Carcere, suicidi senza fine: a Verona la 19esima vittima dell’anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2025 Il sovraffollamento e la carenza di personale aggravano una crisi che sembra senza soluzione. Le opposizioni (tranne i 5Stelle) chiedono misure deflattive, De Fazio (Uilpa): “Il Governo fermi la carneficina”. La Casa Circondariale di Verona Montorio è stata recentemente teatro di due tragici eventi che hanno scosso anche i partiti di opposizione, dal Pd a Italia Viva. Un detenuto senegalese di 69 anni, prossimo al termine della sua pena nel 2030, si è tolto la vita domenica scorsa impiccandosi con un laccio rudimentale, e stamattina un altro detenuto si è tolto la vita, facendo salire a 19 il numero di suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Le condizioni all’interno della struttura carceraria di Verona Montorio rappresentano un microcosmo della crisi nazionale. Con 590 reclusi presenti e soltanto 318 posti disponibili, il carcere è al limite della sua capacità. La situazione è ulteriormente aggravata dalla carenza di personale: gli operatori della Polizia penitenziaria, che dovrebbero garantire sicurezza e assistenza, sono in numero insufficiente, con una presenza di 318 addetti che non raggiunge il fabbisogno minimo di 420. A livello nazionale, la realtà è ancora più preoccupante: si stima che vi siano 16.000 detenuti in eccesso rispetto alla capienza, nessuna iniziativa deflattiva e una grave carenza di operatori penitenziari. Gennarino De Fazio, Segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria, che ha dato notizia dell’ennesimo suicidio, non ha nascosto la propria indignazione di fronte a una realtà che trasforma il carcere da luogo di recupero e risocializzazione, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione, in un ambiente dove morte e sofferenza sono all’ordine del giorno. “Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni hanno il dovere di fermare la carneficina in atto, così come l’obbligo di garantire condizioni di lavoro accettabili e dignitose a chi opera quotidianamente in queste strutture”, ha dichiarato De Fazio. Le parole del sindacalista mettono in luce una richiesta urgente di interventi strutturali: ridurre il sovraffollamento, rafforzare gli organici degli agenti, garantire adeguate condizioni di assistenza sanitaria e riformare un sistema penitenziario che, ormai, sembra destinato al collasso. L’ennesimo suicidio in carcere rappresenta non solo una tragedia individuale, ma anche un segnale inequivocabile dell’urgenza di riforme radicali. Gli operatori della Polizia penitenziaria, chiamati quotidianamente a fronteggiare situazioni estreme in condizioni di carico di lavoro insostenibile, vedono minacciati il ??loro morale e la loro salute fisica e psicologica. Uno degli ultimi episodi è avvenuto qualche giorno fa nel carcere di Arghillà, a Reggio Calabria. Nell’istituto reggino, come riferisce in una nota Domenico Mastrulli, segretario generale nazionale del Cosp-Coordinamento sindacale penitenziario, tre agenti sono rimasti contusi per sedare gli scontri tra un gruppo di detenuti e persone affette da patologie psichiatriche che non dovrebbero essere ristrette nei penitenziari, ma nelle Rems. Allo stesso tempo, i detenuti, che dovrebbero avere la possibilità di riscatto e recupero, si trovano intrappolati in un ambiente che favorisce l’isolamento e l’abbandono, condizione che troppo spesso sfocia in esiti tragici come il suicidio. Ma nessuna iniziativa si intravede all’orizzonte. Non tutta l’opposizione è compatta. Mentre Pd, AVS, +Europa, Azione e IV ricordano l’importanza delle misure deflative, in particolare della liberazione anticipata speciale contenuta nella proposta di legge del deputato radicale Roberto Giachetti, ferma in Commissione Giustizia dall’ottobre 2020, il Movimento 5 Stelle non concorda con le proposte di legge decarcerocentriche, ma puntano sull’ampliamento della capienza delle carceri attraverso la realizzazione di “nuove strutture” e la riqualificazione di quelle già esistenti. Praticamente la vecchia e inefficace ricetta, riproposta, tra l’altro, proprio dal ministro Nordio. Come già ricordato su Il Dubbio da Valentina Stella, durante la conferenza stampa dell’opposizione è stata presentata una mozione delle sinistre, illustrata dal deputato Davide Faraone (IV), che al primo degli undici punti di impegno per il governo chiede di favorire il più rapido iter parlamentare della proposta di legge Giachetti. Tra le misure previste, vi è un aumento dello sconto di pena per buona condotta da 45 a 60 giorni ogni sei mesi. Inoltre, il segretario di +Europa, Riccardo Magi, ha avanzato l’ipotesi di introdurre il sistema delle carceri a numero chiuso, posizione condivisa anche da Rita Bernardini e Sergio D’Elia di Nessuno tocchi Caino durante la conferenza stampa. Il carcere e il senso di umanità di Federico Guiglia Brescia Oggi, 18 marzo 2025 Già più di due secoli fa Voltaire, filosofo illuminista, diceva che la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri. Il concetto è diventato una frase fatta che i politici ripetono a turno, eppure invano. Perché un altro visionario di un tempo a noi più vicino, Marco Pannella, che fu il leader storico dei radicali, trascorreva il giorno di ferragosto di ogni anno visitando le brutte prigioni del Belpaese. E denunciando l’intollerabile sovraffollamento dei detenuti. Che era ed è il naturale risultato del disimpegno istituzionale, cioè della generale incapacità dei governanti di attuare una politica carceraria. Fosse anche quella, oggi ancor più necessaria di ieri, di costruire nuovi e civili istituti, vista l’obsolescenza e l’incuria in cui versa gran parte delle strutture che dovrebbero dar seguito al meno citato degli articoli della Costituzione. Il 27, secondo il quale le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e devono tendere “alla rieducazione del condannato”. L’esatto contrario della realtà, invece, tragicamente testimoniata dai 18 suicidi di detenuti in neanche tre mesi -un primato, addirittura- e 4 in soli tre giorni, come ricorda l’ultimo caso del detenuto senegalese di 69 anni che s’è tolto la vita nel carcere di Verona. La voce del sindacato di polizia penitenziaria, che questa gravissima condizione denuncia da tempo, risuona nel deserto. Esiste financo un’analisi dettagliata sul fenomeno di chi decide di farla finita dietro le sbarre. Essi sono sempre più giovani e stranieri -specie nord-africani- con forte disagio psichico. Crescono pure le aggressioni al personale, 30 casi a settimana, “la più grave emergenza di tutti i tempi”, sottolinea Aldo Di Giacomo, il segretario del sindacato. Dunque, si parla di una situazione fuori controllo da entrambe le prospettive di chi “vive” la vita del carcere: il suicidio dei detenuti e gli agenti aggrediti. Nessuno si salva, quando l’affollamento oltre ogni limite e la mancanza di figure professionali che possano cogliere in tempo il malessere di chi sta già male di suo prima che esploda, creano il cortocircuito umano e istituzionale. Né si può trascurare il paradosso di che cos’è oggi la galera, dove spesso finiscono i presunti innocenti - lo siamo tutti, secondo Costituzione -, riconosciuti poi tali da sentenze definitive. E sempre meno ci vanno gli acclarati colpevoli di delitti anche gravi grazie agli infiniti cavilli e alla lungaggine dei processi che alimentano il senso di impunità e lo sconcerto della società. Ce n’è quanto basta perché il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, prenda il problema di petto. Lo Stato ha il dovere primario di garantire la vita e la vita degna delle persone che ha solo e temporaneamente in custodia. Ha il dovere di potenziare gli organici del tutto insufficienti. Ha il dovere di costruire e rinnovare le strutture all’insegna della civiltà e con percorsi che aiutino i detenuti a ricrearsi la famosa “seconda opportunità” nella loro esistenza. Il suicidio è la cronaca drammatica di un fallimento annunciato. “Il carcere ti cambia tutto, giusto fare strutture a parte per la custodia cautelare” di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 18 marzo 2025 “Esiste un prima e un dopo il carcere. Non c’è un aspetto della tua vita che non viene toccato”. Simone Uggetti nel 2016, quando era sindaco di Lodi, venne arrestato per una presunta turbativa d’asta relativa a una gara di gestione di piscine scoperte, accuse poi rivelatesi infondate. Trascorse 11 giorni a San Vittore e 25 ai domiciliari. Dopo un iter processuale durato 7 anni è stato assolto definitivamente. Il suo caso non è isolato. L’anno scorso 552 persone sono state ingiustamente detenute. “E questi numeri sono parziali, perché riguardano coloro che hanno chiesto allo Stato una riparazione. Poi c’è chi come me, non lo ha fatto e non rientra in quelle statistiche. Ci dovrebbe essere un utilizzo della custodia cautelare che si richiami ai dettami della Costituzione, ma in questi decenni la prassi è stata quella di applicare un criterio molto estensivo, finanche a snaturare quei dettami. Molto spesso il carcere o i domiciliari diventano lo strumento con il quale di fatto si dà un calcio di inizio alle indagini”. Servirebbe una riforma della normativa? “Sì, abbiamo bisogno di una riforma che migliori il sistema. Tra il principio della Costituzione, le intenzioni del legislatore e l’applicazione pratica, c’è uno scarto significativo che qualsiasi operatore del diritto non può non riscontrare. Non per mettere il bavaglio all’opera dei magistrati, ma il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è una “coperta di Linus”. Di fatto c’è una discrezionalità nell’azione penale, sotto il mantello ipocrita dell’obbligatorietà. Sarebbe invece molto più serio e giusto nei confronti del cittadino che ci fossero da parte delle Procure delle griglie nelle quali si decide di perseguire in via prioritaria alcuni tipi di reati. Questa è una di quelle riforme di sistema che meriterebbe l’attenzione bipartisan, perché sappiamo che poi i ruoli politici cambiano ma spesso i problemi rimangono”. Cosa pensa della proposta del ministro della Giustizia Nordio di usare le caserme dismesse per la carcerazione preventiva? “In Italia abbiamo storicamente un problema di sovraffollamento delle carceri. Quindi utilizzare strutture esistenti, riconvertendole, mi sembra una proposta di buon senso. Ovvio che poi ci vuole un potenziamento di quelle strutture e un adeguamento del personale addetto”. Ha una proposta da suggerire? “Una proposta che lancerò riguarda il rapporto tra i pubblici amministratori e il sistema giudiziario. È quasi diventato normale oggi, soprattutto in una città capoluogo, che un pubblico amministratore si debba preventivamente munire della funzione di avvocato speciale perché è frequente finire indagati. Urge un intervento”. Lei ha subito la carcerazione preventiva. Qual è l’immagine che gli è rimasta impressa? “Io mi definisco un purista del carcere, perché ci ho trascorso “solo” 11 giorni. Nel raggio dei reati comuni, mi è rimasta impressa la sproporzione dei detenuti di origine italiana e non italiana. Alcuni direbbero che gli stranieri delinquono di più. Invece, vivendola sulla mia pelle, ho capito che c’è chi ha gli strumenti per difendersi dal sistema e chi no. Avere un buon avvocato fa la differenza”. Come si è sentito quando ha varcato le porte del carcere sapendo di essere innocente? “È un’esperienza che ti porti dentro per tutta la vita. Chi delinque sa in cuor suo che può incorrere in una reprimenda giusta. Chi invece come me è convito di agire per il bene pubblico si ritrova a vivere un capovolgimento della realtà. Mi ricordo il momento in cui arrivò il tenente colonnello e pronunciò le parole “ordinanza di custodia cautelare”: vidi un grande nero, ci ho messo tempo a dipanarlo”. Poi ha vissuto la gogna... “Sei giudicato colpevole e non hai parola, c’è una asimmetria comunicativa tremenda. Non c’è un aspetto della tua vita che non viene toccato. Io mi ritengo fortunato, nonostante tutto, perché ho un nuovo lavoro da amministratore delegato di una società rigorosamente privata che non lavora con il pubblico. Ho avuto una “voce di tribuna”, ma ci sono tante voci afone”. Se le riproponessero di candidarsi? “La passione politica ce l’avrò sempre. Vivo come un’azione politica anche raccontare la mia vicenda giudiziaria. Non escludo un ritorno, perché sarebbe sbagliato far vincere la paura, l’inazione. Sono felice di avere la possibilità di scegliere. Durante il processo non avevo neanche quella. Nello spazio tra l’indagine e l’eventuale condanna, se passano anni, anche chi doveva essere rieducato diventa una persona diversa. Io ho la fortuna di essere conosciuto, ma di Beniamino Zuncheddu quanti ce ne saranno”. Ora si ridiscute delle nuove piste sull’omicidio di Chiara Poggi... “Lì c’è uno stress mediatico ipertrofico. Ma pensi a quelli che non ce l’hanno. Da un certo punto di visto è anche più pericoloso, perché l’attenzione degli inquirenti è più bassa”. Comunicati dell’Anm nelle ordinanze: sui giudici un’istruttoria di via Arenula di Valentina Stella Il Dubbio, 18 marzo 2025 Secondo la Giunta nazionale del “sindacato” delle toghe, si tratta di “una indebita ingerenza nei confronti dei colleghi che hanno esercitato un diritto costituzionale”. Al momento non c’è alcuna ispezione da parte del ministero della Giustizia nei confronti di un giudice della terza sezione civile del Tribunale di Napoli Nord che, nel posticipare a marzo un’udienza che si sarebbe dovuta tenere il 27 febbraio, giorno dello sciopero Anm contro la riforma della separazione delle carriere, avrebbe allegato al verbale di rinvio anche il comunicato del “sindacato” delle toghe in cui si riportava la posizione dell’Associazione sulla contrarietà alla modifica costituzionale, posizione espressa a seguito dell’esito del primo grado del giudizio