In piazza Garanti, avvocati, magistrati e Associazioni contro “il silenzio assordante” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2025 “La politica tace. La società civile e la magistratura non possono tollerare che i detenuti vivano in condizioni indegne e inumane”. Con queste parole nette, Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti delle persone private della libertà e garante campano, lancia l’allarme su un sistema penitenziario italiano al collasso. Un grido che diventa appello pubblico, in vista della giornata di protesta nazionale indetta per lunedì 3 marzo, quando i garanti territoriali, magistrati, avvocati e realtà associative scenderanno in piazza per rompere il “silenzio assordante” su carceri sovraffollati e diritti calpestati. I dati sono un pugno nello stomaco: 61.852 detenuti stipati in 192 istituti, con un surplus di 15mila persone rispetto alla capienza regolamentare. Celle progettate per ospitare due individui ne accolgono quattro, in spazi dove l’aria è satura di tensioni, violenza e disperazione. Un inferno quotidiano, denunciato dai garanti in un documento congiunto che accusa la politica di immobilismo e la società civile di indifferenza. “Sovraffollamento, carenza di strutture e risorse, burocrazia asfissiante: sono i tre nodi che strangolano il sistema”, ribadisce Ciambriello. Al centro della mobilitazione del 3 marzo c’è l’Appello della Conferenza nazionale dei garanti territoriali, un documento che delinea una roadmap di interventi urgenti per evitare che le carceri italiane sprofondino in una crisi umanitaria senza ritorno. Il manifesto, articolato in cinque punti cardine, chiede al governo e alle istituzioni di agire subito, a partire dalla riduzione del sovraffollamento attraverso misure deflattive per i detenuti con pene inferiori a un anno - 8mila persone, secondo le stime, molte delle quali senza reati considerati “ostativi” alla liberazione. A questi si aggiunge la proposta di introdurre uno sconto di pena supplementare di 15 giorni ogni semestre, per accelerare le liberazioni anticipate e decongestionare gli istituti. Non meno cruciale è la richiesta di ampliare l’accesso alle misure alternative, come l’affidamento in prova o i lavori socialmente utili, per i 19mila detenuti che stanno scontando pene residue sotto i tre anni. Un percorso oggi spesso bloccato da procedure farraginose, nonostante le norme lo prevedano. Parallelamente, i garanti sollecitano una riorganizzazione del circuito della media sicurezza, attraverso l’attuazione della circolare Dap n. 3693/6143 del 2022: l’obiettivo è chiudere le sezioni ordinarie, dove i detenuti restano rinchiusi fino a 20 ore al giorno, e sostituire quelle ore di isolamento con attività concrete - laboratori, progetti culturali, percorsi di reinserimento lavorativo - per restituire un senso alla funzione rieducativa della pena. Tra le priorità c’è anche il diritto all’affettività, un tema su cui la politica stenta a pronunciarsi nonostante la storica sentenza n. 10 del 2024 della Corte Costituzionale, che ha sancito il diritto dei detenuti a colloqui intimi e riservati, senza controllo visivo. I garanti chiedono di tradurre in pratica quelle parole: più telefonate, videochiamate e permessi premio, oggi concessi con criteri restrittivi, ma anche l’eliminazione di circolari come quelle dei P.R.A.P. che limitano l’acquisto di generi alimentari e oggetti personali, spesso disponibili solo a prezzi esorbitanti nel sopravvitto (il “mercato interno” delle carceri). Una pratica che alimenta disparità e frustrazione, trasformando il carcere in un luogo dove persino un pacchetto di biscotti diventa un privilegio. Il richiamo di Mattarella e l’inazione della politica - L’appello parte da lontano. Due mesi fa, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso di fine anno, aveva tuonato: “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Il sovraffollamento rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale”. Parole cadute nel vuoto. “La politica ha voltato le spalle”, accusa Ciambriello, sottolineando come il carcere sia scomparso dall’agenda parlamentare, nonostante emergenze come i 57 suicidi registrati nel 2023. La protesta del 3 marzo vuole essere un risveglio delle coscienze. “Chiediamo la presenza non solo dei garantisti, ma di tutta la società: volontari cattolici e laici, magistrati, avvocati, e persino la politica che oggi tace”, afferma il portavoce. L’obiettivo è duplice: sollecitare risposte istituzionali e smuovere l’opinione pubblica, troppo spesso indifferente verso chi è “oltre le sbarre”. Il nodo è culturale: in Italia, il carcere resta il cardine della risposta alla devianza, nonostante l’articolo 27 della Costituzione imponga la rieducazione. “Serve superare la visione carcerocentrica”, insistono i garanti, ricordando che il 30% dei detenuti è in attesa di primo giudizio e che il 68% ha una condanna inferiore ai cinque anni. Numeri che dimostrano come alternative alla detenzione (braccialetti elettronici, comunità) siano non solo possibili, ma necessarie. La sfida è trasformare le prigioni da depositi di umanità sofferente a luoghi di riscatto. “Garantire attività trattamentali non è un optional”, spiegano i garanti. Intanto, la sentenza sulla privacy affettiva (colloqui intimi) è una svolta epocale, ma rimane lettera morta senza direttive applicative. Il 3 marzo, insomma, non sarà solo una protesta. Sarà un test per misurare quanto l’Italia creda ancora nella dignità di ogni persona, anche di chi ha sbagliato. Perché, come ricorda Ciambriello, “un Paese civile si giudica da come tratta gli ultimi. E oggi, gli ultimi sono loro”. La disumanità alle fondamenta delle nostre galere di Angelo Scuderi* L’Unità, 1 marzo 2025 Abbandonato, stravolto ogni concetto di riabilitazione, la pena diventa ipertrofica e crudele. Bisogna uscire dalla omertosa cappa di silenzio che avvolge il “male del carcere”. Ci sono frasi e concetti che ti rimangono nella mente più di molti altri soprattutto se pronunciate da “maestri” del nostro diritto che, senza sconti verso i potenti, definiscono l’operato degli stessi come irriducibile “ostentazione della disumanità”. Parto, quindi, dalle parole del prof. Luigi Ferrajoli, per analizzare come lo svilimento del concetto di umanità sia, ormai da tempo, la pietra miliare sulla quale si fonda il nostro ordinamento giuridico penale con particolare riferimento alla fase esecutiva dello stesso. La pena che diventa, quindi, ipertrofica e crudele a causa dello stravolgimento del concetto stesso di correzione e riabilitazione che viene abbandonato, volontariamente, per mostrare i muscoli di un “mostro” che regge su piedi di argilla. L’implementazione, ormai a catena, del novero dei reati cosiddetti “ostativi” verso i quali lo Stato ha abbandonato, di fatto, ogni compito assegnatogli dalla Costituzione circa la riabilitazione e il reinserimento del condannato è la cartina di tornasole del giustizialismo, a prescindere, che si vuole mostrare nell’esecuzione della pena da parte di uno Stato che preferisce nascondere la polvere sotto il tappeto piuttosto che favorire il naturale e doveroso accompagnamento dei condannati al di fuori del circuito carcerario ormai lastricato, anche e soprattutto per i detenuti comuni, da immonda invivibilità. Chi vive il carcere sa quanto esso sia un posto pieno di rigide regole inutili, al cospetto della palese illegalità di fondo sulla quale si regge. Eppure sono strutture appartenenti allo Stato, vissute da persone in palese stato di “minorata difesa”, di debolezza e di abbandono. Se si trattasse di scuole, ospedali o case di cura per anziani sarebbero già state chiuse d’imperio, con successivi titoli in prima pagina su quegli stessi giornali che incitano a “gettare le chiavi” e a promuovere il motto del “fine pena mai”. Ogni argomento, istituzionale, sul carcere finisce sempre per risolversi con il collaudato sistema delle “grandi opere”: faremo altre carceri, useremo le caserme dismesse. Mai una parola sulle politiche di sistema per l’uscita dal carcere, e neanche doverose prese di coscienza sulla improcrastinabile esigenza di provvedimenti d’indulto e amnistia; gettare, doverosamente, la spugna in senso di resa significherebbe ostentare debolezza e non carità, benevolenza e non disumanità, così tradendo lo scellerato patto con il crudele consenso. È doveroso uscire dalla omertosa cappa di silenzio che avvolge il “male del carcere” e tradurre l’inumana condizione del sovraffollamento senza uscita con pochi concetti: si vive, si dorme, si mangia, si defeca, ci si lava e si socializza in sei o anche otto persone, in una cella con meno di tre metri quadrati a disposizione per ogni detenuto. E poi la catena infinita di suicidi, naturale conseguenza del disumano stato di abbandono e disinteresse verso chi è costretto, senza orizzonti, a vivere questa tortura: “Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere sé stesso” diceva Primo Levi parlando di chi viveva nei lager. Non che possa creare conforto a chi deve espiare la sua pena, ma è necessario conoscere come gran parte di queste persone siano all’”inferno” senza esserselo nemmeno “meritato”, in assenza di condanna e in attesa di giustizia nel posto più ingiusto che ci sia. Così accade che nonostante l’indice della commissione dei reati nel nostro Paese si sia abbassato, gli ergastoli da scontare siano triplicati e la fabbrica dei reati sia sempre in costante evoluzione, con un occhio particolare verso l’afflizione dei più deboli identificati per genere e non per individuo: migranti, mendicanti e rivoltosi, anche passivi in virtù del sadico ossimoro del legislatore, e occupanti di alloggi popolari. A loro, i più poveri, toccherà forse a breve dover sperimentare la “terribilità” del nostro carcere con la speranza, almeno, che la possano raccontare senza farla finita prima. Ostentare è meglio che curare. *Penalista del Foro di Trani Giustizia, magistrati freddi sulle “correzioni” alla riforma. Ma il Governo cerca una breccia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 marzo 2025 Mercoledì l’incontro a Palazzo Chigi. La strategia per dividere le toghe. “Abbiamo realizzato un esercizio di democrazia di cui essere orgogliosi”, si compiace l’Associazione nazionale magistrati. L’adesione allo sciopero contro la riforma costituzionale che separa le carriere dei pubblici ministeri da quelle dei giudici s’è attestata intorno all’ottanta per cento, eguagliando le più ottimistiche aspettative. Ma il difficile viene adesso. A cominciare dall’incontro di mercoledì prossimo con la premier Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Apprezziamo questa disponibilità”, ribadisce il neo-presidente Cesare Parodi, esponente di Magistratura indipendente, il gruppo più moderato dell’Anm; del resto era stato lui, tre settimane fa. a chiedere il “faccia a faccia” con la presidente del Consiglio, subito dopo la sua inattesa elezione; l’invito a Palazzo Chigi è stato letto come un segnale di apertura del governo, al quale Parodi replica precisando che lui e la giunta esecutiva andranno a “spiegare personalmente le ragioni specifiche e non ideologiche, né pregiudiziali, per cui contrastiamo questa riforma. Punto per punto”. Dei dieci componenti della giunta parleranno soltanto in due, verosimilmente Parodi e Maruotti, espressione di Area, una delle due correnti della sinistra giudiziaria. Illustrando una volta di più i timori per la rottura dell’unità dell’ordine giudiziario, per lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura in cui i componenti togati saranno estratti a sorte anziché eletti dai colleghi, e per la procedura disciplinare sottratta all’autogoverno. Con la prospettiva, giudicata pressoché inevitabile, dei pm attratti nell’orbita del potere esecutivo. Ma vorranno anche stigmatizzare “il contesto in cui viene portata avanti la riforma di una totale insofferenza verso il controllo della legalità che la Costituzione affida ai magistrati”, come hanno scritto nel comunicato post sciopero. Significa denunciare le aggressioni verbali nei confronti di pubblici ministeri e giudici “colpevoli” di decisioni sgradite al potere politico, di cui sono stati in qualche modo partecipi anche la premier e il ministro della Giustizia. L’appuntamento a Palazzo Chigi, però, servirà anche ad ascoltare ciò che il governo avrà da dire ai rappresentanti delle toghe; quali aperture e mediazioni offrirà, se lo farà. Da giorni si vagheggia di correzioni della riforma in qualche suo aspetto: dal sorteggio “temperato” del Csm (prevedendo cioè un’estrazione di nomi più ampia dei componenti, per poi procedere a un’elezione che in questo modo sarebbe solo condizionata dal sorteggio) alla previsione delle quote di genere; una dimenticanza piuttosto grave di chi ha scritto il testo ora in discussione al Senato, visto che con il sorteggio puro si rischierebbe di avere un organismo composto di soli uomini (o sole donne) quando la rappresentanza femminile in magistratura ha da tempo superato la metà del totale. Altre correzioni ipotizzate riguardano l’estensione dell’Alta corte disciplinare a tutte le magistrature, e l’esclusione della titolarità dell’azione disciplinare per i giudici in capo al procuratore generale della Cassazione, più interventi minori da rinviare alle leggi ordinarie. Ma se pure Meloni e Nordio si addentrassero in queste o altre mediazioni - sulle quali non c’è unità di consenso nemmeno all’interno della maggioranza di governo - è escluso che mercoledì possa arrivare una risposta da parte dell’Anm. Che dovrebbe comunque rinviare ogni decisione al comitato direttivo centrale già convocato per sabato 8 marzo, composto da 36 magistrati di tutte le correnti. “Dubito che si formi una maggioranza di possibile apertura verso queste proposte - anticipa il segretario Maruotti, che in queste settimane ha sempre ripetuto come non ci siano spazi per trattative al ribasso -, né dai deliberati ufficiali dell’Anm emerge una delega a trattare su singoli aspetti della riforma. Non intendiamo farlo e di certo non possiamo essere noi a decidere il futuro assetto costituzionale”. Posizione netta, da cui potrebbe derivare una spaccatura interna con gli eventuali “aperturisti”; soprattutto dentro l’anima più “governista” di Magistratura indipendente. E forse è proprio questo l’obiettivo dell’esecutivo: mostrare una disponibilità, anche solo apparente, a ritoccare la riforma per rompere l’unità dei magistrati e tornare a dividere le “toghe rosse”, o comunque di opposizione, da quelle che pensano a fare il loro lavoro senza altre velleità. Per cancellare l’effetto sciopero e riproporre l’immagine di una parte di magistratura politicizzata che si ostina a voler “esondare” dai propri confini. Se si tratta di una strategia, e quale sarà effetto potrà avere, si vedrà dopo l’incontro di mercoledì. I magistrati protestano impugnando la Costituzione, ma anche loro l’hanno resa carta straccia di Frank Cimini L’Unità, 1 marzo 2025 Leggi emergenziali, uso speciale dei tribunali ordinari, carcere duro, repressione. Per quale Carta scioperano? Quella del 1948 non c’è più da tempo immemore. Lo sciopero dei magistrati è una anomalia tutta italiana, ma purtroppo ce ne dobbiamo fare una ragione anche al fine di evitare di sentire la solita cantilena dell’attacco all’indipendenza e all’autonomia di una categoria incontrollata e incontrollabile che non paga mai per i suoi errori e nemmeno per i suoi orrori. Ma veniamo al motivo dell’astensione dal lavoro. “In difesa della Costituzione” dicono dopo averla sbandierata e squadernata alle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario, per poi uscire dalle aule nel momento in cui parlava un rappresentante del ministero. Comportamenti e atteggiamenti da asilo