Suicidi e sovraffollamento, nessuna tregua per le carceri di Claudio Bottan vocididentro.it, 19 marzo 2025 L’ultimo in ordine di tempo è un italiano di 58 anni. Si è tolto la vita ad appena 48 ore dal precedente suicidio nello stesso carcere di Verona-Montorio dove si trovava dal giorno prima. “Continua la scia di morte nelle carceri. A livello nazionale, sale così a 19 la tragica conta dei morti di carcere e per carcere nel 2025, cui bisogna aggiungere un operatore” dice Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “16mila reclusi oltre i posti disponibili e più di 18mila agenti mancanti alla Polizia penitenziaria, uniti a deficienze strutturali, logistiche e organizzative, costituiscono un mix esplosivo che lungi dal fare delle prigioni luoghi di recupero e rieducazione le trasformano in strutture di mera espiazione e morte. Basta guardare ai più elementari indicatori numerici, checché ne dicano il Guardasigilli, Carlo Nordio, e il Governo Meloni”, prosegue De Fazio. I numeri sono impietosi: Verona, con 595 reclusi presenti a fronte di soli 318 posti disponibili, è uno dei 13 istituti in cui sono avvenuti i suicidi nei primi mesi del 2025 ma è tristemente noto anche per le 4 persone che si sono tolte la vita l’anno precedente. Come emerge dallo “Studio degli eventi suicidari e decessi negli istituti penitenziari” del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale aggiornato al 17 marzo 2025, in 10 istituti su 13 l’indice di sovraffollamento è superiore alla media nazionale con punte del 186% a Verona, 184% a Regina Coeli e 165% a Vigevano. La correlazione tra suicidi e condizioni di sovraffollamento negata dal Ministro Nordio è pertanto certificata dai numeri del report che, sulla base dei dati forniti dal DAP, analizza inoltre le sezioni in cui sono avvenuti i suicidi: “Va evidenziato che le sezioni interessate sono quelle a custodia chiusa con 13 eventi e 3 in sezione a custodia aperta”. Al di là delle motivazioni individuali del suicidio, bisogna andare alla ricerca di cause sistemiche. Guardando i dati del Garante nazionale appare evidente che celle chiuse e sovraffollamento siano la causa dell’aumento del disagio che troppo spesso porta al gesto estremo. Una questione ribadita con forza dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel tradizionale messaggio di fine anno ha sottolineato come l’alto numero di suicidi in carcere sia “indice di condizioni inammissibili”. “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da inizio del 2025 ha registrato complessivamente 65 decessi: 16 suicidi, 14 decessi per cause da accertare e 35 decessi per cause naturali” si legge ancora nel documento del Garante. Senza dimenticare 378 tentati suicidi e 2.296 atti di autolesionismo che dovrebbero farci riflettere. Sarebbero invece 20 i suicidi dall’inizio dell’anno secondo i dati del dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti e 48 i decessi per cause da accertare. Dietro al solito balletto dei numeri e alla poca trasparenza dell’amministrazione Penitenziaria ci sono vite interrotte, drammi individuali e familiari che colpiscono persone ristrette e affidate allo Stato. Impiccamento, soffocamento. Corda rudimentale, lenzuolo, lacci, bomboletta del gas. Così si muore in carcere. Ma anche a causa di un sistema sanitario allo sfascio e per l’assenza di un adeguato numero di strutture sul territorio in grado di accogliere coloro che in carcere non dovrebbero starci. È necessaria, infatti, una riflessione su quelli che vengono definiti “decessi per cause naturali”. Tra loro troviamo persone con patologie che il carcere ha acutizzato, come nel caso di Patricia Nike, la donna deceduta al Pagliarelli di cui ci siamo occupati recentemente. Dal report del Garante nazionale scopriamo che a dicembre 2025 Patricia avrebbe finito di scontare la condanna: com’è possibile allora che non abbia potuto essere curata fuori dal carcere nonostante le mancassero pochi mesi per tornare libera? Ma non si tratta dell’unico caso. Delle 35 persone decedute per cause naturali, 7 avevano un fine pena entro il 2025 mentre 6 sarebbero uscite entro il 2026 e altre 3 entro il 2027. Perché non hanno potuto accedere a misure alternative? E cosa ci sarebbe di “naturale” nel decesso, avvenuto a gennaio a Rebibbia, di una persona affetta da HIV che avrebbe terminato di scontare la pena a giugno? Il carcere è da rivoltare. “Di fronte alle inerzie annose e dolose di governi e parlamento nell’emanare le necessarie misure deflattive, come amnistie e indulti, forse dovremmo chiedere al Presidente della Repubblica di esercitare in maniera ampia e dispiegata il potere di grazia”, ha affermato Franco Corleone nel suo intervento al convegno per i 50 anni dell’ordinamento penitenziario. E ancora: “Nel governo c’è chi immagina i corpi speciali per fare prove di guerra civile in carcere, noi dobbiamo rispondere con i corpi di pace, nel nome dello stato di diritto. Dobbiamo, insomma, inventarci delle cose scandalose, nel senso etimologico di turbare le coscienze attraverso l’azione”. Un invito ad agire, rivolto soprattutto al mondo dell’associazionismo occupato quotidianamente in decine di incontri, seminari e convegni sul carcere. “Mi pare stravagante dare un’impressione di normalità di fronte alla strage quotidiana di vite e di diritti, alle urgenze e priorità che dovrebbe porci. Abbiamo una situazione terribile, ma fatichiamo a pensare azioni di opposizione e di resistenza all’altezza della sfida” conclude Corleone. E noi di Voci di dentro non possiamo che essere d’accordo. Carceri al collasso: due suicidi in 48 ore a Verona di Simona Musco Il Dubbio, 19 marzo 2025 Un altro detenuto si toglie la vita nel penitenziario di Montorio, dove si soffre la carenza di organico e il sovraffollamento: ci sono 590 detenuti stipati in uno spazio pensato per 318. Non ha resistito nemmeno 24 ore. Un uomo di 58 anni, arrestato lunedì, è stato trovato morto oggi nel carcere di Montorio, a Verona. Un altro suicidio. Il secondo in 48 ore. Il diciannovesimo in Italia dall’inizio dell’anno. Un record macabro, ma che non sorprende, non più. Veronese, era finito in carcere per danneggiamento, stalking e violazione al divieto di avvicinamento, dopo l’ennesima denuncia presentata dalla figlia e dalla ex compagna. Aveva già conosciuto il carcere, tra condanne e misure cautelari. Lunedì ci è tornato. Martedì si è tolto la vita. Solo in cella per poche ore, mentre il suo compagno di stanza era uscito per lavorare nell’istituto di pena, ha colto quell’attimo per dire basta e lasciare per sempre il carcere. Il 22 ottobre 2024 l’uomo era stato scarcerato, con divieto di avvicinamento alle persone offese: l’ex compagna e i due figli. Ma non lo aveva accettato e dallo scorso gennaio aveva ripreso a farsi vedere, decisione che gli è costata la richiesta di una misura cautelare più grave. Così è finito di nuovo in carcere, dove si è tolto la vita. Il procuratore di Verona Raffaele Tito ha sottolineato che “dalle indagini non sono emerse negligenze da parte della Casa circondariale”. Ma per il carcere di Montorio si tratta del secondo suicidio in 48 ore, due morti che fanno salire a 19 il conto del 2025. Che già si candida come anno dei record. Domenica era toccato a un altro uomo: Alex, 69 anni, fine pena 2030. Passava le giornate in biblioteca, cercando di ingannare il tempo, ma il tempo ha ingannato lui. La speranza non ha retto: un laccio improvvisato, la fine. Viveva in una cella con altri due detenuti, la famiglia negli Stati Uniti, raggiungibile solo attraverso le videochiamate concesse con sua moglie e sua figlia. E un nipote che ogni tanto passava a fargli visita, cercando di offrirgli un barlume di affetto. Ogni giorno passava ore in biblioteca, cercando di sfuggire, almeno per un momento, alla morsa del carcere. Ma ciò non lo ha aiutato ad accettare il fatto che la sua vita fosse destinata a trascorrere tra le mura di una prigione ancora per molti anni, in un luogo senza alcuna speranza. Un buio sempre più profondo che ha cancellato ogni cosa. Montorio è un carcere al collasso. 590 detenuti stipati in uno spazio pensato per 318. Celle sovraffollate, agenti sotto organico: ne servirebbero 420, ce ne sono 318. E questo è solo un frammento della crisi nazionale, dove i detenuti in eccesso sono 16.000. Una bomba a orologeria che esplode sempre allo stesso modo: con un cappio improvvisato e un detenuto in meno. “Due suicidi in due giorni imporrebbero serie riflessioni e valutazioni - sottolinea Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria -. Servono urgentissime misure deflattive della densità detentiva e immediati rinforzi agli organici della Polizia penitenziaria, ma va anche garantita l’assistenza sanitaria e psichiatrica e vanno messe in campo riforme di sistema. Altrimenti, sarà ancora morte e sofferenza”. La situazione carceraria, però, non sembra tra le priorità della politica. Non, per lo meno, con soluzioni in grado di allentare la morsa attorno ai detenuti, a partire dal cronico sovraffollamento. Se da una parte Pd, AVS, +Europa, Azione e Italia viva insistono sull’urgenza di misure deflattive - come la liberazione anticipata speciale proposta dal deputato radicale Roberto Giachetti, ferma in Commissione Giustizia dal 2020 - dall’altra parte il Movimento 5 Stelle puntano sull’ampliamento della capienza carceraria, con nuove strutture e la riqualificazione di quelle esistenti, una ricetta che sembra gradita alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al suo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma anche dal governatore del Veneto Luca Zaia, che prendendo spunto dai due nuovi suicidi invoca nuovi spazi di detenzione: “Per troppi anni, su questo tema, c’è stato un immobilismo assoluto da parte di chi aveva responsabilità decisionali a livello nazionale. Finalmente, con questo governo, si sta imprimendo una svolta importante”, ha dichiarato. “La priorità assoluta - ha aggiunto - è l’immissione di nuovo personale negli istituti penitenziari. Senza un rafforzamento dell’organico non si può garantire sicurezza né ai detenuti, né agli operatori. È fondamentale accelerare su questo fronte e per questo voglio ringraziare il ministro Nordio e il sottosegretario Ostellari per la costante attenzione agli istituti del Veneto. Se servono nuovi posti, allora che si costruiscano nuove strutture, anche in Veneto. La certezza della pena deve andare di pari passo con istituti adeguati, che permettano una detenzione più efficace e condizioni dignitose per tutti”. Voci dal carcere delle donne. “Qui anche la libertà fa paura” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 19 marzo 2025 Un giorno nella sezione femminile dell’istituto la Dozza di Bologna, tra i sogni spezzati delle detenute e il grido d’allarme delle agenti penitenziarie. L’ultima traccia della società è confinata nel rettangolo della sala colloqui, un acquario di sedie e tavolini bianchi spogliati di ogni conforto. Dal vetro della sala perquisizioni si contano tre uomini, arrivati come alieni in un pianeta che può ospitarli per il tempo di un abbraccio. Per il resto la sezione femminile del carcere di Bologna, la Dozza, è una comunità di sole donne. Il mondo chiuso delle ragazze, il cui recinto di sbarre permette ancora di intuire il cielo azzurro e il destino del vicinato, quando nel pomeriggio le voci del campetto da calcio attraversano le mura alte e spesse che le separano dall’istituto maschile. A loro, le ragazze, basta sapere che quel campetto è più grande del loro, un fazzoletto d’erba con una rete da pallavolo che non usa nessuno. Non sotto i nostri occhi, e le linee di terra consumate all’infinito suggeriscono che non sia un caso: le detenute che girano in tondo preferiscono sgranchirsi le gambe finché possono, prima di tornare in cella per il “carrello” del pranzo. Non che sia un’attesa gradita. Il cibo in carcere è una schifezza che fa male al corpo e all’anima. Ma la vera fame è di ascolto, disperato bisogno di ricordarci che ci sono anche loro. “Oggi ho cucinato pasta allo scoglio”, grida una ristretta che fa capolino dalla finestra. Ma temiamo che sia tutto un sogno. Noi le possiamo rubare solo qualche parola. Da visitatore devi rispettare rigide regole, anche se la comunità del carcere ti prende con sé. Si comincia dai piani alti, le stanze del direttore. I nostri Caronte sono gli educatori del ministero, due dei dieci previsti dalla pianta organica. Adesso ne manca soltanto uno, ma ce ne vorrebbero tanti di più. Ognuno di loro ha in carico almeno un centinaio di persone, donne e uomini dell’istituto penitenziario più grande della Regione. Il giovedì hanno da fare: è il giorno dell’equipe. Alle prese con il linguaggio esclusivo di chi abita il carcere, ne sentiamo parlare in ogni angolo del penitenziario prima di capire di cosa si tratti. Lo prevede l’articolo 13 dell’Ordinamento penitenziario: “Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento”. Come parte dell’equipe, gli educatori stilano una relazione di sintesi. Ma l’ultima parola spetta al direttore dell’istituto, Rosalba Casella. A cui non manca il coraggio di incentivare le misure alternative, dice chi ci accompagna. “Bologna ha 65 detenuti in sezione semilibertà, se non credessi nelle misure alternative e nell’utilità dei percorsi esterni che sono parte del percorso trattamentale del detenuto non avrei lavorato in questa direzione. Nessuna detenzione produce effetti gettando via la chiave: il percorso di reinserimento deve necessariamente prevedere che la persona rientri in società e che torni cambiato, con alcune opportunità che non ha avuto quando è entrato, altrimenti il dettato costituzionale resta inattuato”, spiega Casella. La risposta al sovraffollamento che affligge tutte le carceri italiane non può essere la costruzione di nuove carceri. Anche Bologna ne soffre, come tutti gli altri istituti: quasi 800 detenuti su 507 posti regolamentari. Le donne sono 92, di cui 9 in semilibertà. Per loro c’è sempre meno da fare negli istituti pensati per soli maschi, ammette la direttrice. Gli spazi sono ricavati come e dove si può, a cominciare dalla piccola palestra che accoglie i corsi di kickboxing. Per fortuna, dicono, il nido è vuoto. Anche se ci sono tante madri lontane dai figli. Le “stanze dell’amore” costruite nello spazio esterno sono pronte, e saranno attivate quando si potrà finalmente applicare la sentenza della Consulta sul diritto all’affettività. Le ragazze sono divise tra il braccio A e B, detenute definitive e in attesa di giudizio. Due per cella, in un reparto pieno fino all’ultimo letto. Tanto da impedire alle agenti penitenziarie di recuperare un spazio di serenità quando la convivenza tra “concelline” va in frantumi. “Il sovraffollamento porta dei gran problemi. Se due detenute litigano non possiamo separarle, e allora cosa si fa? Chiediamo alle detenute di altre stanze. E così si scombussolano tutte. Il fatto è questo: finché riusciamo a gestirle possiamo aiutarle, altrimenti subiamo, subiamo, subiamo”, ripete la sovrintendente a guida delle agenti in reparto. Una di loro è appena rientrata da un periodo di malattia: nel gergo si dice che “ha preso una blindata” sul braccio. In una mano stringe le chiavi grosse e dorate che aprono celle e cancelli, nell’altra un mucchio di cartine sottratte alle detenute, che con le scope si scambiano il necessario per fumare sotto le porte. “Non hanno pazienza di aspettare”, dice sorridendo un’agente. Deve essere rigida anche quando non vorrebbe, o non riuscirà a mantenere il controllo che la situazione richiede. Il tempo di un caffè con la moka solleva anche loro dalle faccende del carcere. Ma per il resto del tempo devono fare più di ciò che gli compete, dicono: devono agire per la sicurezza, mentre fanno anche da educatori e psicologi. Impietrite di fronte all’ennesimo tentativo di suicidio, quando strappano loro in tempo la corda dal collo. Non sempre ci riescono, come non ci sono riuscite per la donna che si è tolta la vita nell’ultimo anno. La popolazione detenuta è cambiata, ripetono le agenti, e la maggior parte delle recluse dovrebbe stare fuori dal carcere, nelle comunità. Oltre alle persone ristrette nell’inaccessibile zona dell’articolazione mentale, tutte le altre soffrono dentro le loro celle, dentro le loro storie di tossicodipendenza che sembrano ripetersi sempre uguali. Fuori e dentro, un piccolo reato dietro l’altro fino ad accumulare la pena. “E intanto i pesci grandi stanno a spasso”, grida una detenuta che prende il sole al “passeggio”. Una “zona grigia” illuminata dal sole nella sua immensa vuotezza, il set di un truman show che non sta per finire. Le ragazze ci stanno per due ore al mattino e due ore al pomeriggio. Alle 18 chiude tutto, anche la mobilità dentro il braccio, un altro giorno è finito. “Io non li conto, ma