto internazionale all’Università di Torino - si sta verificando un processo più subdolo di delegittimazione delle autorità internazionali. Di questo passo, saranno proprio gli obblighi internazionali tra gli Stati a poter essere violati non nella forma, ma nella sostanza”. Seguendo questo schema, ad esempio, si continua a tollerare il fatto che leader come Vladimir Putin possano essere accolti senza problemi in Paesi che pure hanno sottoscritto il Trattato di Roma e hanno riconosciuto la Cpi: è accaduto in Mongolia, recentemente. Nel frattempo, l’appello dell’Onu con cui 79 Paesi (esclusa l’Italia) si sono espressi contro le sanzioni annunciate da Washington ai danni di giudici e funzionari dell’Aja, dimostra che esiste una mobilitazione ostinata e contraria all’annacquamento degli accordi, in ossequio alla volontà del potente di turno. “L’ordinamento internazionale si regge su un principio - spiega Greppi -: è il principio pacta sunt servanda, i patti devono essere rispettati. Il diritto internazionale non cambia, è semmai la politica ad esser cambiata. E ciò a cui stiamo assistendo non è la débâcle del diritto, ma della politica”. È quello che Luca Masera, docente di Diritto penale all’Università di Brescia, definisce come “il riemergere della politica di potenza pura, che fa da cornice a qualsiasi relazione internazionale, e che finisce per considerare l’esistenza di regole alla stregua di un orpello. Ma se viene meno l’architettura del diritto, rischia di venir giù tutto il sistema”. Poi, certo, ci sono differenze tra Stati Uniti ed Europa: nel primo caso la struttura istituzionale è più semplice e a far da contraltare alla Casa Bianca ci sono solo il Congresso e la Corte Suprema, mentre nel Vecchio continente i contrappesi sono più numerosi e la mancanza di una configurazione politica unitaria rende tutto più controllabile (e farraginoso). Sullo sfondo, infine, c’è lo stato di salute delle democrazie occidentali oggi. A cosa servono, sembrano chiedersi i nuovi padroni del mondo, trattati e istituzioni, se l’unica fonte di legittimità per i governi è il consenso popolare? C’è dunque un problema culturale in radice ed è “su questo piano che le categorie del diritto sono sotto attacco - continua il giurista -. A non interessare sembra essere il concetto stesso di limitazione del potere, con il riconoscimento innanzitutto delle istituzioni di garanzia e di controllo”. Se si parla di violazione delle norme in atto, il riferimento non è solo alle guerre combattute sul terreno, dove pare sfumare anche la distinzione tra Paese aggredito e Paese aggressore. Basta pensare a un nuovo tipo di guerre, quelle commerciali, condotte a colpi di dazi (e di annunci). La fine della globalizzazione e la riscrittura dei rapporti bilaterali anche in chiave economica porterà anche al ripensamento di soggetti come la Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio? È un punto molto sensibile, su cui anche i mercati finanziari hanno dato segnali di forte nervosismo sulle due sponde dell’Oceano, mentre viene sottovalutata ancora una volta la portata neocolonialista dei cambiamenti in atto. Nessuno lo dice, ma c’è un incubo che ha assalito in queste settimane storici e giuristi: è il fatto che la riscrittura dell’ordine mondiale avvenga sempre e soltanto dopo un grande conflitto. È uno scenario sciagurato, da scongiurare subito, capovolgendo semmai la prospettiva. Anche la guerra, per chi si occupa di diritto penale internazionale, si può giudicare e gli strumenti non mancano. Le difficoltà di questo momento storico sono evidenti a tutti, ma l’impunità non può essere garantita da nessuno. Il ritorno del plotone di esecuzione negli Stati Uniti di Elizabeth Bruenig* Internazionale, 20 marzo 2025 Negli Stati Uniti esiste una contraddizione profonda sulla pena di morte, radicata nell’ottavo emendamento: il governo può legalmente uccidere una persona (la tortura di tutte le torture) ma non può sottoporla a sofferenze superflue. Il paradosso è evidente: il detenuto viene protetto da una violenza minore mentre subisce una violenza suprema. Da questa confusione nasce la necessità di esecuzioni relativamente indolori. Le stesse persone che rinchiudono i detenuti nel braccio della morte in celle