Mariuccia da parte di funzionari dello Stato super pagati. La domanda è una sola. Per quale Costituzione scioperano? Per quella targata 1948 e poi liquidata circa mezzo secolo fa dal regime Dc-Pci e dai governi di unità nazionale? O scioperano in nome della Costituzione materiale adeguata alle leggi di emergenza pretese e ottenute dalle procure, approvate da un Parlamento di vigliacchi che aveva interamente delegato ai magistrati la questione della sovversione interna? Parliamo delle leggi premiali che consentirono ai responsabili dei crimini più efferati di uscire dal carcere “puniti” non per quello che avevano commesso, ma per ciò che pensavano di quanto avevano fatto? Le leggi della madre di tutte le emergenze restarono in vigore anche nelle emergenze successive, mafia e Mani pulite. Non ci furono tribunali speciali come nel ventennio ma uso speciale dei tribunali ordinari. Cioè il peggio del peggio. Perché avessero creato i tribunali speciali poi avrebbero dovuto a un certo punto abolirli. Invece stanno ancora lì. Tanto è vero che siamo alla repressione senza sovversione. In corte di assise 50 anni dopo per accertare con carte false e violazioni delle regole processuali chi uccise il carabiniere ma non Mara Cagol, finita con un colpo di grazia il 5 giugno del 1975. Mezzo secolo fa. E stiamo con il carcere duro del 41bis applicato a oltre 700 detenuti: un numero superiore a quello del periodo delle stragi di mafia. Dove sta la Costituzione del 1948? Non c’è più da tempo immemore. Ma serve all’Anm, la cupola della magistratura, per prendere in giro un paese intero in nome della “legalità” che non è mai il diritto di chi è senza diritti. Chi è senza diritti non ha alternative al conflitto sociale, oggi in verità molto debole ma per quel poco che c’è viene represso da magistrati e politici uniti nella lotta. Su questo non litigano. Come quando usarono la Costituzione come carta igienica per contrastare un tentativo di rivoluzione il più serio nel cuore dell’Occidente. Separare le carriere non cambia la giustizia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 1 marzo 2025 Lo sciopero dei magistrati è un fatto eccezionale. Tanto più quando, come in questo caso, ha una motivazione puramente di principio, senza alcuna ragione di interesse personale da parte dei magistrati. Non è uno sciopero tipicamente sindacale. Si tratta della sospensione dell’esercizio di una funzione sovrana dello Stato. A coloro che hanno effettivamente lasciato il lavoro vanno aggiunti quelli che, proprio per la consapevolezza della natura dell’attività giudiziaria, hanno dichiarato di aderire allo sciopero (cosa che comporta la ritenuta salariale) pur di fatto continuando a lavorare. Nel sistema costituzionale la presidenza del Consiglio superiore della magistratura assegnata al Presidente della Repubblica non è solo in funzione della tutela della indipendenza della magistratura, ma anche di raccordo di quel corpo professionale con lo Stato nel suo complesso rappresentato dal suo vertice. Indipendenti sì, ma legittimati ad agire in quanto potere dello Stato. E questa volta, nel contesto venutosi a creare nel corso degli anni, la contrapposizione con governo e parlamento riguarda l’assetto fondamentale delle istituzioni: non questo o quell’aspetto della legislazione, o i mezzi materiali che consentono di svolgere i compiti della magistratura. Naturalmente dal punto di vista della legalità formale l’opera di riforma costituzionale in corso in parlamento è del tutto regolare, su un testo che il governo ha “blindato”, ma pare forse disposto a “sblindare” un poco, avendo il parlamento a disposizione. È infatti la stessa Costituzione che prevede la procedura che consente di riformarla (parlamentare e poi di referendum). Ma in questo caso, da parte unanime della magistratura associata nella Anm (gli iscritti sono più del 90% - tutti magistrati rossi?) si pone una questione che viene prima di ogni specifica soluzione organizzativa. L’indipendenza della magistratura, infatti, è una condizione dello Stato di diritto e richiede attenta regolamentazione delle funzioni, che sono attribuite sia ai giudici che ai pubblici ministeri. L’indipendenza di questi ultimi condiziona quella della funzione giudiziaria nel suo complesso. In tal senso si è espressa anche la Corte europea dei diritti umani, proprio con richiamo ai principi propri dello Stato di diritto. L’eventualità di una riforma della Costituzione che, sotto il nome riduttivo di “separazione delle carriere”, porti a diminuire l’indipendenza del pubblico ministero è la ragione forte della opposizione della magistratura. Il testo della riforma in discussione in parlamento non offre spunto testuale a questo timore. Naturalmente non vanno prese sul serio le parole del ministro della Giustizia, che garantisce che non metterà mai in discussione l’indipendenza, perché lui stesso è stato pubblico ministero per molti anni. Tanto più che le accuse alla magistratura da parte politica, dalla presidente del Consiglio, dal ministro della Giustizia, dal ministro dei Trasporti e dai parlamentari e giornali dell’area della maggioranza, sono sempre riferite a singole vicende giudiziarie, proprie di giudici o di pubblici ministeri. Il che illustra la vera ragione politica che produce la proposta di riforma, molto più del testo legislativo in discussione. Si vuole infatti che quelle vicende non si verifichino più. Pesa comunque la logica del nuovo sistema, che prevede lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura e la previsione che i magistrati che li comporranno non siano più eletti dalla magistratura, ma sorteggiati. Sorteggiati e quindi in nessun modo rappresentativi della magistratura, nella sua complessità e varietà di orientamenti. Si dice che si vuol combattere l’influenza delle correnti esistenti in magistratura. In realtà si combatte il pluralismo dei modi di vedere il ruolo del magistrato e il funzionamento degli uffici giudiziari, e si dice che si vuole contrastarne la “politicizzazione” (di coloro che dispiacciono alla maggioranza politica). In ogni caso andrebbe spiegato quale sia la specificità della funzione dei pubblici ministeri, tale da richiederne la separazione dall’altra parte, quella giudicante. Se, come sarebbe serio fare, la magistratura abbandonasse la genericità del richiamo ad una “cultura della giurisdizione” che oggi sarebbe un fattore comune ai giudici e ai pubblici ministeri, si potrebbe entrare nella discussione dei temi veri. Il tema delle scelte di politica penale, generale del Paese e delle sue articolazioni territoriali; il tema delle scelte prioritarie di trattazione delle notizie di reato; la modulazione anche quantitativa della presentazione dei casi al giudice in considerazione della capacità degli uffici giudicanti di definire i casi; la più idonea strutturazione degli uffici del pubblico ministero. Ora l’assegnazione delle funzioni direttive delle Procure della Repubblica segue criteri che nascondono la realtà sotto la coltre di evanescenti comparazioni di merito dei singoli magistrati. E quindi si è indotti a stigmatizzare le divisioni nelle votazioni in Csm, che si attribuiscono a deteriore correntismo, invece che a legittime scelte di (presumibile) orientamento del candidato preferito. Poi l’eletto, come sempre più spesso avviene, il giorno della presa di possesso del nuovo incarico pronuncia un discorso programmatico e, se si tratta di un ufficio importante, lo fa magari in presenza del prefetto, del questore, del sindaco e dei responsabili delle forze di polizia. Lo fa però dopo essere stato nominato, non prima! Si tratta di questioni che meriterebbero discussione franca e aperta, il cui esito nutrirebbe utilmente il dibattito su questa o altra riforma. In fondo, un diverso assetto proprio degli uffici del pubblico ministero è già previsto e consentito dall’art. 107 della Costituzione. Insomma, i problemi del pubblico ministero non dovrebbero essere affrontati solo con poche parole d’ordine, anche se di nobile respiro, come sono il richiamo da parte della magistratura ad una indefinita “cultura della giurisdizione” da mantenere comune a giudici e pubblici ministeri e, da parte degli avvocati delle Camere penali, al perseguimento di una vera terzietà dei giudici, che oggi sarebbe inesistente. Lo sciopero della magistratura è evento drammatico per le istituzioni. Senza ottimismo, si deve sperare che ne segua una discussione adeguata dei problemi reali, abbandonando l’agitazione di discutibili e comunque insufficienti bandiere. La riforma costituzionale della magistratura è realmente nell’interesse dei cittadini? di Francesco Mandoi L’Espresso, 1 marzo 2025 La maggioranza di centrodestra insiste sulla separazione delle carriere. I giudici, ed è rarissimo, decidono di scioperare. Alcune riflessioni sul terreno di scontro tra politica e magistratura. Le motivazioni addotte dal Governo a giustificazione di una modifica della Costituzione di così vasta portata sono state più volte ribadite dal ministro della Giustizia. Per Carlo Nordio, la riforma consentirà al giudice di godere di maggiore libertà rispetto ad oggi, quando “il pubblico ministero nei consigli giudiziari e anche al Csm dà i voti al giudice davanti al quale va a perorare una causa”, cosa “irrazionale in qualsiasi Paese del mondo”. Inoltre, la separazione delle carriere limiterebbe lo strapotere dei pubblici ministeri, definiti “super poliziotti” che “hanno un potere immenso senza controllo”, dichiarazioni sempre di Nordio. Per porre rimedio a questa situazione, apparentemente l’unica motivazione della riforma, si è scelto di stravolgere il sistema costituzionale, procedendo alla separazione della carriera giudicante da quella requirente, prevedendo l’introduzione di una Alta corte per la valutazione delle violazioni disciplinari dei magistrati, da individuarsi in seguito con legge ordinaria e prevedendo due distinti Consigli superiori, uno per i magistrati giudicanti e l’altro per quelli requirenti. I 7 articoli della riforma costituzionale pongono vari interrogativi, a cominciare dalla congruità della riforma allo scopo tanto sbandierato di limitare lo “strapotere” dei pubblici ministeri. Il primo rilievo da fare riguarda proprio il ruolo del pubblico ministero e i suoi “poteri”. Attualmente l’organico dei pubblici ministeri è composto da circa 2.000 sostituti procuratori. Al vertice degli uffici requirenti c’è il procuratore generale presso la Corte di cassazione e, a scendere, 25 procuratori generali presso le Corti d’appello e 118 procuratori della Repubblica. Sin dal 2006, i pubblici ministeri sono caratterizzati, rispetto ai giudici, dall’essere organizzati in un assetto gerarchico, in quanto è il procuratore della Repubblica il titolare dell’ufficio della pubblica accusa, che ha un potere sovraordinato rispetto al sostituto procuratore (ossia al singolo pubblico ministero). Questa parte dell’ordinamento giudiziario non è toccata dalla riforma, come non è toccato dalla legge costituzionale l’art. 109 della Costituzione, che prevede che “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” e l’art. 112 che stabilisce per il pubblico ministero l’obbligo di esercitare l’azione penale. È evidente che, in questo contesto legislativo e costituzionale non toccato dalla riforma in discussione, avremmo un nucleo di magistrati, quelli requirenti, dotati di poteri e di mezzi amplissimi in quanto dispongono della Polizia Giudiziaria, il cui intervento è motivato da quel principio di civiltà giuridica che è quello dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non è vero, proprio per queste ragioni, che la riforma favorisca la parità tra accusa e difesa, perché mai gli avvocati potranno avere gli stessi mezzi dei pubblici ministeri, non disponendo della polizia giudiziaria. D’altra parte, il ruolo della magistratura requirente non si può abolire perché ad essa sono riservate una serie di scelte, a partire dall’esercizio dell’azione penale, che presuppongono conoscenze tecniche e giuridiche specifiche, proprie dei magistrati (tutti, senza distinzione tra giudici e pubblici ministeri), tanto è vero che il primo comma dell’art. 106 della Costituzione, non toccato dalla riforma, prevede che “le nomine dei magistrati avvengono per concorso”. La stessa legge di riforma, d’altra parte, prevede una modifica dell’art. 106 della Costituzione che riguarda la nomina dei magistrati in Cassazione, nel senso che alla Suprema corte possano essere nominati dal Consiglio superiore - non si specifica quale - “magistrati appartenenti alla magistratura requirente con almeno quindici anni di esercizio delle funzioni”. Questa norma ha un senso solo sul presupposto della comune cultura della giurisdizione tra magistrati giudicanti e requirenti. Infine, già ora il giudice esercita un controllo costante sull’attività del pubblico ministero e spetta a lui ogni decisione sul procedimento, a cominciare dalle richieste per l’acquisizione delle prove. Veramente si può sostenere, in buona fede, che la presenza in un unico Csm. di pubblici ministeri e giudici e la possibilità che i primi “diano i voti” all’operato dei secondi costituisca un condizionamento tale da asservire il magistrato giudicante a quello requirente? Nell’attuale Csm. è proprio la possibilità che l’attività di giudici e pubblici ministeri sia valutata da un unico organo che costituisce la garanzia della necessaria obiettività di valutazione. Due Consigli superiori distinti sarebbero due strutture inevitabilmente prive della obiettività di valutazione, non garantita dal sistema dell’elezione dei membri (sul quale pure ci sarebbe molto da dire a cominciare dalla eccezionalità di questo sistema riservato alla magistratura ordinaria a differenza delle altre, per le quali continua ad esistere il sistema vigente). Ma c’è di più: saranno i pubblici ministeri a nominare i vertici delle procure gerarchicamente sovraordinati ai singoli sostituti e a decidere le forme di esercizio del potere degli stessi vertici. Insomma, la riforma favorisce solo lo smembramento della magistratura, senza alcun effetto diretto sulle aspettative dei cittadini, che chiedono giustizia certa ed in tempi rapidi e con la pericolosa creazione di un centro di potere, questo veramente autoreferenziale, nell’ufficio del pubblico ministero. Inevitabile, a questo punto, è il rilievo che riguarda la creazione dell’Alta corte che dovrebbe giudicare sulle violazioni disciplinari dei magistrati, anche questa unica e prevista solo per la magistratura ordinaria. A prescindere dal fatto che manca, allo stato, una normativa che specifichi i comportamenti che costituiscono infrazione disciplinare, è la stessa composizione della Corte che fa riflettere perché cambia totalmente la proporzione nell’organo disciplinare diminuendo le garanzie dei giudicanti in quanto su 15 componenti della Corte, 6 saranno laici e 3 pubblici ministeri ed è prevista la totale eliminazione dei giudici nell’impugnazione delle sanzioni che vengono sottratte alle Sezioni unite della Cassazione. Linea dura, a costo di sparire: il dilemma delle correnti Anm di Errico Novi Il Dubbio, 1 marzo 2025 Sul tavolo di Palazzo Chigi c’è un’offerta più o meno esplicita, al sindacato delle toghe: derubricare il sorteggio attualmente previsto nel ddl sulla separazione delle carriere da “puro” a “temperato”, e lasciare così un minimo futuro spazio di manovra ai gruppi associativi. Che ora rischiano di spaccarsi sulla scelta: accettare, o fare “all in” e giocarsi tutto al referendum sulla riforma. Parlare di trattativa, per ora, è eccessivo. C’è casomai un guardingo gioco di scacchi. Il governo lascia intravedere ai magistrati, cioè all’Anm, disponibilità al dialogo. Non chiarisce in modo esplicito se ci sono aperture sui pochi