ringrazio quando arriva sera, per ogni giorno che passa”, dice Sandra. Una delle due detenute autorizzate a parlare con noi insieme a Sonia. Davanti alle telecamere che abbiamo piantato nella sala cinema del carcere raccontano lo stesso sogno di libertà: un piatto di patatine fritte, un hamburger e una birra gelata. Analcolica, purché sappia di come sanno le cose nel mondo di fuori. Una di loro partecipa al teatro ed è già impiegata come sarta, grazie alla cooperativa di Gomito a gomito attivo nel carcere. Fa questo lavoro da anni, ma ha cominciato come “spesina” e poi come “scopina”. Questo offre l’istituto per donne, che è già più di quanto offrano altre sezioni femminili in Italia. Anche se è poco, per chi sogna di costruirsi una vita per quando sarà fuori. “Mi piacerebbe tanto fare l’aiuto cuoco, così potrò guadagnare e permettermi una casa quando sarò uscita”, sussurra una ragazza attraverso le sbarre che ci separano. Ma il lavoro e l’istruzione, anche qui dentro, sembra affare da maschi. “Non è una questione di femminismo, ma per noi il carcere è diverso perché siamo diverse dagli uomini”, dice Sandra. È colombiana ma parla benissimo l’italiano, legge tanto, e cerca di mascherare la sua cultura per farsi accettare dalle altre compagne che non hanno bisogno di “maestrine”. L’ultimo libro? “Le disobbedienti: Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte” di Elisabetta Rasy. Deve essere uno di quelli donati alla biblioteca del carcere, che li mette gratuitamente a disposizione delle detenute quando i volumi donati non sono troppo vecchi e malconci. Tutto il resto bisogna acquistarlo con il sopravvitto, compresa l’acqua profumata che dovrebbe assomigliare a un vero profumo. Gli assorbenti, quelli sì, li fornisce l’istituto. Per ogni attività bisogna compilare la cosiddetta “domandina” e aspettare, aspettare, aspettare. Ogni oggetto è un vezzo che bisogna potersi permettere. A cominciare dal fornellino per cucinare in cella. Magari una tortina per i familiari che si fanno ore di viaggio per un’ora di colloquio, finché nella sala colloqui erano ammessi gli alimenti che ora sono banditi. Sembra questione di niente, dice Sandra, e invece per lei è tutto. I figli che l’aspettano, insieme alla fede, l’hanno salvata dal gesto più estremo. Poi anche qui dentro ci si abitua, la prigionia col tempo fa meno paura, e al contrario è della libertà che non si sa più cosa farsene. Qualcuna ha il terrore di uscire, qualcuna spera ancora in una seconda chance. “Ma se muore il Papa ci danno l’amnistia? Comunque noi non vogliamo che muoia”. “Carceri, non riducete il dibattito in Aula a uno scontro propagandistico” di Gianni Alemanno e Fabio Falbo* L’Unità, 19 marzo 2025 L’ex sindaco di Roma ci scrive dal carcere con Fabio Falbo per lanciare un appello alle forze politiche. “Egregio Direttore, siamo due detenuti del Carcere di Rebibbia, opposti nei loro percorsi di vita e diversi per estrazione politica. Lei ci conosce bene: da un lato una persona da sempre impegnata in politica che si è trovata improvvisamente catapultata nel carcere e dall’altro lato “lo scrivano di Rebibbia”, laureato nel corso della sua ventennale detenzione e autore sul suo giornale di alcuni articoli sulla condizione carceraria. L’occasione per la quale le scriviamo è la seduta straordinaria della Camera dei Deputati sulla situazione delle carceri che si terrà giovedì prossimo, per discutere le mozioni presentate dalle opposizioni parlamentari a firma degli onorevoli Giachetti e D’Orso. Nessuna delle due mozioni parla di indulto e amnistia, provvedimenti di clemenza su cui pure è tornata recentemente la Conferenza Episcopale Italiana, dopo i ripetuti appelli di Papa Francesco nel corso dell’Anno giubilare. E, infatti, anche senza giungere a provvedimenti così risolutivi, molto si potrebbe fare per tentare di riportare la condizione delle nostre carceri all’interno del perimetro dei diritti tutelati nella nostra Carta costituzionale. C’è la proposta di legge dell’on. Giachetti, citata nella mozione a sua firma, per una “liberazione anticipata speciale” che aumenti gli sconti di pena legati alla buona condotta. Basterebbe approvare questa legge per avere una riduzione del sovraffollamento, ampia ma non automatica e indifferenziata come quella provocata dall’indulto. C’è la situazione dei giudici di sorveglianza, ridotti a soli 236 in tutta Italia, e degli educatori, così pochi da essere costretti ciascuno di loro a seguire fino a 150 detenuti. In queste condizioni riuscire ad attuare percorsi di riabilitazione è del tutto illusorio, mentre anche la Polizia penitenziaria è così sotto organico da mettere in gravi difficoltà tutte le amministrazioni penitenziarie italiane. Cosi ci sono leggi, sentenze di Cassazione e richiami della Corte di Giustizia Europea - tutti finalizzati a tutelare i diritti dei carcerati - che non possono essere applicati. Queste sono cose che Lei conosce bene. Quella che noi vorremmo ulteriormente aggiungere è un appello a tutte le forze politiche per non ridurre la seduta straordinaria di giovedì in uno scontro puramente propagandistico. Le opposizioni di sinistra non devono limitarsi all’attacco delle politiche di governo, perché queste politiche per le carceri sono fallimentari allo stesso identico modo di quelle attuate da precedenti governi in cui partecipavano i partiti oggi all’opposizione. Il centrodestra, dal canto suo, non deve continuare ad abusare del logoro argomento securitario per rifiutare qualsiasi provvedimento per la riduzione della sofferenza dei carcerati. Non bisogna confondere la necessità di tutelare la sicurezza del cittadino con l’inasprimento della condizione carceraria, perché sono due situazioni completamente diverse. Chi sta nel carcere è già stato colpito e messo in condizione di non nuocere, mentre coloro che minacciano la sicurezza pubblica sono delinquenti in libertà non raggiunti dall’azione penale, spesso perché tutelati dai poteri forti o dalle lobby del permissivismo. II problema semmai dovrebbe essere quello di evitare la recidiva, ma un carcere sovraffollato e inumano è esattamente lo strumento migliore per impedire la riabilitazione del detenuto e spingerlo a delinquere ancora. Se la politica tende a tutelare l’ordine pubblico approvando norme sempre più severe, senza creare dei contrappesi nella gestione delle carceri, il risultato è il collasso del sistema penitenziario che noi stiamo vivendo in prima persona. Per questo chiediamo il Suo aiuto e quello di tutti gli organi di stampa, oltre a quello che già stanno facendo associazioni come “Nessuno tocchi Caino”, affinché tutti i parlamentari e gli uomini di Governo che si confronteranno giovedì prossimo nell’Aula di Montecitorio abbiano la mente concentrata non sulla polemica politica ma sui volti degli oltre 61.000 detenuti che oggi languono nelle carceri italiane. Non vogliamo essere ripetitivi su tutte le problematiche esistenti nel mondo carcerario, complicatissimo e misterioso, ma vogliamo far comprendere che non vi è nessun diritto se si assiste a quella “dissolvenza dei volti” di chi patisce l’espiazione di una pena fuori da ogni canone del diritto. Grazie per l’attenzione. *Roma Rebibbia 17.03.2025 Nordio “incontra” Parodi: “La riforma non si tocca” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 marzo 2025 Il guardasigilli e il presidente dell’Anm insieme al dibattito sulla separazione delle carriere organizzato da Noi Moderati. E Meloni in aula blinda l’intervento. “La riforma della giustizia, dal mio punto di vista, è improcrastinabile”: concetto quasi scontato quello ribadito ieri dalla premier Giorgia Meloni al Senato e confermato anche dal ministro Carlo Nordio al convegno organizzato da Noi Moderati dal titolo “(In) Separabili - Pm e giudici alla prova dell’equa distanza”: “La riforma è sicuramente intoccabile. Adesso aspetteremo il referendum e auspico che vi si arrivi con la stessa serenità con cui stiamo discutendo oggi (ieri, ndr), utilizzando argomentazioni tecniche, senza pregiudizi e senza slogan. Chiunque perda non dovrà essere umiliato”. Che la riforma della separazione delle carriere non fosse minimamente emendabile lo si era capito al termine dell’incontro del 5 marzo tra governo e Anm. Ma ieri il dibattito organizzato alla Camera dal neo responsabile giustizia di Noi Moderati, l’avvocato Gaetano Scalise, è stata la prima occasione di incontro pubblico tra il guardasigilli e il presidente dell’Anm Cesare Parodi dove entrambi hanno ribadito le ragioni a favore e contro la riforma. Il guardasigilli ha ripetuto ancora una volta che dietro di essa “non c’è alcun intento punitivo. Certo è vero come ha detto l’amico Parodi che non influisce sull’efficienza della giustizia, ma noi abbiamo sempre detto che il suo scopo è quello di far percepire il giudice come imparziale. Il pm dà i voti ai giudici per le loro promozioni nei consigli giudiziari. Lo fa con imparzialità e spogliandosi dei pregiudizi ma la percezione che ha il cittadino è diversa”. Il responsabile di Via Arenula ha poi assicurato che “non c’è alcun progetto in studio sulla responsabilità civile dei magistrati”. Però si è chiesto: “È possibile che il 99,99% dei giudizi dati dai magistrati su altri magistrati siano tutti eccellentissimi e poi si scopre invece altro? Il Csm non funziona come dovrebbe funzionare, altrimenti non avremmo queste discrasie. Perché sappiamo tutti che ci sono le correnti e ci sono stanze di compensazione per cui tutti si proteggono tra di loro”. Se è vero che la distanza sulla riforma è siderale, Nordio ha però annunciato che giovedì incontrerà Anm per parlare dell’efficienza della giustizia, “raccogliendo - ha detto il guardasigilli - tutti i suggerimenti e contributi che i magistrati vorranno darci in base alla loro esperienza e in base alla mia. Le priorità sono innanzitutto la giustizia civile, l’implementazione del Pnrr e la giustizia telematica. Ma anche sulle riforme ordinamentali, come le misure cautelari, vogliamo conoscere come pensare di stabilire punti di incontro”. Proprio su questo tema si è espresso Parodi: “La senatrice Bongiorno prima ammette che la riforma non accelera i processi ma poi”, chiamata in causa per queste sue parole, “precisa che migliorerà la qualità del prodotto. Io vi chiedo come questo possa avvenire. Vuol dire che fino ad oggi il giudice non è stato terzo?”. I fautori della riforma, ha proseguito il leader delle toghe, “richiamano la necessità dell’equidistanza: oggi abbiamo una percentuale del 40 per cento di assoluzione. Questo significa che il giudice non va dietro al pm in maniera cieca. Cosa volete, il 70 per cento? Allora avremmo tutti pm incapaci. Va benissimo la parità delle armi tra accusa e difesa e la presunzione di innocenza, ma il problema è un altro e cioè quando l’avvocato Scalise sostiene che vuole un pm che non ricerchi le prove a favore dell’indagato. Io ho una idea diversa della cultura della giurisdizione: pur considerando alcuni indagati colpevoli ho chiesto l’archiviazione perché non c’erano abbastanza prove”. Parodi ha poi assicurato: “Ho letto dichiarazioni di politici che temono che l’Anm diventi un partito dei giudici: non avverrà almeno fin quando io sarò presidente. Non vogliamo diventare un partito politico”. Tra i relatori il presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli: “I nostri padri costituenti, spesso evocati a proposito di questa riforma, non è che non si posero il problema della collocazione del pm all’interno dell’ordinamento giudiziario e anche della possibilità di tenere distinte le carriere. Ma in virtù del legame che intercorreva tra modello processuale e ordinamento della magistratura risolsero la questione nel modo più naturale rispetto al modello di processo dell’Italia di allora, ossia quello inquisitorio nato nel 1930 con il codice Rocco. Pm e giudici erano vincolati da quella che il guardasigilli di Mussolini, Dino Grandi, nel 1941 chiamava “l’unicità spirituale della magistratura”. La storia successiva ha aperto una cesura, ha voltato pagina, e ha stabilito che la ricerca della verità nasce dal contraddittorio di due parti. Nel 1988 questo Paese, abbandonando il modello autoritario, ha aperto le finestre al codice accusatorio in cui pm e difesa si confrontano dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale”. Ha preso la parola anche il costituzionalista Giovanni Guzzetta: “La sentenza della Consulta 58/ 2022 aveva stabilito che la Costituzione, “pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati”. Quindi dal punto di vista costituzionale non ci sono vincoli. La questione è politica”. Tuttavia, ha proseguito il giurista, “da costituzionalista ci tengo ad un uso rispettoso della Costituzione. Esiste una pancostituzionalizzazione selettiva, per cui l’unicità delle carriere sarebbe stata incisa sul marmo dai padri costituenti. In realtà come disse un monumento del diritto come Giuseppe Bettiol nel 1947, “è proprio dei regimi totalitari voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia”. Guzzetta ha poi concluso: “I contrari alla riforma sostengono che il pm non sarà più contagiato dalla cultura della giurisdizione. Ma i contagi funzionano in entrambe le direzioni: bisogna vedere chi contagia chi. Così come è sostenibile la tesi per cui il pm sia positivamente contagiato dalla cultura della giudice, logicamente è altrettanto sostenibile che il giudice sia negativamente contagiato dalla cultura inquisitoria del pm”. Ad aprire il dibattito era stato il segretario della Camera, Alessandro Colucci, deputato di Noi Moderati: “Questa riforma non è una vendetta contro la magistratura. Chi sostiene questo non vuole entrare nel merito della norma”. Aveva introdotto Gaetano Scalise: “Vogliamo una riforma che dia all’uomo della strada la sensazione di essere giudicato da chi è equidistante dall’accusa e dalla difesa. Con essa aumenterà l’autonomia e l’autorevolezza nei confronti del cittadino; il risultato che dobbiamo ottenere, al di là delle reciproche posizioni ideologiche, sono proprio i vantaggi per i cittadini, il loro sentirsi più garantiti dal sistema giustizia”. Nordio incontra i parlamentari di FdI dopo il caso Delmastro e tenta di blindare la riforma di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 marzo 2025 Il ministro della Giustizia terrà oggi pomeriggio un incontro con i suoi colleghi di partito sulla riforma della separazione delle carriere, dopo il caso Delmastro, che al nostro giornale ha bocciato il testo. La linea del Guardasigilli: basta uscite a vuoto. Il ministro Nordio prova a blindare la riforma costituzionale della magistratura. Secondo quanto appreso dal Foglio, oggi pomeriggio il Guardasigilli terrà un incontro con i parlamentari di Fratelli d’Italia incentrato proprio sulla riforma della separazione delle carriere. “Il ministro parlerà della riforma”, riferiscono fonti di FdI. Indicazione singolare, se si tiene conto che il provvedimento è già stato esaminato e approvato alla Camera (con i voti anche di FdI), e ora è in corso di esame al Senato. È molto probabile, dunque, che l’intento del ministro sia lanciare ai colleghi di partito un messaggio molto chiaro, e cioè che la maggioranza non può più permettersi uscite “a vuoto” sulla riforma, come quella compiuta dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove, che a questo giornale si è lasciato andare a una sostanziale bocciatura della riforma concepita dal suo ministro. Non è noto se Delmastro, deputato, parteciperà all’incontro, anche se sarebbe sorprendente il contrario. In un convegno promosso alla Camera da Noi moderati, ieri il ministro Nordio ha chiarito definitivamente la posizione del governo sulla riforma, direttamente di fronte al presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi: “La riforma sulla separazione delle carriere è assolutamente intoccabile, perché è già stata approvata da un ramo del Parlamento. I cittadini si esprimeranno con il referendum. Auspico che si arrivi al referendum con serenità e che il dibattito venga mantenuto su argomentazioni, tecniche, civili e razionali, senza pregiudizi e senza slogan. Chiunque vinca e chiunque perda, non è bene che venga umiliato”. Affermazioni che hanno subito generato la reazione indignata del Pd, che con il senatore Alfredo Bazoli ha definito “insopportabile l’arroganza e la mancanza di senso delle istituzioni del ministro Nordio, che definisce ‘assolutamente intoccabile’ la riforma costituzionale della magistratura”: “Non si è mai visto un governo che impone alla sua maggioranza parlamentare di approvare una riforma costituzionale senza modifiche. La Costituzione non si cambia a colpi di maggioranza, e non si cambia impedendo al Parlamento di fare il suo lavoro”. Nel corso del convegno di ieri, Nordio ha ribadito che “la riforma non è punitiva nei confronti dei