claustrofobiche sono tenute a garantirne il benessere mentre si avvicinano alla loro morte. Con questa missione in mente, i governi statali stanno rovistando nel passato alla ricerca di un metodo che possa soddisfare i vincoli sulle sofferenze eccessive senza però compromettere l’obiettivo finale, cioè l’eliminazione fisica del detenuto. Il 7 marzo le autorità della South Carolina hanno eseguito la sentenza di morte contro Brad Sigmon ricorrendo a un plotone d’esecuzione. Nel 2001 Sigmon era stato condannato per l’omicidio dei genitori della sua compagna. Si è trattato del primo ricorso a un plotone d’esecuzione negli ultimi quindici anni. L’ultimo caso si era verificato nello Utah nel 2010. I metodi di esecuzione peculiari e violenti sembrano catturare l’immaginazione dell’opinione pubblica più della pena di morte in sé. Una persona può essere teoricamente favorevole alla punizione capitale come concetto, ma è plausibile che faccia un passo indietro davanti alla prospettiva di uccidere concretamente un altro essere umano, un atto che richiede una partecipazione più viscerale rispetto a un consenso astratto. È per questo che la settimana scorsa i mezzi d’informazione hanno prestato molta attenzione al ritorno del plotone di esecuzione. La vicenda è stata seguita dalle testate nazionali e ha suscitato l’interesse anche della Bbc. Detto questo, è probabile che la prossima esecuzione di questo tipo non genererà lo stesso interesse. Fino a quando non ci sarà un cambiamento culturale che possa produrre il rifiuto del concetto stesso di pena di morte, continueremo ad assistere a nuove tecniche o al ritorno di quelle del passato, in forma più o meno rielaborata. Durante la sua esecuzione, Sigmon è stato legato a una sedia grigia all’interno di una vasca di acciaio, con un bersaglio posizionato sul petto e un cappuccio a coprire la testa. I testimoni hanno seguito la scena attraverso una finestra, mentre i tiratori, nascosti dietro un muro dotato di appositi fori per far passare la canna dei loro fucili, hanno sparato da una distanza di 4,5 metri, distruggendo il bersaglio appoggiato sul petto di Sigmon, all’altezza del cuore. Un dottore ha certificato la morte del condannato alle sei e otto minuti del pomeriggio. Come succede in molti stati dove è in vigore la pena di morte, a Sigmon è stato consentito di scegliere fra tre diversi metodi di esecuzione: iniezione letale, elettrocuzione o plotone. Alla fine ha scelto i fucili, preoccupato dai diversi errori commessi di recente nella somministrazione delle iniezioni letali nella South Carolina. Il mese scorso un condannato ha ricevuto una dose sbagliata di composti chimici, tanto che l’autopsia ha rilevato che i suoi polmoni erano “fortemente rigonfi a causa dell’accumulo di sangue e fluidi”, come si legge in un documento processuale presentato dai legali di Sigmon. Le esecuzioni di civili attraverso un plotone di uomini armati sono storicamente rare. La prima ha avuto luogo nelle colonie americane nel 1608, e da allora soltanto 144 persone sono state messe a morte con queste modalità. Di conseguenza è difficile trarre conclusioni scientifiche rispetto ai meriti di questa procedura rispetto a quelle più diffuse. In ogni caso, è probabile che Sigmon avesse ragione quando si è convinto che il plotone di esecuzione gli offrisse una morte più rapida rispetto sia ai metodi pseudoscientifici più utilizzati in epoca moderna (elettrocuzione, gas, iniezione letale) sia a quelli più antichi come l’impiccagione e il rogo. Nel capitolo che ha curato per il libro The Elgar Companion to Capital Punishment and Society (2024), la professoressa ed esperta di diritto Deborah Denno riporta che un elettrocardiogramma condotto durante un’esecuzione attraverso un plotone nel 1938 aveva rilevato che il cuore del condannato si era fermato pochi secondi dopo l’impatto dei proiettili. L’uomo era stato dichiarato morto appena due minuti dopo. Denno aggiunge che in una delle analisi mediche più complete dei vari metodi di esecuzione, lo scienziato britannico Harold Hillman “ha concluso che l’esecuzione attraverso un plotone presenta livelli di potenziale dolore tra i più bassi”. Eppure con il passare degli anni il plotone d’esecuzione ha ceduto il passo a