punti negoziabili, come l’attenuazione del sorteggio da “puro” a “temperato”. Nei colloqui riservati la possibilità non è esclusa. Anche se circolano interpretazioni confuse tra gli stessi leader del centrodestra. A cominciare dall’ipotesi per cui la modifica dell’estrazione a sorte per i togati dei due futuri Consigli superiori potrebbe essere differita, come l’introduzione delle “quote di genere”, a una legge ordinaria postuma, da approvarsi una volta che la legge costituzionale sulla separazione delle carriere sarà entrata in vigore. È una soluzione fantomatica, inesistente, come ricordato sul Dubbio. L’attuale testo del ddl Nordio modifica l’articolo 194 della Costituzione con l’inserimento di un passaggio secondo cui i “componenti” togati dei due futuri Csm sono “estratti a sorte” tra “i magistrati giudicanti”, da una parte, e i “magistrati requirenti” dall’altra. Punto. Non si potrà scrivere, in legge ordinaria, che i sorteggiati in realtà saranno più dei posti disponibili nei due Consigli, in modo che dopo l’estrazione a sorte possa celebrarsi una competizione elettorale. Lo prevede, semplicemente, la logica. E la Costituzione non si presta, com’è ovvio, a interpretazioni illogiche, o forzate. In realtà l’idea di sacrificare il sì già ottenuto alla Camera - e cioè di modificare il ddl costituzionale di Nordio in modo che la lettura in corso al Senato diventi, di fatto, la prima “valida”, ai fini della “doppia navetta” - è sul tavolo di Palazzo Chigi, ma in modo un po’ ambivalente. L’idea è verificare se da parte dell’Associazione magistrati ci sarà, nell’incontro fissato per mercoledì prossimo, una pur minima “richiesta di trattare” proprio sul “capitolo sorteggio dei togati”. E al momento, il confronto del 5 marzo fra Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano e Carlo Nordio, da una parte, e l’intera giunta Anm presieduta da Cesare Parodi, dall’altra, dovrebbe risolversi in un muro contro muro. Inesorabile seppur garbato, tenuto conto che stamattina, per esempio, proprio il neopresidente delle toghe ha ammesso, ad “Agorà” su Rai3, che il tentativo, in corso in Parlamento, di modificare le norme costituzionali sui magistrati, è “legittimo”. Sono distensioni nel linguaggio, ma prive di sostanza politica. Anche perché (come riferito con ampiezza in altro servizio del giornale, ndr) la Giunta esecutiva dell’Anm non ha un “mandato a trattare”. Non potrà manifestare, cioè, all’incontro con Meloni, interesse per altro che non sia il ritiro dell’intera riforma. Se viceversa la delegazione togata, a Palazzo Chigi, lasciasse intravedere una pur minima disponibilità al “disarmo” in cambio di un sorteggio temperato, tradirebbe il vincolo stabilito dal proprio “parlamentino” (al secolo, il Comitato direttivo centrale dell’Anm). Sarà quest’ultimo ad ascoltare, tre giorni dopo, il “report” della Giunta sulle eventuali proposte formulate dal governo Meloni e a decidere se sia il caso di accoglierle, o almeno di discuterle con la controparte. Tutto improntato al ritualismo più che a una pragmatica volontà di arrivare al dunque. Eppure, al di là delle schermaglie, della partita di scacchi evocata all’inizio, lo spazio di manovra alla fine esiste: sul sorteggio temperato si può discutere. E qui la situazione, per l’Anm, si fa drammatica. Escludere del tutto un negoziato su quel passaggio, apparentemente marginale, del ddl sulle carriere separate significa andarsi a giocare il tutto per tutto al referendum confermativo. Se vincesse il No, e la separazione delle carriere si frantumasse al suolo come un cristallo piovuto dall’ultimo piano, festa grande, vittoria dei magistrati e dello status quo. Ma se invece, di qui a un anno o giù di lì, la consultazione confermativa sulla riforma Nordio ratificasse un testo identico a quello ora all’esame del Senato, verrebbe sancita la fine delle correnti. La loro trasformazione in mere associazioni culturali. Con la stessa Anm, di cui le correnti sono “azioniste”, svuotata di ogni forza politica. Col sorteggio puro, tuttora previsto nel ddl sulla separazione delle carriere, le correnti non controllerebbero più le nomine o gli avanzamenti di carriera deliberati nei due futuri Csm. Non inciderebbero più sul “governo autonomo” della magistratura. La fine di tutto. La fine dell’Anm per come la conosciamo. Resterebbe il “sindacato” puro e semplice. In grado di discutere solo di carichi di lavoro, pensioni, e poco altro. Persino la dialettica sulle future riforme si ridurrebbe, per i magistrati, a una flebile e disarmata interlocuzione. Al Csm, col sorteggio puro, ci sarebbero togati incontrollabili dalle correnti, salvo fortunose coincidenze (salvo cioè che, tra i 20 sorteggiati, saltasse fuori qualche magistrato già militante nei gruppi associativi). Le nomine sarebbero decise in base di logiche diverse da quella “appartenenza” che è il più delle volte il criterio per dirimere scelte fra aspiranti procuratori (o presidenti di Tribunale) di pari valore nell’attuale Csm unico. Uno scenario devastante. Le correnti, l’8 marzo, dovranno decidere se giocarsi tutto. Correre il rischio che, con la vittoria del Sì al referendum, quello scenario post-atomico si realizzi. O provare intanto a incassare il “sorteggio temperato”, che lascerebbe ai gruppi associativi, e all’Anm in generale, qualche pur ridotta capacità di incidere: i candidati eleggibili estratti a sorte con un eventuale sistema temperato potrebbero essere sponsorizzati “ex post” dalle correnti, anche qualora fossero privi di pregresse militanze associative. Non sarebbe come oggi, certo, ma il potere di condizionamento sulle scelte consiliari non svanirebbe del tutto. Ecco il dilemma attorno a cui l’8 marzo rischiano di consumarsi, fra i gruppi dell’Associazione magistrati, fratture anche drammatiche. Se si accettasse l’attenuazione del sorteggio, perderebbe sicuramente credibilità la battaglia da condursi contro la riforma durante la campagna referendaria. E a quel punto, senza la spinta polemica delle toghe e della stampa più sensibile alle loro ragioni, la vittoria del No alla riforma sarebbe difficilissima. Ma questo è. Accontentarsi di un minimo spiraglio di sopravvivenza. O fare “all in”, giocarsi tutto nelle urne. La vaga possibilità che Meloni lascia intravedere può dividere il fronte: potrebbe insinuare dubbi in Magistratura indipendente, gruppo “moderato” e meno culturalmente distante dall’attuale maggioranza parlamentare. E già qui la mossa accennata da Palazzo Chigi è abile: può scomporre il fronte avversario e, in ogni caso, indebolirlo. Più che una partita di schacchi, sembra una lunga mano di poker. E bisogna vedere se i magistrati saranno capaci di accettare davvero la logica dell’azzardo. Il Tg1 oscura lo sciopero dei magistrati: niente immagini o dati sulle adesioni di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2025 Usigrai e Cdr: “Notizie parziali, non è servizio pubblico”. Il tg ammiraglio della Rai dedica alla mobilitazione dell’Anm solo una breve intervista doppia in cui per metà del tempo parla il procuratore di Padova Antonello Racanelli, favorevole alla separazione delle carriere. Nessuna immagine delle manifestazioni, nessun dato sulla partecipazione. Solo una breve intervista doppia che suggerisce l’idea di una magistratura spaccata a metà: chi ha protestato e chi si è opposto alle proteste. Così il Tg1 delle 20, il notiziario tv più seguito d’Italia, ha raccontato lo sciopero di giudici e pm contro la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, varata dal governo e attualmente in discussione in Parlamento. La mobilitazione lanciata dall’Associazione nazionale magistrati ha avuto un oggettivo successo: l’80% di adesioni a livello nazionale, flash mob di fronte ai Palazzi di giustizia e affollate assemblee pubbliche in trenta città d’Italia. Insomma, è stata un’iniziativa unitaria e non uno show di toghe rosse. Ma tutto questo il telespettatore del Tg1 non lo sa. Dopo due servizi sulle misure del governo contro il caro-bollette, il conduttore lancia il contributo sullo sciopero omettendo il dato sulla partecipazione, ma citando le parole di “chi non ha aderito”: “Atto dannoso e inutile”. Il pezzo - lungo circa un minuto e venti - si apre con lo schermo diviso in due: a destra il presidente dell’Anm Cesare Parodi, a sinistra il procuratore di Padova Antonello Racanelli, uno dei pochissimi magistrati favorevoli alla separazione delle carriere. In tutto il servizio, costruito sul dialogo immaginario tra i due intervistati, non compare un solo fotogramma dei raduni del mattino (e dire che non ne mancavano). Per coprire i tagli audio si usano immagini di repertorio: cordoni di toghe, pile di fascicoli, scritte “La legge è uguale per tutti”. La percentuale di adesioni non viene mai citata. La narrazione del tg ammiraglio della Rai ha sconcertato numerosi magistrati, che hanno sfogato l’indignazione nelle chat tra colleghi: “Una brutta pagina del servizio pubblico”, ha scritto qualcuno. Anche perché, mentre dall’intervista di Parodi sono state estrapolate frasi innocue e di circostanza, Racanelli ha scagliato frasi di fuoco contro i colleghi scioperanti: “Considero lo sciopero un atto dannoso per l’immagine della magistratura e inutile dal punto di vista pratico. Non è altro che l’esito conclusivo di una strategia completamente sbagliata e suicida da parte dell’Anm”, ha attaccato. E ancora: “Molti magistrati non hanno aderito allo sciopero perché non lo considerano un’arma di protesta legittima. Ma la motivazione principale è che non è uno strumento utile per superare i punti critici della riforma, che possono essere affrontati attraverso il confronto con il potere politico”. Anche il Tg2, peraltro, ha dato alla manifestazione delle toghe una lettura del tutto particolare: nell’edizione delle 20:30 l’unico servizio sul tema è un’intervista al presidente dell’Anm riassunta con la frase “Pronti al dialogo con il governo”, un concetto abbastanza stridente con la giornata di sciopero. Anche qui, il dato sulle adesioni sparisce dai titoli e dai lanci dei servizi. Molto diversa la copertura del Tg3 delle 19, che al tema dedica due servizi di apertura ricchi di immagini e voci dalle iniziative dell’Anm. ?Venerdì, il giorno dopo lo sciopero, sulla vicenda hanno preso posizione con un comunicato l’Usigrai (il maggiore sindacato dei giornalisti del servizio pubblico) e il Comitato di redazione del telegiornale. “Le notizie parziali non sono la cifra del Tg1, omettere la percentuale di adesione allo sciopero dei magistrati non è servizio pubblico. Nella giornata dello sciopero non trasmettere alcuna immagine dei presidi da Milano a Napoli, non riportare le modalità in cui questi si sono svolti, addirittura nell’edizione più vista, quella di ieri delle 20, non è servizio pubblico. Così come non riteniamo sia pluralismo mettere sullo stesso piano opinioni diverse nel giorno in cui una parte - circa l’80% - ha espresso una posizione, depotenziando la portata di un evento e non fornendo una informazione completa ai cittadini. Lo stesso è avvenuto, per esempio, in occasione dello sciopero dei medici”, si legge nella nota. Che conclude con una critica più ampia alle ingerenze politiche sull’informazione: “Il peso di una evidente maggioranza non può essere rappresentato ai cittadini quanto quello della minoranza. Il corretto pluralismo vorremmo vederlo applicato anche alle pagine che hanno segnato la storia giudiziaria recente del nostro Paese, come la strage di Ustica, per la quale, da servizio pubblico, continuare a dare la parola soltanto a chi sostiene alcune tesi, rischia di diffondere verità di parte come se fossero sentenze definitive”. Dal mondo della magistratura a prendere posizione è Giovanni Zaccaro, segretario della corrente progressista di Area: “Lo sciopero dei magistrati è un fatto eccezionale e la percentuale di adesione è stata altissima. Mi paiono notizie importanti e dispiace che il servizio pubblico, come evidenziato dal cdr Tg1 e dall’Usigrai, non le abbia raccontate. Non sono tempi felici quelli in cui si mettono in discussione la autonomia e l’indipendenza della giurisdizione e insieme la correttezza ed il pluralismo della informazione”, afferma in una nota. Dal 2018 al 2024 pagati 220 milioni per le ingiuste detenzioni, il 35% in Calabria di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 marzo 2025 Dal 2018 al 2024 lo stato italiano ha sborsato 220 milioni di euro per indennizzare i cittadini vittime di ingiusta detenzione, cioè che sono stati arrestati (in carcere o ai domiciliari) o destinatari di misure cautelari coercitive salvo poi essere prosciolti o assolti. Una cifra monstre, che merge dall’ultima relazione del ministero della Giustizia sulla custodia cautelare e sulle ingiuste detenzioni in Italia. A colpire è anche la distribuzione geografica degli indennizzi. A saltare all’occhio è un dato: di questi 220 milioni, ben 78 (cioè il 35 per cento), sono stati versati in Calabria, a seguito di disposizione delle competenti Corti d’appello di Catanzaro e di Reggio Calabria. In altre parole, una regione che ospita soltanto 1,8 milioni di abitanti ha assorbito negli ultimi sette anni il 35 per cento dell’intera spesa destinata a risarcire le vittime di ingiusta detenzione. Un record, confermato anche nel 2024: su 26,9 milioni complessivi, 8,8 milioni (il 33 per cento) sono stati versati per risarcire chi è stato incarcerato ingiustamente in Calabria. Dietro il primato si cela un sistema giudiziario disastroso, dominato da procure d’assalto (in primis quelle di Catanzaro e di Reggio Calabria) abituate a operare attraverso continue maxi operazioni contro la criminalità organizzata con decine, se non centinaia di arresti, che molto spesso poi si rivelano ingiusti. Le maxi operazioni più note sono quelle condotte da Nicola Gratteri, pm prima a Reggio Calabria e poi a Catanzaro, in cui è stato capo della procura dal 2016 al 2023 (anno in cui è diventato procuratore di Napoli). Tanto per citarne alcune: la maxi operazione contro la ‘ndrangheta compiuta nel 2003 a Platì, nella Locride, con 125 misure di custodia cautelare (alla fine solo in otto vennero condannati); l’operazione “Circolo formato” del 2011, con l’arresto di quaranta persone, tra cui il sindaco di Marina di Gioiosa Ionica e diversi assessori (gli amministratori locali poi vennero assolti); l’ancora più nota operazione “Rinascita-Scott”, lanciata nel 2019 con 334 persone destinatarie di misure cautelari (in primo grado sono stati assolti 131 imputati su 338, praticamente uno su tre); l’inchiesta del dicembre 2018 che sconvolse la politica calabrese, con le accuse di corruzione e abuso d’ufficio contro l’allora presidente della regione, Mario Oliverio, poi assolto da tutte le accuse. “Gratteri ha sempre sostenuto che i risarcimenti per ingiusta detenzione erano riferibili agli anni prima del suo arrivo a Catanzaro. Adesso però le Corti d’appello stanno trattando proprio gli anni della sua gestione e i numeri, anziché diminuire, aumentano”, afferma al Foglio proprio l’ex governatore Mario Oliverio. Le parole dell’ex governatore trovano conferma nei dati del ministero retto da Carlo Nordio. Nel 2024 il maggior numero di ordinanze di indennizzo per ingiusta detenzione è stato emesso dalla Corte d’appello di Catanzaro: 110 sulle 552 di tutto il territorio nazionale, vale a dire ben il 20 per cento del totale. “Questi numeri - dice Oliverio - sono il risultato del metodo dell’azione a strascico: anziché contrastare i reati di ‘ndrangheta in maniera precisa, circoscritta, si procede con maxi operazioni con decine e centinaia di arresti, molti dei quali poi risultano ingiusti”. Secondo Oliverio, vittima anche lui del metodo Gratteri (la Cassazione definì quella lanciata dal pm contro l’allora presidente di regione come un’indagine dal “chiaro pregiudizio accusatorio”), il modo di procedere di Gratteri e di altri procuratori come lui ha prodotto due effetti: “Primo, il potere della ‘ndrangheta è cresciuto sul piano internazionale. La ‘ndrangheta è diventata la più importante organizzazione criminale nel traffico di droga e di armi sul piano internazionale. Secondo, l’immagine della Calabria è stata distrutta. Anni e anni di maxi operazioni hanno contribuito a diffondere l’immagine di una regione in mano alla mafia”. “Il dato delle ingiuste detenzioni è sintomatico di una giustizia che non funziona e che travolge imprese, persone innocenti, amministratori locali. La politica dovrebbe avviare una seria riflessione su questo, ma invece da anni si è piegata alla vulgata giustizialista”, aggiunge Oliverio. Come se non fosse bastato il flop dell’inchiesta per corruzione, finito con l’assoluzione di Oliverio, proprio quest’ultimo di recente ha ricevuto l’avviso di conclusione di un’indagine che lo vede coinvolto (insieme ad altre trenta persone) e che venne aperta nel 2018 sempre dalla procura di Catanzaro guidata da Gratteri. La procura ipotizza il reato di falso e accusa Oliverio di aver istigato un dirigente della Protezione civile a prorogare di un anno il contratto di due lavoratori co.co.co. “Una bomba a orologeria”, la definisce Oliverio. “Quello che in questo caso indigna ulteriormente è che la bomba congegnata è a scoppio ancor più ritardato. Insopportabile, al di fuori da ogni norma processuale, che esige, al contrario, una celerità di giudizio”. I fatti contestati risalgono infatti all’aprile 2019. Ciò significa che per il reato ipotizzato la prescrizione scatterà il prossimo aprile. La procura di Catanzaro ha quindi impiegato sei anni per concludere le indagini su un presunto falso che andrà in prescrizione tra poche settimane. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, ha deciso comunque di notificare l’avviso di conclusione delle indagini a Oliverio, facendo sì che il suo nome tornasse a essere infangato sui quotidiani. È il metodo calabrese. Piuttosto costoso per le casse pubbliche. Pescara. Emergenza al carcere, i penalisti proclamano tre giorni di astensione di Tiziana Roselli Il Dubbio, 1 marzo 2025 Il 18, 19 e 20 marzo protestano per il sovraffollamento, poco personale, condizioni inumane. La Camera Penale di Pescara ha proclamato l’astensione collettiva dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nei giorni 18, 19 e 20 marzo 2025. La decisione, sancita dalla delibera del 24 febbraio scorso, rappresenta una netta presa di posizione degli avvocati penalisti sulla drammatica situazione della Casa Circondariale di Pescara. Il sovraffollamento, le carenze strutturali e il recente suicidio di un detenuto hanno reso insostenibili le condizioni della struttura, portando alla protesta organizzata. Il Consiglio direttivo della Camera Penale, presieduto dall’avvocato Massimo Galasso, ha sottolineato l’urgenza di un intervento istituzionale per fronteggiare l’emergenza umanitaria all’interno del carcere pescarese. Con una capienza regolamentare di 276 posti, la struttura ospitava fino al 17 febbraio scorso circa 450 detenuti. Dopo il tragico suicidio di un recluso, una violenta rivolta ha aggravato ulteriormente la situazione, costringendo al trasferimento di 60 detenuti e rendendo inagibile un’area della casa circondariale. “La nostra protesta - spiega il presidente del Consiglio direttivo della Camera penale pescares - eè concreta e si lega al benessere dei detenuti. Non entriamo nelle questioni politiche relative alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, lasciando questa battaglia all’Unione delle Camere Penali Italiane. Tuttavia, chi si preoccupa della Costituzione dovrebbe anche preoccuparsi dei diritti dei detenuti. La situazione del carcere di Pescara è critica: sovraffollamento, carenza di personale di Polizia penitenziaria, condizioni inumane e assenza di interventi strutturali. Abbiamo denunciato tutto questo nella nostra delibera”. Il presidente Galasso ha poi evidenziato le difficoltà che hanno gli avvocati per accedere ai colloqui con i propri assistiti. Un problema già segnalato alla Direzione della Casa circondariale senza ottenere risposte concrete. Facendo riferimento alla protesta dell’Associazione Nazionale Magistrati che ha scioperato per opporsi alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, la Camera Penale di Pescara ha sottolineato la necessità di un impegno trasversale sui diritti fondamentali. “Abbiamo assistito a proteste per la difesa della Costituzione, ma chi si batte per i diritti dei detenuti? La situazione delle carceri in Italia è un problema di carattere nazionale e necessita di interventi immediati da parte del Governo e della politica tutta. Il nostro sciopero non ha colori politici, è una battaglia di civiltà”, ha affermato l’avvocato Galasso. Nella delibera si chiede alla Direzione del carcere di istituire un tavolo permanente con la partecipazione della Camera Penale, dei magistrati di Sorveglianza, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e delle istituzioni forensi. L’obiettivo è di trovare soluzioni concrete per migliorare le condizioni di detenzione e garantire il rispetto dei diritti umani. L’astensione dalle udienze dei penalisti si accompagnerà a una serie di manifestazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulla grave situazione della Casa Circondariale di Pescara. La battaglia per la dignità dei detenuti continua. Modena. Ilaria Cucchi visita a sorpresa il carcere: “Suicidi, pochi agenti e non formati” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 1 marzo 2025 La senatrice, ospite di un evento di Avs, riaccende i riflettori sul Sant’Anna: “Qui si parla di vite umane. Altri 15 detenuti sono considerati a rischio: un numero altissimo. Servono investimenti a livello nazionale”. “Il problema del sovraffollamento è emerso chiaramente ed è il motivo principale dei suicidi all’interno delle carceri, che a Modena sono stati ben quattro in pochissimo tempo. Il sovraffollamento aumenta il disagio dei detenuti, così come quello degli agenti. Il fornellino a gas? Si potrebbe evitare, trovando soluzioni alternative se venissero stanziate risorse”. Sopralluogo a sorpresa, ieri mattina, all’interno del carcere Sant’Anna da parte della senatrice Ilaria Cucchi che, dopo una visita di circa tre ore, ha incontrato i giornalisti presso la libreria ‘Salvo libri’ di via Canalino. La visita della senatrice a Modena è stata organizzata da Alleanza Verdi e Sinistra ed è terminata con un incontro pubblico alla sala Ulivi di via Menotti. “La mia è stata una visita a sorpresa perché questo intendo come ispezione nelle carceri - ha spiegato -. Quello che ho trovato a Modena rispecchia la realtà di tutte le carceri italiane, a partire dal sovraffollamento a fronte di un sottodimensionamento degli agenti. Non solo sottodimensionamento ma anche mancata formazione e mancata preparazione nel gestire determinate situazioni che, ormai è noto, sono al collasso. In particolare a Modena, lo sappiamo, sono stati ben quattro i suicidi e i motivi sono tanti, ma il principale è proprio il sovraffollamento che non può far altro che aumentare il disagio dei detenuti”. Come noto per due dei suicidi avvenuti in carcere la procura ha aperto altrettanti fascicoli: nel caso del decesso di Andrea Paltrinieri, in carcere per l’omicidio della ex moglie Anna Sviridenko, l’ipotesi di reato è quella di istigazione al suicidio. Il reato ipotizzato nei confronti di tre medici, invece, è quello di omicidio colposo per la morte di un detenuto marocchino di 37 anni. “Una cosa particolare avviene a Modena, l’ho appreso oggi - ha poi spiegato la senatrice Cucchi -. Esiste un meccanismo di comunicazione dei cosiddetti detenuti a rischio suicidio all’interno di una chat che racchiude i direttori dei vari istituti e vi assicuro che i numeri sono tutt’altro che rassicuranti. Tra detenuti a basso e medio rischio suicidio solo a Modena ce ne sono 15 (quello ad alto rischio non viene individuato): mi è stato detto che è un numero basso. Per quanto mi riguarda anche un solo detenuto a rischio suicidio è già troppo, è già un numero altissimo”. Sul tema del sovraffollamento la senatrice ha spiegato poi, senza mezzi termini, come si vada nella direzione sbagliata dal momento che “non si fa altro che introdurre nuovi reati. Bisognerebbe cominciare a tirare fuori chi in carcere non ci dovrebbe essere: tra i detenuti a rischio suicidio una buona percentuale è affetta da disturbi psichiatrici e andrebbe curata in altre strutture, come i tossicodipendenti”. Cucchi ha poi spezzato una ‘lancia’ a favore degli agenti “perché il problema delle carceri riguarda anche chi ci lavora. Gli stessi agenti chiedono di essere anche formati e mi hanno rivolto un appello. Qui si parla di vite umane, dall’una e dall’altra parte” ha tuonato Cucchi, rivolgendo un apprezzamento alle tante associazioni di volontariato impegnate nel penitenziario. Tra i temi toccati anche quello dell’utilizzo, nelle celle, di fornellini a gas per scaldare i pasti. Uno dei quattro suicidi a Modena è avvenuto proprio a causa dell’utilizzo dei fornellini a gas e non è un caso isolato, purtroppo. Ancora pende un procedimento per il caso di Fabio Romagnoli, il detenuto 40enne morto in carcere il 20 febbraio di due anni fa dopo aver inalato gas da un fornellino. La famiglia dell’uomo, attraverso il proprio legale, ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura. “È una questione che sto affrontando in maniera molto approfondita. Sarebbe molto semplice, basterebbe investire anche nelle carceri piuttosto che nei cpr in Albania assolutamente inutilizzati. Le soluzioni ci sarebbero, per i fornellini come per altre cose, ad esempio la manutenzione. In carcere è difficile fare tutto e siccome non si trova il modo di superare questo la gente muore. Ma non è solo un tema di risorse. Il problema delle risorse è legato a un problema culturale, di anno in anno si peggiora. Nel 2024 è stato battuto il record dei suicidi, il 2025 va malissimo perché sono già, in media, un suicidio ogni due giorni. Arriveremo a superare il record”. Firenze. Palazzo Vecchio invita il ministro Nordio a Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 1 marzo 2025 “Si è persa l’umanità che guida la parte più disperata del mondo”. La sindaca di Scandicci Claudia Sereni esce dal suo sopralluogo a Sollicciano affranta per le condizioni trovate: “Ho visto una struttura in grave sofferenza, è un momento drammatico perché siamo di fronte ad una direzione inesistente, ho incontrato il direttore provvisorio dimissionario, la struttura attende un nuovo direttore temporaneo ma non si tra quanto”. La sindaca ha parlato poi delle condizioni strutturali del carcere: “Ci sono problemi all’impianto idrico, infiltrazioni, cimici, la popolazione carceraria vive nel sudicio e nella disperazione in attesa dei fondi per la ristrutturazione, siamo preoccupati e chiediamo con forza quelli che sono i diritti dei lavoratori e dei detenuti a partire dal progetto di una direzione stabile, anche perché noi Comuni non sappiamo con chi parlare”. E proprio in merito alle condizioni critiche di Sollicciano, la commissione politiche sociali e della salute del Comune di Firenze, presieduta da Edoardo Amato (Pd), ha invitato il ministro della giustizia Carlo Nordio per parlare della questione. Questo è quanto è emerso dalla conferenza dei capigruppo. Nel verbale, a proposito del garante per i diritti dei detenuti, si fa riferimento anche della “segnalazione ricevuta dall’associazione Altro diritto, che ha rilevato un elemento di criticità del regolamento (che non prevede la possibilità di candidarsi agli stranieri) e del bando. Il presidente del Consiglio comunale Guccione ha chiesto di “approfondire con Anci”. Firenze. L’attacco dell’ex cappellano: “Su Sollicciano solo chiacchiere” di Niccolò Gramigni La Nazione, 1 marzo 2025 Don Vincenzo Russo dà ragione al Garante toscano dei detenuti Giuseppe Fanfani “Il Consiglio comunale vuole affrontare il problema? Lo faccia con i fatti e il prima possibile”. Il Garante toscano dei detenuti Giuseppe Fanfani ha ragione. La politica è inerte. Se questa inerzia prosegue, se nessuno si prende l’onere di sporcarsi le mani in un’azione che non produce consenso e voti in prima battuta ma può portare alla risoluzione del problema, allora continuerà il succedersi dei proclami e lo scaricamento delle responsabilità, mentre dentro le celle di una dimenticata periferia di Sollicciano si continuerà a morire”. Sul carcere di Sollicciano continuano gli attacchi alla politica, oltre i partiti e gli schieramenti: l’ultimo arriva da Don Vincenzo Russo, già cappellano di Sollicciano. Lei ritiene condivisibili le parole di Fanfani, quindi di azioni concrete nell’ultimo periodo non ne ha viste... “È così. Il carcere è questione che facilmente è oggetto di incoraggianti dichiarazioni ma quasi mai di azioni concrete e di interventi veri conseguenti alle parole pronunciate. Manca davvero, ha ragione il garante regionale, il vento di una volontà politica vera di promuovere il cambiamento a Sollicciano e più in generale nelle carceri”. Si aspettava di più dalla politica fiorentina? “La mia è una critica. Giro la città e vedo sempre lo stesso atteggiamento. Non ho visto dalla sindaca Funaro interventi chiari e precisi sulle condizioni dentro la struttura. E poi il problema nasce dentro la città, i detenuti prima vivevano la città e le dinamiche sono le stesse”. Cosa intende nel dettaglio? “Oggi a Firenze ci sono due complicazioni. Dilaga il problema della droga e su questo non vedo politiche in grado di contrastare questo fenomeno altamente pericoloso per la convivenza civile. Lo sbandamento della città porta poi una lacerazione delle capacità mentali. Rispetto a tutto ciò non vi sono opportune iniziative di contrasto e di cura: le risposte date dalle istituzioni comunali sono timide. Ci sono tre fasi: vita in città, vita in carcere e la fase della restituzione cioè del ritorno in città. Questo percorso è tutto da rivedere: la città va curata, così come un carcere”. Serve un Consiglio comunale dentro il carcere? “Non serve a niente. Servono i fatti. Molti anni fa portai il Consiglio comunale in carcere, all’epoca c’era il ministro Orlando. Fu un flop incredibile, solo chiacchiere. Il Consiglio vuole affrontare il problema? Lo faccia con i fatti”. Modena. “Detenuto picchiato durante la maxi rivolta del marzo 2020”: nuova inchiesta di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 1 marzo 2025 Ha riconosciuto il presunto aggressore o meglio chi per primo lo avrebbe atterrato e colpito quando già si trovava a terra. Dopo di che ha descritto quanto avvenuto nel dettaglio. È stato interrogato nei giorni scorsi in procura a Modena il detenuto che ha denunciato dopo anni di essere stato vittima di un pestaggio in occasione della maxi rivolta del marzo del 2020, in cui morirono nove carcerati. “Il mio assistito - spiega l’avvocato, professor Alessandro Gamberini - ha effettuato il riconoscimento fotografico del presunto autore del pestaggio senza indugiare: ha subito indicato la persona che ha ritenuto di aver riconosciuto. Nella circostanza, ha indicato un agente di polizia penitenziaria in particolare, che però non era in servizio a Modena ma arrivava da fuori”. La presunta vittima, ora uomo libero, aveva spiegato di essere estraneo ai disordini e di essere stato fatto uscire dalla cella ammanettato quel giorno, per poi essere buttato a terra e pestato. Calci, pugni, bastonate a seguito delle quali aveva riportato diverse lesioni, per le quali oggi i referti sono agli atti. A seguito della denuncia del detenuto circa il