magistrati, ma è il precipitato logico della riforma del codice di procedura penale in senso accusatorio del 1988”. Argomentazione ripresa da Francesco Petrelli, presidente dell’Unione camere penali italiane, che ha ricordato come lo stesso Giuliano Vassalli, padre del nuovo codice, definì all’epoca la riforma come incompleta “perché non si era riusciti a procedere con la separazione delle carriere dei magistrati”. Allo stesso tempo anche Giovanni Falcone, ha ricordato Petrelli, “si espresse sull’inevitabilità della separazione delle carriere”. Il presidente dell’Anm Parodi ha lasciato intendere di nuovo quale sarà l’argomento principale della campagna contro la riforma (insieme allo spettro del “pm che finirà sottoposto all’esecutivo”): “La riforma costituzionale non incide sull’efficienza del sistema giudiziario”. Un’argomentazione che, a differenza di quella sui rischi del pm (che assomiglia più a un processo alle intenzioni), coglie una questione reale e più che mai attuale. Non a caso il ministro Nordio ha dovuto ammettere: “Questa riforma non influisce sull’efficienza della giustizia, ma nessuno lo ha mai detto”. Su questo tema “vi chiediamo suggerimenti”, ha aggiunto Nordio rivolgendosi a Parodi, definito più volte “amico”, annunciando che giovedì 27 marzo terrà un incontro proprio con la giunta dell’Anm “dove parleremo di efficienza del sistema giustizia”. Insomma, il ministro della Giustizia è consapevole del fatto che, più sull’enunciazione di princìpi legati alla garanzia di un giusto processo, l’esito della campagna sulla separazione delle carriere si giocherà sul terreno dell’efficienza della giustizia, ben presente nell’esperienza quotidiana di cittadini e imprese. Peccato che gli ultimi dati resi noti dallo stesso ministero della Giustizia sull’andamento della giustizia, soprattutto civile, in relazione agli obiettivi del Pnrr non sono affatto confortanti. Separazione carriere, ora Nordio ammette: “La riforma non serve all’efficienza della giustizia” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2025 “Non abbiamo mai detto che la separazione delle carriere rende i processi più veloci”, dice il Guardasigilli. Ma molti esponenti del centrodestra hanno suggerito proprio questo. La riforma della separazione delle carriere è “sicuramente intoccabile, perché già approvata da un ramo del Parlamento”. Ma è un provvedimento che “non influisce sull’efficienza della giustizia” e d’altra parte “nessuno lo ha mai preteso”. Con invidiabile nonchalance, Carlo Nordio ammette che il ddl costituzionale in discussione al Senato - da lui stesso definito “epocale” - non servirà in nessun modo a migliorare le condizioni concrete della giustizia italiana: “Non abbiamo mai detto che la separazione delle carriere rende i processi più veloci. È una riforma coerente perché il giudice è terzo e imparziale e tale deve essere percepito dal cittadino”, dice il ministro della Giustizia al convegno “(In)Separabili” organizzato da Noi moderati alla Camera, a cui è intervenuto insieme al presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi e al presidente dell’Unione delle Camere penali Francesco Petrelli. La posizione del Guardasigilli, in realtà, non è nuova. Nel 2010, quando era ancora lontano dall’entrata in politica, nel libro “In attesa di giustizia” Nordio definiva la separazione delle carriere “un problema secondario che non merita di invelenire ulteriormente i rapporti tra Parlamento, avvocati e magistrati”: questo perché, scriveva, “l’urgenza più immediata è ridare alla giustizia un minimo di efficienza prima ancora di realizzare la parità delle parti processuali. Orbene, la separazione delle carriere non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con il funzionamento celere e incisivo della macchina giudiziaria”, riconosceva. A differenza di quanto sostiene il ministro, però, molti esponenti della sua maggioranza - anche di primo piano - hanno suggerito, non è dato sapere se in buona o in malafede, che la riforma serva proprio a rendere la macchina giudiziaria più efficiente. Tra le moltissime dichiarazioni citiamo solo le più recenti: “Avanti a testa alta con la separazione delle carriere. Gli italiani meritano una giustizia più veloce, più equa ed efficace e più giusta” (Giandonato La Salandra, FdI, 14 marzo 2025). “Non è una riforma contro la magistratura che, anzi, vogliamo rendere più efficiente e autorevole” (Maurizio Lupi, Noi Moderati, 25 gennaio 2025). “Garantirà una giustizia più efficiente in un Paese più moderno e competitivo” (Maria Elisabetta Casellati, Forza Italia, 16 gennaio 2025). “L’abbiamo scritta per avere un sistema giudiziario più giusto ed efficiente. I cittadini hanno diritto ad avere una giustizia che dia risposta in tempi certi” (Antonio Tajani, Forza Italia, 3 dicembre 2024). Persino l’organizzatore del convegno di Noi moderati, il deputato Alessandro Colucci, introducendo i lavori ha messo in relazione la separazione delle carriere e l’efficienza: “Una giustizia lenta e farraginosa allontana investimenti e penalizza cittadini e imprese. Dobbiamo rendere il sistema più snello e meno burocratico, affinché ogni cittadino possa ottenere risposte rapide e certe. Il confronto e il dibattito pubblico sono essenziali affinché questa riforma sia compresa fino in fondo e possa davvero migliorare la qualità della vita delle persone e il funzionamento del nostro Paese”. Il ministro però, in uno slancio di onestà intellettuale, tiene separati i due fronti: “Argomenti sull’efficienza della giustizia ne abbiamo a iosa e su questi siamo disponibili a parlarne. Anzi vi chiediamo suggerimenti”, dice a Parodi, chiamandolo più volte “amico”. E annuncia che giovedì 26 marzo incontrerà la giunta dell’Anm per un tavolo di confronto su questi temi, già sollevati dall’organismo di rappresentanza delle toghe con un documento di otto punti, consegnato alla premier Giorgia Meloni durante il faccia a faccia del 5 marzo a palazzo Chigi. “Parleremo di efficienza della giustizia, raccogliendo tutti i suggerimenti e contributi che i magistrati vorranno darci in base alla loro esperienza e in base alla mia. Le priorità sono innanzitutto la giustizia civile, l’implementazione del Pnrr e la giustizia telematica. Ma anche sulle riforme ordinamentali, come le misure cautelari, vogliamo conoscere come la pensano. Penso che troveremo punti di incontro”, dice a margine del convegno. Disegni, autopsie, proiettili: su cosa si basa il nuovo processo alle Brigate rosse di Andrea Galli Corriere della Sera, 19 marzo 2025 I due omicidi del 1974 nello scontro a fuoco tra il commando dei terroristi e i carabinieri. Le ammissioni in Aula dell’81enne Azzolini, le scoperte del Ris sui documenti storici e tutti gli elementi che ancora non tornano: il “romanzo criminale” della cascina Spiotta. Scrive Guido Salvini rendendo una preziosa testimonianza nel libro appena uscito “Hazet 36” dell’esperto Pino Casamassima ed edito da Solferino: “Le Brigate Rosse sono scomparse come organizzazione armata ma esistono ancora come, viene da dire, associazione di pensionati che mantengono stretti rapporti tra loro e hanno le stesse idee di un tempo”. Salvini, già giudice istruttore e gip, coordinatore di plurime inchieste nell’eversione di destra come di sinistra, è avvocato di parte civile nel processo in Corte d’Assise di Alessandria sul cold case della cascina Spiotta: la sparatoria del 5 giugno 1975 tra un commando delle Br e i carabinieri causò l’uccisione della brigatista Mara Cagol e dell’appuntato Giovanni D’Alfonso. Con quel virgolettato il giudice Salvini intende riferirsi agli elementi dell’inchiesta condotta dai carabinieri del Ros di Torino con l’obiettivo d’accertare l’assassino di D’Alfonso, che era padre di tre figli: “Come emerge dalle intercettazioni man mano che la Procura di Torino convoca gli indagati e i testimoni, i vecchi militanti si incontrano a gruppetti e concordano la linea da seguire. Ogni riunione è volta a prevenire qualsiasi cedimento o passo falso di qualcuno dei convocati e a mettere a punto le versioni false da fornire (…)”. Di passi falsi ne ha compiuti Lauro Azzolini, 81 anni, fra i dirigenti delle Brigate Rosse, originario degli Appennini di Reggio Emilia, ex ergastolano poi in semilibertà in una cooperativa, legata all’associazione imprenditorial-cattolica Compagnia delle opere, che aiuta i disabili. Martedì 11 marzo 2025, a sorpresa, nella seconda udienza del processo, Azzolini ha parlato e reso ammissioni spontanee collocandosi su quella scena del crimine insieme a Cagol. Loro due e nessun altro, quando al contrario più d’un inquirente ipotizza che i brigatisti presenti alla cascina Spiotta, in località Arzello, frazione del paese di Melazzo, nelle ampie campagne alessandrine, fossero di più, forse almeno dieci. Del resto come già resocontato dal Corriere nel corso di queste settimane i carabinieri hanno raccolto le testimonianze di abitanti e lavoratori connessi in quel periodo del 1975 con la cascina Spiotta. Qualcuno ha riconosciuto il medesimo Azzolini, difeso dall’avvocato Davide Steccanella, protagonista di un’accesa invettiva a inizio processo e che non muta idea sullo scenario complessivo: “Delle 6 persone presenti alla Spiotta, l’unica che a distanza di mezzo secolo è ancora fra noi, e che può riferire qualcosa, è l’ottantenne Azzolini. Eppure l’accusa ha citato più di cento testimoni. L’ennesimo paradosso di questo processo”. Dopodiché altri testimoni, sempre negli immediati dintorni della cascina, hanno riconosciuto Renato Curcio (83 anni, da Monterotondo, in provincia di Roma, terra di pagine storiche della Resistenza), uno dei fondatori delle Br e all’epoca marito di Cagol; altri ancora Pietro Bassi detto “il biondo”, lodigiano di Casalpusterlengo, scomparso a 71 anni per un malore nella sua abitazione della periferia milanese del Giambellino e comunque nel 1975 già in carcere in quanto arrestato l’anno prima, sicché semmai potrebbe esser stato uno dei tanti che hanno gravitato sulla cascina. Ecco, la cascina: una struttura non improvvisata bensì da tempo inserita nel circuito dei luoghi sicuri - o presunti tali - dei terroristi. Vi erano custoditi armi, munizioni, mappe, elenchi, documenti vari, radio per intercettare le comunicazioni delle pattuglie di poliziotti e carabinieri; e fu alla Spiotta, che dal punto di vista geografica garantiva una posizione isolata e (nei piani) di feconda visuale sulla valle consentendo di individuare estranei in avvicinamento, che il commando delle Br trasferì e nascose l’imprenditore del vino Vittorio Vallarino Gancia rapito il giorno prima, il 4 giugno 1975. Avevamo prima parlato dei passi falsi di Azzolini: per decenni restò misterioso il terrorista, che c’era sulla scena del crimine e vergò sia un testo di sintesi dei fatti accaduti sia dei disegni che ugualmente contribuivano a capire cose potesse esser successo. Disegni che sembrano quelli dei bambini e che hanno la firma di Azzolini: a smascherarlo, il faticoso ma fruttuoso lavoro dei carabinieri del Ris che hanno isolato un totale di 11 impronte. Appunto riconducibili ad Azzolini. Che comunque s’era già tradito, di recente, nell’ambito delle indagini del Ros di Torino, come ci ricorda di nuovo Salvini: “Quando, durante un incontro, un interlocutore più giovane, non militante delle Brigate Rosse, preso da curiosità gli chiede se fosse presente alla cascina Spiotta, Azzolini abbassa per qualche momento la guardia. Gli racconta che certo, lui c’era, che aveva sparato, mimando anche con la voce il susseguirsi dei colpi, ed era riuscito a sganciarsi e a fuggire lasciando Mara, secondo lui colpita dai carabinieri quando ormai si era arresa”. L’onesta cronistoria obbliga ovviamente ad analizzare nei dettagli anche l’omicidio di Cagol, che era originaria di Trento, figlia di una famiglia borghese, e aveva 30 anni. Lo facciamo servendoci dell’autopsia. Ebbene, come scritto dal medico legale al termine dell’esame, “la donna fu colpita da tre pallottole da arma da fuoco. Di queste tre pallottole il colpo mortale è risultato quello che è entrato alla regione mediale del cavo ascellare sinistro (…) La ferita ha leso organi interni del torace essenziali per la vita ed ha prodotto l’immediata morte del soggetto (…) È stata inoltre rilevata ferita da arma da fuoco all’avambraccio (…) Infine si è rilevata una contusione rotondeggiante sulla linea scapolare”. Questi due ultimi colpi raggiunsero Cagol mentre cercava di fuggire all’interno di una macchina, una 128, ed era seduta. La restante ferita, quella mortale all’avambraccio, è da collocare a quand’era uscita dalla vettura e aveva le mani alzate. Al proposito, nel suo intervento in aula in Corte d’Assise, così ha detto Azzolini: “Ci eravamo arresi. Mara, che era ferita, mi disse di tentare ancora la fuga e, al suo cenno, ne tirai una. Raggiunsi il bosco e mi accorsi che lei non era più con me…”. D’accordo: ma chi uccise l’appuntato D’Alfonso? Salvini: “Ci sono molti dettagli sulla morte della Cagol ma su ciò che è successo prima, su chi ha sparato a D’Alfonso, si sorvola”. Sul tema dell’assassinio il medico legale incaricato dell’autopsia sul cadavere dell’appuntato ebbe a scrivere: “Dev’essere osservato come, trattandosi, così sembrerebbe, di due colpi esplosi da una pistola automatica (le munizioni 7,65 trovano impiego in una sola pistola mitragliatrice di fabbricazione cecoslovacca) che hanno attinto il D’Alfonso dalla stessa direzione e con notevole precisione di bersaglio essi o siano stati esplosi da un tiratore eccezionale o da distanza ravvicinata”. La Consulta: è incostituzionale concedere appena due ore d’aria ai reclusi al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2025 Dopo l’udienza pubblica del 25 febbraio scorso la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza storica, dichiarando incostituzionale la norma che limitava a due ore al giorno la permanenza all’aperto per i detenuti sottoposti al regime speciale di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La decisione segna un punto di svolta nella tutela dei diritti dei reclusi, ribadendo che nessuna restrizione può trasformarsi in un “supplizio inutile” privo di giustificazioni concrete. Ricordiamo che è stato audito l’avvocato Valerio Vianello Accorretti, del foro di Roma, difensore di Giovanni Birra, il detenuto sottoposto al regime differenziato nel supercarcere di Bancali. Grazie al suo ricorso, il magistrato di sorveglianza di Sassari ha sollevato la questione di costituzionalità, ritenendola rilevante per la violazione di articoli fondamentali della Costituzione. La disputa ruotava attorno a un paradosso: mentre i detenuti in regime ordinario, dal 2018, godono di almeno quattro ore d’aria (riducibili a due per “giustificati motivi”), quelli in 41 bis erano vincolati a un massimo di due ore, riducibili a una solo in casi eccezionali. Una disparità che il Tribunale di Sassari aveva definito “ingiustificata”, sottolineando come il carcere di Bancali rendesse inefficace la stessa logica di sicurezza invocata per giustificare la restrizione. Nella sentenza n. 30/2025, la Consulta ha accolto le tesi del ricorrente, dichiarando illegittimo l’inciso dell’articolo 41 bis che imponeva il tetto delle due ore. La Corte ha evidenziato due violazioni chiave. La prima è quella dell’articolo 3 della Costituzione (uguaglianza): la differenza di trattamento tra detenuti ordinari e quelli in regime speciale non trova giustificazione razionale. Le esigenze di sicurezza, infatti, sono già garantite dalla rigorosa selezione dei gruppi di socialità (massimo quattro persone, scelte per evitare contatti illeciti). Limitare ulteriormente il tempo all’aperto non aggiunge protezione, ma crea una disparità discriminatoria. La seconda è la violazione dell’articolo 27, comma 3 (finalità rieducativa): la Corte ha sottolineato che una permanenza all’aperto insufficiente ostacola il reinserimento sociale, trasformando la detenzione in una punizione “contraria al senso di umanità”. La questione relativa all’articolo 32 (diritto alla salute) è stata considerata assorbita dalle altre violazioni, ma la Corte ha comunque riconosciuto l’importanza della luce naturale e dell’aria per il benessere fisico e psicologico, specie per detenuti condannati a pene lunghe. Uno dei passaggi più significativi della sentenza smonta l’argomento chiave dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui ridurre le ore d’aria diminuirebbe “probabilisticamente” i rischi di collusioni. La Corte ha replicato che, se i gruppi di socialità sono ben selezionati, trascorrere più tempo all’aperto non aumenta i pericoli. Al contrario, se la selezione è inefficace, anche due ore sono sufficienti per accordi illeciti. La sicurezza, spiega la Corte, dipende dalla qualità della sorveglianza e dai criteri di formazione dei gruppi, non dalla quantità