penale nei confronti del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Rispetto alle indiscrezioni giornalistiche di questi giorni, dunque, fonti di via Arenula ci fanno sapere che l’ufficio di Gabinetto del guardasigilli Carlo Nordio ha aperto per adesso solo una pre- istruttoria, limitandosi a richiedere la documentazione al presidente della Corte di Appello di Napoli. Ma ripercorriamo brevemente la vicenda. L’Anm proclama per il 27 febbraio uno sciopero contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e “nel rispetto della normativa vigente e del codice di autoregolamentazione”, invita i magistrati aderenti “ad allegare ai verbali di udienza un comunicato predisposto dall’Associazione dal contenuto critico sull’imminente riforma costituzionale”, come si legge in una mail interna al “sindacato”. Il comunicato standard descriveva genericamente i pericoli sottesi all’approvazione della riforma della separazione delle carriere: secondo l’Anm, ad esempio, “un pm separato dalla giurisdizione sarà attratto nella sfera di un altro potere” e “i primi a rimetterci saranno i cittadini per i quali non sarà pienamente attuato il principio di uguaglianza”. Tuttavia un magistrato napoletano, ancora non si sa se per sbaglio (considerato che nelle chat erano circolate diverse comunicazioni, in quei giorni) o convintamente, ha allegato invece il comunicato dell’Anm del 21 febbraio, diramato nel pieno dell’ennesima polemica tra toghe e politica: Delmastro era stato condannato in primo grado a 8 mesi per aver rivelato notizie segrete sul caso Cospito. Aveva subito dichiarato: “Non mi dimetto! Speriamo ci sia un giudice a Berlino”. E anche altri esponenti della maggioranza avevano attaccato i giudici, rei, a loro dire, di aver emesso una sentenza politica. Da lì la replica dell’Anm: “Per avere un giudice terzo non occorre andare a Berlino. Per dimostrare l’inutilità della separazione delle carriere, basta osservare la vicenda processuale che si è conclusa con la condanna in primo grado del sottosegretario Delmastro. Alla richiesta di archiviazione del pm un giudice ha ordinato l’imputazione, ed alla richiesta di assoluzione di un pm il Tribunale ha pronunciato condanna”. Questa nota sarebbe stata dunque allegata al verbale di rinvio da parte del magistrato partenopeo, come rivelato dal Tempo. Un avvocato l’avrebbe acquisita e segnalata con richiesta di spiegazioni ai dirigenti degli uffici giudiziari. Da lì la questione sarebbe arrivata all’attenzione del ministero della Giustizia che poi ha chiesto di sapere, tramite il presidente di Corte di Appello e quello del Tribunale, “con la massima urgenza” se, “in occasione dello sciopero dei magistrati proclamato per il giorno 27 febbraio 2025, i magistrati che avevano prestato adesione all’astensione avessero allegato ai verbali di rinvio dell’udienza di tale giorno un comunicato proveniente dall’Anm, e in particolare, quello in cui si riportava la posizione dell’Associazione sulla contrarietà alla riforma della separazione delle carriere espressa a seguito dell’esito del primo grado del giudizio penale nei confronti del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro”. Secondo l’Anm locale, presieduta da Cristina Curatoli, “la richiesta del ministero di avere conoscenza delle modalità di redazione dei verbali di rinvio delle udienze - senza che sia stata disposta un’ispezione ufficiale e servendosi della collaborazione dei dirigenti degli uffici interessati - appare singolare e rischia di risultare come un’inammissibile forma di sindacato sulle modalità di adesione allo sciopero dei magistrati”. La Giunta di Napoli, pertanto, ha espresso “forte preoccupazione e disapprova qualsiasi iniziativa tesa, anche solo in apparenza, a sindacare il diritto di ciascun magistrato di aderire allo sciopero, esercitato nel rispetto del codice di autoregolamentazione e con le modalità di comunicazione ritenute più opportune”. Sulla vicenda si è espressa anche la Giunta nazionale Anm, secondo cui l’iniziativa degli uffici di Nordio “costituisce una indebita ingerenza nei confronti dei colleghi che hanno esercitato un diritto costituzionale”. Il Csm: le nuove norme sui migranti affossano gli obiettivi del Pnrr di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 marzo 2025 Davanti agli organi di secondo grado arriveranno come minimo 2.500 cause in più. Così la riduzione degli arretrati diventa impossibile. “Sin da ora si può affermare che il nuovo carico di lavoro previsto per le Corti di Appello inciderà inevitabilmente sul raggiungimento degli obiettivi Pnrr, andando in controtendenza con i dati finora monitorati che hanno rilevato il costante raggiungimento dei predetti obiettivi da parte degli uffici di secondo grado”. Come ampiamente previsto, la decisione del governo di spostare la competenza sulla convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo dalle sezioni specializzate in immigrazione dei tribunali civili agli organi giurisdizionali di secondo grado renderà impossibile la riduzione dei procedimenti arretrati imposta dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. A inchiodare l’esecutivo alle sue responsabilità è l’analisi delle ricadute organizzative di tale trasferimento illustrata mercoledì scorso nel plenum del Csm dal consigliere Marco Bisogni, magistrato della corrente centrista UniCost e relatore dello studio. L’ufficio statistico del Consiglio superiore della magistratura stima, sulla base dei numeri del 2024 relativi ai procedimenti interessati dalla novità legislativa, un aggravio per le Corti d’appello di oltre 2.500 cause. Come minimo, perché restano dei dati non quantificabili con certezza e bisognerà comunque vedere la portata effettiva dei flussi migratori nel corso di quest’anno (finora leggermente in aumento). In attesa delle cifre esatte che arriveranno soltanto con lo studio sul primo semestre 2025 non c’è comunque spazio per dubbi di sorta: la tendenza a recuperare gli arretrati da parte delle corti registrata negli ultimi anni si invertirà inesorabilmente. Che sarebbe andata così era chiaro da tempo agli addetti ai lavori. I presidenti delle Corti d’appello lo avevano messo nero su bianco in una lettera indirizzata lo scorso novembre al capo dello Stato Sergio Mattarella e alla premier Giorgia Meloni. Nella missiva parlavano di un “disastro annunciato” che avrebbe reso “irrealizzabili gli obiettivi del Pnrr”. Nonostante l’allarme, la maggioranza ha deciso di far finta di nulla e tirare dritta per la sua strada approvando la legge a dicembre. Questa sarebbe dovuta servire, nelle intenzioni del governo, a ottenere pronunce favorevoli alla detenzione dei cittadini stranieri originari di “paesi sicuri” nei centri in Albania (e Sicilia) dopo i primi due round di bocciature. Quella speranza non si è comunque realizzata. A gennaio la Corte d’appello di Roma ha liberato i richiedenti asilo portati a Gjader e i colleghi di Palermo hanno fatto lo stesso con quelli rinchiusi a inizio febbraio nel centro di Porto Empedocle. In entrambi i casi è stato rinviato tutto ai giudici di Lussemburgo dove pende la causa sui “paesi di origine sicuri” che segnerà il futuro prossimo dei centri in Albania, a prescindere dal fatto che su di essi decidano i tribunali italiani di primo o secondo grado. Il 25 febbraio si è svolta in Corte Ue l’udienza orale. Il 10 aprile arriverà il parere dell’Avvocato generale. La sentenza è prevista tra maggio e giugno. Ministra Roccella, sicura che i femminicidi si fermano con la creazione di un diritto parallelo? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 18 marzo 2025 A noi studenti del primo anno di giurisprudenza dell’Università Statale di Milano, il professor Giandomenico Pisapia, docente di procedura penale, un giorno disse: se nevica abbondantemente, in Inghilterra si prende lo spazzaneve, in Italia si fa una legge speciale. Chissà se il ministro Carlo Nordio, qualora fosse stato seduto con noi nell’aula 301 in via Festa del Perdono quel giorno, avrebbe alzato la mano per esprimere il proprio dissenso. Magari per dire che quando c’è un’emergenza, non può che essere una legge speciale ad affrontarla nel modo più efficace. L’Italia, come ben aveva colto già allora il grande avvocato e docente, ama attingere a piene mani a norme speciali, doppi e tripli binari, corsie preferenziali nelle procedure, accertamenti sommari fondati sulla presunzione di colpevolezza, uso smodato delle intercettazioni e della custodia cautelare in carcere, fino alla detenzione speciale del 41-bis. Tutta la cosiddetta legislazione “antimafia” ne è intrisa, a partire dal reato associativo principe, il 416-bis, che funge da collante per i rastrellamenti di massa, per accerchiare e smantellare intere comunità. Come accaduto negli anni in Calabria per esempio, fino all’ultimo capolavoro dell’inchiesta “Rinascita Scott” del 2019, con centinaia di arresti che hanno determinato la costruzione della maxi- aula di Lametia e che con la sentenza di primo grado ha già visto assolto il 38% degli imputati. E l’aggravante di mafia è in gran parte caduta, proprio come quella romana di “Mafia capitale”. Nel frattempo, come ovvio, la ‘ ndrangheta in Calabria esiste ancora, e non sarà mai una legge a decapitarla. Così come, ma ce lo dicono ogni giorno le statistiche, nessun inasprimento di pena ha mai fatto diminuire i reati. Diversamente, nei Paesi dove esiste la pena di morte nessuno commetterebbe più omicidi. Oggi la nuova emergenza si chiama “femminicidio”, ed è indubbio che il problema esiste e che è molto grave, indipendentemente dal numero di donne che ogni anno viene ucciso all’interno di una relazione affettiva. Sono uccise perché donne? Si, in un certo senso, perché è la mano del maschio prevalentemente quella che si abbatte sulla compagna, o ex, e raramente accade il contrario. Ma il motivo vero, più che quello di discriminazione o odio di genere, è la possessività. Quindi l’emergenza andrebbe riformulata in questo modo. Non ti aggredisco perché sei una donna, ma perché sei “mia” e non tollero che tu abbia scelto di lasciarmi e magari di amare un altro. O mia o di nessuno, ecco perché ti uccido. E questo è molto maschile, ecco perché si parla di “femminicidio”, perché il gesto viene compiuto da un uomo nei confronti di una donna. Quale è il senso del nuovo disegno di legge che il governo Meloni ha sfornato nei giorni scorsi e che introduce il reato di femminicidio come norma autonoma rispetto al semplice omicidio? La ministra Eugenia Roccella, che ha firmato il provvedimento insieme al guardasigilli Carlo Nordio, in un’intervista a La Verità ne ha dato una spiegazione “antropologica”. “Non si intende - ha detto- correggere la società attraverso il diritto penale, ma applicare il diritto alla realtà delle persone, che nascono con un corpo sessuato”. Se abbiamo capito bene, siamo di fronte a ben più di quel che il ministro Nordio ha chiamato “svolta epocale”. Sarebbe la declinazione in sede penale della formula woke preferita dalla sinistra quando si rivolge a “uomini e donne” o a “tutti e tutte”. Sarebbe abolito il signor “chiunque”, il dominus di ogni incipit della norma penale: chiunque fa questo… è punito con…”. E la prima osservazione da fare, e alcuni giuristi l’hanno già avanzata, è una palese questione di incostituzionalità. Come la mettiamo con l’articolo 3 sull’uguaglianza dei diritti, senza distinzione, tra l’altro, di sesso? Roccella risponde anche su un altro punto molto criticato dagli ambienti liberali e garantisti. Cioè di aver previsto, nella nuova formulazione dell’articolo 577- bis del codice penale, direttamente la pena dell’ergastolo per “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o comunque l’espressione della sua personalità”. Ha ragione quando dice che già oggi, se al reato di omicidio, per cui il codice prevede la pena di 21 anni, si applicano alcune aggravanti, si può arrivare a erogare il “fine pena mai”. Ma perché si sente la necessità di pronunciare la parola “ergastolo” senza sentirne la terribilità, e l’eco mostruosa di quegli applausi che l’hanno accompagnata fin dai tempi del processo per i fatti del Circeo? Se a questo aggiungiamo alcuni vincoli del disegno di legge, come la previsione dell’adeguatezza delle misure cautelari in carcere, la possibilità per i reati da codice rosso di sentire il parere della persona offesa per i casi di patteggiamento e i limiti imposti rispetto ai benefici penitenziari, ecco che ci si presenta davanti agli occhi un quadro di diritto parallelo. Che sarebbe non solo coniugato al femminile, avendo la donna vittima al centro come nuova protagonista processuale, ma anche indirizzato verso una sorta di giustizia vendicativa che riporterebbe all’indietro le lancette dello Stato di diritto verso il sistema inquisitorio e la vendetta privata. Può darsi che sia questo che chiede oggi la società, visto che nessuno si sta più scandalizzando per questa sfilata di ergastoli che giudici impassibili, donne e uomini, ci porgono dal televisore ogni volta in cui, dopo aver processato l’omicida di una donna, emettono una sentenza “nel nome del popolo italiano”. Ma siamo sicuri che la soluzione sia questo secondo binario di giustizia, che pensa di risolvere la contraddizione uomo/ donna, che esiste ed è il cuore del problema, solo in modo repressivo e dopo aver diviso il mondo in buoni e cattivi? Eugenia Roccella ha buone basi culturali anche familiari, e sa bene che tutto ciò è quanto meno riduttivo. Infatti dice che la violenza sulle donne si combatte in molti modi, “con il cambiamento culturale, con la prevenzione, con la repressione…”. Ecco, appunto, quale cambiamento culturale avremo quando, ammesso che il disegno del governo diventi legge, assisteremo a una sfilza di arrestati sulla base di un sospetto di reato da codice rosso o addirittura di omicidio, fondati non su prove ma