presunto pestaggio la procura ha aperto l’ennesima inchiesta sui ‘fatti del Sant’Anna’. Infatti l’esposto va ad aggiungersi ad altri episodi di presunte torture a cui alcuni detenuti sarebbero stati sottoposti. Il Gip aveva respinto la richiesta di archiviazione, imponendo nuove indagini che a breve dovrebbero chiudersi. Probabilmente il nuovo fascicolo sarà fatto confluire in quello precedente, che ancora pende appunto in procura. Vibo Valentia. Mulinum, mani in pasta insieme ai detenuti per produrre un dolce riscatto lacnews24.it, 1 marzo 2025 Grazie alla collaborazione con l’istituto penitenziario e la Caritas di Mileto, l’azienda agricola avvia un percorso di formazione di pasticceria nella casa circondariale, dove presto aprirà un piccolo biscottificio. Farina integrale di grani antichi, uova, burro, poco zucchero e tanta passione e voglia di riscatto: sono gli ingredienti semplici quanto genuini che hanno reso possibile l’avvio del percorso di formazione di pasticceria artigianale all’interno della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Grazie alla collaborazione con l’azienda agricola catanzarese Mulinum e la Caritas diocesana di Mileto, nell’ambito del progetto Seconda Chance ideato dalla giornalista Flavia Filippi che congiunge imprenditori e detenuti offrendo occasioni di inclusione lavorativa e sociale, la direzione dell’istituto penitenziario vibonese, rappresentata dalla direttrice Angela Marcello, dalla capo area educativa Barbara Laganà e dalla referente del progetto Caterina Maletta, permette a 20 detenuti di mettere in campo le proprie capacità e imparare a produrre biscotti di alta qualità. “Si tratta della prima fase di un percorso che ci porterà alla realizzazione di un biscottificio all’interno del nostro istituto, con l’impiego dei detenuti più talentuosi. Stiamo registrando grande entusiasmo tra i partecipanti, è un passaggio importante nel percorso di riabilitazione che consentirà loro di essere selezionati per l’assunzione da parte di Mulinum” dichiara Marcello. È un vero e proprio lavoro di squadra: la Casa Circondariale di Vibo Valentia mette a disposizione gli spazi, Mulinum offre le competenze e la Caritas di Mileto, rappresentata dal presidente Don Antonio Pileggi e dal vicedirettore Raffaele Cuppari, con il suo contributo economico permette l’acquisto delle materie prime e, successivamente, delle attrezzature necessarie per il piccolo laboratorio all’interno del carcere. Anello di congiunzione è Valeria Votano, referente dell’associazione Seconda Chance per la regione Calabria. I detenuti appartenenti al circuito media sicurezza dell’istituto vibonese, quotidianamente, guidati da un’esperta dell’azienda agricola catanzarese e dalle educatrici dell’istituto penitenziario, stanno migliorando le proprie potenzialità producendo biscotti Mulinum che vengono distribuiti alle famiglie bisognose attraverso la Caritas. “Bontà e solidarietà contraddistinguono questo progetto che ci consente di costruire futuro laddove spesso si immagina che niente sia più possibile, ridonando centralità e opportunità lavorative a persone con svantaggio sociale. Dopo questo primo mese di formazione, non vediamo l’ora di consolidare il progetto del biscottificio in carcere, che ci permetterà di sfornare piccoli capolavori di gusto e inclusione” commenta Stefano Caccavari, fondatore dell’azienda agricola che recupera grani antichi per produrre farine integrali e prodotti da forno genuini, rinnovando i ringraziamenti alla direzione della casa circondariale, con l’auspicio che sia soltanto il primo passo per portare quest’esempio di lavoro e riscatto anche in altre carceri italiane. Forlì. In carcere si produce carta da riciclo artigianale: nuove attrezzature per il laboratorio forlitoday.it, 1 marzo 2025 Le attrezzature (frullatore, aspiraliquidi e setacci) permetteranno di potenziare la produzione rispondendo alle numerose richieste del territorio. La cartiera Manolibera, che si trova all’interno del carcere di Forlì, gestita dall’impresa sociale Altremani, si potenzia con nuove attrezzature grazie al contributo ricevuto dalla Bcc Ravennate Forlivese e Imolese. Il laboratorio Manolibera produce carta da riciclo artigianale, elegante ed unica, grazie all’impegno di quattro detenuti che investono il proprio tempo nel ridare vita a carta destinata a diventare rifiuto, accrescendo nel contempo le proprie competenze professionali e l’opportunità di un reingresso nella legalità ed un più efficace reinserimento nella comunità sociale. Le attrezzature (frullatore, aspiraliquidi e setacci) permetteranno di potenziare la produzione rispondendo alle numerose richieste del territorio. Fondamentale è il lavoro nel percorso di rieducazione del detenuto, l’impresa sociale Altremani infatti è nata con l’unico scopo di accrescere la sicurezza sociale del territorio di Forlì Cesena, attraverso il lavoro dei detenuti ed ex-detenuti della Casa Circondariale di Forlì e attraverso la realizzazione di incontri educativi finalizzati a diffondere la cultura della legalità e della tolleranza nei giovani, cercando di salvaguardarli dal pericolo di esperienze dirette di esecuzione penale. In occasione dell’inaugurazione della rinnovata filiale sede di Forlì della Bcc Ravennate, Forlivese e Imolese, Altremani ha voluto riconoscere al presidente Giuseppe Gambi e al vice presidente Gianni Lombardi una targa realizzata dai detenuti del carcere, con carta Manolibera, per ringraziare la Bcc “del contributo ricevuto nel 2024, indispensabile a rilanciare la cartiera e a potenziare le attrezzature interne al laboratorio”. “Siamo molto riconoscenti alla Bcc Ravennate, Forlivese e Imolese - afferma Daniele Versari, presidente di Altremani - per l’aiuto economico ricevuto e per la grande sensibilità e responsabilità sociale che la banca dimostra sui temi, non scontati, dell’esecuzione penale. Potenziare la cartiera Manolibera con nuove attrezzature significa poter incrementare il numero dei detenuti coinvolti nel laboratorio dando quindi maggiori opportunità alle persone che dovranno reintegrarsi nella società, riducendo in maniera significativa il pericolo di recidiva una volta che saranno usciti dal carcere”. Il presidente della Bcc Giuseppe Gambi ha sottolineato come “il contributo della Banca sia rivolto a promuovere tra i detenuti opportunità di lavoro spendibili anche al termine della pena, offrendo alle persone una valida alternativa di riscatto. Altrettanto importanti - continua Gambi - proprio per l’obiettivo di inclusione sociale, sono le iniziative formative organizzate da Altremani, volte a sensibilizzare i giovani su tematiche quali il bullismo, il disagio sociale, la vita in carcere”. Bologna. “Parole che liberano”, incontro nella biblioteca della Dozza di Maria Caterina Bombarda* re-blog.it, 1 marzo 2025 “Gettare il cuore oltre l’ostacolo” è un motto che conosciamo tutti ma che, applicato al carcere, significa accettare le sfide che il contesto offre - ora più che mai suscitate dal caos innescato dalla decisione del Governo sul trasferimento di detenuti minorenni (giovani adulti) alla Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna - mettendosi a costruire qualcosa di buono. Quel “qualcosa” è iniziato il 24 febbraio nella biblioteca del Penale del carcere bolognese: un percorso di tre incontri che hanno per tema: “Come parlare di carcere” e si articolano utilizzando sia la narrazione di storie di vita delle persone detenute, sia il coinvolgimento e le testimonianze di altri soggetti (vittime, famigliari di persone recluse). L’orizzonte di questo progetto, organizzato dall’Associazione volontari carcere (AVoC) e da Ornella Favero, direttrice della rivista “Ristretti Orizzonti”, è quello di aiutare a riflettere sulla scelta dei linguaggi, dando alle parole il peso necessario, con l’obiettivo finale di far comprendere che esse possono pungere, possono far male, ma possono anche risanare e quindi “liberare”. Dei temi che verranno affrontati nel corso delle tre diverse tappe abbiamo parlato proprio con Ornella Favero. Prima tappa: paura-violenza-vittime - Quale legame viene intessuto tra questi tre concetti e come mai ritieni sia importante un percorso di consapevolezza sulla violenza agita e subita? “La prima cosa che in carcere dovrebbero imparare tutti è che cos’è esattamente la paura e come può condizionarti la vita. È nel rapporto degli autori di reato con la società esterna però che si può capire davvero di che cosa si parla quando si parla di paura: può essere significativa la testimonianza della studentessa che ha raccontato di aver scoperto i ladri in casa, e di non riuscire più, da quel giorno, né a restare a casa da sola, né a uscire di sera come faceva prima, oppure la testimonianza dell’insegnante presa in ostaggio durante una rapina, che ha spiegato che gli occhi di quella persona che la teneva ferma con un’arma ce li ha ancora in mente e non riesce, dopo anni, a liberarsene. La verità, che si fa fatica a riconoscere, è che la paura non dura i cinque minuti dell’atto violento, no: la paura poi non smette di condizionarti la vita. Questo significa per le persone detenute non parlare più con leggerezza di “reati contro il patrimonio”, distinguendoli dai reati violenti, perché dietro quel patrimonio, quell’oggetto prezioso, quella casa svaligiata c’è una persona che ha subito un danno emotivo fortissimo”. Consapevolezza - Può un autore di violenza essere consapevole del suo agire violento? Ovvero: in che misura le persone che commettono il reato sono a loro volta colpite dalle scelte violente che hanno agito? ““Non posso sottrarmi al fatto di essere stato anch’io una belva”: in queste parole di un giovane detenuto c’è la consapevolezza della carica di violenza che molte persone si portano addosso fin dall’infanzia, e che è alla base di tanti reati. Il tema della violenza dovrebbe essere al centro di un confronto tra il mondo del carcere e quello delle scuole e delle giovani generazioni, ma in realtà non viene quasi mai affrontato sistematicamente nelle carceri, nonostante proprio gli atti aggressivi e violenti siano i comportamenti più diffusi tra le persone che sono finite a commettere reati. È importante allora riflettere di più su aggressività, rabbia, violenza, anche perché chi la violenza ha già dimostrato, purtroppo, di saperla usare deve essere il primo a “deporre le armi”, rinunciando anche alle parole che pungono e offendono. Importante è quindi una riflessione che tocchi anche il tema della violenza verbale”. Il tema delle vittime - Hai parlato di sensibilizzare le scuole e le giovani generazioni: come reagiscono gli studenti che incontri quando parli loro del carcere e porti delle testimonianze dirette? “Le domande che fanno gli studenti, quando incontrano le persone detenute, sono dirette, a volte brutali: voi parlate della vostra sofferenza, non pensate mai a quella dei figli delle vostre vittime? È una domanda assolutamente legittima e significativa, per questo è importante, sul tema delle vittime, un lavoro con le persone detenute, che ha aspetti diversi: individuazione delle vittime (per esempio, anche i figli delle persone detenute sono vittime), riflessione sui reati cosiddetti “senza vittime” (“reati che ledono beni collettivi o interessi generali”, così per esempio sono definiti i reati di spaccio), strumenti della giustizia riparativa nell’esecuzione penale. Anche perché il confronto e l’ascolto delle vittime, che nelle aule di tribunale non hanno praticamente nessuno spazio, diventano incredibilmente possibili in un luogo come il carcere”. Seconda tappa: ascolto-immedesimazione - Quando si fa riferimento al tema dell’ascolto ci sono sempre almeno due soggetti in campo: il primo che parla e il secondo che riceve. Come mai ritieni che sia importante l’educazione all’ascolto in carcere, e quali sono i soggetti coinvolti? “L’ascolto in carcere è fondamentale, anche perché tanti reati nascono in un certo senso proprio dall’incapacità di ascoltare l’altro, la sua sofferenza, i suoi bisogni (la regola d’oro “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” è una delle regole più inascoltate). Imparare l’ascolto è importante, e non può essere un ascolto distratto, perché le questioni in gioco sono troppo delicate: da una parte le persone detenute “mettono in piazza” la loro vita, i disastri, le sconfitte, gli scivolamenti, le cadute, tutte testimonianze che richiedono di essere ascoltate senza commenti e senza distrazioni, dall’altra la società può imparare ad ascoltare l’altro, il “cattivo”, il nemico, ma anche a esprimere le ansie, le paure, la rabbia di chi subisce i reati”. Come dice Pirandello - Quanto è importante mettersi nei panni dell’altro? “L’”immedesimazione” è un’arte, un esercizio che dobbiamo sforzarci di fare anche nelle situazioni più complesse, quando si tratta di immedesimarsi sia in chi ha commesso reati sia in chi li ha subiti, cercando di capirne i sentimenti, le insicurezze, la rabbia. Se alle persone chiediamo, come dice Pirandello: “Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io”, e quindi chiediamo loro di mettersi al posto nostro e provare non a giudicare, né a giustificare, ma piuttosto a capire i nostri comportamenti, allora bisogna provare anche a immedesimarsi nelle persone ritenute più distanti, che per la persona detenuta possono essere il magistrato che l’ha giudicato, o quello che non ha concesso una misura alternativa, o l’agente che apre e chiude il cancello della cella”. Terza tappa: cambiamento-responsabilità - I dati sulla recidiva in carcere sembrano parlare chiaro: il carcere non aiuta le persone nel loro percorso e queste ultime finiscono per commettere di nuovo il reato, come in un circolo vizioso. Come reputi sia possibile un cambiamento per le persone detenute? “La sfida del cambiamento è complicata, da soli non si cambia, il carcere già di per sé è spesso il contrario del cambiamento, perché chiudendo e allontanando dalla società gli autori di reato rende difficile il confronto e il dialogo. Per questo è importante una carcerazione che metta le persone detenute il più possibile a diretto contatto con la società, insegnando così a dialogare, a confrontarsi, ad ascoltare l’altro da sé. Dunque, il carcere chiuso è il contrario della rieducazione, mentre un carcere “aperto alla società” è l’unico che rispetta la legge e mette le persone in condizione di rientrare nel “mondo libero” da persone responsabili. Da questo punto di vista, sarebbe interessante approfondire con le persone detenute questo tema: che cosa può far venire voglia di cambiare? Quanto pesano, per esempio, i figli? Lo studio, la crescita culturale possono essere uno stimolo? Quanto sono state invece negative le esperienze fatte in carceri che non hanno offerto nessuna esperienza di risocializzazione-rieducazione?”