di ore. Inoltre, ha richiamato precedenti decisioni (come la sentenza n. 97/2020 sul divieto di scambio di oggetti), in cui era già stato stabilito che restrizioni non funzionali alla sicurezza violano i principi costituzionali. Come rivela la Consulta, fino a qualche anno fa la norma prevedeva per il 41 bis la possibilità di un tempo massimo di permanenza all’aperto pari a quattro ore, con una disposizione di riduzione che, dopo la modifica intervenuta con la legge n. 94 del 2009, era stata inasprita a due ore e in gruppi non superiori a quattro persone. La specificità di tale regime è quella di contenere il rischio che detenuti appartenenti a organizzazioni criminali possano continuare a mantenere contatti e scambi di informazioni anche dall’interno del carcere. Di fatto, dunque, si torna a quanto previsto prima del 2009. In definitiva, la Corte ha stabilito che la rigidità del limite delle due ore al giorno non solo non trova un fondamento adeguato in termini di sicurezza, ma risulta anche incompatibile con la finalità rieducativa della pena, costituendo una misura eccessivamente punitiva e in violazione dei principi costituzionali. Questa sentenza si inserisce in un solco giurisprudenziale consolidato. Già nel 2013, la Consulta aveva bocciato i limiti ai colloqui con i difensori nel 41 bis e, nel 2020, aveva abolito il divieto di scambio di oggetti tra detenuti dello stesso gruppo. Ogni volta, il principio è lo stesso: le restrizioni devono servire a uno scopo concreto, non a infliggere un surplus di pene inutili. Stretta al 41bis. La Consulta: “Almeno quattro ore d’aria” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 marzo 2025 Illegittima la norma che dimezza il diritto dei detenuti: “Non aumenta la sicurezza”. Altri due suicidi in meno di 48 ore. Domani seduta straordinaria sulle carceri alla Camera. Non lasciarli respirare è incostituzionale. Se per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro togliere idealmente l’aria ai detenuti in regime di 41 bis è “un’intima gioia”, come dichiarò qualche tempo fa presentando la nuova auto blindata adibita al trasporto di questo tipo di reclusi, per la Corte costituzionale è invece “illegittimo” concedere loro meno di quattro ore al giorno di permanenza all’aria aperta. La Consulta lo ha stabilito con la sentenza numero 30 depositata ieri tramite la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41bis, comma 2-quater, dell’Ordinamento penitenziario. Pur senza porre “in alcun modo in discussione l’impianto complessivo del regime speciale”. Una modalità di detenzione chiamata comunemente, non a caso, di “carcere duro”. La norma censurata dai giudici costituzionali prevedeva “una durata non superiore a due ore al giorno”, limite stabilito “in seguito al dimezzamento operato dalla legge 94 del 2009”. A sollevare le questioni di legittimità costituzionale era stato il Tribunale di Sorveglianza di Sassari al quale si era rivolto G.B., un detenuto al 41 bis nel locale carcere di Bancali dove gli venivano concesse soltanto due ore d’aria al giorno, mentre l’uomo chiedeva di goderne almeno quattro, come previsto per i detenuti in regime ordinario (articolo10 ord. pen.) e come stabilito nel trattamento di “miglior favore” introdotto dalla riforma del 2018. Il magistrato di sorveglianza di Sassari aveva rifiutato la richiesta e così il Tribunale si è rivolto alla Consulta. Ora, considerando che nel “regime differenziato” del 41 bis il detenuto trascorre le ore d’aria in “un gruppo di persone molto ristretto (non più di quattro, e quindi anche tre o due), opportunamente selezionato dall’amministrazione penitenziaria”, la Corte ha ritenuto che il limite massimo di due ore al giorno (a meno di “giustificati motivi” o nel caso di reclusi sottoposti “a sorveglianza particolare”) nulla ha a che fare con la finalità rieducativa della pena, né con la necessità di impedire i contatti del carcerato con le organizzazioni criminali di affiliazione. Una norma da censurare, dunque, perché “mentre comprime, in misura ben maggiore del regime ordinario, la possibilità per i detenuti di fruire di luce naturale e di aria, nulla fa guadagnare alla collettività in termini di sicurezza, alla quale viceversa provvede, e deve provvedere, l’accurata selezione del gruppo di socialità, unitamente all’adozione di misure che escludano la possibilità di contatti tra diversi gruppi di socialità”. Invece, si legge nella sentenza firmata dai giudici Amoroso e Petitti, “beneficiare di aria e luce all’aperto contribuisce a delineare una condizione di vita penitenziaria che, non solo oggettivamente, ma anche e soprattutto nella percezione dei detenuti, possa essere ritenuta più rispondente al senso di umanità, in conformità alle specifiche raccomandazioni espresse sul punto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt)”. D’altronde che le condizioni di vita nel carcere di Bancali abbiano superato i limiti della tollerabilità, lo testimonia anche la Garante dei detenuti della Sardegna Irene Testa che visitando ieri la Casa circondariale di Sassari ha trovato “un ragazzo di 20 anni che non mangia dal 14 febbraio e ha perso oltre 15 kg”. Non solo: “In una sezione con 16 celle sono presenti 55 detenuti, la maggior parte stipati in quattro per cella. I soffitti sono umidi, le pareti scrostate, le stanze in condizioni igieniche precarie, a volte senza termosifoni o porte nei bagni. Urla continue. Detenuti psichiatrici che parlano da soli, che gridano o che gettano acqua, cibo e detersivo nei corridoi. Tanti stranieri hanno chiesto di poter avere vestiti e scarpe”. Va detto che non va meglio negli altri istituti penitenziari d’Italia. E nelle ultime 48 ore in particolare a Montorio, Verona, dove in meno di due giorni due detenuti si sono tolti la vita. Portando a 19 il numero dei suicidi in cella dall’inizio dell’anno. Un tema, questo, sul quale l’opposizione ha chiesto ieri al ministro Nordio un’informativa al Senato. Mentre la seduta straordinaria per parlare delle carceri a 360 gradi richiesta dagli stessi partiti del centro sinistra si terrà domani, alla Camera. Sperando che la discussione porti consiglio. Revocazione per contrarietà alla Cedu solo per questioni di status di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2025 La Cassazione, sentenza n. 7128 depositata ieri, circoscrive la portata del nuovo articolo 391-quater Cpc ai soli pregiudizi ad “un diritto di stato della persona”. Lettura restrittiva dell’articolo 391-quater Cpc introdotto dalla riforma Cartabia (Dlgs 149/2022) in materia di revocazione per conformarsi alle decisioni della Corte EDU. Per la Cassazione, sentenza n. 7128 depositata oggi, la revocazione per contrarietà alla Cedu di una sentenza passata in giudicato va esclusa quanto la domanda “abbia avuto ad oggetto già essa stessa una tutela meramente risarcitoria o, comunque, per equivalente”, e ciò anche se il diritto oggetto della sentenza “sia un diritto fondamentale della persona, ma non di stato”. L’oggetto della tutela revocatoria, dunque, copre esclusivamente le violazioni che abbiano pregiudicato il “diritto al riconoscimento di un determinato status personale, cioè si siano risolte nella negazione totale o parziale di esso, o anche nel tardivo riconoscimento dello status alla persona, con una compromissione insuscettibile di riparazione solo per equivalente, ovvero ancora i casi in cui vi sia stata erronea attribuzione di uno status personale oggettivamente pregiudizievole secondo l’ordinamento o tardivo disconoscimento di esso e la compromissione derivatane per la persona non sia rimediabile con la sola riparazione per equivalente”. Non è possibile, invece, prosegue la decisione, interpretare l’articolo 391-quater c.p.c. nel senso per cui la nuova ipotesi di revocazione possa invocarsi in tutti i casi in cui la violazione commessa dallo Stato mediante la sentenza passata in giudicato, il cui contenuto sia stato dichiarato contrario alla Convenzione, abbia leso, genericamente, diritti personali o, addirittura, tutti i casi in cui la lesione abbia, in generale, avuto ad oggetto diritti fondamentali non patrimoniali, quand’anche gli stessi presupponessero o derivassero da un determinato status personale. Se il legislatore, continua il ragionamento, avesse inteso riconoscere la possibilità della revocazione anche in caso di sentenze costituenti violazione della Convenzione EDU con riguardo a posizioni soggettive diverse da quelle aventi ad oggetto direttamente il riconoscimento di status personali, non avrebbe così chiaramente indicato la limitazione del rimedio all’ipotesi di violazione che abbia “pregiudicato un diritto di stato della persona”. Nel caso di specie, invece, la richiesta risarcitoria avanzata dalle ricorrenti (nel giudizio definito con la sentenza di legittimità di cui si chiede la revocazione) aveva ad oggetto danni, sia patrimoniali che non patrimoniali, derivanti dalla perdita di un rapporto parentale: la morte di un loro congiunto per una intossicazione da cocaina, mentre si trovava presso la camera dei fermati della Questura di Milano. Essa era diretta, cioè, proprio ad ottenere una compensazione di tipo economico, per equivalente, mentre non era direttamente in discussione il riconoscimento dei loro status personali. La Corte EDU aveva rigettato la domanda di equa soddisfazione in relazione ai danni patrimoniali, ritenendoli non provati, ed aveva invece accolto quella relativa ai danni non patrimoniali, riconoscendo una somma determinata equitativamente. Tale somma per la Cassazione, che ha dichiarato il ricorso inammissibile, “deve ritenersi, in linea di principio, satisfattiva, cioè idonea a compensare le conseguenze della violazione accertata, in relazione ai danni riconosciuti sussistenti”. In conclusione, la Terza sezione civile ha affermato il seguente principio di diritto: “La nuova ipotesi di “revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, prevista dall’art. 391-qua-ter c.p.c., essendo stata introdotta in relazione alle decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli, a condizione che la violazione accertata dalla Corte europea abbia pregiudicato un “diritto di stato della persona” e che l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione non sia idonea a compensare le conseguenze della violazione, può essere invocata esclusivamente nei casi in cui la decisione nazionale abbia avuto ad oggetto una domanda incidente direttamente sul diritto al riconoscimento o alla negazione di uno status soggettivo personale e, quindi, la violazione accertata dalla Corte EDU abbia arrecato un pregiudizio che si risolve nella negazione o nel tardivo riconoscimento di uno status personale al quale si abbia diritto ovvero nell’illegittima attribuzione di uno status personale che si neghi di possedere, in quanto situazioni soggettive non suscettibili di tutela per equivalente; di conseguenza, la revocazione è, in ogni caso, esclusa quando la stessa domanda proposta nel giudizio definito con la sentenza passata in giudicato di cui si invoca la revocazione abbia avuto ad oggetto già essa stessa una tutela meramente risarcitoria o, comunque, per equivalente, e ciò anche se il diritto oggetto della sentenza sia un diritto fondamentale della persona, ma non di stato”. Foggia. Detenuto suicida, aveva fragilità note da tempo. “Faremo denuncia per omessa vigilanza” di Francesco Pesante immediato.net, 19 marzo 2025 Il 39enne Vincenzo Pupillo di Vieste, arrestato due giorni prima per maltrattamenti, è stato trovato impiccato nella sua cella. I parenti contestano il sovraffollamento come causa e chiedono chiarezza sulla gestione della sua detenzione. La famiglia di Vincenzo Pupillo vuole la verità sul suicidio del proprio caro. Il 39enne di Vieste è stato trovato morto nelle scorse ore in una cella del carcere di Foggia, impiccato alle sbarre del bagno. Secondo il Sappe, il sindacato di Polizia penitenziaria, anche “il sovraffollamento può aver influito sulla sua decisione”. Di diverso parere i familiari dell’uomo, rappresentati dall’avvocato Antonio Merlicco: “A nostro modo di vedere il sovraffollamento ha inciso poco o nulla, nonostante fossero in sette in una cella da quattro. Pupillo era stato detenuto in passato per estorsione e spaccio. E in una precedente carcerazione aveva già provato a suicidarsi tagliandosi le vene. Aveva problemi psichiatrici ed era stato ospitato anche al Csm, il centro di salute mentale”. Secondo la famiglia, la struttura carceraria era quindi ben a conoscenza del percorso detentivo di Pupillo e della sua personalità problematica e per questo andava vigilato attentamente. Pupillo era stato accompagnato in carcere due giorni prima del suicidio, arrestato per maltrattamenti alla compagna. Al momento del fermo era totalmente in preda a droga e alcol, uno stato che poteva già far presagire il peggio. “Presenteremo una denuncia - fa sapere infine l’avvocato Merlicco - secondo noi potrebbe trattarsi di omissione nella vigilanza. Doveva essere quantomeno attenzionato. Inoltre, abbiamo appreso la notizia in netto ritardo. Per il resto confidiamo nell’operato della magistratura”. Ordine Avvocati: “Una morte annunciata” - “Apprendiamo con sgomento dell’ennesimo suicidio di un detenuto, questa volta nel carcere di Foggia”. Così il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Foggia, Gianluca Ursitti, in riferimento al detenuto di Vieste che si è tolto la vita ieri nel penitenziario foggiano. “Ancora una volta - continua Ursitti - siamo in presenza della cronaca di una morte annunciata. Chiediamo con fermezza che la politica si faccia carico, seriamente e subito, di un problema che non può più essere tollerato in uno Stato che possa definirsi civile”. Verona. A Montorio due suicidi in due giorni. Scontro politico sul sovraffollamento di Angiola Petronio Corriere del Veneto, 19 marzo 2025 L’uomo era tornato in cella lunedì. Gli avvocati: serve più lavoro in carcere. “Non paiono esserci particolari dubbi sulla dinamica dei fatti, purtroppo di agevole ma anche tragica constatazione, né allo stato sono emerse negligenze da parte dell’istituto di pena”. È nelle parole del procuratore capo Raffaele Tito la cronaca del secondo suicidio in meno di 48 ore nella casa circondariale di Montorio. Quel penitenziario in cui, ieri mattina, M. V. si è impiccato. Domenica era stata la volta di Alex, detenuto di 69 anni che nella cella che condivideva con altri due reclusi doveva restare fino al 2031. Aveva 58 anni, M.V. Una vita in Valpolicella, un lavoro come autista e un viluppo di condanne, tutte sotto la stessa egida. Quella dello stalking ai danni dell’ex moglie e dei figli, del danneggiamento e della violazione al divieto di avvicinarsi. Un rosario di reati iniziato nel 2021 che ha portato, lo scorso febbraio, a una condanna di primo grado a due anni e tre mesi. Senza che lui, nel frattempo, si fermasse. Arresti domiciliari, poi il carcere per averli violati. Era uscito dalla cella il 22 ottobre, M.V., con il divieto di avvicinamento a ex moglie e ai due figli. Divieto eluso e il fatto che il 58enne fosse senza fissa dimora, hanno spinto la procura a chiedere nuovamente la misura cautelare in carcere. Quella che i carabinieri avevano eseguito nel primo pomeriggio di lunedì. Era in una cella di Montorio da poco più di 12 ore, M.V. Ha aspettato che il compagno di cella uscisse per andare a lavorare all’interno del carcere e si è impiccato. Lo hanno trovato quando gli hanno portato la colazione. “Servono urgentissime misure deflattive della densità detentiva e immediati rinforzi agli organici della polizia penitenziaria altrimenti, sarà ancora morte e sofferenza”, il commento di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria. “A Montorio ci sono 595 reclusi presenti a fronte di soli 318 posti disponibili, gestiti da 318 operatori di Polizia penitenziaria”, le sue parole. Quelle a cui fanno eco le riflessioni del presidente della Camera penale di Verona, Paolo Mastropasqua. “Con un carcere - e quindi col personale medico, quello sanitario e gli educatori tarato su 318 detenuti - è evidente che ci sia un problema di assistenza. E magari certe situazioni, in particolare quelle di natura psichiatrica, possono sfuggire. La prospettiva è aumentare il lavoro, quello all’interno del carcere e quello all’esterno”. Il secondo suicidio a Montorio in meno di 48 ore è presto diventato terreno di scontro. “Una tragedia che impone una riflessione profonda. La priorità assoluta è l’immissione di nuovo personale negli istituti penitenziari”, il commento del presidente della Regione Veneto Luca Zaia che ringrazia “il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario Ostellari per la costante attenzione agli istituti penitenziari veneti”. “Ringraziamenti” contestati dalla capogruppo alla Camera di Avs Luana Zanella. “Non so