metodi che erano considerati meno sanguinari, a cominciare dall’iniezione letale, emersa alla fine degli anni settanta come strumento scientifico e rispettabile per mettere fine alla vita di un condannato, qualcosa di paragonabile all’eutanasia nei confronti degli animali. Tuttavia, il presunto progresso portato dall’iniezione letale nascondeva un elevato rischio di errori crudeli e raccapriccianti. Prendiamo il caso di Doyle Hamm. Nel 2018 la tentata esecuzione di Hamm attraverso un’iniezione letale è durata circa tre ore, durante le quali l’uomo ha subìto undici iniezioni nelle gambe, nei piedi e nell’inguine. Un ago gli ha perfino perforato la vescica. Da allora l’iniezione letale è stata sottoposta a un’infinità di dispute legali, che hanno suscitato nell’opinione pubblica una forte opposizione nei confronti di questa tecnica. Il dibattito ha prodotto un particolare sviluppo legale: oggi un detenuto che si oppone a un metodo di esecuzione deve indicare un’alternativa immediatamente disponibile. Questo ha spinto le autorità statali a sviluppare protocolli per i metodi aggiuntivi. Presto l’iniezione letale potrebbe essere definitivamente soppiantata dal plotone di esecuzione o dal soffocamento per ipossia da azoto. Comunque sia, il rimescolamento tra metodi vecchi e nuovi andrà avanti probabilmente all’infinito, mentre i governi statali continuano a battersi con ogni mezzo per conservare il diritto a uccidere. *The Atlantic Nell’Ucraina senza reclute arrivano i detenuti: “Ci addestriamo per salvare il nostro Paese” di Francesca Mannocchi La Stampa, 20 marzo 2025 I volti sono segnati dall’esperienza della prigione, al campo il morale è basso: se Mosca vince dovremo scappare. Il ministro della Difesa: “A differenza della Russia noi li prepariamo invece di mandarli al macello al fronte”. Il ricordo più nitido che Mykyta ha della guerra è l’attacco subito da uno dei suoi più cari amici, Vania Petrenko. Avevano vissuto fianco a fianco per mesi, poi la brigata d’assalto a cui era stato destinato e di cui era comandante è stata attaccata dall’artiglieria russa a Toresk. Mykyta in quel momento era di stanza a Klishchiivka e quando ha ricevuto la notizia della morte del suo amico, non ha potuto lasciare le sue posizioni per dargli l’ultimo saluto. rano insieme il giorno che, usciti dalla fabbrica per cui lavoravano a Dnipro, si sono andati a iscrivere alle liste di reclutamento. L’invasione era iniziata da pochi giorni e Mykyta e Vania, entrambi venticinquenni, non avevano dubbi: avrebbero lasciato la fabbrica per il fronte. Poi l’addestramento li ha divisi. Mikyta è stato un anno e mezzo nella fanteria e nei gruppi meccanizzati fino ad arrivare alla 93esima. “Avevamo entrambi capito subito che sarebbe durata a lungo e quando è stato possibile, quando ci hanno detto che saremmo stati spostati, io ho deciso di entrare nella Brigata 93, perché era dislocata sulla linea di combattimento nella zona della mia infanzia”. Cioè il Donbass. La famiglia di Mykyta è originaria di lì, per loro la guerra è iniziata nel 2014 e come migliaia di altri hanno dovuto lasciare la casa in cui vivevano e sfollare altrove. Oggi Mykyta è comandante dell’unità dei droni FPV della 93esima brigata e a turno si occupa di addestrare i detenuti liberati dalle carceri ucraine per andare al fronte. Sono passati tre anni dalle code per iscriversi al reclutamento che hanno portato Mykyta e il suo defunto amico Vania al fronte. Oggi, il tema del reclutamento, è un taboo. A dicembre, chiamato a dare conto sulla cifra dei soldati morti e feriti negli ultimi tre anni, il presidente Volodymyr Zelenskyy aveva parlato di 43 mila soldati uccisi e 370 mila feriti. Secondo le stime degli analisti, tuttavia, i soldati uccisi sarebbero almeno 70 mila, cui vanno aggiunti circa 30 mila dispersi. A spingere Zelensky a rendere pubbliche queste cifre, pochi mesi fa, erano state le stime che aveva diffuso Donald Trump affermando che l’Ucraina avesse perso “in modo ridicolo 400 mila soldati”. Numeri lontani dalla realtà, quelli del presidente statunitense Trump, quello che è vicino alla realtà, invece, è che gli uomini ucraini ormai la guerra l’hanno vista da vicino. Qualcuno non la teme, qualcuno ne è terrorizzato. Per alcuni è