. “Ho ucciso, ho rapinato, ho fatto” - Come far acquisire alle persone autrici di reati la consapevolezza della loro responsabilità in quello che hanno commesso? “La mia famiglia più di tutti, e fin dal primo momento, non si rassegnava a quanto mi era accaduto”; “Non mi sono mai perdonato e non ho trovato giustificazioni a quanto è accaduto”. C’è un passaggio fondamentale, nel percorso di assunzione di responsabilità delle persone detenute, ed è quello in cui si accetta che certi atti violenti non “accadono” semplicemente; così si passa dal verbo “accadere, succedere”, al verbo coniugato in prima persona: “Ho ucciso, ho rapinato, ho fatto”. È un passaggio a cui si arriva se davvero si riesce a fare una carcerazione sensata, a partire dall’applicazione della regola europea che dice che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. Per questo in carcere bisogna creare più spazi di libertà e di confronto, che sono gli unici nei quali si può iniziare a diventare persone responsabili: si potrebbe aprire un dialogo su quali azioni sarebbero possibili in carcere per sconfiggere l’infantilizzazione e promuovere invece l’assunzione di responsabilità. Affronteremo quindi il tema della responsabilità, a partire dal racconto di ogni persona detenuta presente. Il tema sarà: che cosa produce consapevolezza e spinge le persone a guardare in modo critico al proprio passato e a narrare pezzi della propria vita, di modo che la narrazione di certi comportamenti a rischio possa diventare una forma di prevenzione dei reati”. *Presidente di AVoC Brescia. “La terza branda”: il teatro in carcere in vista della mobilitazione nazionale dei Garanti primabrescia.it La “terza branda” rappresenta la continuazione dell’impegno profuso dai detenuti verso la sensibilizzazione della collettività nei confronti delle difficoltà generate dal sovraffollamento. Giovedì scorso nella Casa Circondariale Nerio Fischione si è tenuta la rappresentazione teatrale “La terza branda”, frutto del lavoro di riflessione del gruppo “diritti umani”, guidato per l’occasione da Giuseppina Turra. La “terza branda” rappresenta la continuazione dell’impegno profuso dai detenuti di Nerio Fischione verso la sensibilizzazione della collettività nei confronti delle difficoltà generate dal sovraffollamento, ormai risalente a un paio d’anni, nei quali essi hanno dato vita a numerose iniziative. “La “Terza branda” compendia la tenace volontà dei detenuti che, a luglio dello scorso anno, ha reso possibile raggiungere con uno scritto il Presidente della Repubblica per chiedere attenzione nei confronti di un problema che pare da anni irrisolvibile e che incide pesantemente nella vita delle persone recluse, delle loro famiglie ma anche di chi lavora e ogni giorno si trova a dover affrontare situazioni che dovrebbero invece essere gestite con risorse umane e strutturali ben differenti - ha fatto sapere Luisa Ravagnani garante dei detenuti del comune di Brescia - La ragione posta alla base di questo movimento di pensiero, nato a Verziano e proseguito a Nerio Fischione, è riconducibile alla volontà di porsi come interlocutori seri e responsabili del sistema giustizia, per poter contribuire all’elaborazione di strumenti utili al raggiungimento del fine costituzionale della pena. Per tale ragione, “la terza branda” è stata lo spunto per riflettere su temi importanti quali la colpa, il reato, la vittima e la collettività, cominciando a elaborare possibili strategie di riparazione che, a parere di chi scrive, non possono tuttavia essere facilmente perseguite nell’attuale condizione di sofferenza del sistema penitenziario”. “La “terza branda” ha preceduto di qualche giorno la mobilitazione nazionale dei Garanti del Persone Private della libertà personale e potrebbe costituirne parte integrante, assumendosi la funzione descrittiva del disagio vissuto dai detenuti e dalle detenute in Italia. Infatti, è solo dall’ascolto dalle parole di chi vive il carcere (operatori, detenuti, volontari) che si può cogliere l’estremo livello di sofferenza ingiustificata ormai raggiunto ed è per questo motivo - oltre che per le 14 persone che si sono già tolte la vita in carcere dall’inizio del 2025 e per le ragioni espresse nel comunicato nazionale allegato - che anche la Garante di Brescia si unisce alle richieste formulate”. L’appello della garante - “Abbiamo bisogno di trovare soluzioni, possibilmente rapide e che prescindano il più possibile da pregiudizi fonte di risposte magari efficaci nel breve ma controproducenti nel medio e lungo periodo. Del resto gli attori de “la terza branda” lo chiedono a gran voce: […] la verità è che questa cosa si potrebbe evitare! Si potrebbe evitare eliminando da subito superfluità pericolose come la terza branda! Perché eliminando la terza branda elimineresti in parte anche il problema del sovraffollamento. Riducendo le brande, riduci i posti in carcere, rientri nei numeri stabiliti al momento della sua costruzione e la struttura funzionerebbe meglio. Gli assistenti, l’area sanitaria, gli educatori, tutti avrebbero meno lavoro, meno problemi, meno complicazioni e riuscirebbero a seguire tutti i detenuti, favorendo una vera rieducazione e un miglior reinserimento. Le persone non più disperate e abbandonate a loro stesse, non si suiciderebbero e una volta uscite non reitererebbero i loro reati. È questo che gli operatori, gli agenti e i detenuti auspicano”. Velletri (Rm). Pubblicato il secondo numero del giornale della Casa circondariale garantedetenutilazio.it, 1 marzo 2025 È con grande entusiasmo che viene annunciata la pubblicazione del secondo numero di “Voci di ballatoio”, un’iniziativa editoriale realizzata da una redazione interamente composta da detenuti della sezione D della Casa circondariale di Velletri. Questo progetto, frutto dell’impegno dell’associazione La Farfalla e coordinato da Paola Anelli e Nicolò Sorriga, è attivo dal marzo 2024 e ha ricevuto il supporto dell’area giuridico-pedagogica e della direzione dell’istituto penitenziario. In questo nuovo numero, viene dato ampio spazio alla presentazione del giornale alle istituzioni, con il racconto di una giornata speciale che ha avuto luogo il 5 dicembre scorso. Gli articoli offrono approfondimenti e riflessioni sull’esperienza della redazione in carcere, ponendo uno sguardo attento verso le giovani generazioni. Un tema di particolare rilevanza trattato in questo numero è quello del “piantone”, una figura poco conosciuta al di fuori delle mura carcerarie: i detenuti che si prendono cura di compagni di stanza più fragili, affetti da malattie croniche o disabilità, anziani. Attraverso racconti personali, i redattori condividono emozioni e riflessioni sulle sfide nel garantire accesso a cure adeguate. Inoltre, il giornale esplora la vita quotidiana in carcere, affrontando temi come il cibo, lo sport, il lavoro e l’importanza di mantenere viva la creatività. Con una dose di ironia, i detenuti raccontano le loro esperienze e la realtà di chi vive la reclusione. Le storie personali dei redattori offrono uno spaccato sincero delle loro esperienze, del presente e delle incertezze riguardo al futuro. Questo progetto non solo offre una voce a chi vive in carcere, ma promuove anche la sensibilizzazione e il dialogo sulla realtà della detenzione. La pubblicazione è stampata a colori in 300 copie cartacee, grazie al sostegno della tipografia Tiburtini srl, ed è distribuita all’interno della C.C. di Velletri e inviata alle istituzioni. È possibile leggere e scaricare il formato digitale (Pdf) gratuitamente da qui o dal sito dell’associazione La Farfalla, dove si trovano anche il numero zero e il primo numero https://www.garantedetenutilazio.it/app/uploads/2025/02/Voci-di-ballatoio-n.2_-online-1.pdf Gallarate (Va). “Non esistono ragazzi cattivi”, don Claudio Burgio incontra gli studenti di Alice Mometti ilbustese.it, 1 marzo 2025 Il cappellano del carcere minorile Beccaria ha incontrato i ragazzi per parlare di criminalità giovanile, bullismo e disagio sociale, portando la sua esperienza con i giovani detenuti e con la comunità Kayrós. Tra rapine, furti e spaccio, i numeri della devianza minorile sono in crescita, ma la musica e l’educazione possono essere strumenti di rinascita. “La felicità non si misura in soldi, ma in piccole azioni concrete” ha ricordato l’assessore Claudia Mazzetti, invitando gli studenti a credere nel riscatto personale Un incontro intenso e ricco di spunti di riflessione quello che si è svolto, venerdì 28 febbraio, presso l’Aula Magna di Piazza Giovine Italia a Gallarate. Gli studenti dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore Andrea Ponti hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore dell’associazione Kayrós, realtà che accoglie e accompagna giovani in difficoltà verso un percorso di riscatto. Un dialogo sulla realtà giovanile e sul recupero - L’incontro ha sottolineato l’importanza per la scuola di offrire strumenti concreti agli studenti per aiutarli a comprendere se stessi e il mondo che li circonda. “Vogliamo una scuola capace di orientarvi in un mondo sempre più complesso. La scuola deve darvi gli strumenti per aiutarvi a capire voi stessi”, ha dichiarato il sacerdote, ribadendo il ruolo centrale dell’educazione nella crescita personale e sociale dei ragazzi. Don Claudio Burgio ha portato la sua esperienza diretta con i giovani detenuti del Beccaria, spiegando che dietro ogni errore c’è sempre una storia, una fragilità, una mancanza. “Chi ha sbagliato può riscattarsi”, ha affermato con convinzione, raccontando come la sua comunità Kayrós aiuti i ragazzi a ricostruire la propria vita attraverso percorsi educativi, lavorativi e artistici. Criminalità minorile: numeri allarmanti - Durante l’incontro sono stati affrontati anche i dati sulla criminalità giovanile in Italia. Secondo le statistiche ISTAT, il reato più diffuso tra gli adolescenti è la rapina, spesso aggravata dall’uso di armi, con conseguenze che possono portare al tentato omicidio o all’omicidio. Ogni anno si registrano almeno 35 omicidi commessi da minorenni e, attualmente, al Beccaria sono detenuti cinque giovani colpevoli di questo reato. Seguono il furto, un reato contro il patrimonio, e lo spaccio di sostanze stupefacenti, soprattutto cannabinoidi e psicofarmaci. Le cause? Secondo Don Burgio, la povertà economica ed educativa gioca un ruolo chiave, così come la volontà dei ragazzi di sentirsi al pari degli altri, di non essere considerati “di Serie B”. Tuttavia, ha sottolineato come al Beccaria arrivino anche ragazzi provenienti da famiglie benestanti, a dimostrazione che il disagio giovanile non è legato solo a condizioni economiche precarie, ma anche a un vuoto educativo e valoriale. Un altro aspetto su cui Don Burgio ha posto l’attenzione è il fenomeno del bullismo: “La quasi totalità dei bulli ha subito bullismo da piccolo”, ha affermato, evidenziando come la violenza spesso nasca da ferite irrisolte. Musica come strumento di riscatto - Uno dei temi più sentiti dai ragazzi è stato il legame tra musica e rinascita. “Siete ragazzi che parlate poco, ma che attraverso la musica dite tutto”, ha detto Don Burgio, citando l’esperienza di artisti seguiti dalla sua comunità, come Sacky e Baby Gang (Zaccaria Mouhib), giovani trapper che hanno trovato nella musica una via d’uscita dalla marginalità. La musica è anche uno degli strumenti principali di Kayrós, che ha dato vita al progetto Kayrós Music, distribuito da Universal. “Date tempo al tempo, non pensate che si realizzi tutto subito. Se fate le scelte giuste, il vostro sogno si realizzerà di sicuro. È la continuità che porta al successo. Fare musica è un lavoro”, ha sottolineato Don Burgio, invitando i ragazzi a investire tempo e impegno nei propri talenti. Il valore del riscatto - L’incontro si è concluso con le parole dell’assessore alla Cultura di Gallarate, Claudia Mazzetti: “È stata una mattinata estremamente interessante sia per gli adulti sia per i ragazzi che spero m colgano il messaggio positivo: con la fatica e l’impegno ci si può riscattare anche davanti a situazioni che sembrano impossibili da recuperare. La vita è fatta di momenti belli e momenti brutti ma costruirsi una vita serena è alla portata di ognuno di noi se lo si vuole. La felicità non la fa solo il denaro, ma bisogna trovarla nei tanti piccoli momenti quotidiani e in una comunità fatta di azioni concrete, perché da soli si va veloci, ma insieme si va lontano”. Un messaggio chiaro e potente, che ha lasciato nei ragazzi una riflessione profonda: nessuno è condannato al proprio errore, ma il cambiamento richiede impegno, responsabilità e il coraggio di scegliere la strada giusta. Bergamo. Storie di riscatto da San Vittore. E Neri Marcorè suona tra i detenuti di Federico Rota Corriere della Sera, 1 marzo 2025 Presentato in carcere il libro di Ruggiero. L’attore: qui per rafforzare la vostra voce. Nessuna lezione dall’alto di un palco, ma solo un augurio. Che, nella sua semplicità, spalanca le porte su una dimensione umana che, spesso, scivola in secondo piano quando dall’esterno si riflette sulla realtà che vive chi è in un penitenziario. E che vivrà quando avrà scontato la sua pena: “Ho avuto la fortuna di coltivare le mie passioni, la musica e lo studio. Vi auguro di trovare in voi stessi le risorse per poter coltivare ciò che vi piace fare. E, in questo modo, trovare una strada, il vostro posto nella società”. Neri Marcorè, con poche parole, riesce a raccogliere la speranza che molti detenuti del carcere Don Fausto Resmini condividono, ascoltandolo: di essere riconosciuti come persone, non solo per le colpe che li hanno condotti lì. L’attore è fra le personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che hanno voluto portare un messaggio di speranza nel penitenziario di Bergamo e nelle altre nove realtà italiane in cui verrà presentato il libro “I volti della povertà in carcere”, pubblicato da EDB, in occasione del Giubileo. Nel volume ci sono le storie di condannati e di operatori raccolte da Rossana Ruggiero nel carcere di San Vittore, accompagnate dalle fotografie in bianco e nero di Matteo Pernaselci e dalla prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi. “Non è un progetto che vuole riscoprire le povertà, ma i volti delle persone”, sottolinea Ruggiero. E così si racconta, ad esempio, la storia di Pavel, arrivato ad Arezzo dalla Romania ancora bambino insieme alla mamma e ai suoi sei fratelli. Che, però, è finito in “compagnie brutte” in cui, pur non riconoscendosi, stava bene. E che l’hanno fatto finire dietro alle sbarre. I suoi sogni sono simili a quelli di molti: da piccolo fare il calciatore (giocava in eccellenza), oggi provare a incidere un disco. Se proprio deve sognare in grande, allora “fare l’imprenditore” come progetto a lungo termine. “Donne che volevano essere belle e presentabili. Ragazzi come voi, che abbiamo visto nelle loro attività”, dice Ruggiero. “Vogliamo far emergere il carcere per ciò che è realmente - spiega la direttrice, Antonina D’Onofrio. Con i suoi problemi, ma anche con lo sguardo diretto verso la possibilità di riprendersi in mano la propria vita. C’è sempre una possibilità di rinascita”. Specialmente per i detenuti che hanno fra i 18 e i 25 anni: “Per far sì che guardino a un futuro di speranza, lasciandosi alle spalle fatiche e angosce”, aggiunge D’Onofrio. “C’è un forte aumento in ingresso di giovani che hanno bisogno di percorsi specifici”, nota Cristiana Primavori, responsabile dell’area trattamentale della casa circondariale. “L’attenzione è su di loro - aggiunge -, sulle loro peculiarità, per far emergere i loro interessi e aiutarli in un percorso di reinserimento sociale che sia volto all’educazione e al loro benessere”. Le dipendenze sono fra le insidie crescenti, per chi sta in carcere: “C’è un’alta percentuale. Dobbiamo accompagnarli perché cerchino di curarsi e di risolverle”, ammette Paolo Donadoni, il responsabile del Sert del carcere. Neri Marcorè suona e canta con loro canzoni de “La buona novella” di Fabrizio De André e di Francesco De Gregori (Il bandito e il campione). E scherza con loro, ricordando che anche lui è stato in carcere, sebbene per giocare con la nazionale cantanti o per impegni professionali (recitando nel film Smetto quando voglio - Ad honorem il ruolo di Claudio Felici detto “Il Murena”): “Mi fa piacere essere qui, per rafforzare la voce di questa realtà che la società non ama vedere - dice l’attore prima di congedarsi. Fate ciò che vi piace per il gusto di farlo, non è mai tempo sprecato”. Se per il magistrato la polizia ha licenza di menare di Livio Pepino Il Manifesto, 1 marzo 2025 La contrapposizione si protrae per un paio d’ore, con grida, proteste e (saltuario) lancio di oggetti. Il tutto senza