che notizie abbia Zaia ma il ministro Nordio non ha preso nessuna iniziativa e tace addirittura sui suicidi”. A Nordio chiede di intervenire il senatore Andrea Mastella, segretario regionale del Pd “per risolvere l’emergenza sovraffollamento delle carceri venete e per affrontare in maniera complessiva le carenze di organico del personale della polizia penitenziaria e degli operatori socio sanitari”. A ribattergli il segretario provinciale della Lega ed europarlamentare Paolo Borchia. “La sinistra che oggi si lamenta è la stessa che negli anni di governo ha chiuso istituti e votato provvedimenti svuota-carceri. Martella farebbe meglio a ricordarlo prima di parlare di sovraffollamento”. Sassari. Detenuto 20enne in sciopero della fame da oltre un mese La Nuova Sardegna, 19 marzo 2025 Irene Testa: “A Bancali situazione disastrosa”. La denuncia della Garante regionale dopo un sopralluogo nell’istituto penitenziario di Sassari. “Carcere sovraffollato e condizioni igieniche precarie”. Nel carcere di Sassari un detenuto di 20 anni sta portando avanti da oltre un mese lo sciopero della fame, protesta estrema per chiedere il trasferimento in un istituto più vicino alla famiglia. In questo periodo ha perso oltre 15 chili. La denuncia è di Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà, dopo un’ispezione, fatta nella mattinata di oggi martedì 18 marzo 2025, all’interno dell’istituto penitenziario di Bancali, a cui è seguito un resoconto allarmante: “Quattro ore di visita in una sola sezione e urla continue. Detenuti psichiatrici che parlano da soli, che gridano o che gettano acqua, cibo e detersivo nei corridoi. Tanti i detenuti stranieri che hanno chiesto di poter avere vestiti e scarpe”. “Nessun racconto - prosegue Testa - può rendere l’idea, ma è certamente mio dovere provarci. È mio dovere denunciare che in una sezione con 16 celle sono presenti 55 detenuti, la maggior parte stipati in quattro per cella. I soffitti sono umidi, le pareti scrostate, le celle in condizioni igieniche precarie. Inoltre, nella maggior parte delle celle sono presenti pochissimi stipetti per riporre gli oggetti personali”. I detenuti, denuncia ancora la Garante, per non buttare i vestiti per terra “costruiscono piccoli arredi con il cartone. In alcune celle non ci sono i termosifoni, e mancano alcune porte nei bagni. Per cui chi vive in quegli spazi è costretto a subire odori e umiliazioni”. Per finire, “in questa visita surreale, abbiamo incontrato un ragazzo di 20 anni che non mangia dal 14 febbraio e che ha perso oltre 15 chili. La sua condizione fisica e mentale non è trascurabile. È costantemente monitorato, va riconosciuto, ma non intende alimentarsi”. Trento. Un detenuto denuncia: “Io seviziato in cella da tre uomini” di Benedetta Centin iltquotidiano.it, 19 marzo 2025 La difesa: “Falso”. I presunti fatti sarebbero accaduti a Spini a ottobre. Il pezzo di manico di scopa che avrebbero usato verrà analizzato dai carabinieri del Ris di Parma. Gli indagati sono stati trasferiti. Seviziato nel carcere di Spini di Gardolo dove era recluso, abusato a turno da altri tre detenuti che avrebbero usato anche un pezzo di manico di scopa. Questa l’agghiacciante denuncia fatta da un cittadino dell’Est Europa di 33 anni ad ottobre scorso, a seguito della quale era stato anche sottoposto a visita medica e aveva riportato da referto alcuni giorni di prognosi. La Procura di Trento allora aveva aperto un’inchiesta e iscritto sul registro degli indagati i tre uomini, di 33, 34 e 65 anni, anche loro dell’Est Europa, con l’ipotesi di violenza sessuale di gruppo. Tutti loro già al tempo erano stati trasferiti di penitenziario e raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere del giudice. Gli indagati: “Non è vero” - “È una bugia, non c’è stata alcuna violenza, quello si è inventato tutto” la versione degli indagati che respingono la pesante contestazione. Uno in particolare, con il proprio difensore, l’avvocato padovano Fabio Targa, starebbe valutando di presentare denuncia querela per calunnia nei confronti del connazionale che ha accusato lui e gli altri due detenuti. Lo scopo? A detta degli indagati (gli altri sono difesi dagli avvocati Annamaria Gagliardi e Mirella Cereghini) il 33enne avrebbe trovato un pretesto per allontanarli e poter così continuare indisturbato a spacciare all’interno del carcere. Questa almeno la versione di chi ora si trova a difendersi da un reato che pesa come un macigno. Determinante, in questa fase, sarà l’esito delle analisi sul pezzo di bastone che la prossima settimana verranno delegate ai carabinieri del Ris di Parma (Reparto Investigazioni Scientifiche). Un reperto, questo, su cui verranno svolti accertamenti in laboratorio alla ricerca di dna, quindi della prova. E non si può ancora escludere che vi siano anche dei testimoni oculari da sentire, da cui raccogliere elementi probatori. Presunta vittima sentita - Altro passaggio fondamentale nel corso delle indagini preliminari è l’audizione della presunta vittima, che è stata disposta nella forma dell’incidente probatorio, così da poter cristallizzare la sua versione. Il 33enne, anche lui nel frattempo spostato in un altro penitenziario, è stato sentito ieri e ha ribadito di aver subito violenza sessuale dai tre connazionali che aveva conosciuto solo in carcere. Prima ci sarebbero state le attenzioni morbose, poi le molestie, quindi i veri e propri abusi, nel momento in cui le celle erano aperte e i detenuti erano quindi liberi di spostarsi. Il tutto nell’arco di tre giorni, con lo stupro di gruppo che sarebbe stato perpetrato solo nell’ultimo giorno, e da parte di tutti e tre i detenuti, a turno, non solo quindi di due come invece affermato in un primo momento. A quanto pare il 33enne, rispondendo alle domande di pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari, avrebbe spiegato che il più vecchio degli indagati avrebbe fatto da palo, bloccando l’accesso alla cella mentre gli altri due abusavano a turno di lui. Ma si sarebbero poi alternati e quindi anche il 65enne avrebbe finito per approfittare di lui. E nelle fasi successive avrebbero infierito anche con un pezzo di manico di scopa. “Il mio assistito, che non parla e non capisce bene l’italiano, solo ieri, grazie all’interprete, ha potuto esprimersi nella sua lingua rendendo dichiarazioni, spiegando bene i fatti” riferisce il legale della presunta vittima, l’avvocato vicentino Federico Menegardi, giustificando così le “rettifiche” su tempi e responsabilità rispetto a quanto denunciato nelle prime fasi dal proprio assistito. Monza. Stupri in carcere, scatta l’allarme: “È la causa del 20% dei suicidi” di Dario Crippa Il Giorno, 19 marzo 2025 “Servono altri agenti, ma pure psicologi, psichiatri e mediatori culturali: il numero delle denunce è bassissimo. Il caso di violenza sessuale in carcere a Monza ha scoperchiato una situazione che noi denunciamo da anni e di cui nessuno vuole parlare: sono centinaia, ogni anno, i casi di violenze sessuali, sopraffazioni, umiliazioni subìte da compagni di cella nei penitenziari come negli istituti per minori. Le conseguenze per i detenuti che subiscono la violenza sono devastanti specie a livello psichico sino a suicidi e tentativi di suicidio, oltre a varie forme di autolesionismo”. A parlare è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, che si occupa quotidianamente di cosa avviene dentro le carceri. “Quando non arrivano le indagini a scoprirlo come nel caso del detenuto tunisino che a Monza ha violentato il compagno di cella, c’è la riprova che forse solo l’1% delle violenze sessuali in carcere viene denunciato, per paura, vergogna, con i più deboli costretti a pagare l’assenza di misure di tutela”. Vittime soprattutto stranieri e tossicodipendenti? “I detenuti fragili. Spesso quelli di origine straniera hanno difficoltà a comunicare anche con i propri compagni e non denunciano. La percentuale secondo i casi che trapelano è di due terzi delle violenze sessuali”. Perché? “In carcere il sesso diventa merce di scambio. Soprattutto nei confronti di chi ha problemi di tossicodipendenza e psichiatrici: ci sono detenuti che si fanno prescrivere gocce di psicofarmaci che non assumono davanti agli agenti come dovrebbero ma ma che tengono da parte e accumulano per cederli ad altri detenuti in cambio di favori sessuali. Chi si ritrova in questa situazione, soggiogato o violentato, riporta conseguenze devastanti”. Di recente un detenuto brianzolo, il trapper Jordan Jeffrey Baby, è morto nel carcere di Pavia. Pochi giorni prima aveva denunciato una violenza sessuale subìta in cella… “Un 20% dei suicidi in carcere riguarda detenuti che hanno subito violenza sessuale. Il problema non è sottovalutato, è proprio non considerato”. Si spieghi... “È un fenomeno rispetto al quale l’Amministrazione Penitenziaria, volutamente, non è in grado di fornire dati specie se si pensa allo “scambio di sesso” di detenuti tossicodipendenti, alcolisti in cambio di psicofarmaci e alcol e di detenuti con problemi psichici in cambio di generi alimentari od oggetti. Negli ultimi tre anni lo Stato si è disinteressato del problema e il numero di morti, suicidi in particolare, è cresciuto esponenzialmente (90 nel 2024, già 20 nel 25)”. Come fare? “Gli agenti di polizia penitenziaria sono troppo pochi e non hanno una preparazione adeguata. E mancano soprattutto figure fondamentali come psicologi, psichiatri e mediatori culturali che riescano ad esempio a entrare in contatto con detenuti stranieri”. Reggio Emilia. “Picchiarono un detenuto. Mi auguro che seguano un corso sui diritti di chi è in carcere” di Alessandra Codeluppi Il Resto del carlino, 19 marzo 2025 Il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri esprime perplessità sul rientro al lavoro degli agenti. I “baschi azzurri” manterranno le qualifiche, ma non saranno più in servizio alla Pulce. Dubbi, ma anche cauta apertura. Hanno sfumature differenti le reazioni espresse da alcune parti civili di fronte alla decisione del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), che fa capo al Ministero, di reintegrare al lavoro i dieci agenti della polizia penitenziaria imputati per le condotte nel carcere di Reggio il 3 aprile 2023 verso un detenuto tunisino che le denunciò. Al termine del processo di primo grado con rito abbreviato, il reato di tortura aggravata contestato dalla Procura è stato riformulato dal giudice Silvia Guareschi in abuso di autorità contro detenuti in concorso; le lesioni sono state riqualificate in percosse ed è stato riconosciuto il falso nelle relazioni stese sull’episodio. I poliziotti non erano più operativi dal luglio 2023, in virtù della sospensione obbligatoria che fu disposta ai sensi delle norme sull’ordinamento penitenziario, a seguito della misura interdittiva applicata dal giudice delle indagini preliminari Luca Ramponi nell’ambito del procedimento penale; e che poi fu prolungata in via facoltativa. Al momento gli agenti non torneranno in servizio alla Pulce, dove si sono verificati i fatti contestati, ma saranno destinati in via provvisoria ad altre strutture carcerarie del distretto di competenza territoriale. Gli agenti vengono reinseriti mantenendo la stessa qualifica finora rivestita, e per loro la decorrenza giuridica ed economica è scattata da venerdì scorso, il giorno stesso della notifica del decreto del Dap. Per il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri occorre accompagnare il reinserimento al lavoro con altre azioni: “L’atto di reintegro in servizio di questi appartenenti al corpo della polizia penitenziaria deve stupire solo se il Ministero non ha previsto per queste persone un percorso di formazione indirizzato alla gestione delle persone ristrette e sui diritti dei detenuti, oltre a un percorso di giustizia riparativa che li porti a chiedere scusa alla vittima dei loro reati accertati dalla sentenza di primo grado”. Esprime perplessità anche Michele Passione, avvocato di parte civile del Garante nazionale dei detenuti. “Non discuto - osserva - e d’altra parte non ho la veste per farlo, essendo parte civile, su misure cautelari o di natura amministrativa in senso lato che però condizionano la libertà personale o quella lavorativa; naturalmente la proporzionalità della misura ha anche a che fare con la gravità del fatto”. “Mi auguro solo - aggiunge Passione - che gli agenti non siano posti a lavorare in sezione e ricordo in ogni caso che il giudice non ha disconosciuto l’episodio, ma lo ha diversamente qualificato. Resta il fatto, e il video ne dà contezza assoluta, che queste persone abbiano usato violenza e agito illegalmente verso un detenuto che era nelle loro mani e, legittimamente, nelle mani dello Stato”. L’avvocato Luca Sebastiani, che tutela il quarantantaquattrenne detenuto, parla di “scelta condivisibile” alla luce dello stato attuale del procedimento: “Resto convinto - dice - che ciò è successo quel giorno sia un fatto gravissimo. Non condivido la qualificazione adottata dal primo giudice ma, allo stato attuale della vicenda processuale, ritengo che questa sia una scelta comunque condivisibile, quantomeno giuridicamente”. “D’altronde - argomenta il legale - ogni giorno ci battiamo per il principio rieducativo della pena e per quello di non colpevolezza sino alla condanna definitiva: a oggi nei loro confronti è stata applicata una misura cautelare, peraltro cessata, e pronunciata una sentenza di primo grado, dunque non definitiva”. Nei provvedimenti è stato ritenuto che al momento non vi siano i presupposti per proseguire la sospensione e che per tutelare interessi e immagine dell’Amministrazione penitenziaria sia sufficiente una misura meno afflittiva; si fa anche riferimento ai criteri di proporzionalità, idoneità e necessità nell’applicare le misure cautelari sanciti a livello europeo. Forlì. Seconda chance: “Così ho assunto due giovani detenuti, meritano un’occasione” di Valentina Paiano Il Resto del Carlino, 19 marzo 2025 L’imprenditore che gestisce i tre McDonald’s forlivesi ha svolto i colloqui di lavoro in carcere tramite un’associazione specializzata. Per le persone detenute in carcere, un lavoro è più di un semplice impiego: è l’inizio di una nuova vita. Offrire una seconda opportunità a chi ha commesso degli errori e si prepara a reinserirsi nella società è l’obiettivo di un’iniziativa che ha coinvolto il carcere di Forlì e i ristoranti McDonald’s della città, gestiti dall’imprenditore Andrea Zocca. Grazie alla collaborazione con l’associazione Seconda Chance, il progetto ha portato all’assunzione di due giovani detenuti, colpevoli di reati minori. L’associazione, fondata dalla giornalista del TgLa7 Flavia Filippi nel 2022, si occupa di creare collegamenti tra imprese e strutture detentive, grazie alla legge Smuraglia che consente ai datori di lavoro un credito d’imposta fino a 516 euro al mese, permettendo ai reclusi di acquisire formazione, opportunità lavorative e attività ricreative. “Abbiamo accolto con favore la proposta di Seconda Chance - spiega Zocca - ne avevamo sentito parlare con entusiasmo da alcuni colleghi di altre zone d’Italia. Pensavamo da tempo a questa opportunità ed è arrivata l’occasione. L’amministrazione carceraria ha preselezionato 6 persone: 4 ragazzi e 2 ragazze detenuti arrivati quasi al termine della pena, che potevano essere adatti al lavoro e che si sono contraddistinti per la buona condotta all’interno della struttura”. I colloqui si sono svolti tra le mura della Casa circondariale di via della Rocca, alla presenza di un ispettore. “Quando siamo entrati nella prigione, sentire il rumore dei cancelli chiudersi alle nostre spalle è stato emotivamente forte. Insieme a me c’erano anche i responsabili delle risorse umane che di solito svolgono le selezioni per noi - racconta l’imprenditore -. I ragazzi erano molto preparati ed educati. I colloqui sono stati identici a quelli che facciamo normalmente, sono stati utilizzati gli stessi criteri. Abbiamo scelto tre persone, ma una di loro ha accettato un’altra proposta. Siamo molto felici, questo significa che la nostra intuizione su di lui era corretta”. I due giovani selezionati, entrambi residenti nel forlivese, inizieranno a lavorare entro la fine di aprile in due dei tre McDonald’s presenti sul territorio: in viale Bologna, al Puntadiferro e al Formì. Seguiranno turni stabiliti, escluso l’orario serale, quando dovranno fare ritorno in carcere. “Stiamo aspettando le ultime autorizzazioni - precisa Zocca. Sono convinto che tutti meritino una seconda opportunità perché a volte ci si trova in situazioni difficili e si possono fare degli errori. Conta molto il contesto in cui una persona cresce, è questione di fortuna. Uno dei compiti di un buon imprenditore è anche quello di contribuire alla comunità e di restituire alla città un po’ di quello che riceve”. Seconda Chance ha già