necessità, per altri è la caduta delle illusioni. Quale che sia la ragione della crisi del reclutamento, le lacune nei ranghi dell’esercito sono così significative che il governo la scorsa estate ha approvato un decreto prima e una legge poi, che consente ai detenuti di fare richiesta di commutare il resto della pena nella leva. Un’amnistia che esclude i detenuti per reati molto gravi, gli stupratori e gli assassini e i condannati per reati contro la sicurezza nazionale non possono usufruire della legge. Il governo è stato a lungo riluttante, poi le perdite e la mancanza di uomini nelle forze armate si sono fatte così importanti che ha dovuto cedere. La legge prevede che le condanne vengano cancellate dopo un anno, e che i detenuti continueranno a combattere finché sarà necessario. Se i prigionieri disertano, ricevono altri cinque o dieci anni di carcere, oltre alle loro condanne originali. A oggi sono circa 7 mila gli ex prigionieri liberati dalle celle delle carceri ucraine in una pratica che evoca gli aspetti più cinici della condotta militare dell’esercito russo. La Russia ha iniziato il reclutamento tra i prigionieri nel 2022, portando i numeri degli ex detenuti portati al fronte a 100.000 persone. Molti all’inizio si erano uniti al gruppo Wagner, e al suo capo Yevgeny Prigozhin, dichiarato morto lo scorso anno quando il suo aereo si è schiantato dopo la fallita rivolta contro l’ex ministro della difesa Sergei Shoigu. Molti dei detenuti arruolati in Russia sono stati spediti come carne da macello nelle prime linee, migliaia di loro sono morti nella battaglia di Bakhmut. Uomini come numeri, spediti direttamente nelle brigate d’assalto. Pronti a essere sostituiti da altri numeri. Soldati a cui vengono assegnate le missioni più pericolose, per proteggere le vite degli altri. Ma sulla possibile analogia con la condotta russa, i capi delle unità e lo stesso Ministro della Difesa ucraino, si sono affrettati a dare spiegazioni e prendere le distanze. Intervistato sul punto, il Ministro della Difesa ucraino Denis Maliunska ha detto: “Certo, c’è un parallelo, ma è comunque una questione di approcci diversi, da noi gli ex detenuti sono addestrati e la loro vita trattata con lo stesso valore delle altre”. Il Ministero della Difesa dice che l’arruolamento volontario è ancora elevato in Ucraina, ma che è semplicemente insufficiente per competere con il vantaggio demografico e le tattiche di reclutamento a sangue freddo della Russia, che ha una popolazione tre volte e mezzo quella dell’Ucraina e il suo personale militare in servizio attivo ammonta a circa un milione e mezzo di unità, rispetto ai circa 900.000 dell’Ucraina (anche se le stime variano). L’unità Alcatraz - Un mese e mezzo fa quaranta ex detenuti sono arrivati nella base della 93esima Brigata. Sono usciti dalla colonia penale in fila e sono stati condotti in un campo militare. È tra Druzkivka e Kramatorsk che oggi addestrano a sparare e a maneggiare i droni. I soldati della 93esima, li hanno chiamati “l’unità Alcatraz”. La maggior parte di loro sembra galvanizzata dall’esperienza nell’esercito. Non tanto e non solo perché iscriversi alle liste dei volontari ha garantito che uscissero dalle celle, quanto perché - a loro dire - si sentono “utili per il Paese”. È la risposta più comune tra i ranghi, ancora disordinati, dei nuovi soldati. I loro volti sono tutti segnati dall’esperienza della prigione, sono visi consumati, rudi. Alcuni di loro restano in disparte, maneggiano le armi con reticenza. Quando gli istruttori spiegano loro l’importanza di imparare a montare e smontare le armi anche a occhi chiusi, meccanicamente, le guardano come corpi estranei. Sui loro, di volti, la durezza generata dalle celle delle prigioni, diventa timore. Lo stesso, probabilmente, provato dai tanti che da quando è iniziata l’invasione su larga scala, si sono precipitati al fronte per proteggere i confini del Paese, e sono precipitati in una battaglia feroce, che avevano visto fino ad allora, solo nei film. Ai detenuti viene insegnato a usare armi automatiche e mitragliatrici. Ricevono lezioni su come riconoscere mine e trappole esplosive e come piazzarle. Si danno il turno per sparare, due alla volta. La sagoma è a poche decine di metri di