incidenti sino a quando gli esponenti neofascisti, non essendo riusciti nel loro intento, lasciano il campo. A quel punto si verificano tre cariche della polizia, nella prima delle quali vengono colpite con manganellate anche due docenti di Giurisprudenza che, dopo essersi qualificate, si erano interposte tra gli agenti e gli studenti per evitare incidenti e che riportano lesioni al capo e alle braccia. A seguito della querela proposta dalle due docenti, Alice Cauduro e Alessandra Algostino, quest’ultima firma ben nota a lettrici e lettori del manifesto, si apre un procedimento a carico di ignoti che si conclude ora con un decreto di archiviazione. Il fatto, seppur minore rispetto ad altri proposti quotidianamente dalle cronache, merita una segnalazione: perché emblematico della prassi “muscolare” che caratterizza la gestione dell’ordine pubblico nelle nostre piazze e perché indicativo della cultura autoritaria, giustificazionista e precostituzionale che anima settori consistenti della magistratura. Pacificamente, infatti, le cariche della polizia sono intervenute quando era venuta meno - ammesso che fosse esistita in precedenza - ogni esigenza di tutela dell’ordine pubblico e, per usare le parole del gip, gli “atteggiamenti aggressivi e provocatori” dei contestatori erano “limitati al piano verbale” e “a slogan ostili verso la polizia” e l’unico contatto fisico era stata “l’improvvisa spinta di un contestatore allo scudo di un agente”. In tale situazione il giudice non si spinge a sostenere - come aveva fatto il pubblico ministero (dopo aver delegato ogni accertamento alle forze di polizia cui appartengono gli agenti e i funzionari il cui comportamento era oggetto di indagine) - che le azioni lesive degli agenti non sono punibili perché integranti un’ipotesi di uso legittimo delle armi, ma dispone ugualmente l’archiviazione perché “la collocazione “geografica” delle due docenti, che si trovavano sulla traiettoria della carica di alleggerimento” (legittimata, “anche a prescindere dall’esistenza di un formale ordine dei superiori”, dalla mancanza di “una distanza di sicurezza” tra manifestanti e agenti”), ha reso “inevitabile il contatto”. Dunque, decodificando, se, nel corso di una manifestazione, i dimostranti gridano slogan contro le forze di polizia e si avvicinano ad esse in maniera significativa, è legittimo che gli agenti effettuino (anche di propria iniziativa, senza disposizioni dei responsabili dell’ordine pubblico) delle cariche e, se qualcuno si trova, a qualunque titolo, in mezzo, peggio per lui… Incredibile, ma vero. L’opzione per l’impunità a prescindere degli operatori di polizia per gli atti compiuti in servizio di ordine pubblico è ricorrente nel nostro sistema. Era chiara nel codice di procedura penale fascista, secondo cui “non si procede senza autorizzazione del Ministro della giustizia contro gli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”, e confermata dalla legge Reale del 1975, che prevedeva la sottrazione delle indagini, in tali ipotesi, al procuratore della Repubblica con illimitata possibilità di avocazione del procuratore generale. Con il codice processuale del 1989 il privilegio è stato abolito ma c’è chi (i parlamentari leghisti Iezzi e Ravetto), con due emendamenti al disegno di legge sicurezza in discussione al senato, ha proposto di ripristinarlo in versione addirittura peggiorata. A leggere il decreto di archiviazione del gip di Torino vien da dire che non è necessario: la magistratura ci pensa da sola, anche senza indicazioni del legislatore. Da fabbriche d’auto a industrie belliche, Meloni accelera sul progetto di Francesco Verderami Corriere della Sera, 1 marzo 2025 Il modello tedesco “per non perdere la filiera”. La crisi geopolitica e quella dell’automotive potrebbero trasformare l’auto in un cingolato. Gli eventi hanno spinto il governo a studiare un piano per agevolare la conversione di una parte almeno delle aziende italiane dal settore automobilistico alla componentistica bellica. È un progetto maturato da Meloni e che coinvolge i ministri dell’Economia, delle Imprese e della Difesa. È la presa d’atto di un cambiamento epocale sotto il profilo economico e internazionale. È un dossier aperto da tempo e che subisce adesso un’accelerazione. Ce n’era già traccia nei colloqui riservati tenuti a Palazzo Chigi sul “caso Stellantis”. La premier parte dalla constatazione che “l’auto non fa più status”, che la vendita di veicoli “è destinata a diminuire progressivamente dappertutto”, che le aziende nazionali impegnate nel settore e legate alle forniture delle industrie tedesche sono “in sofferenza”, e che questo pone “nel medio periodo un serio problema sulla tenuta dell’occupazione”. Perciò, se “il nostro obiettivo è tentare di mettere in sicurezza i lavoratori” e “la Germania sta riconvertendo in armamenti”, preparandosi a spendere duecento miliardi, l’Italia deve adeguarsi per “non perdere la filiera”. Perciò il governo deve immaginare come aiutare il passaggio al comparto bellico. Sia chiaro non si tratta di un cambiamento a breve, perché l’orizzonte è “traguardato” a dieci anni, ma è certo che l’esecutivo sia impegnato a trovare soluzioni. Giorgetti, per esempio, ha già messo all’opera il suo dicastero. Magari frena quando gli chiedono di alzare l’impegno dell’Italia nel settore della Difesa al 2,5% del Pil, perché senza bond europei si produrrebbe un cambio di traiettoria del debito pubblico nazionale, che innescherebbe la reazione dei mercati. Ma sul processo di trasformazione dall’automotive alla componentistica militare concorda. In ogni caso è un passaggio delicato anche per altri motivi. Ne scrisse Dario Di Vico sul Corriere un anno fa, quando - parlando delle difficoltà logistiche per la conversione industriale - accennò al problema di un “salto culturale”. La premier è consapevole di quanto sia “politicamente sensibile” questo tema in un Paese dove manca “la cultura della difesa”, più volte evocata dal ministro Crosetto e prima ancora dal suo predecessore Guerini. Ma il combinato disposto delle due crisi impone delle scelte. E il forzista Mulè, che è stato sottosegretario di Guerini ai tempi del governo Draghi, spiega sotto il profilo tecnico che “questa sorta di Piano 6.0 può essere già avviato dalle Regioni con programmi di formazione per il personale che sono finanziati dai fondi europei”. Ovviamente andrebbero poi affrontati i nodi della digitalizzazione delle imprese e della conversione delle linee di produzione. “Ma il progetto si può fare”, dice Calenda, che è stato il padre del piano Industria 4.0: “Certo non è facilissimo e presuppone una scala più ridotta rispetto alle grandi aziende. Il punto però è un altro. La Germania si sta già muovendo e ritiene di attrezzarsi nel giro di un anno. E l’Italia? A fronte dei loro duecento miliardi, quanti ne investirebbe?”. Si vedrà. Il lavoro del governo è alla fase iniziale, mentre a livello industriale la mutazione è in atto. Oltre alla joint venture multimilionaria di Leonardo con il colosso tedesco Rheinmetall per la produzione di mezzi corazzati, e all’attività di Iveco Defense, fonti autorevoli raccontano che persino Ferrari starebbe valutando collaborazioni con aziende del settore militare. Immaginare un’auto trasformata in un cingolato avrebbe un effetto straniante sull’opinione pubblica. Mentre sul fronte strettamente economico avrebbe un impatto positivo. Uno studio reperibile nei documenti del Senato dimostra che “per ogni euro di valore aggiunto creato dal settore Difesa, si generano un euro e sessanta centesimi addizionali di valore aggiunto sull’economia: il 71% in più rispetto alla media nazionale”. Oltre i numeri però c’è la politica. E Meloni sa di doverla mettere nel conto. Sui diritti dei migranti è tempo che parli la Consulta di Matteo Losana Il Manifesto, 1 marzo 2025 Dopo l’ultima udienza in cui la Commissione europea ha ribaltato il suo parere e si è schierata con il Governo Meloni, alla Corte di giustizia Ue tira una brutta aria. Ma i richiedenti protezione internazionale sono soggetti titolari di diritti fondamentali e non possono restare senza tutela. Il caso dei “controlimiti”. Di questi tempi, meglio ricordare cose che dovrebbero essere scontate: i richiedenti protezione internazionale sono, innanzitutto, soggetti titolari di diritti fondamentali. Sia perché la Costituzione e il diritto internazionale offrono loro specifica tutela, sia perché anch’essi sono titolari dei diritti inviolabili della persona umana (come vorrebbe, predicando ormai nel deserto, l’articolo 2 della Costituzione). Il loro destino è legato a doppio filo con il Paese di origine: se provenienti da un Paese definito sicuro, scatta infatti la procedura accelerata di frontiera e la connessa misura del trattenimento. Un meccanismo infernale, incentrato sulla presunzione di infondatezza della domanda, sui tempi contingentati del procedimento e sulla limitazione della libertà personale (forse, la libertà fondamentale per eccellenza). Alla definizione di Paese di origine sicuro concorrono sia l’ordinamento dell’Unione europea, che quello nazionale: il diritto vigente dell’Unione europea prevede che non possano considerarsi sicuri quei Paesi nei quali porzioni del territorio non siano sicure (quella definizione non tollera, dunque, eccezioni territoriali); i nostri giudici, interpretando in modo estensivo quelle eccezioni, ritengono che non siano sicuri anche quei Paesi nei quali ci siano categorie o gruppi di persone sistematicamente perseguitate (quella definizione non ammetterebbe, dunque, neanche eccezioni personali). Sull’interpretazione dei nostri giudici si è discusso davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea nell’udienza dello scorso 25 febbraio. Come si concluderà il giudizio è difficile dirlo, ma da quanto emerso in quell’udienza i segnali non sono incoraggianti: che il governo italiano fosse contrario all’interpretazione più garantista, era cosa nota; che lo fosse anche la Commissione europea, oramai appiattita sulla posizione del nostro governo, molto meno. C’è peraltro, in tutta questa vicenda, un convitato di pietra: il nuovo “Patto europeo su migrazioni e asilo”, applicabile negli Stati membri a partire dal giugno 2026. Il nuovo “regolamento procedure” introduce significative novità, tese a rendere ancora più agevole il ricorso alle procedure accelerate di frontiera: per un verso, sarà esplicitamente ammessa la designazione di un Paese di origine sicuro anche in presenza di eccezioni territoriali e personali (purché “chiaramente identificabili”); per altro verso, la procedura accelerata scatterà nei confronti dei richiedenti provenienti da Paesi in riferimento ai quali il tasso di riconoscimento delle domande è inferiore al 20%. Insomma, la presunzione che si tratti di domande strumentali, meritevoli dunque di una procedura accelerata, non la si costruisce più guardando cosa succede nei Paesi di provenienza, bensì guardando l’esito di una procedura amministrativa tutta interna. Complicato armonizzare questo meccanismo con l’idea che i richiedenti la protezione internazionale siano titolari di diritti fondamentali. Il dubbio interpretativo di oggi rischia, dunque, di avere le ore contate, superato da norme europee sempre più ostili verso il fenomeno migratorio. E allora è lecito chiedersi: quale giudice potrà ancora proteggere diritti fondamentali così palesemente calpestati? Difficile che questo compito possa svolgerlo, con successo, la Corte di Giustizia, poco incline all’annullamento, per violazione dei Trattati o dei diritti sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di atti normativi prodotti dalle istituzioni europee. Potrebbe invece farsene carico la nostra Corte costituzionale. Per il momento, i giudici comuni hanno privilegiato il dialogo con la Corte di Giustizia, ma forse è venuto il momento che anche la nostra Corte dica la sua. Esiste infatti una dottrina, chiamata dei “controlimiti”, elaborata dalle Corti costituzionali nazionali volta a impedire che il diritto dell’Unione leda i principi supremi e i diritti inviolabili sanciti dalle Costituzioni nazionali. Per quanto ci riguarda, si tratta di dottrina sempre affermata, ma quasi mai, almeno esplicitamente, applicata. C’è un solo precedente, quando nel 2017 la nostra Corte la invocò, con successo, per impedire che una norma del Trattato sull’Unione ostacolasse l’applicazione in giudizio di una nostra legge sulla prescrizione. Peccato che i reati che beneficiarono di quel precedente fossero reati in materia fiscale. Se la nostra Corte tornasse a invocare quella dottrina con riguardo alle nuove norme in materia di immigrazione, non ci sarebbe alcun dubbio che a beneficiarne non sarebbero più i furbetti di turno, bensì soggetti - oggi - tra i più deboli e discriminati. Corte europea dei diritti dell’uomo, la vergogna continua dell’Italia di Giulio Cavalli lettera43.it, 1 marzo 2025 Non è un’anomalia. È una tradizione. Il nostro Paese è tra i più condannati del Continente, con un’imbarazzante percentuale di violazioni del 92 per cento rispetto alle sentenze. Carceri sovraffollate, giustizia lenta, trattamenti inumani e degradanti, respingimenti illegali: così ogni anno si aggiornano le statistiche, non le soluzioni. Quando si parla di Corte europea dei diritti dell’uomo spesso lo si fa per raccontare gli altri, meglio ancora se sporchi, brutti e cattivi. La Cedu utilizzata come manganello contro i Paesi che secondo alcuni non meriterebbero di stare nell’Unione europea. La Cedu per gli altri. Ma l’Italia? Le aule della Corte hanno spesso ospitato il nostro Paese. Non per una presenza formale, ma per una costanza che somiglia a un’abitudine consolidata. Nel solo 2023, su 2.666 ricorsi esaminati 52 si sono tradotti in sentenze: in 48 casi il verdetto ha riscontrato almeno una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non è un’anomalia. È una tradizione. Un dato che mette il nostro Paese tra i più condannati d’Europa, con una percentuale di violazioni che si assesta su un imbarazzante 92 per cento. Il messaggio è chiaro: l’Italia non solo infrange i diritti umani, ma lo fa con una sistematicità che lascia intendere un problema radicato, strutturale, cronico. Rischi concreti di torture in Libia e rimpatri forzati - Le violazioni più ricorrenti seguono uno schema preciso: trattamenti inumani e degradanti (articolo 3), negazione del diritto a un processo equo (articolo 6), violazione del diritto alla vita (articolo 2) e del diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8). La fotografia è nitida: un sistema che procede con inerzia, incapace di adeguarsi alle garanzie fondamentali. Un caso esemplare è quello di “Hirsi Jamaa e altri c. Italia” (2012), dove siamo stati condannati per il respingimento illegale in mare di persone migranti. La Corte ha stabilito che il nostro Paese ha violato il divieto di trattamenti inumani, esponendo i ricorrenti a rischi concreti di torture in Libia e rimpatri forzati. Una macchia indelebile che, però, non ha fermato il ripetersi di politiche simili. Nel 2023 e nel 2024 Strasburgo ha continuato a esaminare casi analoghi. Giustizia: condanne in contumacia e niente processi equi. Sotto il profilo della giustizia, il caso “Scoppola c. Italia” (2009) ha rivelato le falle dell’ordinamento nella garanzia di un processo equo, mentre “Sejdovic c. Italia” (2006) ha evidenziato le distorsioni di un sistema che condanna in contumacia senza assicurare effettivi strumenti di revisione. Prigioni sovraffollate e pessime condizioni di detenzione - Il sistema carcerario italiano è da anni un terreno di scontro tra lo Stato e la Corte di Strasburgo. Il caso “Torreggiani e altri c. Italia” (2013) ha certificato ciò che si sapeva: le prigioni italiane sono sovraffollate