creato 500 offerte di lavoro coinvolgendo realtà economiche in tutta Italia, tra queste il Vaticano, Terna, Nestlé, Primark, il Gruppo Cremonini e l’Istituto Superiore di Sanità. “L’associazione - sottolinea la presidente Filippi - è diventata per molti un importante punto di riferimento. Ogni giorno tanti operatori impiegano molte ore della loro giornata per cercare aziende disponibili ad aderire al progetto. Siamo in continua crescita e godiamo della stima non solo dei detenuti, delle famiglie, degli avvocati, ma anche del ministero della Giustizia”. Torino. Abitare il carcere: criticità e prospettive iltorinese.it, 19 marzo 2025 “A cinquant’anni dall’approvazione del nuovo ordinamento penitenziario, che ha ridisegnato funzioni e finalità degli istituti penali, è quanto mai necessario che gli Istituti di detenzione rispondano sempre più al dettato costituzionale che prevede che l’esecuzione penitenziaria rappresenti un’occasione di recupero e di reinserimento dei detenuti nella società. E, se è vero che l’anagramma di ‘carcere’ è ‘cercare’, è fondamentale mettersi in gioco per trovare le soluzioni più opportune”. Lo ha dichiarato il Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano in apertura dell’incontro Abitare il carcere - Gli spazi della quotidianità nella detenzione che si è svolto a Palazzo Lascaris. All’incontro, organizzato dal Consiglio regionale del Piemonte con l’Ufficio del Garante in collaborazione con la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, ha portato il saluto, a nome del presidente Davide Nicco, il componente dell’Ufficio di presidenza Mario Salvatore Castello, delegato ai rapporti con il Garante, che ha sottolineato come “anche all’interno del carcere dovrebbe abitare la bellezza, che fa bene all’anima e spinge a migliorare e a migliorarsi”. Simona Canepa, docente a contratto del Dipartimento di Architettura e design del Politecnico di Torino, ha illustrato la propria ricerca sulle carceri italiane denunciando che “dalla riforma di cinquant’anni fa ben poco è cambiato: si prevedevano ambienti per la vita individuale e collettiva, luoghi idonei per attività culturali, aggregative e lavorative ma lo Stato sembra non voler farsi carico di questi problemi: molti edifici risultano vecchi e necessitano di ristrutturazione, la luce naturale scarseggia e non di rado quella artificiale viene tenuta accesa tutto il giorno, molti ambienti vengono trascurati, come i cortili di passeggio, dove in molti casi mancano ripari per la pioggia o il sole cocente”. Cristian Campagnaro, professore ordinario del Dipartimento di Architettura e design del Politecnico di Torino, ha evidenziato che “quando si progettano degli spazi è fondamentale interrogarsi su quale ruolo essi abbiano all’interno del progetto di vita delle persone che devono abitarli. E, a volte, l’impressione è che il progetto non ci sia. Ci siamo trovati di fronte a muri di silenzio e ad assenza di risorse, non solo economiche, per piccoli interventi che avrebbero contribuito a migliorare e a umanizzare le strutture anche per chi ci lavoro”. Concentrandosi sulle tredici carceri piemontesi, Cesare Burdese, esperto di architettura penitenziaria, ha sottolineato che “sono afflittive e presentano tutti i limiti di un carcere punitivo. La narrazione del carcere che riabilita rischia di rappresentare uno slogan, una falsa lettura della realtà”. “Quello che preoccupa - ha concluso - è la logica dei 7.000 moduli abitativi prefabbricati che si intendono inserire nelle carceri per supplire al sovraffollamento: un’idea di carcere simile a una bolgia dantesca dove detenuti e detenenti si fronteggeranno sempre più. Se non c’è altra soluzione a quella dei container possiamo chiudere i libri di architettura e smettere di studiare alternative”. All’incontro hanno preso parte le consigliere Sarah Disabato e Laura Pompeo. “Caterpillar” in diretta dall’aula bunker del Carcere di San Vittore rai.it, 19 marzo 2025 Una Festa del Papà “Un po’ dentro, un po’ fuori. Un po’ padri, un po’ figli”. C’è chi è dentro e chi è fuori. Chi padre e chi figlio. Voci che si incontrano e raccontano dell’essere genitore o figlio al di qua e al di là delle sbarre di un carcere in un’inedita Festa del Papà che Massimo Cirri, Sara Zambotti e “Caterpillar” materializzano, a Milano, tra gli studi di corso Sempione e l’aula bunker della Casa Circondariale di San Vittore nella puntata speciale “Un po’ dentro, un po’ fuori. Un po’ padri, un po’ figli”, in onda mercoledì 19 marzo alle 18.00 su Rai Radio 2 e anche in visual radio sul canale 202 e poi su RaiPlay. Una puntata per riflettere - con leggerezza e serietà insieme - sul rapporto tra padri e figli, sulle gioie e le difficoltà che lo accompagnano, attraverso la lente di chi vive l’una o l’altra condizione da detenuto, spesso convivendo e costringendo a convivere con il dolore di un’assenza. Ad animare la narrazione di Cirri e Zambotti, le storie di padri e figli detenuti o ex detenuti di San Vittore, tra i quali i ragazzi del Reparto Giovani Adulti “La chiamata”, in un dialogo a più voci al quale partecipano anche Maria Milano, Provveditrice Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia; Giuseppe Galli, figlio del giudice Guido Galli, ucciso da Prima Linea proprio il 19 marzo 1980; Francesco Cajani, pubblico ministero a Milano; Angelo Aparo, psicoterapeuta e fondatore nel 1997 del Gruppo della Trasgressione, ora attivo in tutte le carceri milanesi; Andrea Spinelli, illustratore giudiziario; il giornalista Luigi Ferraiuolo in ricordo di don Peppe Diana, vittima della mafia il 19 marzo 1994. Con loro - nell’incontro organizzato dal Gruppo della Trasgressione e dal comitato scientifico del progetto “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, in collaborazione con la direzione del Carcere di San Vittore e il Gruppo Scout Milano 34 - anche un rappresentante degli agenti di polizia penitenziaria, anche lui padre, e alcuni partecipanti al progetto “Alla ricerca del padre” per contribuire al dialogo tra società civile e detenuti. Così - come già lo scorso anno nel Carcere di Bollate - la puntata di “Caterpillar” darà voce a un esempio concreto di applicazione della Costituzione, di una pena che tende alla rieducazione e di un sistema carcere che si rende “servizio” per il mondo esterno. “Libri Liberi”, la letteratura portata in carcere di Carlo Fusi La Ragione, 19 marzo 2025 L’iniziativa “Libri Liberi” è di quelle che lasciano il segno. Promossa dalla Fondazione De Sanctis con il patrocinio del Ministero della Giustizia, in collaborazione con il Centro per il Libro e la Lettura del Ministero della Cultura. Prevede dodici incontri in altrettante carceri italiane. Attori ed esperti leggono e commentano brani di testi classici per sollecitare riflessioni e valutazioni da parte di chi è stato privato della libertà. L’obiettivo della rassegna è infatti offrire ai detenuti la possibilità di immergersi in mondi letterari. Ed esplorare le profondità della condizione umana attraverso la lettura. L’iniziativa si inserisce inoltre in un più ampio contesto di promozione della cultura come strumento di riscatto e rinascita. Offrendo una preziosa occasione di riscoperta del sé. Quanto “Libri Liberi” sia importante lo confermano l’attenzione e le presenze dei detenuti agli incontri. Già nelle prime due occasioni - nel romano Rebibbia e nel napoletano Secondigliano - circa un centinaio di persone hanno presenziato alle letture. E dopo un primo comprensibile momento di prudenza, in parecchi si sono avvicendati al microfono per stabilire un parallelo tra la loro vita e le vicissitudini dei protagonisti dei libri. Significativo e commovente, sotto questo profilo, l’intervento di un detenuto di Rebibbia. Che - ha raccontato lui stesso - dovrà rimanere in carcere per più di trent’anni. “Mi ha colpito che Ulisse, dopo dieci anni di peripezie, torna a Itaca e trova la moglie Penelope ad aspettarlo”. Così ha detto rivolgendosi all’attore Stefano Fresi e allo scrittore Edoardo Albinati (che peraltro proprio a Rebibbia ha insegnato per decenni). “A noi invece capita che, dopo decenni di detenzione, una volta usciti dal penitenziario non troviamo nessuno”. Si è aggiunto poi un ragazzo anche lui recluso nel penitenziario romano: “Nella vita si fanno scelte sbagliate e noi le abbiamo fatte. Ma non bisogna cadere nei pregiudizi. Qui tra di noi ci sono anche persone valide”. Stesse commozione e partecipazione a Secondigliano. I detenuti - con interventi precisi e puntuali - hanno chiesto allo scrittore Maurizio De Giovanni notizie su Gabriel García Márquez e sui motivi che l’hanno portato a scrivere uno dei romanzi più significativi del Novecento. “La solitudine di Garcia Marquez è la stessa nostra. Ma è una solitudine che a volte ti aiuta a riflettere” ha detto uno di loro. L’iniziativa ha ricevuto grandi apprezzamenti dagli operatori carcerari. Questi i dodici appuntamenti in calendario. Oltre a Rebibbia e Secondigliano, il programma prevede il 27 marzo nel penitenziario milanese di Opera “Gli androidi sognano pecore elettriche” di Philip K. Dick, con Elisa Fukas ed Elena Lietti. Il 4 aprile, al carcere minorile Beccaria di Milano, si parlerà di “Pianissimo”, una raccolta di poesie di Camillo Sbarbaro, con Daniele Mencarelli e Alessio Boni. L’11 aprile a Firenze, nel carcere minorile Meucci, sarà la volta delle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo, con Aurelio Picca e Sergio Rubini. Il 15 maggio, nel romano Regina Coeli, lo spunto di riflessione sarà invece “La strada di San Giovanni” di Italo Calvino, con Rosella Postorino e Francesco Montanari. Il 9 giugno, a Roma ma nel carcere minorile di Casal del Marmo, la discussione ruoterà attorno a “L’isola di Arturo” di Elsa Morante, con Giulia Caminito e Claudia Gerini. Il 2 settembre a Venezia “Ragazza, donna, altro” di Bernardine, Evaristo con Igiaba Scego e Anna Bonaiuto. Il 19 settembre a Bari con “Genie la matta” di Ines Cagnati, con Donatella Di Pietrantonio e Lino Guanciale. Il 9 ottobre a Palermo, nel carcere Pagliarelli, ci saranno “I 49 racconti” di Hemingway, con Giuseppe Cucchiarelli e Giorgio Colangeli. Il 3 novembre a Bari-Fornelli (minorile) sarà il turno di “Poesia in forma di Rosa” di Pier Paolo Pasolini, con Davide Rondoni e David Riondino. Ultimo appuntamento a Nisida, il 21 dicembre, con “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman, con Antonio Franchini e Marianna Fontana. Agli 007 licenza di controllare le Università. Le opposizioni: “Ritirate la norma del ddl Sicurezza” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 marzo 2025 Opposizioni unite contro l’articolo 31 del pacchetto in esame al Senato. M5s, Avs, Pd e Iv: super poteri ai servizi segreti, così si va verso uno Stato di polizia. A poche settimane dall’approdo in Aula al Senato del ddl Sicurezza, le opposizioni unite promettono una “battaglia durissima” contro l’articolo 31 del testo che obbliga “le pubbliche amministrazioni e i soggetti che erogano servizi di pubblica utilità” alla collaborazione con i servizi segreti e permette alle agenzie di intelligence italiane (Dis, Aise e Aisi) di stipulare anche con le università e gli enti di ricerca “convenzioni” che prevedano l’accesso ai dati personali ancorché protetti da accordi di riservatezza. Per i senatori del M5S e di Avs, che ieri hanno organizzato una apposita conferenza stampa a cui hanno partecipato anche Pd e Italia Viva, l’articolo 31 “va stralciato” dal testo perché apre alla “schedatura di massa” e costituisce “un attacco ai diritti fondamentali”. Mentre si attende - a questo punto forse in Aula - l’annunciato emendamento governativo per correggere le più evidenti incostituzionalità del ddl Sicurezza, e che riporterebbe il testo alla Camera in terza lettura, ieri sera si è concluso l’esame degli emendamenti nelle commissioni in seduta congiunta Affari Costituzionali e Giustizia, dove la prossima settimana ci saranno le dichiarazioni di voto. Poi il testo andrà in Aula, ma probabilmente non prima di aprile. Il provvedimento, che per la senatrice Maiorino (M5S) si dovrebbe chiamare “ddl Repressione”, nella norma specifica contenuta nell’articolo 31 permette agli 007 “di spiare chiunque senza garanzie e senza dare adeguati poteri di controllo al Copasir, cioè al Parlamento. Ospedali, scuole e università, solo per fare tre esempi, saranno costretti a fornire ogni dato che venga richiesto dai servizi. Chi controllerà questi agenti segreti?”, è la domanda della pentastellata. Per la senatrice Cucchi (Avs), si tratta di “una norma inaccettabile che minaccia la libertà accademica, il pensiero critico e il diritto al dissenso nelle università italiane”. Mentre il suo capogruppo, De Cristofaro, sottolinea che “dopo la vicenda dello spionaggio ai danni di attivisti e giornalisti con lo spyware di Paragon Solution questo provvedimento appare ancora più pericoloso”. Il dem Bazoli, membro della commissione Giustizia, avverte che, se l’intero ddl “garantisce tutto, la repressione e l’intimidazione, tranne la Sicurezza”, è comunque l’articolo 31 “la norma forse più grave e pericolosa” che “va assolutamente stralciata se non si vuole arrivare davvero ad uno Stato di polizia”. Anche perché, fa notare Dafne Musolino (Iv), “crea questa figura dell’agente provocatore che agisce senza nessun controllo democratico. E in un Paese che patisce ancora le ferite della stagione delle stragi, del terrorismo, dei servizi deviati, è qualcosa di molto pericoloso”. A Napoli troppi minori armati. “Sì ai metal detector tra i banchi di scuola” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 19 marzo 2025 Un focus sui temi scottanti e attuali, la procuratrice Imperato: “Dobbiamo offrire modelli alternativi”. Sempre più violenti, sempre più aggressivi, sempre più affascinati dai modelli sbagliati che richiamano a certe fiction televisive. E sempre più abili nel maneggiare le armi. È impietosa ma drammaticamente reale la radiografia che fotografa il disagio minorile a Napoli e in Campania. Non a caso ad occuparsi del fenomeno è la Fondazione Polis della Regione, che ieri ha presentato nel complesso museale di San Marcellino e Festo i risultati della ricerca “Mind the Children: vulnerabilità e devianza in Campania”, finanziata dal ministero dell’Università e della Ricerca. A confronto magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, docenti, amministratori, dirigenti scolastici e operatori che si occupano di minori e devianze riconducibili agli adolescenti. Il dibattito, introdotto dal prefetto Michele di bari e dal segretario della Fondazione Polis, Enrico tedesco, è stato moderato dalla giornalista Maria Chiara Aulisio. “Purtroppo - esordisce la procuratrice della Repubblica per i minori di Napoli, Patrizia Imparato - assistiamo in maniera sempre più frequente a episodi che vedono giovanissimi protagonisti come indagati, autori di efferati reati quali quelli tristemente noti alle cronache di tutti i giorni, sia a volte vittime di analoghi reati commessi da giovani adulti. Occorrerebbe un maggiore intervento da parte di tutte le istituzioni per fornire a questi minori e a questi giovani adulti modelli di vita alternativi, cercando di creare soprattutto delle possibilità lavorative che diano loro la possibilità di trovare una dignità personale fuori da modelli devianti ai quali finiscono per aderire”. Per il presidente del Tribunale dei minori di Napoli, Piero Avallone “il Covid non è stato la causa del fenomeno, che ha radici profonde, ma ha rappresentato sicuramente un’aggravante che ne ha acuito le forze: parlare oggi di baby gang e di bullismo sembra la scoperta dell’acqua calda”. Significativi gli interventi dei due rappresentanti delle forze dell’ordine. Per la Polizia di Stato Nunzia Brancati, dirigente della Divisione anticrimine della Questura, che ha sottolineato come nel periodo antecedente la pandemia del 2020 la casistica di delittuosità minorile presentava dati inferiori ad oggi. “Adesso - spiega Brancati - sono aumentati soprattutto i reati a base violenta, con picchi maggiori relativi alle rapine, alle lesioni gravi e agli abusi sessuali. Ma soprattutto oggi non è più la camorra che va in cerca di minori, semmai il contrario”. Sessanta le misure di prevenzione adottate nei confronti dei minori dai giudici delle misure di prevenzione “Sbagliamo ad affrontare il problema continuando a vederlo come un’emergenza - dice il comandante del Gruppo carabinieri di Napoli, Giuseppe Musto - ed è riduttivo condurre queste forme di devianza ai modelli della criminalità organizzata. Così com’è riduttivo inquadrare certi comportamenti nell’ambito del degrado familiare, giacché oggi emergono modelli simili anche da soggetti che provengono da contesti ambientali sani, il che conferma che la violenza giovanile è diventato un fenomeno trasversale. Sempre