sull’evanescenza del fatto che l’uomo abbia voluto discriminare la donna o conculcarne i diritti e per questo l’abbia uccisa o abbia tentato di farlo? E se fosse innocente? Un dubbio che dovrebbe valere sempre, di qualunque reato commesso dal “signor chiunque” si sia trattato. “Su mafia e 41 bis non molliamo, le stragi hanno devastato la storia” di Felice Manti Il Giornale, 18 marzo 2025 La presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo: “Ci sono carte finite nel dimenticatoio che provano strade inesplorate. Dobbiamo percorrerle, è un grande depistaggio”. L’allarme sulle carceri colabrodo e il 41bis scuote la presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo, reduce dalla visita al carcere dell’Aquila. “Abbiamo potuto verificare tutte le criticità emerse nella gestione dei detenuti al 41 bis, dove nonostante un’importante inversione di tendenza esiste una carenza di personale, criticità strutturali degli edifici e criticità indotte dalla disomogeneità nelle interpretazioni giurisprudenziali, gestione dei colloqui e vulnerabilità della corrispondenza che mettono a dura prova questo regime che, ricordo, è nato per evitare qualsiasi tipo di comunicazione esterna e interna del detenuto. Questo, quando non avviene, mette a repentaglio tutto il lavoro investigativo che ha portato a svelare crimini gravissimi”. Come se ne esce? “Questo è un tema dirimente sia per la politica sia per la magistratura: è possibile stabilire una sorta di pentimento postumo che non passi per la collaborazione con la giustizia? No. Nei cosiddetti casi di collaborazione impossibile basta davvero una valutazione di natura psicologica o sociale? Anche qui, la risposta è no”. Il pericolo qual è? “Ci sono fattori esterni che molto spesso vengono ignorati o sottovalutati, al punto da spingere vecchi boss a riprendere quei contatti mai del tutto recisi. È sul 4 bis che si concentreremo per evitare che si ripetano situazioni simili a quelle viste a Palermo, dove il tempo e la distanza non hanno per niente scalfito il blasone criminale di alcuni uomini di disonore tornati a delinquere dopo aver ottenuto dei permessi premio”. Parliamo delle stragi del ‘92-’93... “Siamo partiti dalla strage di Via D’Amelio perché abbiamo accolto l’appello dei figli del giudice Borsellino, Lucia, Fiammetta e Manfredi, che per troppo tempo sono rimasti inascoltati, in una vicenda che ha devastato insieme alla storia della nostra Nazione anche le loro vite. Ma mai, e dico mai, c’è stata nella voce dei figli la volontà di rassegnarsi a una sorta di narrazione che ha nascosto il puzzo del compromesso e l’isolamento che hanno vissuto eroi come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone”. Che cosa avete trovato? “Ci sono carte e documentazioni secretate o finite nel dimenticatoio che provano strade inesplorate o ignorate che abbiamo il dovere di percorrere, dopo 33 anni dal più grande depistaggio della nostra storia”. Questo fa paura a qualcuno? “Fa rabbrividire sentire che i nemici di Borsellino e Falcone erano sia all’interno che all’esterno del Palazzo di Giustizia. Via D’Amelio e Capaci sono storie di solitudine e isolamento”. Dossieraggi e caso Striano... “La questione sollevata dal ministro Guido Crosetto non è uscita dall’agenda dell’Antimafia che meno di un mese fa ha sentito la Sogei; è una vicenda ancora aperta per la commissione, che lavora con le audizioni, ma soprattutto con la richiesta e l’approfondimento di molte carte. Abbiamo iniziato a scrivere, non permetteremo che tutto si esaurisca con una scadenza di termini. Ringrazio il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo per aver denunciato e raccontato questo verminaio. “L’uomo che ho ucciso, Rosario Livatino, oggi mi aiuta a coltivare la speranza” di Giorgio Paolucci Avvenire, 18 marzo 2025 Il cammino di Domenico Pace, all’ergastolo per l’assassinio del magistrato. “Sento la sua presenza, mi incoraggia a diventare migliore. Il mio cuore fatica a credere che sarò perdonato, chissà”. L’appuntamento è fissato nella cappella della casa di reclusione di Sulmona, dove vivono 450 persone detenute in regime di alta sicurezza. È qui che incontro Domenico Pace, uno dei componenti del commando mafioso che il 21 settembre 1990 ha ucciso il giudice Rosario Livatino, 38 anni, magistrato del Tribunale di Agrigento, proclamato beato da Papa Francesco nel 2021. Ammazzato “in odium fidei”: l’avversione mafiosa riguardava l’esercizio della giustizia da parte di Livatino collegato alla pratica della fede cristiana. I capi della Stidda (l’organizzazione rivale di Cosa Nostra) che avevano commissionato l’omicidio lo definivano un “santocchio”, un “personaggio che va in chiesa a pregare” e lo insultavano proprio perché ne odiavano la pratica religiosa e la fede. Il magistrato aveva 38 anni all’epoca dei fatti, Pace ne aveva 23. Condannato all’ergastolo, è in carcere dal 1990. Ha accettato di parlare del percorso intrapreso durante la detenzione: lo fa con un certo pudore, è visibilmente teso, la voce a tratti diventa flebile e s’incrina per la commozione. I primi 14 anni di carcere li ha trascorsi in regime di 41bis: “Un’esistenza blindata, giornate senza storia, tanti divieti, nessuna attività, nessun pensiero positivo. Rapporti tesi con gli agenti di polizia penitenziaria, contestazioni, provvedimenti disciplinari. Un colloquio al mese, mia madre piangeva dietro il vetro perché non poteva neppure stringermi le mani, quando rientravo in cella mi sentivo all’inferno. Cosa mi ha salvato in quel periodo? L’innato spirito di sopravvivenza che ogni uomo possiede. Non volevo soccombere, non riconoscevo la mia colpa, vivevo chiuso in me stesso di fronte a una situazione senza via di uscita. Carcere a vita, morte in vita. Un giorno viene in cella il magazziniere: “Pace, prepara la tua roba, ti hanno tolto il 41 bis, sei trasferito”. Non ci volevo credere, fino a quando è venuto l’ispettore a dirmelo e mi sono arreso all’evidenza”. Al carcere di Sulmona arriva nel 2006 e inizia un cammino che comprende la progressiva consapevolezza del male procurato e la rivisitazione di un passato costellato di ombre: l’infanzia vissuta alzandosi all’alba per pascolare pecore e capre e vendere il latte nelle strade di Palma di Montechiaro per poi andare a scuola, il ritorno nei campi e di nuovo a casa, il conflitto con il padre e la ribellione per una vita divenuta insopportabile, la frequentazione di cattive compagnie, l’ingresso nel mondo della malavita fino a diventarne succube, i crimini commessi. Il lavoro di revisione critica sulla sua vita è duro, ma nel tempo il muro che si era costruito intorno comincia a sgretolarsi: “Si è aperto un cancello, poi un altro e un altro ancora. Ho accettato di collaborare con gli operatori, ho smesso di lottare contro gli agenti di polizia penitenziaria e ho cominciato a lottare contro le mie resistenze. Ho fatto di tutto per mettermi in gioco: lavorante di sezione, portavitto, corsi di ceramica e di pittura, allevamento delle api, piccole lavorazioni artigianali, il laboratorio teatrale (“grande sfida per me che sono sempre stato timidissimo”), la condivisione di progetti di beneficenza con la Caritas”. Dopo il diploma di terza media ha frequentato con successo l’istituto di agraria, ora è iscritto al secondo anno del corso di laurea in Scienze e Culture gastronomiche per la sostenibilità nel Polo universitario aperto recentemente nel carcere di Sulmona e frequentato da 41 detenuti, un’altra occasione di riscatto. La lunga detenzione - giunta al trentaquattresimo anno - è diventata l’occasione per riscoprire l’intimità di un rapporto con Dio. Pace ricorda in particolare padre Agostino, fino al 2022 cappellano a Sulmona: “Una persona mite e umile che ascoltava sofferenze e sfoghi, davanti al quale potevamo aprire il cuore. Stando al nostro fianco diventava maestro di vita, un vero testimone di ciò in cui diceva di credere. Gli sarò sempre grato, come sono grato a quanti mi hanno accompagnato in questo percorso: gli educatori, i familiari, una donna - vecchia fiamma di gioventù - che si è riaffacciata alla mia vita e mi ha fatto riscoprire la gioia di amare e di essere amato. Ma l’aiuto più importante è venuto e continua a venire dall’uomo che ho ucciso: il giudice Rosario Livatino. Lo avverto presente, ricorre spesso nei miei sogni, mi ammonisce quando sbaglio e mi rincuora nei momenti di sconforto, mi incoraggia a proseguire sulla strada che ho intrapreso, a coltivare la speranza, a diventare un uomo migliore. L’esistenza lentamente ha cominciato a rifiorire. Lo so, sembra un paradosso, ma il cambiamento che sta avvenendo nella mia vita è legato al rapporto che sento di avere con lui. Prima di Natale è venuto a trovarci in carcere padre Mauro Lepori, l’abate generale dei cistercensi: ha detto che tutti noi siamo amati da Dio più di quanto sbagliamo, che per chi ha sbagliato c’è la possibilità del perdono, che le nostre colpe non sono un ostacolo alla misericordia divina. Ho chiesto pubblicamente perdono per gli orrori compiuti, ma ancora non riesco ad accettare che io possa essere perdonato: il male che ho fatto pesa come un macigno. Non so, non so… questo ultimo cancello nel mio cuore rimane ancora chiuso…”. Due anni fa Agnese Moro ha partecipato a un incontro sulla giustizia riparativa nel carcere di Sulmona dialogando con i detenuti, su invito degli operatori nell’ambito del progetto Ri.Me. Abruzzo. “Ci ha detto: voi siete necessari per noi come noi lo siamo per voi. Al momento non avevo colto il senso di quelle parole, poi ho capito che la testimonianza del mio passato così contorto può essere utile alla società, e in particolare ai giovani che vivono in certi contesti, perché non seguano le nostre orme”. I giovani: un mondo che gli sta molto a cuore e verso il quale si sente debitore. “Il mio sogno è andare nelle scuole per raccontare la mia storia e metterli in guardia dall’imboccare scorciatoie per risparmiarsi la fatica di una vita onesta. È molto facile cadere nella tentazione di avere tutto e subito, ci sono tanti modi per farlo, ma ho imparato sulla mia pelle che non portano lontano. Sono impressionato dai tanti episodi di bullismo che vengono raccontati sui giornali e in televisione, e dai falsi miti da cui si può venire conquistati. Noi autori di reato possiamo essere testimoni degli errori compiuti e diventare un monito vivente per i giovani, che sono il futuro del nostro Paese”. Oggi Domenico Pace ha 57 anni, scorrendo il film della sua esistenza rivede gli errori che ha commesso e che continuano a pesare sulla sua coscienza. Sa che non può esserci un colpo di spugna che cancella il passato ma riconosce i segni di un cambiamento che sta lentamente portandolo a diventare un uomo diverso da quello che si è macchiato di un crimine orrendo. La vittima di quel crimine, il giudice Livatino, è una presenza silenziosa e operante che vigila sulla sua esistenza, lo accompagna e non lo lascia tranquillo. Nel nostro colloquio ripete più di una volta che non merita il perdono, che “l’ultimo cancello nel mio cuore rimane ancora chiuso, per ora. Ci sto lavorando, chissà”. Buon lavoro, Domenico Pace. Corte Costituzionale: “Almeno quattro ore d’aria al giorno anche per i detenuti al 41-bis” ansa.it, 18 marzo 2025 “È ingiustificato un trattamento deteriore, perché la sicurezza è garantita dalla separazione dei gruppi di socialità”. Con la sentenza numero 30, depositata oggi, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), primo periodo, della legge di ordinamento penitenziario, limitatamente all’inciso “ad una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’articolo 10”. La Corte ha così definito il merito delle questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che - ha precisato la sentenza - “non pone in alcun modo in discussione l’impianto complessivo del regime speciale di cui all’art. 41-bis ordin. penit., ma interessa esclusivamente un segmento particolare della relativa disciplina, qual è quello concernente la permanenza del detenuto all’aperto”. La Corte chiarisce che, per effetto della sua decisione, la permanenza all’aperto dei detenuti in detto regime - che non siano altresì sottoposti a sorveglianza particolare - viene regolata dalla disciplina generale di cui all’articolo 10 della stessa legge, sia in ordine alla durata di almeno quattro ore al giorno, sia in ordine alla facoltà della direzione d’istituto di ridurre la durata stessa, per giustificati motivi, a due ore al giorno. Atteso che nel regime differenziato le ore d’aria sono fruite dal detenuto all’interno del cosiddetto gruppo di socialità, “un gruppo di persone molto ristretto (non più di quattro, e quindi anche tre o due), opportunamente selezionato dall’amministrazione penitenziaria”, la Corte ha ritenuto che il limite massimo di due ore al giorno, stabilito dalla norma censurata in seguito al dimezzamento operato dalla legge numero 94 del 2009, non sia ragionevole, né conforme alla finalità rieducativa della pena, in quanto, “mentre comprime, in misura ben maggiore del regime ordinario, la possibilità per i detenuti di fruire di luce naturale e di aria, nulla fa guadagnare alla collettività in termini di sicurezza, alla quale viceversa provvede, e deve provvedere, l’accurata selezione del gruppo di socialità, unitamente all’adozione di misure che escludano la possibilità di contatti tra diversi gruppi di socialità”. La Corte ha altresì sottolineato come “l’ampliamento delle ore della giornata in cui i detenuti in regime speciale possono beneficiare di aria e luce all’aperto contribuisce a delineare una condizione di vita penitenziaria che, non solo oggettivamente, ma anche e soprattutto nella percezione dei detenuti, possa essere ritenuta più rispondente al senso di umanità”. Verona. Suicida in cella a 69 anni. “Alex, gentile con tutti” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 