e violano sistematicamente il divieto di trattamenti inumani. La Corte ha parlato di “violazione strutturale”, segnalando che il problema era noto da anni e che lo Stato ha preferito ignorarlo. Abusi anche nelle strutture psichiatriche - Il problema, tuttavia, non si esaurisce nelle mura delle carceri. Il caso “Lavorgna c. Italia” (2024) ha portato alla luce gli abusi nelle strutture psichiatriche: il ricorrente, ricoverato forzatamente, è stato sottoposto a misure di contenzione in violazione della Convenzione. Le Rems, istituite per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari, si sono trasformate in gabbie dove il diritto alla salute mentale è piegato all’arbitrio burocratico. Tempi biblici per una sentenza, tra impunità e prescrizione - Se la giustizia italiana fosse un’opera d’arte, sarebbe un dipinto rinascimentale per la lentezza con cui viene completato. Il caso “Scordino c. Italia” (2006) ha sollevato il problema dell’inefficacia della legge Pinto, che avrebbe dovuto garantire un risarcimento per i processi infiniti. La Corte ha stabilito che il nostro sistema non solo viola il diritto a un processo equo, ma lo fa con una costanza allarmante. Oggi un processo civile in Italia dura mediamente oltre sei anni. Una causa penale può richiederne più di 10. La conseguenza? Giustizia negata per chi attende un verdetto e impunità di fatto per chi riesce a sfruttare la lentezza del sistema per arrivare alla prescrizione. È un circolo vizioso che alimenta la sfiducia nelle istituzioni. Diritto alla famiglia: coppie dello stesso sesso discriminate - Anche sul fronte dei diritti individuali l’Italia colleziona condanne. Il caso “Oliari e altri c. Italia” (2015) ha evidenziato l’assenza di riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso, mentre “Locascia e altri c. Italia” (2023) ha portato alla condanna del nostro Paese per la gestione fallimentare della crisi dei rifiuti in Campania. Un disastro ambientale e sanitario che ha esposto migliaia di cittadini a rischi documentati senza alcuna protezione adeguata. Richiedenti asilo e centri di accoglienza, niente tutele - Non va meglio sul fronte delle persone migranti. La Corte ha ripetutamente censurato l’Italia per la violazione dei diritti dei richiedenti asilo, dei minori stranieri non accompagnati e dei soggetti più vulnerabili. Le pratiche di respingimento e di detenzione arbitraria nei centri di accoglienza sono all’ordine del giorno. Lo Stato italiano non garantisce tutele, ma reprime. Sessantadue migranti sono rimasti intossicati nella notte tra il 2 e il 3 ottobre in un centro accoglienza di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo. A luglio 2024 già pendenti 2.430 casi italiani davanti alla Cedu - L’Italia non è nuova alle condanne della Cedu. Ma l’elemento preoccupante è che non si tratta di incidenti isolati, bensì di un copione che si ripete. Carceri sovraffollate, giustizia lenta, trattamenti inumani, respingimenti illegali: ogni anno si aggiornano le statistiche, non le soluzioni. A luglio 2024 erano già pendenti 2.430 casi italiani davanti alla Corte di Strasburgo. Molti di questi riguardano violazioni sistematiche, già condannate in passato, ma mai risolte. E questa è la vera sentenza contro l’Italia: non imparare dai propri errori. Strasburgo continua a scrivere sentenze. Roma continua a ignorarle. La giustizia europea prende nota. E, come sempre, l’Italia arriva tardi. Trump ha capovolto il copione ucraino. Così finisce la diplomazia occidentale di Domenico Quirico La Stampa, 1 marzo 2025 Non c’è niente di più pericoloso di un istrione capriccioso al potere. Zelensky voleva evitare Monaco 1938. Gli hanno chiesto un autodafé. Da un po’ di tempo ci pregavano di portare pazienza: presto la pace del mondo sarebbe stata salvata, ci penserà lui. Trump, è uno che fa un gioco scoperto ma ha più di un asso nella manica. Ha una notevole disposizione nell’arte dell’illusionista, questo rivenditore di risultati tutto e subito. La scaltrezza notava qualcuno, gli guizza nell’angolo dell’occhio quando lancia battute e iperboli come decreti della ragione. Insinua in ogni discorso: lasciate fare a me, tutto si accomoderà, sistemo tutto io nelle anime e nella geopolitica. Eppure c’erano uomini che nel frattempo morivano nelle trincee del Dombass mentre a Gaza in attesa del miracolo si sopravviveva in un paesaggio di rovine; senza dimenticare il Sudan o le foreste del Kivu. Ma a quello forse con una strizzatina d’occhio avrebbe pensato dopo aver liquidato i due problemi principali. E poi è arrivato un pomeriggio alla Casa Bianca, lo studio ovale, il caminetto, le poltroncine di raso giallo, sui muri le facce di antichi presidenti. Sì. Certi malintesi assumono dimensioni storiche. Abbiamo scoperto, tutti, la tabula rasa. Ovvero il grado zero del nuovo mondo modello Trump. Un mondo di condanne inappellabili, di affermazioni perentorie: Zelensky non hai carte in mano da giocare quindi… Quelli di una certa età che ricordano vecchie immagini dei tempi in cui i Grandi convocavano i Deboli per dettar le condizioni, soffocati come vittime tenute con la testa sott’acqua, si sono chiesti se da qualche parte ci fosse ancora un po’ d’aria. Ho l’impressione che Zelensky arrivando a Washington avesse immaginato un copione come quello che un tempo in queste circostanze fornivano gli educati manuali della diplomazia, ovvero uno scenario accomodante, transitorio, per guadagnar tempo, ipocrita, sì ipocrita: con la firma di un accordo più o meno vago sulle ricchezze minerarie molto ipotetiche dell’Ucraina, poi la conferenza stampa con un seminaristico stile di compiacenze e rispetto, tante ben acconciate astrazioni che mostran la corda ma servono per dire che si è discusso, che ci rivederemo, che la pace... Parole vaghe ma che si cavalcano bene. È il vecchio mondo che elaborava vocabolari perché si reggeva su un postulato importante, i problemi cesseranno di esistere quando se ne saranno adeguatamente definiti i termini. Allora si ridurranno a polvere, porli sarà uguale a risolverli. Che meraviglia! E invece eccoci sganciati, lui Zelensky e noi, in un modo inflessibile munito di poche arti ornamentali, senza salamelecchi, promesse, quel vocabolario annacquato che neppure ci dava l’idea di vedere chiaro. La possente ipocrisia degli uomini al potere riusciva a velarci la presenza di sciagure che noi non comprendevamo. Le due visite di Macron e del premier inglese alla Casa Bianca che hanno preceduto Zelensky, sono stati due viaggi diplomatici del Vecchio Mondo. Dopo il pomeriggio di ieri sembrano appartenere ai rituali di un Ancien Régime, a personaggi in polpe e parrucca di cui rapidamente proveremo una grande nostalgia. Zelensky per tre anni ha magnificamente condotto il gioco, imposto lui debole le regole ai suoi alleati occidentali. Li ha inchiodati, talora bruscamente, alla responsabilità di poter proclamare di fare la guerra ma senza farla, li ha costretti a pagare con armi e denaro l’ipocrisia di una guerra per procura crudelmente affidata al popolo ucraino che non aveva possibilità di sottrarsi se non con la resa. Sapeva che le promesse magniloquenti che accumulava nei viaggi europei e transatlantici nascondevano in realtà la volontà di non andare fino in fondo. Ma accettava, forse fino ad abituarsene, la parte dell’eroe, l’essenziale per lui era non trovarsi nella condizione dei cechi a Monaco nel 1938, costretto ad attendere fuori dalla porta dei Grandi per sapere a quale pace con Putin sarebbe stato ridotto; perché l’occidente come la Francia e l’Inghilterra di allora, non erano pronti per la guerra. Non c’è nulla di più pericoloso di un istrione che dispone del Potere. Trump ha cancellato il copione ucraino. In modo crudele, pubblico, spettacolare. Zelensky si è trovato davanti qualcuno che ha deciso di capovolgere la sceneggiatura dell’ultimo atto perché ha scelto la parte di “chi fa le pulizie”. Quanto era fino a ieri condannabile diventa improvvisamente ammesso e legittimo. Trump ha allestito uno spettacolo antico: la dimostrazione che il capriccio e la volontà di chi ha la forza si eleva a legge e regola della Storia. Con il suo vice ha montato un meccanismo scenico in cui si scambiavano le battute per intimidire il presidente ucraino. Sono sequenze che evocano truci ricordi: l’imputato e i giudici che lo incalzano per strappargli l’auto da fé. Scene classiche del vecchio imperialismo, occidentale e sovietico. Immagino che Putin abbia apprezzato, è un tipo di spettacolo del Potere in cui si considera maestro: i dipendenti che a capo chino ascoltano le sue reprimende, i volti contriti, gli ordini stentorei, i reprobi che si allontanano ringraziando per la clemenza. Putin ieri ha trovato la conferma dell’efficacia del suo “sonderweg”, ora sa che può preparare con calma la sospirata Yalta con l’americano che usa il suo stesso alfabeto e parla il suo linguaggio: il mondo è dominato dai tre quattro imperatori che hanno la Forza. Non c’è posto per chi ha preso la insolente abitudine di pensare da sé senza consultare i suoi aggressivi direttori di coscienza. Putin ieri ha guardato la sua vittoria in diretta tv. Quella contro Kiev è una estorsione in puro stile mafioso. È la nuova America di Thomas L. Friedman* Il Dubbio, 1 marzo 2025 Il dramma in corso tra il presidente Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky solleva una delle domande più inquietanti che abbia mai dovuto porre sul mio Paese: siamo guidati da un credulone di Vladimir Putin, da qualcuno pronto a ingoiare per intero la distorta visione del presidente russo su chi ha iniziato la guerra in Ucraina e su come deve finire? O siamo guidati da un padrino della mafia, che cerca di spartirsi il territorio con la Russia come fanno i capi delle famiglie criminali? ‘Prenderò la Groenlandia e tu potrai prendere la Crimea. Prenderò Panama e tu potrai avere il petrolio nell’Artico. E ci divideremo le terre rare dell’Ucraina. È solo giusto’. In ogni caso, miei concittadini americani e nostri amici all’estero, per i prossimi quattro anni almeno, l’America che conoscevate è finita. I valori fondamentali, gli alleati e le verità su cui l’America avrebbe sempre potuto contare per difendere sono ora tutti in dubbio, o in vendita. Trump non sta solo pensando fuori dagli schemi. Sta pensando fuori dagli schemi, senza alcuna fedeltà alla verità o alle norme che hanno animato l’America in passato. Non posso biasimare i nostri amici tradizionali per essere disorientati. Leggete il triste saggio della scorsa settimana dell’eroico dissidente sovietico e combattente per la libertà Natan Sharansky: ‘Quando ho sentito per la prima volta le parole del presidente Donald Trump sulla pista, quando ha incolpato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di aver iniziato la guerra che la Russia ha lanciato contro l’Ucraina, sono rimasto assolutamente scioccato’, ha scritto Sharansky per The Free Press. ‘Trump sembra aver adottato la retorica del presidente russo, Vladimir Putin. Ha ripetuto una frase del Cremlino che suonava come propaganda in stile sovietico: che Zelensky non è un leader legittimo. Quando lo dice Putin, il leader apparentemente eterno della Russia, è ridicolo. Quando lo dice il presidente degli Stati Uniti, è allarmante, tragico e non è conforme al buon senso’. Questa è un’interpretazione benigna di Trump: che sia semplicemente infatuato di Putin, il nazionalista cristiano russo, il crociato anti- woke, e che non applichi il buonsenso che aveva promesso. Ma poi c’è anche un’altra spiegazione: Trump non vede il potere americano come la cavalleria che viene a salvare i deboli che cercano la libertà da coloro che vogliono schiacciarli; vede l’America come qualcuno che viene a scuotere i deboli. Sta gestendo un racket di protezione. Considerate questo sorprendente paragrafo di un articolo del Wall Street Journal sul recente incontro del Segretario al Tesoro Scott Bessent con Zelensky a Kiev. Bessent ha presentato a Zelensky un’offerta che non poteva rifiutare: cedere all’America i diritti minerari ucraini, per un valore di centinaia di miliardi di dollari, per compensare gli aiuti degli Stati Uniti. Era una scena degna di ‘Il Padrino’: ‘Bessent spinse il documento sul tavolo, chiedendo a Zelensky di firmarlo... Zelensky diede una rapida occhiata e disse che ne avrebbe discusso con il suo team. Bessent spinse quindi il documento più vicino a Zelensky. ‘Devi proprio firmarlo’, disse il segretario del Tesoro. Zelensky disse che gli era stato detto che ‘la gente a Washington’ sarebbe stata molto arrabbiata se non l’avesse fatto. Il leader ucraino disse di aver preso il documento ma di non essersi impegnato a firmarlo’. Tutta questa storia vi mostra ancora una volta cosa succede quando Trump non è più circondato da buffer ma solo da amplificatori. Bessent, un investitore esperto, sapeva sicuramente che il presidente dell’Ucraina non poteva semplicemente firmare un pezzo di carta che consegnava centinaia di miliardi di diritti minerari senza consultare i suoi avvocati, il suo Parlamento o il suo popolo. Ma il segretario del Tesoro sentiva di dover fare gli ordini di Trump, non importa quanto fossero sporchi o assurdi. Se il presidente vuole svuotare Gaza e trasformarla in un casinò, allora è quello che si vende. Estorcere denaro all’Ucraina nel mezzo della guerra? Ecco cosa si fa. Un serio presidente degli Stati Uniti riconoscerebbe che Putin sta giocando una mano molto debole che dovremmo sfruttare. Come ha osservato The Economist la scorsa settimana, la maggior parte dei ‘ guadagni della Russia sono avvenuti nelle prime settimane di guerra. Ad aprile 2022, dopo la ritirata della Russia dal nord dell’Ucraina, controllava il 19,6 percento del territorio ucraino; le sue vittime (morti e feriti) erano forse 20.000. Oggi la Russia occupa il 19,2 percento e le sue vittime sono 800.000, stimano fonti britanniche. ... Più della metà dei 7.300 carri armati che aveva in deposito sono spariti. Di quelli che rimangono, solo 500 possono essere ricondizionati rapidamente. Entro aprile, la Russia potrebbe esaurire i suoi carri armati T- 80. L’anno scorso ha perso il doppio dei sistemi di artiglieria rispetto ai due anni precedenti. La riallocazione delle risorse dai settori produttivi al complesso militare ha alimentato un’inflazione a due cifre. I tassi di interesse sono al 21 percento’. Se questo fosse poker, Putin avrebbe una coppia di due e blufferebbe andando all-in. Trump, invece di chiamare il bluff di Putin, sta dicendo: ‘Penso che passerò’. Invece di radunare tutti i nostri alleati europei, raddoppiare la pressione militare su Putin e fare al leader russo ‘un’offerta che non può rifiutare’, Trump ha fatto esattamente l’opposto. Ci ha divisi dai nostri alleati all’ONU rifiutandosi di unirsi a loro in una risoluzione che condannava l’aggressione russa in Ucraina, votando con gente come la Corea del Nord, e ha iniziato una campagna piena di bugie per delegittimare Zelensky, non Putin. Oltre ad affermare falsamente che l’Ucraina ha iniziato la guerra, Trump ha dichiarato che il tasso di popolarità di Zelensky è del 4 percento (il suo tasso di popolarità è del 57 percento, 13 punti in più di quello di Trump) e che Zelensky è un ‘dittatore’ e dovrebbe sottoporsi a un’elezione. Nel frattempo, ha dato a Putin, che ha condannato il suo più grande rivale per la presidenza, Alexei Navalny, a un totale di 28 anni in un inferno artico, dove è morto misteriosamente, un lasciapassare totale. A quanto pare Zelensky ritiene di non avere altra scelta se non quella di firmare una specie di folle accordo sui minerali, nonostante Trump stia chiedendo tre o quattro volte i circa 120 miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno dato all’Ucraina in aiuti militari. *New York Times