più le armi diventano uno strumento per mostrarsi e per affermarsi all’esterno”. Per il direttore scolastico regionale Ettore Acerra oggi è indispensabile “creare alleanze e sinergie educative, perché non si può chiedere e delegare sempre tutto alla scuola”. E sulla presenza dei metal detector agli ingressi degli istituti, per prevenire l’ingresso di lame e coltelli, aggiunge: “Le scuole non per questo diventeranno delle carceri, ma ogni tanto controlli e verifiche non possono che tornare utili”. Al 9 marzo 2025 negli Istituti penali per minorenni in Campania erano presenti 105 minori: 79 a Nisida e 26 ad Airola. A renderlo noto è stato Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti. Dei 99 minori e giovani adulti presenti negli istituti minorili campani, alla fine del 2024, il dato più allarmante riguarda l’aumento dei delitti contro la persona con 44 omicidi volontari rispetto ai 28 del 2023: “Per questo - conclude Ciambriello - occorre prevenire piuttosto che curare”. A don Antonio Palmese, presidente della Fondazione Polis, le conclusioni: “La Fondazione Polis - dichiara - si è preoccupata di andare oltre le vittime e cercare l’innocenza mancata degli autori dei reati. Sulla devianza dei giovani però bisogna uscire dalla ricerca dei capri espiatori identificati in famiglia e scuola. Questo nostro studio è un contributo importante che non guarda a questo pressapochismo”. Migranti. Joy, Ben, Mohamed e i bimbi fantasma di Elisa Sola La Stampa, 19 marzo 2025 La procuratrice dei minori: sfruttati, ma non chiedono aiuto. Emma Avezzù: “Arrivano dal nord e centro Africa: molti sono sfruttati da adulti”. “Spesso sono vittime di tratta usati per spacciare. Non chiedono aiuto quindi ci mancano riscontri”. Arrivano dal mare, dopo viaggi tempestosi. Bagnati dalle onde, avvolti da coperte termiche. Dichiarano un nome, se sono abbastanza grandi per parlare. Si chiamano Joy. Si chiamano Ben. Si chiamano Mohamed. Sono senza documenti. Senza un’età definita. Senza un’identità. Sono l’esercito indistinto di quelli che la nostra burocrazia chiama “minorenni non accompagnati”. Sono neonati, per la minor parte delle volte. O bambini ragazzini, nella maggior parte dei casi. Vengono accolti nelle comunità più vicine al luogo dello sbarco. E poi trasferiti al Nord. Spesso a Torino. Perché Torino? Sarà perché la frontiera francese è vicina, è il luogo più ambito per molti di questi ragazzini sperduti. “Vorrei raggiungere mio zio”. “Ho un cugino che vive là”. Non è chiaro se gli adulti evocati siano davvero parenti. O connazionali pronti a sfruttarli. “Il sospetto che possano essere vittime di tratta, c’è”, spiega Emma Avezzù, a capo della procura dei minori di Torino. “Parliamo di sospetti - precisa - facciamo delle ipotesi perché osserviamo dei fenomeni. È il caso dei nordafricani minorenni che chiedono, appena sbarcati, di poter raggiungere presunti parenti a Torino. Non sappiamo perché, ma abbiamo il dubbio che possano essere messi sulla strada per delinquere”. Sfrecciano sui monopattini davanti a Porta nuova. Fumano l’erba nei giardini Sambuy. A volte gli agenti della Polfer li arrestano per piccoli spacci, piccoli furti, rapine. Chi sono? E chi sono davvero gli “zii” che dovrebbero proteggerli? Baby pusher - Ci sono anche delle certezze. Come nel caso dei baby pusher. Di baby non hanno più nulla. Se non l’età, mai dichiarata e bruciata dalla vita di strada. “Su di loro non abbiamo dubbi - dichiara Avezzù - arrivano dalla Nigeria, dal Gambia, per essere assoldati”. Le inchieste sulla mafia nigeriana lo dimostrano. L’esercito di sfruttati spaccia da largo Palermo a piazza Bengasi, seguendo la linea del 4 e della metro. Prove di iniziazione - L’ultima inchiesta sui Viking, branca della mafia nigeriana al centro di un processo finito con 22 condanne, racconta molto bene il mondo dei bambini sfruttati. Le femmine vengono messe sulla strada anche a 12 anni. Vendute dopo “riti di affiliazione” che consistono in stupri di gruppo. I maschi, se superano la “prova della iniziazione” - pestaggi violentissimi a suon di bastonate e ferite inferte con cocci di bottiglia - sono pronti per spacciare coca, eroina e crack. Anche loro sono dei fantasmi. Con nomignoli scelti dal clan. Quanti anni hanno, non lo sanno neanche loro. È un dato che si sa, a volte, solo se vengono arrestati. Dice Avezzù: “Non possiamo dare numeri. Non emergono. Sono nascosti. Non chiedono aiuto”. Le identità rubate - Poi ci son i neonati dalle identità rubate. Gestiti da ladri di documenti scoperti per caso. Da un’inchiesta coordinata dal pm Mario Bendoni, era emerso il traffico, gestito da uomini marocchini, che assegnavano a bambini nati a Torino genitori diversi da quelli veri. Solo sulla carta, per truffare lo Stato e fare ottenere alle madri e a uomini che non erano i loro veri padri la cittadinanza nel nostro Paese. Su questo fenomeno non ci sono dati. Come si fa a contare gli invisibili? Il reato si chiama “alterazione dello stato civile” praticata con la sostituzione del neonato. La pena va fino a dieci anni. I bambini venduti - Bambini con genitori diversi dai propri. E bambini venduti. Come la piccola di sette mesi, trovata ieri in un alloggio di Barriera. Sedata e fatta arrivare su una barca in Italia a ottobre. Figlia di chi? Figlia di nessuno. “È un caso eccezionale - commenta Avezzù - è davvero molto piccola. Non è mai stata registrata. Sappiamo che è stata portata via dalla mamma, una donna sola che vive in Marocco. E vivere sole in Marocco, Paese musulmano, da madri sole non è per nulla facile. La neonata è stata portata in Italia e affidata, dietro pagamento, a due connazionali. Non sappiamo perché. Come procura siamo stati in silenzio finora per non rovinare l’indagine. Una qualsiasi nostra mossa avrebbe potuto destare sospetti e portare gli indagati a nascondere o persino a sopprimere questa bambina. Ora che è stata salvata, avvieremo la procedura di adottabilità”. I numeri - Quanti sono i neonati fantasma? Nessuno lo può dire. Anni fa hanno scoperto un bambino di Moncalieri che non era mai stato registrato all’anagrafe. Era un “senza identità”, anche lui. Non possiamo contare i neonati invisibili, ma possiamo osservare. Fa notare Avezzù: “Come le puerpere che escono dall’ospedale senza dichiarazione di nascita. È vero che la si può fare anche in Comune, ma occorre vigilare”. Qualcuna potrebbe sfuggire. Qualche neonato finire nell’esercito del nulla. Migranti. “Paesi sicuri”, la Ue punta a sdoganare Pakistan e Bangladesh di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 marzo 2025 Sono Stati “strategici” secondo il report di inviato da von der Leyen ai leader europei. Un ufficiale di Frontex arriverà a Islamabad a maggio. Tra i paesi di origine che la Commissione europea ritiene “strategici” per le sue politiche migratorie Bangladesh e Pakistan hanno un’importanza particolare. Lo mostra il report sulla “situazione migratoria, marzo 2025” che la presidente Ursula von der Leyen, in vista del Consiglio di domani, ha inviato lunedì ai leader Ue insieme a una lettera sullo stesso tema. In quest’ultima annuncia che anticiperà la lista comune sui “paesi di origine sicuri”, nel documento di 25 pagine elenca invece lo stato dell’arte dei vari ambiti di intervento contro gli attraversamenti di frontiera. L’Unione appare come una mappa di ostacoli opposti alla mobilità umana, che sbarrano la strada dai paesi appena fuori dai confini esterni - Libia, Tunisia, Egitto, Marocco - ma anche da quelli lontani. In Bangladesh, dove è dislocato dallo scorso anno un funzionario del Viminale per condurre i negoziati sui rimpatri, l’ultimo meeting con la Ue sul tema migratorio si è tenuto il 5 marzo. In Pakistan un analogo incontro si è svolto ad aprile 2024: sette mesi dopo è stato siglato un progetto per la “reintegrazione” dei cittadini pakistani (in cambio di 7 milioni) e a maggio arriveranno due ufficiali di collegamento europei, di cui uno Frontex. Islamabad è già parte delle liste dei “paesi sicuri” di Grecia e Cipro ma non era rientrata, nonostante gli sforzi del governo Meloni, in quella italiana di maggio 2024. L’Europa ora allude al suo inserimento nell’elenco comune annunciato da von der Leyen. Per l’Italia sarebbe un successo: quest’anno il Pakistan è la seconda nazionalità, dopo il Bangladesh, per sbarchi. La definizione di “paese di origine sicuro” è decisiva per il progetto Albania: solo chi viene da quegli Stati può essere sottoposto alle procedure accelerate di frontiera che prevedono la detenzione durante l’esame della domanda d’asilo, in Sicilia come a Gjader. Finora i giudici nazionali hanno contestato la legittimità della classificazione italiana di Bangladesh ed Egitto, liberando tutte le persone trattenute oltre Adriatico. Le cose cambieranno con la lista europea e l’entrata in vigore del Patto Ue su migrazione e asilo. È prevista a giugno 2026 ma l’Italia vuole anticiparla perché consente maggiori possibilità di designare come “sicuri” i paesi di origine. Per implementare il nuovo Patto, che colpirà duramente il diritto d’asilo in Europa, solo per il triennio 2025-2027 sono già stati stanziati 4,6 miliardi (1,2 riservati a sostenere chi ospita gli ucraini). Il governo Meloni ha bisogno che il progetto Albania funzioni perché l’Italia è il paese su cui graverà il maggior numero di procedure accelerate obbligatorie: il 26% del totale, ovvero un minimo di 8.016 persone nel primo anno, per poi crescere in quelli successivi. Formalmente queste procedure sono state pensate per chi ha poche possibilità di ottenere la protezione internazionale e dovrebbero accelerarne il rimpatrio, di fatto si traducono in una limitazione del diritto di difesa dei richiedenti asilo dalla dubbia costituzionalità. Per i paesi di destinazione dei flussi, quelli del centro-nord Europa, questo iter speciale ha l’obiettivo di limitare i “movimenti secondari”, interni ai confini Ue. Per l’Italia dovrebbe semplificare, di fatto, le deportazioni. Il quadro pone l’urgenza di esternalizzare i migranti oltre Adriatico e concludere accordi con i paesi di origine in testa agli sbarchi. In caso contrario la Sicilia diventerebbe un grande centro di detenzione per conto di Bruxelles. Non il massimo per un esecutivo sovranista. Per tutto questo, comunque, ci sarà tempo. Intanto Meloni ha bisogno di sbrigarsi a riempire i centri in Albania. Il loro futuro immediato dipende dalla causa sui paesi sicuri che pende davanti alla Corte di giustizia Ue. Ai giudici di Lussemburgo ieri la premier ha inviato, dai banchi del Senato, l’ennesimo monito: “L’auspicio è che la Corte scongiuri il rischio di compromettere le politiche di rimpatrio, non solo dell’Italia ma di tutti gli Stati membri e dell’Ue stessa, perché significherebbe minare alla base il sistema di Schengen e la stabilità stessa dell’Europa”. In realtà i rimpatri sono possibili pure verso i paesi non sicuri se la persona, anche seguendo la procedura ordinaria, non ottiene l’asilo. Ma la realtà è un’altra storia. La Difesa e l’ambiguità da destra a sinistra di Marcello Sorgi La Stampa, 19 marzo 2025 Chi ieri diceva - e se n’è potuto ascoltare più d’uno nei corridoi del Senato in cui s’è svolta la prima fase di un dibattito stracco sull’Ucraina e sul ruolo di un’Italia ormai dubbiosa su tutto - che in fondo la soluzione trovata per tenere insieme la coalizione di governo e non vedere frantumarsi quella d’opposizione è il solito compromesso democristiano, all’italiana, aperto a qualsiasi esito, in cui non si parla più di armi e quasi non si fanno valutazioni su Trump, Von der Leyen e Zelenski, per una volta faceva un’affermazione sbagliata, o quantomeno approssimativa. Sulla politica estera e sulle questioni strategiche di difesa infatti, la Dc, si passi il gioco di parole, non fu mai o quasi mai democristiana. Eppure era il partito dei cattolici italiani, in buona parte pacifisti, e doveva fare i conti con Papi italiani cresciuti nelle stesse università del gruppo dirigente del partito, e negli ultimi anni con il leone Wojtyla che ne accompagnò il tramonto e arrivò a proporsi come scudo umano a Baghdad. Non sarebbe nemmeno necessario ricordare - è storia arcinota - che fu De Gasperi nel 1949 a portare in Parlamento il Patto Atlantico, approvato in una delle più violente sedute di scontri con l’opposizione che si rammenti. E la politica estera dei nostri governi, senza cercare, come adesso, ruoli di primo piano che non ci erano e non ci sono assegnati, fu sempre coerente con l’impostazione iniziale, filo-atlantica e filo-europea. Sarà anche vero che questo avveniva nel più lungo periodo di pace che l’Europa abbia mai conosciuto. Ma lo è altrettanto che quando la situazione cominciò a deteriorarsi, gli ultimi esecutivi della Prima Repubblica e i primi della Seconda non cercarono di defilarsi, traendo il più conveniente risultato d’immagine possibile e la miglior photo-opportunity alla Casa Bianca, come sta in sostanza facendo quello attuale. Al contrario, seppero stare o restare al loro posto, fin dalla guerra nei Balcani e dalla prima missione nel Golfo (1991). Compreso Berlusconi, il quale, in tempi più recenti, pur cercando di mostrarsi sempre come uomo di pace ed essendo riuscito nel 2002 a portare insieme a Pratica di Mare Bush jr. e Putin, mandò i soldati italiani in Afghanistan con la Nato (di cui l’Italia ebbe per un periodo il comando militare sul campo) e senza la copertura Onu; e in Iraq evitando di farsi schermo delle riserve che accompagnarono quella missione, in cui peraltro l’Italia dovette scontare perdite tragiche a Nassiriya. Perfino D’Alema, primo (e unico) premier post-comunista, aprì nel 1999 le basi Nato italiane all’intervento in Kosovo, coadiuvato nei bombardamenti a Belgrado dai piloti della nostra Aeronautica. Questo per dire, già che ci siamo, che ci sarebbe un’altra leggenda da sfatare: quella di un’Italia nascosta sempre nelle retrovie, al calduccio, e non impegnata nelle operazioni più rischiose: semplicemente, non è vero, basta andarsi a rivedere il ruolo dei nostri contingenti, spesso il primo dopo Usa, Regno Unito e Francia, basta parlare con gli ufficiali che andarono a rischiare la vita, insieme a ragazzi partiti volontari. La destra meloniana che per bocca della premier si è prodotta nel più classico degli esercizi di equilibrismo, per trattenere nella sua maggioranza la destra estrema ed euroscettica di Salvini, dovrebbe riflettere sul fatto che questo servirà pure a tener buoni gli elettori che nei sondaggi si manifestano contrari al piano della Von der Leyen “Rearm Europe”. Ma rappresenta una svolta rispetto alla tradizione di una destra italiana, appunto, sempre vicina alle Forze Armate e ai loro vertici. I quali, consapevoli che Trump ha dato il via a un disimpegno militare dall’Europa senza ripensamenti, legittimamente si chiedono in che modo, al di là delle parole ascoltate ieri al Senato, il governo intenda affrontare il nodo della difesa che in pochi giorni si è presentato in forma nuova e inaspettata. E dato che la politica estera è - o dovrebbe essere - terreno di unità su cui misurarsi anche con l’opposizione, ciò vale anche per il Pd, il nuovo Pd pacifista di Schlein in cui ancora si fronteggiano i due partiti interni che si sono scontrati a Strasburgo. È il momento dei richiami storici. E il più forte, naturalmente, è a Berlinguer, il leader più amato. Si parla, è ovvio, del Berlinguer della seconda fase, post-compromesso storico e rottura con la Dc. Il Berlinguer che dopo aver stupito tutti nel’76 con la storica intervista sul Corriere a favore della Nato, dopo le rotture con i “cugini” di Mosca, invece di aprire definitivamente all’Europa, ripiegò sulla battaglia contro i missili Nato di Comiso, senza capire che avrebbero segnato la svolta decisiva per la caduta del regime sovietico. Fu questo, dopo il primo sulla “strategia della fermezza” verso le Brigate rosse che avevano sequestrato Moro, il secondo terreno di scontro con Craxi, che appoggiò il governo Cossiga, e poi quello Spadolini che materialmente installò nel 1981 i Cruise nella base Nato siciliana. Ma non fu certo l’ultima occasione di una fase in cui i rapporti tra comunisti e socialisti divennero pessimi, e culminò nella durissima opposizione al taglio della scala mobile, il sistema di adeguamento dei salari, voluto da Craxi presidente del consiglio per ridurre l’inflazione, nei fischi contro la delegazione del Pci al congresso socialista di Verona e nella fine tragica sul palco del comizio di Padova del segretario comunista. Tra politica estera e interna di quarant’anni fa e oggi, ci sono indubbiamente analogie. Anche allora si trattava di collocarsi in Europa in un momento di veloce cambio del quadro internazionale Usa-Urss. Di compiere scelte difficili, benché necessarie in campo economico, che in parte sarebbero state pagate anche