18 marzo 2025 Suicida in cella, scoppia la polemica politica. “È morto proprio di carcere”. Le parole sono quelle del Garante dei detenuti, don Carlo Vinco. E quell’uomo “morto di carcere” Si chiamava Alex e aveva 69 anni. È deceduto domenica, Alex. O, meglio, è evaso nell’unico modo in cui ha potuto farlo. Impiccandosi nella sua cella, in quella casa circondariale di Montorio dove lo scorso anno i suicidi sono stati quattro. Metronomo, Alex, di quella vita asfittica in un penitenziario dove il sovraffollamento oramai non è più un’emergenza, ma una cancrena. Un carcere, Montorio, dove - come denuncia la consigliera regionale del Pd Anna Maria Bigon - a fronte di quasi 600 detenuti c’è “la presenza di un solo psicologo per 25 ore alla settimana”. Bigon snocciola altri dati: “la presenza di soli 4 medici di guardia, per un totale di 24 ore settimanali; 9 infermieri per 36 ore alla settimana; un medico infettivologo per 3 ore alla settimana”. La caienna in cui viveva Alex, che recluso lo era diventato con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti, che avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2031, ma che si è sempre dichiarato innocente. Era gentile, Alex. “Una persona molto tranquilla, molto delicato, educatissimo con tutti, nessuno avrebbe pensato al suicidio, tanto che gli stessi agenti della polizia penitenziaria sono molto rammaricati”, dice don Vinco. Alex che era nella sezione comune, in cella con altri due detenuti “con cui andava molto d’accordo. Moglie e figlia vivevano negli Stati Uniti, ma erano in contatto con le videochiamate e aveva un nipote che lo andava a trovare spesso, degli amici”. Alex che il suo tempo lo passava in biblioteca, ma che non riusciva ad accettare la condanna. “Il suo suicidio è ascrivibile alla situazione carceraria nel senso che una persona non regge una condizione di questo genere”. Il 18esimo suicidio in un penitenziario italiano dall’inizio dell’anno, quello di Alex. “Tutte tragedie annunciate - li definisce la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi - in un sistema penitenziario al collasso con problemi cronici che non sono mai stati affrontati seriamente dal governo Meloni, troppo impegnato a fare leggi securitarie che continuano a riempire le carceri”. “Il sovraffollamento permanente e strutturale produce morte nei penitenziari italiani - commenta Luana Zanella, capogruppo di AVS alla Camera - un dato mostruoso al quale si aggiunge il silenzio, finanche la mancanza di pietà umana da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio”. Con il senatore Andrea Martella, segretario regionale del Pd in Veneto che definisce la morte di Alex “un dramma e una sconfitta per tutti. Il carcere di Montorio soffre di una situazione purtroppo in linea con la media dei penitenziari del Veneto. È una condizione drammatica di cui il governo e, per quanto attiene alla nostra Regione, il governatore Zaia, dovrebbero occuparsi e che invece trascurano”. Verona. Secondo suicidio in 48 ore, detenuto italiano si toglie la vita di Luca Stoppele veronasera.it, 18 marzo 2025 A Verona, un detenuto si è tolto la vita a Montorio, 48 ore dopo il precedente suicidio. “Continua la scia di morte nelle carceri e, particolarmente, presso la casa circondariale di Verona, dove due detenuti si sono tolti la vita in meno di 48 ore. Dopo il suicidio di domenica pomeriggio, un altro ristretto, italiano, si è tolto la vita stamani (martedì 18 marzo, ndr) nel carcere di Verona Montorio. A livello nazionale, sale così a 19 la tragica conta dei morti di carcere e per carcere nel 2025, cui bisogna aggiungere un operatore”. Lo ha annunciato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “16mila reclusi oltre i posti disponibili e più di 18mila agenti mancanti alla polizia penitenziaria, uniti a deficienze strutturali, logistiche e organizzative, costituiscono un mix esplosivo che lungi dal fare delle prigioni luoghi di recupero e rieducazione le trasformano in strutture di mera espiazione e morte. E ad espiare una pena, per la sola colpa di essere al servizio dello Stato, non sono solo i detenuti, ma finanche le donne e gli uomini con l’uniforme della polizia penitenziaria, sottoposti a carichi di lavoro oltre ogni limite accettabile e a turnazioni prolungate e massacranti, con la compressione di diritti anche di rango costituzionale, per vedere peraltro poi svilito ogni sacrificio. Tutto ciò segna l’evidente fallimento del sistema penitenziario. Basta guardare ai più elementari indicatori numerici, checché ne dicano il Guardasigilli, Carlo Nordio, e il Governo Meloni”, ha commentato il segretario della Uil-Pa. “Verona, con 595 reclusi presenti a fronte di soli 318 posti disponibili, gestiti da 318 operatori di polizia penitenziaria, quando ne necessiterebbero almeno 420, si inserisce pienamente in questo contesto. E 2 suicidi in due giorni imporrebbero serie riflessioni e valutazioni. Servono urgentissime misure deflattive della densità detentiva e immediati rinforzi agli organici della Polizia penitenziaria, ma va anche garantita l’assistenza sanitaria e psichiatrica e vanno messe in campo riforme di sistema. Altrimenti, sarà ancora morte e sofferenza”, ha concluso De Fazio. “La tragica conta dei suicidi presso il carcere di Montorio, continua. Sembra davvero che dopo tante promesse, nulla cambi”. Sono le parole giunte lunedì, dopo il primo gesto estremo di queste 48 ore, della consigliera regionale del Pd, Anna Maria Bigon. “Eppure, i problemi profondi riscontrati a Montorio richiederebbero interventi urgenti. A partire dalla carenza di personale sanitario interno, visto che da tempo chiediamo di rinforzarne la presenza. I dati, forniti su mia richiesta, dall’Ulss 9, riportavano pochi mesi fa la presenza di un solo psicologo per tutti i detenuti di questo carcere che scoppia per sovraffollamento: un dato macroscopico di inadeguatezza. Ma anche l’attività lavorativa e formativa risulta essere carente e svolta da un numero esiguo di detenuti. I dati forniti a seguito di accesso agli atti, in particolare, evidenziavano la presenza di soli 4 medici di guardia, per un totale di 24 ore settimanali; 9 infermieri per 36 ore alla settimana; 1 medico infettivologo per 3 ore alla settimana; 1 psicologo psicoterapeuta per 25 ore alla settimana. Numeri davvero esigui a fronte di oltre 500 detenuti, peraltro in un carcere progettato per ospitarne 300. La Giunta regionale - ha concluso Bigon - deve attivarsi al più presto per quanto di sua competenza e sollecitare il Governo. Devono spiegarci quali provvedimenti hanno preso durante quest’anno per rendere sostenibile la vita dei detenuti in carcere. Questa scia di morti è assolutamente inaccettabile per un Paese che ambisce a definirsi civile”. Sul tema è intervenuto anche il segretario regionale del Partito Democratico, Andrea Martella, che dopo la morte del 69enne avvenuta domenica aveva detto: “Un dramma e una sconfitta per tutti. Il carcere di Montorio soffre di una situazione purtroppo in linea con la media dei penitenziari del Veneto, che vedono un affollamento medio del 144%, tra i più alti d’Italia. È una condizione drammatica, che abbiamo più volte denunciato e che confligge apertamente con la funzione rieducativa della pena sancita dalla Costituzione. Una situazione di cui il governo e, per quanto attiene alla nostra Regione, il governatore Zaia, dovrebbero occuparsi e che invece trascurano”. “Molti provvedimenti del governo Meloni - ha continuato Martella - stanno invece aggravando ulteriormente il sovraffollamento e la situazione carceraria, anche negli istituti per minorenni. Come Pd non ci stanchiamo di chiedere al governo più misure alternative, interventi per potenziare gli organici, migliorare le condizioni strutturali degli istituti di pena, garantire il pieno rispetto del dettato costituzionale sul fine rieducativo della pena e insieme la sicurezza e migliori condizioni di vita per i detenuti e per il personale della polizia penitenziaria”. Lecce. Detenuto arriva in ospedale in condizioni critiche e muore a 30 anni, aperta un’inchiesta di Veronica Valente lecceprima.it, 18 marzo 2025 A seguito della denuncia sporta questa mattina dalla coniuge dell’uomo, è stato aperto un fascicolo per omicidio colposo, a carico di ignoti. Fissata per giovedì l’udienza per conferire l’incarico al medico legale di svolgere l’autopsia. È stata aperta un’inchiesta per chiarire le cause del decesso di Cosimo Giorgino, 30enne di Casarano, avvenuto due giorni fa nell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, dove era giunto in condizioni critiche dal carcere di “Borgo San Nicola”. A seguito della denuncia sporta questa mattina dall’avvocato Luca Puce per conto della coniuge dell’uomo, che era detenuto per reati contro il patrimonio, la sostituta procuratrice Rosaria Petrolo ha aperto un fascicolo in cui si ipotizza il reato di omicidio colposo, al momento a carico di ignoti, e ha fissato per giovedì prossimo l’udienza per conferire l’incarico al medico legale Ermenegildo Colosimo di svolgere l’autopsia. Sarà dunque l’esame necroscopico il primo degli accertamenti finalizzati a risalire alle cause di una morte avvenuta prematuramente e rispetto alla quale la moglie pone degli interrogativi sull’operato di chi lo ebbe in cura. Il sospetto della consorte è che, in ragione dello stato clinico degli ultimi giorni, certificato dalle analisi effettuate presso la casa circondariale, Giorgino sia potuto spirare a causa della superficialità e della negligenza di chi aveva il compito di assisterlo. Stando al racconto, messo nero su bianco nell’atto presentato oggi in Procura, l’uomo avrebbe confidato alla moglie che gli stessi sanitari del penitenziario, gli avessero rappresentato, a chiare lettere, come dalla lettura delle sue ultime analisi si rilevasse un concreto pericolo d’infarto. La donna riferisce inoltre che nell’ultimo colloquio dello scorso 4 marzo, Giorgino fosse visibilmente gonfio e ingrassato, probabilmente a causa della terapia di farmaci alla quale era sottoposto da tempo e che, secondo la stessa, potrebbe non essere stata più adeguata tenuto conto dei valori ematochimici del tutto “sballati” evidenziati dagli esami. Starà dunque alla magistratura verificare eventuali responsabilità nel decesso e se questo poteva essere evitato. Bologna. Fiaccolata sotto al Pratello contro i trasferimenti: “Il problema non si risolve con nuove carceri” di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 18 marzo 2025 Una fiaccolata. Da piazza San Rocco a piazza San Francesco per protestare contro il trasferimento di cinquanta giovani adulti dei minorili alla Dozza. L’appuntamento, organizzato da Volt, Pd e altre realtà aderenti e la cittadinanza attiva, è in programma venerdì alle 21. Diverse le realtà che aderiranno, tra sindacati, associazioni e partiti. “La questione carceraria - dicono gli organizzatori - non si affronta riempiendo le strutture per adulti di giovani o limitandosi a costruire nuove carceri. Chiediamo al governo di ripensare il decreto Caivano, causa del sovraffollamento degli Ipm”. Accogliendo l’appello di don Domenico Cambareri, venerdì dalle 19 alle 20,45 al circolo Pd Pratello sarà possibile contribuire alla raccolta di beni di prima necessità: lenzuola singole, cuscini, dentifricio, spazzolini, bagnoschiuma, shampoo, asciugamani, boxer, magliette taglia M, calzini, ciabatte oltre il 41. Catania. La festa dei “ristretti” per la visita dell’aricevescovo di Giuseppe Russo Avvenire, 18 marzo 2025 L’arcivescovo Renna in visita all’Istituto penitenziario di Piazza Lanza. L’incontro con gli ospiti cella per cella. Cresce il progetto “Senza catene”. Nell’Anno Santo dedicato alla speranza non poteva di certo mancare un appuntamento rivolto a coloro che coltivano forse più di tutti questo sentimento, dettato da una voglia di rivalsa e riscatto sociale. Sarà il prossimo 14 dicembre - a ridosso della chiusura - il Giubileo dei detenuti a Roma, ma nell’arcidiocesi di Catania l’appuntamento è già avvenuto domenica scorsa, 9 marzo. “Oggi in cielo si fa festa per voi!” L’arcivescovo Luigi Renna ha salutato così il centinaio di donne e uomini che affollavano la cappella del carcere di Piazza Lanza. È venuto a festeggiare il Giubileo diocesano dei carcerati con i diretti protagonisti. Ad accoglierlo il direttore, dott.ssa Nunziella Di Fazio, e il comandante della Polizia Penitenziaria, dott.ssa Simona Verborosso, che con grande sensibilità e impegno hanno organizzato la visita, nei giorni precedenti, curando ogni dettaglio organizzativo e dispiegando ogni forza per garantire che tutto, in un momento così delicato per le carceri italiane, possa andare per il meglio. Loro, i “ristretti”, questa visita l’aspettavano, e due di essi lo dicono con forza all’arcivescovo; hanno voluto preparare un saluto, lo leggono di fronte a tutti. La prima è M., piccola, emozionata: “Qui abbiamo bisogno di speranza, non solo per il buio che stiamo attraversando ma anche per l’incertezza del futuro. La nostra persona non può essere associata solo al nostro reato, alle nostre colpe. Noi ammettiamo le nostre responsabilità, chiediamo solo maggiore ascolto e fiducia verso di noi”. Le fa eco P., viso aperto, braccia forti. Nelle sue parole, la visita dell’arcivescovo si fa tutt’uno con quella del Papa a Rebibbia, per l’apertura della Porta Santa: “In questa parte della società dove il tempo sembra fermarsi, proviamo la sensazione che il mondo intero si sia dimenticato di noi. Ma la visita del Santo Padre in un penitenziario ci ha ricordato che Dio Onnipotente non si dimentica mai e siamo contenti che lei sia oggi con noi; in questo modo, ogni Pastore della Chiesa si fa portavoce del saluto del Papa.” La messa procede; i canti, le letture, le preghiere. All’omelia, monsignor Renna ricorda le tentazioni di Cristo nel deserto, le stesse con le quali il diavolo - letteralmente, colui che divide - tenta l’uomo di ogni tempo: avere, potere, apparire. I volti di tanti, mentre lui parla, sono chini, e assentono. Alla conclusione, sulle note dell’ultimo canto, l’arcivescovo prende in mano la lampada del Giubileo e, sceso giù dall’altare, passa tra i banchi. La lampada è grande e colorata, riporta il disegno della croce e dell’ancora: “È il simbolo della speranza” spiega Renna. Nessuno resta fermo al suo posto, ciascuno vuole toccarla, prenderla in mano per qualche secondo e dire così la sua speranza. Dopo la messa monsignor Renna va a visitare i reparti che non hanno potuto partecipare alla celebrazione. Si accosta ad ogni cella; alle sbarre si accalcano i volti, le braccia si protendono per un saluto, una carezza, una stretta di mano, le parole servono giusto per balbettare una richiesta, una preghiera, un semplice “grazie”. Quando la visita finisce, è quasi mezzogiorno; son passate più di tre ore dal momento in cui l’arcivescovo aveva fatto ingresso in Istituto. Finisce la visita, non il Giubileo. Renna lo ha ricordato anche in cappella: a Catania la Chiesa accompagnerà i carcerati per tutto l’Anno Santo con il progetto “Senza catene”: iniziative di solidarietà dentro le carceri e sostegno al reinserimento lavorativo di chi, con il carcere, ha chiuso i conti o sta per farlo. Ci vuole tempo, certo. Ci vogliono, soprattutto, cuori aperti. Conviene averli. “I cuori chiusi, quelli duri, - ha detto Papa Francesco a Rebibbia - non aiutano a vivere”. Lavoro ai detenuti, il modello Padova, di Giuseppe Russo “Nel 1986 eravamo un gruppo di giovani neolaureati in scienze agrarie e forestali, che avevano il desiderio di vivere cristianamente il mondo del lavoro”. Nasce così, a Padova, “Agriforest” che ben presto muterà il proprio nome in “Cooperativa sociale Giotto” sin da subito attiva all’interno del carcere Due Palazzi di Padova. A raccontarne la genesi e i 39 anni di storia è Nicola Boscoletto, socio fondatore e presidente della cooperativa. Lo abbiamo incontrato in occasione della sua venuta a Catania, dove è stato relatore del primo della serie di incontri di catechesi quaresimali presso la cattedrale di Sant’Agata. “Volevamo - racconta Boscoletto - che la grande idealità che avevamo vissuto durante gli anni di università non fosse una cosa relegata al contesto temporale, ma che durasse per tutta la vita”. Nel 1990 per la Cooperativa Giotto - che si occupa principalmente della progettazione e manutenzione del verde in diverse aree urbane - ci fu la svolta: “Fummo interpellati per sistemare le aree esterne del carcere di Padova”. Da lì scaturì una riflessione: “All’interno di queste mura - riprende ancora il presidente, raccontando - c’erano 700 persone che non facevano nulla dalla mattina alla sera. Perché non insegnare loro un’attività come il giardinaggio? “. Nonostante lo scetticismo iniziale si partì. Quel corso rappresentò un vero e proprio miracolo, a partire dalla “coincidenza” con cui si partì nel settembre del 1990: “Proprio in quei giorni veniva ucciso dalla mafia il giudice Rosario Livatino, un modello di giustizia e di fede a cui tendere. Una giustizia senza umanità - continua Boscoletto, ricordando ancora il giudice - non è una giustizia “giusta”. È una vendetta. La giustizia è vera se è umana, se aiuta la persona a ritrovarsi, a ricredersi, a rinascere”. In questi decenni di attività, Boscoletto e i suoi amici fondatori, hanno avuto il privilegio di essere testimoni di storie di conversione e profonda trasformazione umana: “Vedere l’altro cambiare - specialmente quello “irrecuperabile” da fascicolo - le lacrime di una mamma e un papà che ritrovano un figlio perduto… Vedere rinascere davvero le persone”. “Sono rinato, non sono più quello di prima”, è l’espressione che molti di questi detenuti ed ex detenuti - spesso in carcere per scontare omicidi - utilizzano per raccontarsi e definirsi. “Sin da subito c’è stato da fare i conti con la morte - prosegue Boscoletto - ma se io per primo non credessi alla vita eterna, al fatto che nessuno può definitivamente togliere la vita ad un’altra persona, non dovrei più entrare in carcere. Prenderei in giro quelle persone”. Nel tempo, l’impegno della cooperativa si è esteso anche al mondo della disabilità e del disagio sociale. Dal 2019 l’esperienza ha trovato terreno fertile anche in Sicilia, ad Alcamo: “Giovani con grande entusiasmo, che facciamo fatica a trovare anche nel produttivo Nordest”. Voci di fede e di speranza dal carcere, di Luigi Renna* Ci sono luoghi in cui l’esperienza del Giubileo lascia un segno che è forse più profondo di quello dei nostri pellegrinaggi, e tra questi credo che il più vero sia il carcere, un luogo, ma anche un tempo, fatto di assenze e di presenze, che può far fare un pellegrinaggio vero come quello dell’Esodo, verso la Terra Promessa del perdono e della vita nuova. Al carcere di Piazza Lanza e a Bicocca, nella Prima Domenica di Quaresima, si è celebrato il Giubileo con i detenuti, con un’intensità di fede che è stata testimoniata da alcune lettere. Da una di esse emerge la gratitudine verso papa Francesco per la sua attenzione verso i detenuti: “…la visita del Santo Padre in un penitenziario ci ha ricordato ancora una volta che Dio onnipotente non si dimentica mai di noi” (lettera di P.). Quanti carcerati mi hanno chiesto notizie sulla salute del Papa, e non per mera curiosità, ma con l’apprensione che si prova per una persona cara! E poi la testimonianza di chi nel tempo in cui sta scontando la pena, si sente già libero di una libertà più grande. Scrive M.: “… fuori avevo la mia libertà, ma non dentro il mio cuore. È vero, c’è la libertà fuori, ma quando si è incatenati dentro, si è prigionieri anche nella libertà. Oggi fra queste mura posso dire di sentirmi libera perché ho abbandonato la vita vecchia. Abbandonare il passato mi ha fatto sentire viva e la cosa che mi dà tanta forza è che quando uscirò da qui vivrò interamente in Dio”. M. G. manifesta la consapevolezza di aver sbagliato, ma scrive anche: “la nostra persona non può essere associata solo ed unicamente al nostro reato e alle nostre colpe. Noi ammettiamo le nostre responsabilità, e chiediamo solo maggiore ascolto e fiducia verso di noi e il percorso che stiamo facendo”. La fede nel carcere, come in ogni esperienza del limite, fa rifiorire e aprire alla speranza, che quando è quella di una persona che ha commesso dei reati che hanno portato squilibrio nella società, diventa speranza per tutti. È un messaggio per noi che ci consideriamo giusti e che non sentiamo la stessa emozione che hanno sentito alcuni di loro quando è stato annunciato che con la confessione e l’indulgenza, “le sentenze” del Padre misericordioso, è stato loro perdonato tutto, e che il suo abbraccio li ha resi puri come bambini. Ora la stessa “lotta” quotidiana attende noi e loro, quella che Gesù stesso affrontò e vinse contro il diavolo nel deserto, in mezzo alle tentazioni del possedere a tutti costi, del potere arrogante, e dell’apparire che nasconde la nostra verità. Affronteremo questa “lotta” sapendo di avere dalla nostra parte il Messia, colui che è venuto “a proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore” (Is 61,1b). *Arcivescovo Napoli. La testimonianza: “Da killer a pasticciere, la mia vita dopo la cella” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 18 marzo 2025 “Mi è sempre piaciuto molto cucinare: ora studio, mancano 7 esami alla laurea”. “Il carcere è un’esperienza terribile. Un inferno in terra specie per chi, come me, non l’aveva mai conosciuto prima. Ma è anche l’unica strada che ti fa aprire gli occhi e capire quanto sbagliato e pericoloso sia avventurarsi in situazioni sottovalutate: perché ci sono errori che possono costare molto caro”. Lo chiameremo Simone, con nome di fantasia per tutelare l’identità di un uomo che dopo 13 anni vissuti dietro le sbarre di un reparto di media sicurezza è tornato a casa. “Ora posso guardare il cielo, riabbracciare mia moglie e i miei figli, respirare l’aria da liberi è tutta un’altra cosa, un’emozione indescrivibile”. Coinvolto in un’inchiesta di camorra con l’accusa infamante di concorso in omicidio, oggi ha espiato la gran parte della pena ottenendo il beneficio dell’assegnazione ad un lavoro esterno all’istituto penitenziario di Secondigliano, dov’era recluso fino a qualche settimana fa. Di che cosa si occupa adesso? “Mi è sempre piaciuto cucinare, e già da ragazzino ero attratto da ciò che si faceva nei laboratori di pasticceria. Durante la permanenza in carcere mi sono dedicato sempre più a questa attività, e oggi lavoro in un’azienda artigianale che si trova in provincia di Napoli che produce prodotti dolciari”. Perché è finito in carcere? “La storia è lunga, ma si può sintetizzare così: tutto inizia nel 2012, all’epoca avevo 25 anni e vivevo in un quartiere nel quale si erano già consumate alcune guerre tra clan. Non ho mai fatto parte di questi gruppi, anche se poi mi verrà contestata l’accusa di concorso in associazione esterna, prima, trasformata poi in associazione mafiosa”. E allora perché viene arrestato? “Quando vivi in certi contesti ambientali ti trovi inevitabilmente a stringere amicizie con la gente del quartiere dove sei nato, con gli ex compagni di scuola e con chi è cresciuto con te. Ma nel caso mio si aggiunse un particolare: nella mia cerchia familiare entrò una persona ritenuta legata ad un’organizzazione criminale, sposò una mia cugina e soltanto dopo su di lui emersero indagini e sospetti”. Come mai lei viene coinvolto in un’indagine della Procura antimafia? “Devo fare una premessa. Con la legge io non avevo mai avuto a che fare, avevo solo una segnalazione perché devo ammettere che da ragazzino ero un po’ testa calda: a 16 anni mi accusarono di oltraggio a pubblico ufficiale. Da allora più niente, tanto è vero che feci domanda per partecipare al concorso per entrare nella pubblica amministrazione”. E come andò? “Lo superai. Una gioia, anche se non immaginavo la tegola che stava per cadermi addosso”. Il mandato di arresto... “Già. Pochi giorni prima di Natale bussano i carabinieri e mi portano a Poggioreale. Ero accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e di avere avuto il ruolo di “armiere” nell’ambito di un raid sfociato in un omicidio e un tentato omicidio. Io invece non ho mai maneggiato né custodito armi, né a casa né altrove. Né sono mai stato a libro paga della criminalità organizzata”. Inizia così l’incubo del carcere. Che cosa ricorda di quel periodo iniziale? “Prima tappa Poggioreale, padiglione Firenze e poi padiglione Avellino. Dodici persone in una cella, in condizioni disumane, due ore d’aria al giorno. Pensi che anche per potere andare al bagno dovevamo fare i turni. Quattro mesi dopo vengo trasferito a Benevento, e successivamente a Torino, a 900 chilometri da casa con tutte le difficoltà che comportava anche poter vedere di tanto in tanto mia moglie e i bambini. Penultima tappa, la Sicilia, e infine l’istituto di Secondigliano: qui ho incontrato tanti volontari, e li vorrei ringraziare per il lavoro che fanno”. Intanto scatta il rinvio a giudizio, e lei da imputato va a processo... “Scelsi di essere giudicato con il rito ordinario. La prima sentenza fu un colpo al cuore: mi condannarono a 28 anni di carcere. Mi crollò il mondo addosso, sapendo di non avere né preso parte né avuto alcun ruolo nell’omicidio. Ma in quelle stesse ore ripensai agli errori che devo avere commesso anche solo nell’intrattenere semplici rapporti di amicizia e familiari con alcune persone: quella è stata, evidentemente, la mia colpa. Certe “capate” si pagano”. Che giorni furono quelli che seguirono al verdetto della Corte di Assise di Napoli? “Terribili. Molto difficili. E la notte era un tormento: quando spegni la luce non riesci nemmeno a chiudere occhio pensando che dovrai rinunciare alle cose più belle, la gioventù, i figli, il lavoro, e che questo strazio durerà tanto. Provi a immaginare come sarai a 53 anni, quando uscirai senza sapere che mondo ti aspetta lì fuori, e chi ti offrirà anche un’opportunità di lavoro”. Poi arriva a sentenza di appello... “Fu lo stesso procuratore generale a chiedere la mia assoluzione per quell’accusa infamante di omicidio. A scagionarmi c’erano non solo i pentiti, ma anche alcune dichiarazioni rese da un boss. Rimasero però purtroppo in piedi le condanne di favoreggiamento e concorso esterno in associazione, e per questo la condanna si ridusse. Il 2027 è il mio fine pena, ma ringrazio magistrati e dirigenti penitenziari che oggi mi hanno offerto questa possibilità”. Per quello che ha vissuto cosa direbbe ai ragazzi affascinati dalla violenza e da modelli sbagliati? “Pensateci bene. Pensate al vostro futuro, state lontani dai guai e soprattutto dalle armi. Con la violenza non si ottiene nulla. Mai”. Come vede il suo futuro? “A Secondigliano ho frequentato il polo universitario, sostenendo 19 esami, me ne restano sette per la laurea in Scienze biologiche, degli alimenti e della nutrizione umana”. Simone, che cosa si augura ora? “Riscatto. Lo devo alla mia famiglia, e prima ancora a me stesso”. Bologna. A cena nell’osteria della Brigata del Pratello di Carla Reschia linkiesta.it, 18 marzo 2025 La speranza di un futuro lavorativo spinge i giovani ospiti dell’istituto penale minorile di Bologna a partecipare alle attività di formazione in campo ristorativo che si tengono all’interno dell’istituto e che prevedono anche eventi aperti ai clienti esterni. L’osteria formativa della Brigata del Pratello è qualcosa di più rispetto alle classiche e amatissime osterie bolognesi, cantate ai tempi anche da Guccini, perché nasce da un’esperienza avviata nel carcere minorile cittadino grazie a Fomal, ente di formazione nell’ambito della ristorazione accreditato dalla Regione Emilia-Romagna, e all’Istituto Penale Minorenni “Siciliani” (Ipm), che si