distanza. L’istruttore li addestra a sparare in piedi, in ginocchio, poi sdraiati, poi nascosti dietro gli alberi. Fino a che dietro gli alberi, in mezzo ai boschi, devono nascondersi davvero. Dal cielo si sente il rumore di un drone, i soldati della 93esima brigata chiedono alle nuove reclute di disperdersi velocemente, accucciarsi e nascondersi. Non è la prima volta che i russi colpiscono i centri di addestramento. È così che gli ex detenuti diventati reclute mettono a frutto i primi insegnamenti, strisciando in mezzo agli alberi, finché il rumore del drone si dissolve in lontananza, e tornano verso la posizione di tiro due alla volta, per tornare a sparare alle sagome. Quando ascolta la retorica e gli inganni delle dichiarazioni politiche, Mykyta tende a cambiare stazione radio o canale televisivo. “La guerra la capisce chi la fa, e dico solo una cosa: questo nemico è un nemico antico e più volte ha tradito le promesse fatte. Sfruttano il tempo per accumulare le forze, tutto qui”. Se avesse di fronte chi negozia, direbbe solo: se promettiamo qualcosa, noi ucraini lo portiamo a compimento. Ma “con questo nemico che ha più volte disatteso le promesse, purtroppo non è possibile mettersi d’accordo. Vogliono solo potenziare le forze per attaccarci essendo ancora più forti”. Il suo futuro non lo immagina. Di una cosa però è certo: “Se la Russia ottiene quel che vuole, e lo sta ottenendo, ogni soldato che vive in Ucraina, dovrà scappare con le famiglie, con tutta la famiglia allargata: nonni e nonne, tutti. Perché per noi sarà una condanna a morte”. “Anime morte”. La tragedia umana dei soldati ucraini liberati dalle carceri russe di Kateryna Kovalenko linkiesta.it, 20 marzo 2025 I detenuti ucraini subiscono torture, isolamento e privazioni che violano ogni norma umanitaria. Tornare a casa è una vittoria, ma non cancella mesi o anni di abusi. Durante la telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin di martedì, il dittatore russo avrebbe informato il presidente americano dello scambio di trecentocinquanta prigionieri di guerra, centosettantacinque per parte. Non solo, la Russia ha promesso anche di rimpatriare in Ucraina ventitré militari gravemente feriti. Almeno sullo scambio di prigionieri, Putin ha mantenuto la parola, visto che non ha fatto lo stesso sugli attacchi alle infrastrutture. La scorsa notte Mosca ha attacato con droni l’ospedale a Sumy e l’infrastruttura elettrica a Slovyansk. Dei prigionieri di guerra ucraini si parla poco nelle manifestazioni organizzate dai parenti in piazza che si svolgono regolarmente in varie città del mondo, Italia inclusa. Se ne parla quasi solo dopo gli scambi. Ogni volta il ritorno a casa provoca una gioia infinita nei familiari, speranzosi di rivedere mariti, mogli, figli tra coloro che hanno avuto la fortuna di ritornare in patria. Spesso le famiglie non sanno fino all’ultimo chi verrà scambiato e neanche prigionieri stessi ne sono a conoscenza. È una questione delicata che non permette di trattare con leggerezza questo argomento, senza prima soppesare le parole. Dall’inizio dell’invasione russa su vasta scala sono avvenuti sessantadue scambi di prigionieri di guerra. In totale l’Ucraina è riuscita a far tornare a casa 4.306 persone, con le centosettantacinque di ieri. Sono soldati, ufficiali delle forze armate, della guardia nazionale, guardie di frontiera, poliziotti, ma anche dei civili. L’ultimo scambio è avvenuto appunto ieri, portando a casa centosettantacinque persone. Alcuni di loro hanno trascorso due anni in prigionia russa. A ottobre del 2024 il New York Times ha rivelato che nelle prigioni russe ci sono ancora ottomila militari e quattordicimila civili ucraini. Ma l’Ufficio di coordinamento ucraino per le questioni dei prigionieri, istituito come organo temporaneo a marzo del 2022, finora non ha pubblicato alcun dato ufficiale sul numero militari di dispersi e catturati. Purtroppo sono certe invece le condizioni in cui ritornano i prigionieri a casa, oppure il fatto che alcuni di essi non ritornano, come è accaduto alla giovane giornalista Viktoria Roschyna, torturata a morte dai russi, il cui corpo ancora non è stato restituito. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International pubblicato il 4 marzo, le autorità russe hanno sottoposto i prigionieri di guerra e i civili ucraini catturati a torture, lunghi periodi di isolamento, sparizioni forzate e ulteriori trattamenti inumani che costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In base alla Convenzione di Ginevra, la Russia dovrebbe garantire ai prigionieri ucraini le cure mediche adeguate, eppure le storie di coloro che sono tornati dimostrano come nelle celle il trattamento sia disumano. E molti non ne escono neanche più vivi. L’assenza totale delle cure o il diniego delle medicazioni ai feriti o ai torturati si evince dalle interviste agli ex prigionieri condotte da Amnesty. Una sorte che potrebbe toccare agli ucraini stanziati nel Kursk a cui Putin chiede di arrendersi. Guardare le foto e i video di questi scambi suscita un’enorme gioia, ma allo stesso tempo provoca un forte dispiacere e un senso di rabbia per come le persone vengono ridotte in quello stato: magri, malati, con gli occhi vuoti; uomini che assomigliavano a una roccia, sembrano degli spettri. Una volta ritornati in Ucraina gli vengono forniti telefono, vestiti, soccorso medico, aiuto piscologico e per il rinnovo dei documenti. L’anno scorso il gabinetto dei ministri ha approvato le procedure per la riabilitazione, dando seguito a un decreto per far ottenere ai rimpatriati il diritto al congedo e a un aiuto finanziario dallo Stato. Il Fondo ucraino per i veterani organizza dei webinar su questioni giuridiche o sociali, in cui si imbattono coloro che decidono di ritornare alla vita civile. Sul sito sono presenti dei vari corsi gratuiti nell’ambito del IT, Osint, o stipendi universitari offerti da vari partner, ma anche il corso sulla riabilitazione psicologica e integrazione sociale. Il Fondo offre, inoltre, il finanziamento e sostegno nell’apertura delle imprese. Tornare alla vita normale può diventare un’enorme sfida da affrontare: ogni persona è diversa e il danno fisico e psicologico che gli è stato inflitto potrebbe essere difficile da curare. La buona notizia che in molti riescono a farcela. Qualche soldato riceve aiuto dai colleghi delle unità dove ha prestato servizio, come ad esempio il Patronato della brigata Azov che assiste i propri combattenti usciti di prigione, occupandosi sia delle loro necessità materiali e fornendo un aiuto psicologico. L’associazione delle famiglie dei prigionieri di guerra della brigata Azov è una delle più note, fondata quando i difensori dell’acciaieria Azovstal furono costretti ad arrendersi per preservare le vite del personale. Molti militari, una volta affrontato il percorso di riabilitazione, ritornano tra i ranghi dell’esercito. Secondo i dati dell’Onu, il novantacinque per cento dei prigionieri ucraini ha subito torture programmate per distruggere la persona sia fisicamente che psicologicamente. Chi ha lo stomaco forte può leggere alcune delle storie presenti anche nel rapporto di Amnesty International per rendersi conto di ciò che subiscono gli ucraini catturati dai russi. Senza contare che mancano molti dati su chi non sopravvive a queste torture e che torneranno a casa in quei spaventosi sacchi neri. A molti prigionieri di guerra non viene data la possibilità di mettersi in contatto con la propria famiglia, con l’avvocato, perché spesso sono in isolamento. Talvolta i rappresentanti della Croce rossa internazionale hanno la possibilità di consegnare una lettera al detenuto o di controllare le condizioni della sua detenzione, ma queste sono rare eccezioni, non una regola. Ogni scambio di prigionieri è una gioia ed è anche una sfida da superare. Quando l’anno scorso fu liberato il figlio dell’amica di mia madre, alla domanda “Come sta?”, lei ci rispose: “Stiamo imparando a comunicare e a vivere di nuovo”. Vogliamo tutti un ambiente sano, delle persone intorno che non disturbino il nostro benessere. Dobbiamo tuttavia ricordare che viviamo in una società globalizzata e ci influenziamo a vicenda e che dentro di noi dovrebbe esserci quella fiamma chi si chiama umanità. Fin quando esisteranno gli imperi assassini, come quello russo, fin quando tollereremo i crimini di guerra, una società migliore la possiamo soltanto sognare, perché il male inflitto è capace di stroncare l’anima di ognuno di noi.