dai lavoratori. E di arrivare a contestarle con un referendum, come quello del 1985 sulla scala mobile, e com’è oggi quello sul Jobs Act di Renzi. L’unica cosa che si evita di ricordare è che Berlinguer, in quei casi, sbagliò. E il Pci ne fece le spese. L’allarme di Von der Leyen: “L’Ue si prepari alla guerra”. Ecco il piano per gli Stati di Marco Bresolin La Stampa, 19 marzo 2025 La Commissione: “Pronto un fondo da 150 miliardi da elargire con prestiti a tassi agevolati”. Tra le condizioni per usufruirne appalti condivisi con altri europei e commesse ad aziende locali. Nell’ultima bozza di conclusioni del vertice Ue in programma domani c’è ancora scritto che il Consiglio europeo “invita gli Stati membri ad aumentare con urgenza gli sforzi per andare incontro alle esigenze militari e di Difesa dell’Ucraina”. Ma è chiaro che il messaggio emerso dalla telefonata tra Trump e Putin rimette tutto in discussione: la Russia ha chiesto di bloccare l’invio di armi a Kiev durante il possibile cessate il fuoco. A caldo, Emmanuel Macron ed Olaf Scholz ieri sera hanno ribadito che il sostegno militare all’esercito ucraino da parte degli europei “continuerà”. Hanno definito “un buon inizio” la tregua sulle infrastrutture energetiche, ma hanno ribadito che “non può esserci alcuna intesa senza l’Ucraina”. La richiesta russa era in qualche modo prevedibile, ma ora bisogna vedere quali conseguenze concrete ci saranno, visto che finora l’Ue aveva sempre ribadito la sua volontà di continuare ad armare Kiev. Volontà che, all’atto pratico, si è però scontrata con parecchie difficoltà, visto che il piano presentato dall’Alto Rappresentante Kaja Kallas per stanziare aiuti militari per 40 miliardi di euro entro il 2025 era già stato accolto con freddezza da molte capitali, soprattutto tra quelle dei Paesi che si trovano nell’arco meridionale. Alla riunione di lunedì tra i ministri degli Esteri, l’italiano Antonio Tajani aveva fatto esplicitamente riferimento alla necessità di valutare la situazione alla luce della telefonata tenutasi ieri. In attesa di definire meglio i contorni della risposta all’intesa informale di ieri e le eventuali ripercussioni sulla strategia per il sostegno a Kiev, l’Ue va avanti con il suo piano di riarmo che intende portare avanti a prescindere dall’esito del conflitto in Ucraina. “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra”. Riadattando la celebre locuzione latina, sempre più abusata di recente, Ursula von der Leyen ha anticipato la linea che emergerà oggi con la presentazione del suo Libro Bianco per la Difesa e con la strategia “Preparedness 2030”, secondo la quale nel giro di cinque anni l’Ue dovrà “aver riarmato e sviluppato le capacità per avere una deterrenza credibile”. Tra le ricette proposte, anche quella di introdurre un “Meccanismo europeo per la vendita di armi”, una sorta di centrale unica per l’acquisto di armamenti simile a quella sperimentata con i vaccini anti-Covid. La Commissione ha inoltre messo a punto i dettagli del piano “Safe” (Security Action for Europe), vale a dire il nuovo strumento che verrà introdotto sulla base dell’articolo 122 del Trattato e che metterà a disposizione degli Stati membri fino a 150 miliardi di euro di prestiti a tassi agevolati. Per accedervi, i Paesi dovranno rispettare una serie di condizioni che sono elencate nella bozza di regolamento visionata da La Stampa. Le principali sono due: potranno essere finanziate le spese sostenute nell’ambito degli appalti congiunti tra almeno due Stati Ue, oppure tra almeno uno Stato Ue e uno Stato che fa parte dell’area Efta (Islanda, Liechtenstein e Norvegia), oppure l’Ucraina; allo stesso modo, saranno ammessi gli ordini effettuati presso le industrie di questi Paesi. Nel caso di beni realizzati attraverso componenti provenienti da diverse parti del mondo, il regolamento dice che “almeno il 65% del costo dei componenti” dovrà riguardare la produzione europea. Eccezionalmente, potranno partecipare agli appalti anche i Paesi candidati all’ingresso nell’Ue (per esempio la Turchia), oppure Paesi terzi con i quali esiste un accordo in termini di sicurezza: in quel caso saranno possibili gli ordini anche presso le loro industrie. La questione è molto sensibile per il Regno Unito, la cui industria della Difesa potrebbe essere in prima battuta esclusa dagli acquisti congiunti effettuati dai partner Ue. Secondo il Daily Telegraph, il premier britannico Keir Starmer starebbe facendo pressioni sull’Ue per consentire alle proprie aziende di essere classificate come “europee” all’interno del programma ReArm Europe. “Oggi la maggior parte degli investimenti nella Difesa va fuori dall’Europa e questo non è più sostenibile”, ha puntualizzato von der Leyen, che è anche tornata sull’esigenza di sviluppare una rete di infrastrutture “che facilitino il trasporto rapido di truppe e attrezzature militari”. Gli Stati Ue interessanti ai prestiti del programma Safe dovranno fare richiesta entro sei mesi dall’entrata in vigore del regolamento (che dovrà essere approvato soltanto dal Consiglio Ue e non dall’Europarlamento) e dovranno presentare alla Commissione un “Piano d’investimento per l’Industria e la Difesa europee”. I pagamenti saranno effettuati in una o più rate entro il 2030, ma sarà possibile avere un pre-finanziamento del 15%. Le merci acquistate tramite appalti congiunti potranno godere di un’esenzione temporanea dell’Iva. Filippine. La “war on drugs” e i crimini di Duterte di Marco Perduca Il Manifesto, 19 marzo 2025 Alla notizia dell’arresto su ordine della Corte penale internazionale (Cpi) di Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine dal 2016 al 2022, l’alto Commissario dell’Onu per i diritti umani Volker Türk ha dichiarato: “La guerra alla droga di Duterte, prima a Davao e poi in tutto il Paese, è stata a lungo fonte di preoccupazione per il nostro Ufficio. Da oggi inizia la ricerca di giustizia per le migliaia di vittime di uccisioni e altri abusi, così come per le loro famiglie”. Per motivi di salute Duterte non era in aula il 14 marzo scorso, la conferma delle accuse è prevista per il 25 settembre. Il Procuratore della Cpi lo ritiene responsabile di crimini contro l’umanità compiuti nell’ambito della sua “lotta al narcotraffico” tra il 2011 e il 2019. Le preoccupazioni dell’Onu sono state occasione di impegno di diverse associazioni, tra cui molte italiane, a partire dall’Associazione Luca Coscioni e Non c’è pace senza giustizia che negli anni non hanno smesso di operare per l’incriminazione del mandante di decine di migliaia di morti, insieme al Drug Reform Coordination Network (DRCNet), Forum Droghe e Fuoriluogo. Questo quanto scrivevo in questa rubrica, intitolata da Grazia Zuffa Filippine, un nuovo Hitler, il 5 ottobre del 2016. Ne ripropongo ora le parti più importanti a riprova della notorietà di quanto stesse accadendo nell’arcipelago filippino nel silenzio di molti. Da quando Rodrigo Duterte è stato eletto presidente il 30 giugno scorso, in quel paese è in corso una campagna di esecuzioni extragiudiziali in nome della “guerra alla droga”. In un paio di mesi sono state uccise circa 3.400 persone, tra “spacciatori” e “drogati”, mentre più di 700.000 filippini si sono consegnati “spontaneamente” alle autorità per paura di cadere vittime della campagna di incitamento alla violenza. Parlando a una grande folla nella sua città natale di Davao, Duterte ha più volte invitato i filippini a uccidere direttamente gli spacciatori che resistevano all’arresto o rifiutavano di essere portati nelle caserme esortando i presenti a “non esitate a chiamare la polizia” oppure, se in possesso di una pistola di “fare da soli”. Dalle parole si è passati ai fatti. Il giorno dopo l’inaugurazione della sua presidenza, Duterte ha detto a un gruppo di poliziotti: Fate il vostro dovere contro gli spacciatori e se nel farlo vengono uccise 1.000 persone io vi proteggerò. Nello stesso giorno messaggi simili, ma contro i tossicodipendenti, furono gridati davanti a folle plaudenti. Non tutti i filippini la pensano però come Duterte per fortuna. La senatrice Leila de Lima, che in passato aveva condotto delle indagini indipendenti sulle attività degli squadroni della morte a Davao, ha organizzato delle audizioni parlamentari sulle uccisioni. Adesso teme per la sua sicurezza perché Duterte ha lanciato una campagna diffamatoria nei suoi confronti accusandola di traffico di droga, un’accusa tra le più pericolose di questi tempi nelle Filippine. Oggi gli omicidi extragiudiziali ammessi ufficialmente sono 6.500, quelli stimati dalle Ong quasi 30.000. La senatrice de Lima è stata arrestata nel 2017 e infine liberata nel 2024 per l’inconsistenza delle accuse. Le Filippine, che avevano ratificato il Trattato di Roma istitutivo della Corte nel 2011, ne sono uscite nel 2019, all’indomani delle prime notizie dell’interesse della Cpi sui crimini di Duterte. La rubrica di nove anni fa si concludeva con l’invito all’Italia, centrale per l’istituzione della Cpi, a sostenere il lavoro delle organizzazioni non-governative che stavano lavorando a un dettagliato dossier su Duterte da inviare all’Aia. Non solo non lo fece ma a dicembre 2024 il nostro paese, con un governo di segno diametralmente opposto di quello di nove anni fa, non ha rispettato i suoi obblighi di arresto e cooperazione con la Cpi. Ma nell’incriminazione di Duterte uno zampino italiano c’è, eccome se c’è. Detenuti Usa in Salvador: nel carcere-lager che può ospitare 40mila persone di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2025 Il Centro di Tecoluca ospita i primi 238 carcerati spediti dall’amministrazione Trump. Le organizzazioni per i diritti umani: gravi violazioni. Quando - correva il 31 gennaio 2023 - il presidente del Salvador Nayib Bukele inaugurò, dopo circa un anno di lavori, il Centro di confinamento per il terrorismo (Cecot) di Tecoluca, pochi avrebbero scommesso che il Paese sarebbe rientrato da quella spesa e da quel sacrificio. Mediaticamente e dal punto di vista della geopolitica, di certo un risultato è stato raggiunto con l’arrivo dei primi 238 detenuti in gran parte della gang venezuelana Tren de Aragua (dichiarata un’organizzazione terroristica in Usa il 24 febbraio 2025), spediti neppure 48 ore fa dall’amministrazione statunitense a Tecoluca, nonostante il parere contrario di un giudice federale di Washington. Del resto, Bukele sostiene di avere le carceri più sicure del mondo e così, all’inizio di febbraio 2025, il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha confermato di aver raggiunto un accordo con il governo di El Salvador affinché il Paese accetti nelle sue carceri i detenuti che scontano la pena negli Stati Uniti, indipendentemente dal fatto che siano migranti o cittadini statunitensi. Il giudice americano ha bloccato l’applicazione della legge del 1798 sugli “stranieri nemici” per 14 giorni, sostenendo che si riferisce ad “atti ostili” perpetrati da un altro Paese che sono “equivalenti alla guerra” ma il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è andato avanti lo stesso, invocando quella legge per deportare rapidamente i presunti membri del Tren de Aragua, gang legata a traffico di droga, armi, esseri umani, rapimenti, estorsioni, crimini organizzati e omicidi su commissione. La spesa per un anno di detenzione (rinnovabile) a Tecoluca si aggira intorno ai 20mila dollari all’anno per detenuto, per complessivi (per ora) 5,2 milioni di dollari. Piccola spesa per gli standard statunitensi, grande guadagno per quelli salvadoregni. Le foto dei primi reclusi - a capo chino e rasato, ammanettati, con divisa di ordinanza bianca e guidati dalla polizia penitenziaria - hanno fatto il giro del web e hanno il sapore del deja vu visto che Bukele non è nuovo a queste riprese di impatto “cinematografico”. I 135 milioni di dollari spesi per costruire il carcere a Tecoluca - tra piantagioni di mais e fagioli, a 72,9 km in auto dalla capitale San Salvador - inizialmente dovevano essere circa la metà ma, si sa, da cosa nasce cosa e alla fine questa mega struttura è composta da 8 padiglioni per complessivi 236mila metri quadrati (116 ettari, 23 dei quali per gli edifici, circondati da 2,2 km di doppie mura elettrificate), ciascuno dei quali è composto da 32 celle, che in tutto sono 256. Ciascuna con tre muri di cemento e sbarre resistenti a tutto. Il soffitto è una piattaforma a forma di diamante con un bordo affilato per impedire ai prigionieri di impiccarsi e da lì vengono sorvegliati 24 ore su 24 da agenti incappucciati e armati di fucili. Il carcere può ospitare fino a 40mila reclusi - circa 7 mila persone in più della popolazione di Aosta e il doppio di Isernia, solo per fare due raffronti - ma finora nessuno sa con precisione quanti vengano ospitati. Ci sono due bagni senza alcuna privacy e nelle celle di punizione c’è solo una lastra di cemento che funge da letto, lavandino e water. Non ci sono finestre, ventilatori o aspiratori. Per lavare i vestiti, i detenuti utilizzano l’acqua di due fontane e a nessuno di loro è concesso ricevere visite né, tantomeno, lavorare o essere inseriti in programmi di rieducazione che li preparino ad inserirsi nella società dopo aver scontato la pena. Sale da pranzo, zone relax, palestra e area giochi sono riservati ai poliziotti che complessivamente sono circa mille, ai quali si aggiungono 250 ufficiali della Polizia civile nazionale e 600 membri delle Forze armate incaricati di sorvegliare l’anello esterno. Praticamente inaccessibile, inespugnabile e inviolabile. Un lager modello Alcatraz a San Francisco (Usa), per intenderci, chiuso il 21 marzo 1963 e dal quale ci fu chi provò a fuggire nei 29 anni di esistenza: 23 reclusi vennero ripresi, 6 uccisi, 2 annegarono e 5 vennero inclusi nei dispersi. Il Governo non aggiorna periodicamente il numero di reclusi e allora supplisce l’organizzazione per i diritti umani Cristosal, secondo la quale, a marzo 2024, El Salvador aveva 110mila persone in carcere (pari l’1,7% della popolazione del Paese), tra condannati e in attesa di processo. Oltre il doppio dei 36mila detenuti censiti dal Governo nell’aprile 2021, un anno prima che Bukele intensificasse la sua lotta contro la criminalità. Bukele è diventato presidente della Repubblica soprattutto grazie alla volontà espressa di aggredire la criminalità organizzata, che qui ha soprattutto il volto di MS-13, la gang di strada nata a Los Angeles con un gruppo di salvadoregni tornati poi in Patria ad imporre la propria legge di sangue e violenza e dichiarata anch’essa organizzazione terroristica in Usa contemporaneamente a Tren de Aragua. E a proposito di foto scioccanti, il 12 giugno 2024 fecero il giro del web anche quelle di oltre duemila presunti membri di bande criminali, conosciuti come “pandilleros”, trasferiti da varie carceri del Paese proprio nel Cecot di Tecoluca. A torso nudo, ammanettati dietro la schiena e seduti a terra con il capo chinato in avanti, sono stati fotografati senza alcuna pietà. Il Congresso del Salvador, su richiesta di Bukele, decretò lo stato di emergenza, in risposta a un’escalation di violenza senza precedenti. Per le organizzazioni per i diritti umani, nei centri di detenzione sono incarcerati anche innocenti che soffrono ingiustamente e subiscono trattamenti disumani. Nel 2024 Cristosal ha riferito che almeno 261 persone sono morte nelle prigioni di El Salvador durante la repressione delle gang. Il gruppo ha denunciato casi di abusi, torture e mancanza di cure mediche. Juanita Goebertus Estrada, avvocato, ex parlamentare colombiana e direttrice della divisione Americhe di Human Rights Watch - un’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani con sede principale a New York (Usa) - poche ore fa ha scritto che “i detenuti nel sistema carcerario di El Salvador sono tagliati fuori dal mondo esterno e viene loro negato qualsiasi ricorso legale significativo. Mentre Bukele pubblicizza le sue prigioni come le migliori al mondo, la realtà è molto diversa. Abbiamo ricevuto e verificato resoconti di pessime condizioni di detenzione, torture e morte”. E poi un racconto: “Una delle persone con cui abbiamo parlato era un operaio edile di 18 anni che ha detto che la polizia picchiava i nuovi arrivati in prigione con i manganelli per un’ora. Quando ha negato di essere un membro di una gang, lo hanno mandato in una cella buia nel seminterrato con 320 detenuti, dove le guardie carcerarie e altri detenuti lo picchiavano ogni giorno. Una volta una guardia lo ha picchiato così duramente che gli ha rotto una costola. La cella era così affollata che i detenuti dovevano dormire sul pavimento o in piedi (…)”. Juanita Goebertus Estrada ha concluso che “lo stesso Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha descritto queste condizioni come “pericolose per la vita”“. Giudizi pre-Trump. Il vento è cambiato.