trova appunto in via del Pratello 34, a Bologna. In Italia, queste strutture ospitano minorenni, ma anche giovani fino ai 25 anni quando il reato cui è riferita la pena sia stato commesso prima della maggiore età; educare e reinserire nella società è il loro fine istituzionale. Del resto, sottolineano i promotori dell’iniziativa, si tratta solo di mettere in pratica l’articolo 27 della Costituzione Italiana: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per questo, oltre ai laboratori musicali, teatrali e fotografici, fin dal 2008 Fomal e Ipm, dopo anni di collaborazione, hanno pensato a un percorso formativo nel campo della ristorazione che permettesse ai giovani detenuti di mettere in pratica e verificare sul campo i loro apprendimenti e sviluppare competenze, nella convinzione che ogni persona può sempre ripartire per realizzare il personale progetto di crescita e autonomia. Il primo passo è stato allestire un laboratorio di ristorazione e avviare i primi corsi. La Brigata del Pratello, nome scelto dai ragazzi dell’istituto, è nata tra il 2017 e il 2018 come attività formativa sperimentale nell’ambito “sala e bar”, nella strada più multietnica della città, punteggiata da pub, osterie e locali. Oggi è un luogo accogliente, dove si impara un mestiere, ma si cerca anche di valorizzare la storia di ciascuno: a tavola i tortellini e il ragù possono incrociare il couscous e altre specialità, in uno scambio con tutta la comunità bolognese. I piatti seguono la stagionalità e interpretano le ricette con un pizzico di creatività, come le orecchiette al radicchio e Sangiovese, la lasagna zucca e speck, o il maialino con la salsa di fichi. Le cene-evento aperte al pubblico, per un massimo di quaranta posti, si tengono due volte al mese, al venerdì, prenotando individualmente sul sito - la prossima è in calendario per il 28 marzo, ma è già sold out - e sono organizzate su richiesta anche per grandi gruppi. Oltre al cibo, alla convivialità e all’interazione con i ragazzi che preparano la cena, sono anche un’occasione per conoscere da vicino le varie attività che istituzioni, associazioni e realtà di volontariato promuovono all’interno del carcere. L’organizzazione è affidata a educatori professionali, in collaborazione con gli addetti alla sorveglianza, che affiancano chef e maître nella conduzione della brigata di cucina, che comprende sei-otto giovani, tre-quattro aiuto cuochi e tre-quattro camerieri, a turno tra i detenuti dell’Ipm. Il servizio è realizzato con la collaborazione di chef professionisti che si occupano della parte operativa e della formazione. L’Osteria - spiega Beatrice Draghetti, presidente Fomal - serve anche a fare in modo che la città si accorga davvero di questo luogo, dei giovani che ci vivono, e rappresenta una sollecitazione per chiunque, ognuno per quello che gli compete, voglia avere a cuore il presente e il futuro di tutti. E incontrarsi attorno a una tavola imbandita è un buon punto da cui partire. Milano. Il primo ristorante gourmet aperto in un carcere è a Bollate, un docu lo racconta ansa.it, 18 marzo 2025 “Benvenuti in galera” su RaiPlay documenta la straordinaria esperienza di riscatto sociale. Racconta la bella storia del primo ristorante al mondo aperto all’interno di un carcere il documentario ‘Benvenuti in galera’, scritto e diretto da Michele Rho, che sarà disponibile in esclusiva su RaiPlay dal prossimo 22 marzo. Al centro del film la storia del ristorante ‘In galera’ di Bollate e della sua brigata, composta da otto detenuti, che preparano pranzi e cene con la supervisione di Silvia Polleri, alias “Nonna Galeotta”, professionista nel settore della ristorazione e madre del regista. È stata lei a volere fortemente questo progetto di reinserimento sociale, che getta un ponte tra il carcere e il mondo esterno. Questo ristorante di alta classe, infatti, è aperto a tutti. I camerieri indossano divise, lo chef ha studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi, alle pareti ci sono poster a tema di film come ‘Fuga da Alcatraz’ o ‘Le ali della libertà’, nel menù figurano proposte gourmet come gli Agnolotti provola e radicchio con ragù di Fassona tagliata al coltello. “La parola ‘Benvenuti’ - racconta Michele Rho - è un benvenuto per tutti voi, per conoscere meglio e non avere paura o diffidenza quando vedete un detenuto o entrate un istituto di pena. Nei miei documentari ho sempre cercato di indagare luoghi che mi offrissero tematiche stimolanti di riflessione. Così, il ristorante stesso è diventato una lente speciale attraverso cui esplorare il mondo del carcere”. “Mi sono avvicinato al progetto - continua il regista - chiedendomi come i detenuti percepiscono il mondo esterno, come si sentano, che cosa provino. Pensandoli dunque come esseri umani, al di là della colpa che hanno commesso”. Così al centro del film, girato in bianco e nero, ci sono le storie, quelle di Davide, di Said, di Jonut, di Chester, di Domingo, “uomini che hanno commesso errori e che stanno cercando una seconda possibilità dalla vita, molti di loro - conclude l’autore attraverso il lavoro”. Civitavecchia (Rm). Le voci dei detenuti nel podcast “Sottocoperta” garantedetenutilazio.it, 18 marzo 2025 Liberamente ispirata a “Il bar sotto il mare” di Stefano Benni, l’opera è stata realizzata con il contributo della Regione Lazio. Giunto alla quinta fase, dopo aver coinvolto le sezioni lavoranti e femminile, a cavallo tra il 2024 e il 2025 il progetto La Scena Invisibile dell’Associazione Sangue Giusto /Compagnia AdDentro è tornato nella Casa di reclusione degli Istituti G. Passerini di Civitavecchia con la realizzazione di un podcast narrativo basato sulla scrittura originale e l’interpretazione dei partecipanti detenuti. Questa volta si tratta di “Sottocoperta”, liberamente ispirato a “Il bar sotto il mare” di Stefano Benni, realizzato col contributo della Regione Lazio - Direzione regionale Affari istituzionali e personale - area politiche degli enti locali, polizia locale e lotta all’usura, e ascoltabile gratuitamente attraverso la piattaforma Spreaker, al seguente indirizzo: https://www.spreaker.com/podcast/sottocoperta-6494106 . “Sottocoperta” ha preso forma come esercizio di scrittura e lettura espressiva sul tema del mare. In soli 12 incontri, ognuno dei partecipanti, come avventore di un insolito bar, ha scritto e interpretato la sua storia scegliendo liberamente tra forma poetica, narrativa, musicale o fantastica. Ne è nata una galleria di dieci racconti dove l’invenzione, anche quando è iperbolica, poggia su un vissuto autentico. Il mare è molto presente nella vita dei detenuti della Casa di reclusione di Civitavecchia che spesso provengono dal litorale laziale e al mare sono cresciuti, e che continuano a percepirlo tra suoni e odori, al di là delle mura dell’istituto penitenziario, costruito proprio a bordo dell’acqua. Questo lavoro è stato letteralmente registrato “sottocoperta”. Due banchi uno sull’altro e una lavagna a fare da pareti, una coperta delle celle come tetto, per realizzare un piccolo studio di registrazione ed evitare il rumore vuoto e sordo degli ambienti del carcere e, per un attimo, sentirsi in un’altra dimensione. Milano. Carcere di Opera, il murale dei detenuti-artisti. La “trasformazione” in 60 metri di Marianna Vazzana Il Giorno, 18 marzo 2025 Il progetto del creativo Carlo Galli promosso da Grande Brera Milano si ispira all’effetto optical anni ‘60. Un gruppo di reclusi lo affiancherà nel lavoro all’interno del penitenziario. Inaugurazione il 20 maggio. “Crediamo che la bellezza sia un valore etico prima ancora che estetico. Spinge all’esempio positivo. C’è qualcosa di profondo, nella contemplazione della bellezza” che può migliorare la vita. Soprattutto se ne entra a fare parte sotto forma di arte. Le parole sono di Angelo Crespi, direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca nazionale braidense che ieri ha presentato il progetto “Superfici dell’Immaginazione” dell’artista Carlo Galli, voluto da Alessandro Pellarin, fondatore e presidente dell’ente no profit Artàmica Aps, per la Casa di reclusione di Opera. Una creazione promossa e sostenuta da Grande Brera Milano in collaborazione con Associazione Viafarini e con il sostegno dell’associazione Le Arti. In cosa consiste? Un gruppo di una decina di detenuti, tutti in Articolo 21 - che possono uscire dall’Istituto per motivi di lavoro o azioni di reinserimento sociale, con obbligo di rientrare a dormire - e vicini alla fine della pena, realizzerà insieme all’artista un grande murale all’interno del penitenziario, in uno luogo di passaggio: un racconto visivo lungo 60 metri, che si ispira all’arte optical degli anni ‘60, con strisce bianche e nere, creando forme in continuo movimento. “Il progetto - spiega l’artista Galli - nasce da una riflessione sulla percezione del tempo nel carcere, un luogo in cui le ore si dilatano, si contraggono e si sovrappongono in un’esperienza sospesa”. Digitale e analogico si fondono. Le linee, come le vite, si incrociano. E il murale darà vita a un ponte tra interno ed esterno. “La bellezza - evidenzia Antonella Murolo, vice direttrice del carcere di Opera - diventa centrale nel processo di reinserimento. Le strisce bianche e nere si fondono in un movimento che evoca trasformazione, un concetto che incontriamo anche nell’articolo 27 della Costituzione: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Concetto che tornerà al centro il 20 maggio, giorno dell’inaugurazione. Poi, il 26 maggio, sarà il giorno della “restituzione pubblica” del lavoro alla Pinacoteca di Brera. Intanto, ieri, i detenuti l’hanno visitata. Bellezza da cui attingere prima di mettersi all’opera. L’eredità luminosa di Grazia Zuffa, l’incontro oggi a Roma di Marisa Nicchi L’Unità, 18 marzo 2025 Oggi a Roma l’incontro alla Casa internazionale delle donne per ricordare la grande intellettuale femminista recentemente scomparsa. Luminoso è l’aggettivo più giusto per descrivere l’incontro con Grazia Zuffa. Avviene nella seconda metà degli anni 70, lei femminista, dirigente dell’UDI, io segretaria regionale della Fgci. Eravamo nel pieno dei movimenti di donne e di giovani che infiammavano le scuole, le università, la società, esprimendo una inedita politicità che atteneva al corpo, alla soggettività femminile, alla sessualità, all’aborto, alla violenza maschile sulle donne, ai sentimenti, ai sogni. Una materia fino allora oscura per la politica su cui trovai in lei un’interlocutrice preziosa per valutarne i significati profondi. Il sommovimento sociale e culturale era impetuoso e spiazzante, imponeva alla FGCI di lasciare consunte liturgie e di rinnovare culture politiche perché quelle tradizionali della sinistra stavano perdendo forza. Furono anni di trasformazioni sociali e mutamenti nella soggettività di tante donne, cancellati troppo superficialmente da una lettura che li identifica solo come “anni di piombo”. In quella temperie è nato il nostro rapporto e si è consolidato nel PCI di Firenze e della Toscana, dove è stata Responsabile della Commissione femminile, della Commissione Sanità, Consigliere Comunale, per essere infine Senatrice dall’87 al ‘94. Nel dipanare i ricordi di quei decenni ho ripensato al nostro quotidiano vivere gomito a gomito nella sede di via Alamanni, sino alla sua elezione al Senato, quando la distanza ha imposto al nostro rapporto altre modalità. Rimarrà tra i ricordi più belli quella nostra intensa frequentazione con la piccola figlia Irene che, in attesa della fine dell’ennesima riunione, si divertiva con le luci del centralino, o quando ci trovavamo intorno ai tanti piatti caldi che Grazia era solita offrire alle amiche. Con lei ho appreso quanto sia importante che la politica metta al primo posto le relazioni. La finezza e il rigore intellettuale con cui Grazia era capace di illuminare le relazioni politiche erano uniti ad una delicatezza di sentimenti, tutta sua. Una “grazia”, ha scritto Ida Dominijanni con un gioco di parole calzante. A ripensarci oggi, salta agli occhi quella peculiare vitalità che si espresse a Firenze. In quegli anni, con lei e con altre importanti studiose femministe, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch, Ida Dominjanni, Monica Toraldo di Francia, Francesca Izzo, Patrizia Meringolo e tante altre, ferveva il lavoro politico e culturale del Collettivo che aveva dato vita alla rivista “Rosa”, la cui prima uscita risale al febbraio 1974. Una storia di uno speciale rapporto tra femministe e comuniste che rifletteva sulla nuova politicità e la pratica dell’autocoscienza, storia che Anna Scattigno ha ben ricostruita (Memoria 19/20 1987). Nel crocevia di quelle riflessioni e pratiche che hanno coinvolto donne del movimento e militanti del PCI hanno preso a stringersi alcune relazioni tra donne che sono divenute riferimenti fondamentali nella scena femminista nazionale, e si sono misurate, anche nei decenni successivi, in comuni vicende politiche a sinistra, in battaglie culturali e hanno attraversato la complessità della vita di ciascuna. Anche l’UDI di Firenze aveva reagito alla scossa del movimento femminista, spingendosi nella ricerca di inedite forme organizzative e di rappresentanza non più mutuate da quelle del movimento operaio, avvertite come palesemente inadeguate. Un fecondo tentativo di passare dalle tradizionali “politiche per le donne” a “soggetto politico autonomo”. Grazia Zuffa ne fu acuta interprete e artefice saggia. Anche per suo merito l’UDI fiorentina riuscì a mantenere la sua forza storica e ad aprirsi svolgendo un proprio ruolo sia nel movimento che nel rapporto con i partiti, in particolare con il PCI. In quel confronto/scontro, Grazia Zuffa si distingue per la sua postura autonoma e differente, sostenuta da relazioni privilegiate con alcune delle donne citate e da una rete diffusa di legami femminili sedimentati nei movimenti, nell’UDI e tra le militanti dei partiti. Il suo essere femminista non ha mai avuto il tratto della chiusura: dialogo, ragionamento, scambio, confronto, sono stati la sua cifra anche in quei tempi di profonde inquietudini. Il femminismo aveva messo in discussione le certezze delle politiche di emancipazione che non riconoscevano la differenza femminile, e aveva generato il travaglio delle militanti comuniste nel rapporto con il partito innescato dal principio “il personale è politico”, tant’è che la doppia militanza “diviene allora una forma consapevole di espressione della vivente contraddizione tra diverse sfere e pratiche della propria esperienza”, (G. Zuffa, Memoria 10/20 1987). È questo il suo modo di attraversare la vita del PCI, un partito certo con rigidità culturali e politiche verso la pratica politica del femminismo e la nuova elaborazione delle donne comuniste, ma di cui si riconosceva la radicata politica di massa, in cui le militanti “…compiono un’esperienza ricca, di rapporto con la realtà, di formazione e di realizzazione personale.”, tant’è che “La crisi della doppia militanza per le comuniste non giungerà mai ad una rottura con il partito come avvenne per le militanti della nuova sinistra”. (Memoria/1987). La proposta di un suo impegno diretto del PCI fiorentino e poi toscano fu il segno di un’attenzione lungimirante da parte di quel partito ai mutamenti sociali in atto di cui il femminismo era parte significativa. Un’apertura che tuttavia risentiva di una lettura restrittiva di tali mutamenti che erano intesi più come espressione di disagio sociale, oppure mero allargamento lineare delle alleanze sociali senza una riconsiderazione dell’impianto culturale, delle forme e della strategia politica. Erano gli anni della solidarietà nazionale con i segni già evidenti delle difficoltà del PCI ad accogliere le novità insite nell’allargamento dei consensi elettorali del 1975. D’altro canto, la disponibilità che Grazia dette a tale proposta fu l’accettazione lucida e consapevole da parte sua, compiuta in relazione con altre donne, della sfida che implicava il tentativo di portare direttamente il femminismo nel partito, dato che il nucleo fondante del femminismo, la libertà era ostico alla tradizione dell’emancipazione, e anche in considerazione del fatto che la pratica politica da cui il femminismo nasceva, “il partire da sé”, collideva con una militanza che relegava la soggettività in secondo piano. Nel bilancio di quella sfida ci sono luci, ma anche questioni rimaste aperte che la fine del PCI ha lasciato irrisolte. È sull’aborto e nella conseguente discussione sulla legge che il femminismo ha trovato una via di penetrazione diretta attraverso il conflitto aperto dalle donne, che la vide fra le protagoniste. A Firenze, in particolare negli anni che precedettero l’approdo alla legge 194, ci fu uno scontro aspro negli attivi di partito, nelle assemblee pubbliche, negli organismi di partito, con dirigenti autorevoli come Adriana Seroni, rispettata dirigente fiorentina e responsabile nazionale delle donne, contestata e poi convinta ad uno spostamento di posizione. Il PCI partiva da una linea molto arretrata il cui riferimento era il Testo unificato elaborato in Parlamento, nel dicembre 1975. In esso si riconosceva alla donna la possibilità di abortire solo in condizione di violenza o di pericolo per la salute della madre o del feto, e si accettava la discrezionalità della decisione del medico, intesa come corresponsabilità della società. Nell’atteggiamento del partito non pesava solo la costante preoccupazione di evitare scontri e lacerazioni frontali, soprattutto col mondo cattolico, e di realizzare schieramenti larghi, ma una non comprensione del nocciolo del problema che il movimento aveva posto in modo dirimente: l’autodeterminazione della donna. Le donne giocarono la loro egemonia in alleanza con gli uomini più illuminati. Va ricordata a tale proposito la presa di posizione contraria alla linea espressa dal partito, di Cesare Luporini, autorevole filosofo fiorentino e ascoltato dirigente del partito, che espresse tutto il suo “turbamento quale non aveva mai avuto nella vita di partito in nessuna circostanza precedente” in una lettera rivolta a Alessandro Natta nel dicembre 1975, (Filippo Magni, Rivista Il Ponte, maggio /giugno 1918). Se la mediazione conclusiva della legge contempla il riconoscimento della decisione finale della donna, è perché una forza femminile dirompente fuori e dentro il partito seppe convincere e vincere nel determinarne l’orientamento. A Firenze, con Grazia, facemmo la nostra parte con determinazione e senza esclusioni di colpi. Nel mentre nel movimento si continuava dibattere sul significato da dare a quella battaglia, sul giudizio della legge e della mediazione contenuta in essa. Si fronteggiavano due culture, quella di chi privilegiava l’aspetto della libera determinazione di sé, dunque della maternità e sessualità come scelta, e quella di chi vedeva prevalentemente una donna in condizione di svantaggio da “aiutare a decidere”, e un’ingiustizia sociale da colmare. Ho ricordato questa vicenda perché sul significato di quella lotta politica e culturale Grazia svilupperà l’elaborazione che diventerà un punto di riferimento della discussione, anticipando con Maria Luisa Boccia i dilemmi sulle tecniche di riproduzione assistita, (“L’ eclissi della madre”1998), affrontando i rinnovati e mai sopiti attacchi “trasversali” alla legge 194 (da ricordare la polemica con Giuliano Amato), cimentandosi con il tema del fine vita e quello complesso della gestazione per altri/e. Questioni su cui ha dato contributi fondamentali nel Comitato Nazionale di bioetica. Un pensiero critico, il suo, che tiene fermo un criterio ordinatore dei conflitti impliciti in queste materie: l’autodeterminazione come principio etico, “al di fuori dei panni stretti e impropri del diritto individuale, come libertà di essere se stessa che non si contrappone alla responsabilità verso l’altro” (Reti,1989), quella che lei denomina una “libertà relazionale”. Un’elaborazione che orienterà la sua attività legislativa e la discussione su questi temi dentro e fuori il Parlamento, e segnerà l’esperienza vissuta nel “Gruppo interparlamentare donne”, e i suoi rapporti con il Gruppo della Sinistra Indipendente, soprattutto con Mariella Gramaglia e Pierluigi Onorato a ennesima dimostrazione della sua capacità di creare ponti culturali e generazionali. Anche su quest’esperienza conviene ricordare una sua riflessione che mette in luce una sua costante preoccupazione: “la convinzione che l’impegno delle elette di render conto del loro operato alle elettrici non è la banale traduzione al femminile di un sacrosanto principio di moralità politica, bensì lo sforzo di rendere visibile, e perciò discutibile e correggibile, un percorso tutto da inventare” (Reti, 1990). Sì, perché in Grazia pensiero e azione, confronto scientifico e pratica sociale vanno di pari passo. Il pensiero vive in scelte concrete costruite in rapporto con i soggetti sociali interessati con una “rara capacità di azione politica trasformata” come ha ricordato il costituzionalista Andrea Pugiotto. I semi piantati sono innumerevoli. Come responsabile della sanità ebbe parte decisiva nella fondazione del Sistema Sanitario Regionale toscano (bei tempi!), affermando il modello della rete dei consultori in sintonia con l’elaborazione su maternità e sessualità dei movimenti. Fu promotrice dei servizi innovativi nel campo della salute mentale all’insegna della cultura anti manicomiale, dell’uso delle droghe, delle dipendenze anticipando le politiche della riduzione del danno. Come componente della Commissione Regionale di bioetica propiziò un regolamento dei centri di fecondazione, il primo in Italia, a tutela della salute delle donne e dei nascituri sulla base delle competenze regionali. Grazia Zuffa ha considerato cruciale, nel percorso femminista dentro il partito, la pratica dell’autonomia politica, intesa come processo in cui le donne comuniste acquistano coscienza di sé, del proprio ruolo e si danno valore tra loro: “Per me l’eredità più viva del femminismo è proprio il conquistato riconoscimento del nostro valore, con la scoperta che dipende da noi, e solo da noi, saperlo riconoscere”, dirà nell’intervento alla VII Conferenza Nazionale delle donne di Roma, (1983), guidata da Lalla Trupia. È da lì che inizia a prendere forma in modo più netto l’autonomia che poi, la “Carta itinerante delle donne”, (1987), ridefinirà radicalmente sia nel senso che nella pratica. Con la Carta infatti, si afferma un esplicito atto di soggettività: “Siamo donne comuniste”si dichiara all’inizio, poi si prosegue: deriva “dalle donne la forza delle donne”. Frase che riassume in modo efficace il senso della relazione tra donne in un luogo maschile come un partito politico. Con la Carta è fiorita una primavera politica delle donne comuniste guidata da Livia Turco, promossa con esponenti del femminismo della differenza, Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte, attraverso un legame cementato nell’occasione della mobilitazione e della riflessione critica sull’incidente di Chernobyl (Convegno “Scienza potere e coscienza del limite” Aprile 1986). Una primavera animata dal protagonismo di una comunità di donne comuniste rafforzate dalla relazione tra loro diventata pratica costitutiva e non solo di alcune. Sulla scia della Carta, alle elezioni del 1987, il PCI fece eleggere il 30 percento circa delle di donne, un traguardo considerevole viste le percentuali degli altri partiti. Al XVIII Congresso il PCI riconosce la differenza sessuale come aspetto costitutivo del genere umano, e la necessità di costruire un mondo a misura dei due sessi. Un bel salto in avanti: le donne occupavano un posto centrale. In relazione tra loro, non si sentono più secondarie, relegate nello “specifico”, sentono addirittura di poter agire, si ripeteva nelle riunioni “come se il PCI non ci fosse”, incuranti dei suoi lacci. A Grazia Zuffa non sfuggiva però come quell’atto di soggettività fosse tutt’altro che un pacifico avanzamento dei contenuti a prescindere dal partito. La pratica della relazione tra donne apriva conflitti sulle forme e pratiche del partito, sui meccanismi che lo reggevano e sulla qualità del progetto di trasformazione, Non si poteva ignorare la fase che il partito stava attraversando alla ricerca di una chiara identità, stretto sempre di più tra l’arrembante neoliberismo di Reagan e Thatcher e la crisi del mondo dell’URSS. Il punto non era agire “come se il PCI non ci fosse”, semmai era cambiare il PCI. A cominciare dal superamento del centralismo democratico. Nell’intervento al Comitato Centrale in preparazione del 18° Congresso del PCI, Grazia Zuffa è chiara e coraggiosa: “L’autonomia delle donne ha già rotto il centralismo democratico superando il momento della sintesi perché la contraddizione uomo donna non è sintetizzabile”. Era necessaria una rottura di continuità, che tuttavia rimarrà irrealizzata perché di lì a poco il PCI avrebbe deciso di cambiare nome e identità. Quella che si aprì dopo l’annuncio del cambio del nome alla Bolognina, sarà una svolta che verrà condotta in un modo distruttivo, il contrario di quella cura che le donne evocavano. Così fu azzerata l’audacia del tentativo di cambiamento in cui avevano investito le donne della Carta. La conta dei sì e dei no alla svolta risucchiò l’autonomia politica delle donne comuniste. Grazia Zuffa e con lei un gruppo di donne, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi, Franca Chiaromonte, Gloria Buffo, Anna Maria Carloni, Lilli Rampello e altre cercarono una via autonoma per esprimere la loro contrarietà con una propria mozione “La libertà è solo nelle nostre mani”. (Vicenda ricostruita da Franca Chiaromonte, Letizia Paolozzi, “Il taglio. “Due femministe raccontano la fine del PCI” 1992). Era il tentativo di creare uno spazio differente entro la colata lavica della logica degli schieramenti compatti e contrapposti, una logica che, tuttavia prevalse e travolse idee, sentimenti, relazioni, pensieri e portò, dopo due congressi, allo scioglimento del PCI. Fu un’operazione di incuria politica, al di là della pluralità e della profondità delle ragioni e delle passioni che si scontrarono. Schierarsi con Aldo Tortorella e Pietro Ingrao contro la svolta per Grazia non aveva il significato di una resistenza al cambiamento, ma la scelta di una direzione che esso doveva avere, della sua cultura e della sua pratica politica. Il tema era maturo ben prima del crollo del muro di Berlino, ben prima della dissoluzione del cosiddetto “socialismo realizzato”, mondo agli antipodi della cultura politica di Grazia Zuffa. E lo era, seppure non nello stesso modo, anche per una parte del PCI, almeno di quella che al Congresso di Bologna del 1990 si riconosceva nella mozione di Ingrao e Tortorella. Non è qui, in questa parziale ricostruzione dell’impegno di Grazia, che si può approfondire una vicenda così complessa e coinvolgente. È alle nostre spalle. Dopo poco, al termine della legislatura al Senato, Grazia Zuffa, esce dalla politica partitica e istituzionale, volgendo la sua energia per un’altra fase del suo impegno politico nei luoghi più abbandonati e accidentati della vita: il carcere, le tossicodipendenze, gli ospedali psichiatrici… sempre con il suo approccio che vedeva nelle persone, ultime più ultime, “non vittime, quando andava bene, ma soggetti che hanno competenze e sapere sulla propria condizione”, (Cecilia D’Elia, nel ricordo in Senato 12 marzo 2025). L’ultima fase al Senato fu caratterizzata dall’urto di “Mani pulite”, lei l’attraversa con la bussola del suo limpido garantismo, senza cedimenti al giustizialismo del tempo. Di nuovo una prova di autonomia. Così era fatta Grazia. Chi ha camminato con lei conosce bene la fortuna di averla incontrata. La memoria, quella collettiva e quella più intima, terrà Grazia ancora con noi. Avvalersi dei suoi pensieri “affilati, rigorosi, spiazzanti” la farà continuare a vivere nelle battaglie che continueremo insieme al suo amatissimo Franco Corleone. Ma che dolore. Prima i politici guidavano gli elettori, ora li assecondano: la democrazia rispecchia chi la esercita di Ferdinando Boero Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2025 Tutte le mattine, a Prima Pagina, Rai Radio 3, un giornalista legge i giornali dalle 7.15 alle 8 e, fino alle 8.40, gli ascoltatori intervengono. In questi giorni un signore ha detto che i politici non guidano più i loro elettori, dettando una linea; oggi, si è lamentato, i politici assecondano gli elettori, rappresentandone pregi e difetti. Il giornalista si è dichiarato d’accordo e ha parlato di De Gasperi e Togliatti. Penso al militante del Pci, interpretato da Maurizio Ferrini, col suo: “Non capisco ma mi adeguo”. Gli elettori, allora, si fidavano dei loro leader e cercavano di adeguarsi al loro pensiero: non capivano il politichese, ma si fidavano. Con Mani Pulite fu chiaro che la classe politica stesse spolpando il paese: venute meno le fedi (demo)cristiana e comunista, la Lega cavalcò l’indignazione popolare con lo slogan Roma Ladrona. Il vuoto politico lasciato da Mani Pulite fu colmato da Silvio Berlusconi, sodale di Bettino Craxi, fuggito in Tunisia per sottrarsi alla galera. Berlusconi assecondò i benpensanti e adoperò i sondaggi e le televisioni per acquisire consenso; era un pubblicitario, uso a fare promesse mirabolanti per vendere la loro merce e, con lui, la politica diventò un prodotto. Se i sondaggi dicono che le tasse sono troppo alte, non si cerca di spiegare perché, come fece Padoa Schioppa con la sua le tasse sono una cosa bellissima, li si asseconda: meno tasse per tutti. Così ognuno dice: vedi che ho ragione? Berlusconi sì che ragiona bene, la pensa come me! Ed ecco il cambio di paradigma: il politico si adegua agli elettori, e non viceversa. Ora faccio il Padoa Schioppa e spiego l’ovvio: le tasse sono la “cassa comune” con cui la società si fa carico dei bisogni comuni. Si dà per scontato che ci debba pensare lo stato, senza considerare che pensarci significa impiegare risorse che derivano da quanto tutti contribuiscono alla “cassa comune”, come prevedono la Costituzione e la logica. ?I diritti che lo stato deve soddisfare sono pretesi, ma i doveri no (vedi l’oscenità dell’evasione fiscale). Uno statista dovrebbe spiegarlo ai propri elettori, mettendoli in grado di adeguare la loro limitata comprensione della realtà alle necessità di gestione della cosa comune. Un politicante, invece, asseconda gli elettori nelle loro convinzioni. Berlusconi, poi, credeva davvero a quel che affermava, non a caso è stato condannato per frode fiscale. L’elettore smaliziato pensa: forse mente, ma se dovesse dire anche una parte di verità la sua proposta di ridurre le tasse sarà sempre più accettabile di quella di chi mi dice che “devo pagare”. Il resto della politica si adeguò. “Pubblico” diventò una brutta parola, “privato” fu la soluzione. Le privatizzazioni degli asset strategici, realizzati con fondi pubblici, furono promosse da politici che si dichiaravano di sinistra, da D’Alema a Prodi. Ingenuamente, allora, mi aspettavo che la sinistra si prefiggesse di far funzionare bene il pubblico. Invece no. Risultato: gli asset strategici vanno in malora, i privati si arricchiscono: perdite pubbliche, guadagni privati. Ora tocca alla sanità. Per i disastri climatici non ci sono più soldi, dice il ministro della Protezione Civile, se volete mettervi al sicuro… assicuratevi. Un attimo dopo i soldi si trovano per le armi, con grande soddisfazione di chi le fabbrica. Beppe Grillo, un comico come Zelensky, intercettò il malcontento di chi voleva qualcosa di diverso dalla solita offerta politica. Nei suoi spettacoli denunciò le malefatte del pubblico e del privato: scandali, corruzione, inefficienza, truffe (da Parmalat a Cirio), pose la questione ambientale e propose la sostenibilità. Non seguì il sentire della “gente”, lo determinò. Denunciava le assurdità facendo il giullare che deride il potere. Poi capì che con la rete poteva raggiungere le persone, soprattutto i giovani, bypassando televisione e giornali, oramai in mano al “potere”. E coniò uno slogan semplice: vaffanculo! Seguì il consiglio di Fassino e si presentò alle elezioni. Identificare i problemi è il primo passo, ma poi ci vogliono le soluzioni. Confesso di essere rimasto sbalordito quando Giuseppe Conte, dopo aver gestito in modo eroico la pandemia, tornò da Bruxelles con il Pnrr avendo fatto accettare proposte che tutti ritenevano impossibili da accettare. Fu fatto cadere, soppiantato da Draghi che, fingendosi un grillino, fece fesso Grillo, che accettò come ministro della Transizione ecologica chi ora guida una fabbrica di armi. All’opposizione a Draghi rimase solo Giorgia Meloni, che fece promesse mirabolanti in campagna elettorale. Ancora una volta assecondando il “sentire” degli italiani, “montato” dai media che in modo martellante ci convincono che i problemi sono, di nuovo, le tasse (il pizzo di stato) e, ovviamente, i migranti, da respingere con blocchi navali e deportazioni. Se Berlusconi assecondò il sentire degli italiani, Meloni lo esaspera. Che poi non mantenga è un dettaglio irrilevante: sono “gli altri” che non le permettono di fare quel che ha promesso. La maggioranza diventa sempre più silenziosa, tanto che non si esprime. La democrazia mantiene le sue promesse e rispecchia pienamente il sentire di chi la esercita. Nel frattempo Schlein sta serena: il Pd è saldamente in mano sua. La piazza di Michele Serra, intanto, è come il giocatore di roulette che punta la stessa cifra sia sul rosso sia sul nero. Si vince sempre!, come dicevano gli imbonitori alle fiere di paese. Accoglienza migranti al collasso: opacità ed emergenza permanente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2025 Il sistema di accoglienza italiano per migranti e richiedenti asilo è sempre più vicino al collasso, stretto tra caos amministrativo, iperproduzione normativa e una gestione opaca che viola i diritti fondamentali. È la fotografia scattata dal report “Accoglienza al collasso. Centri d’Italia 2024”, realizzato da ActionAid e Openpolis, che denuncia un modello basato sull’emergenza perpetua, lontano da logiche di integrazione e programmazione. Nel 2023, oltre 157mila persone hanno raggiunto l’Italia via mare o terra, un dato gestibile se paragonato ai picchi del 2016- 2017. Eppure, il sistema appare saturo: il 68,3% degli ospiti è concentrato nei Centri di Accoglienza Straordinaria, strutture temporanee con servizi ridotti all’osso. A crescere sono soprattutto i “mega- centri”: quelli con oltre 300 posti sono aumentati del 360% in un anno, con casi critici come Milano, dove 10 strutture accolgono 2.500 persone a fronte di una capienza di 2.087 posti. “Si preferisce investire in grandi strutture, spesso sovraffollate, invece che in accoglienza diffusa”, spiegano gli autori del report. “Un approccio che ostacola l’inclusione e favorisce speculazioni”. Uno dei dati più allarmanti riguarda i minori stranieri non accompagnati. Nel 2023, la loro presenza nei Cas è schizzata a + 63,9%, con 1.773 ragazzi accolti in strutture spesso inadatte. A ciò si aggiungono oltre 700 Msna inseriti in centri per adulti nel 2023, nonostante le raccomandazioni del Garante per l’Infanzia. “Collocare minori in strutture per adulti è inaccettabile e rischia di diventare prassi”, avverte il report. A fine agosto 2024, 284 minori risultavano ancora in queste condizioni, mentre i posti liberi nel Sistema di Accoglienza e Integrazione rimanevano sottoutilizzati. Le donne rappresentano oggi il volto di progressiva “femminilizzazione” del sistema, ma ancora poco attento ai loro bisogni. Negli ultimi dieci anni, le presenze femminili nei centri Sai sono quintuplicate, raggiungendo 8.683 unità a fine 2023. Il decreto 133/ 2023 le riconosce tutte come “vulnerabili”, garantendo loro l’accesso al Sai. Tuttavia, i servizi specifici - come supporto psicologico o percorsi anti- tratta - scarseggiano. “Molte arrivano dai Cas completamente disorientate, senza conoscere diritti o servizi territoriali”, racconta Francesca De Masi di Be Free, cooperativa romana che gestisce progetti Sai. Quasi il 40% degli ospiti nei centri Sai (12.169 persone) proviene da paesi classificati come “sicuri”, come Nigeria o Bangladesh. Un paradosso, considerato che le domande di asilo di questi cittadini sono spesso respinte. Intanto, le revoche dell’accoglienza - l’espulsione dai centri - sono raddoppiate in un anno: da 30.500 nel 2022 a 50.900 nel 2023. “Si sospetta che siano strumentali a liberare posti”, denuncia il report. Il report denuncia che a peggiorare la situazione è l’ostruzionismo del Viminale nel rilasciare informazioni. Nonostante due sentenze del Tar e del Consiglio di Stato a favore di ActionAid, il ministero dell’Interno nega l’accesso a dati cruciali, come il numero esatto di centri temporanei o i dettagli sulle ispezioni. Un’udienza fissata per domani 19 marzo cercherà di ribadire il diritto alla trasparenza. Il report chiede un cambio di passo: stop all’iperproduzione normativa, più risorse per il Sai, monitoraggio indipendente e un Piano Nazionale Accoglienza, mai aggiornato dal 2014. “Serve una visione strutturale, non emergenziale”, conclude Lorenzo Trucco, presidente di Asgi. “Altrimenti, il collasso sarà inevitabile”. Migranti. Paesi sicuri, von der Leyen anticiperà la lista europea di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 marzo 2025 Ma l’immediato futuro dei Centri albanesi resta appeso comunque alla Corte Ue. Rimpatri “digitalizzati” e organizzati direttamente da Frontex, hub per le deportazioni costruiti in Stati terzi e una lista comune sui paesi di origine sicuri da presentare già “nelle prossime settimane”. Sono i punti principali della lettera in materia di immigrazione che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha inviato ai leader Ue in vista del Consiglio di giovedì prossimo. La terza questione riguarda il futuro del progetto Albania, dopo le difficoltà incontrate finora e mentre si attende la sentenza della Corte di giustizia Ue sui paesi sicuri (dovrebbe arrivare entro giugno). L’elenco comunitario, accanto a quelli nazionali, è previsto dal nuovo regolamento procedure contenuto nel Patto immigrazione e asilo. Doveva entrare in vigore a giugno 2026, ma visto il pasticcio dei centri di Shengjin e Gjader il governo italiano preme per anticipare le parti relative ai paesi sicuri. Le dichiarazioni di von der Leyen vanno quindi nel senso auspicato da Meloni. “Stiamo attingendo a un’analisi dell’Agenzia Ue per l’asilo e ad altre fonti di informazioni disponibili per valutare una prima selezione di paesi scelti in base a criteri oggettivi, come bassi tassi di riconoscimento dell’asilo”, scrive la presidente. Al momento la lista italiana è la più estesa tra quelle europee: 19 paesi contro, per fare un esempio, i nove di quella tedesca. La partita principale, comunque, non si giocherà su quanti Stati saranno ritenuti “sicuri”, ma su quali. Per Roma contano soprattutto Bangladesh ed Egitto, che fanno parte della lista nazionale, e Pakistan, per ora escluso. Sono gli Stati in testa agli sbarchi insieme alla Siria, per la quale la definizione di sicurezza dovrà attendere (ma è evidente da ben prima del cambio di regime che i governi europei vogliano andare in quella direzione, a qualsiasi costo). Nel settembre 2015 la Commissione aveva proposto un elenco comune in cui erano presenti otto paesi: Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia, Turchia. Ma erano altri tempi e dunque altri criteri: quella lista non serviva a incarcerare i richiedenti asilo durante l’esame delle loro richieste, come stavolta. In ogni caso anche anticipare le nuove norme richiede tempo. “La procedura è quella legislativa ordinaria, la stessa che ha portato all’approvazione del regolamento - afferma Chiara Favilli, che insegna diritto Ue all’università di Firenze - La proposta della Commissione richiederà l’approvazione di Consiglio e Parlamento. Formalmente in questi casi ci vuole minimo un anno. L’accordo politico può contrarre i tempi, con un’approvazione nell’arco qualche mese”. Per riempire i centri albanesi prima dell’estate la premier Meloni ha comunque bisogno di una sentenza favorevole dalla Corte Ue. In caso contrario dovrà inventarsi qualcosa. Ambiguità e pericoli del “ReArm Europe”: le alternative da cercare di Agostino Giovagnoli Avvenire, 18 marzo 2025 Europa o nazionalismi? L’asse Trump Putin - quanto duraturo si vedrà - ha cambiato radicalmente lo scenario internazionale e oggi l’Unione Europea è davanti all’alternativa tra rafforzarsi o dissolversi (rilanciare l’Europa è stato il senso della manifestazione di sabato scorso a Roma). Tale alternativa, però, può non apparire urgente. Si discute molto, ad esempio, della scelta pro o contro il progetto Von der Leyen, presentato come la madre di tutte le decisioni, ma in realtà RearmEurope è double face: prevede agevolazioni per il riarmo degli Stati nazionali europei e un fondo specifico per la difesa comunitaria. Non è la stessa cosa, sono anzi progetti opposti se li vede alla luce dell’alternativa tra Europa e nazionalismi. Il problema si pone, sebbene in forma diversa, anche riguardo alla coalizione dei “volenterosi” che si propongono di garantire, raggiunta la tregua in Ucraina, la sicurezza di quest’ultima. Per capire quanto sia importante e urgente questa alternativa, basta chiedersi come si comporterà una Germania potentemente riarmata, in cui Afd, oggi al 20% dei voti, prenda la guida del governo: chi potrà garantire che quelle armi non siano rivolte contro gli altri Paesi europei? Mitterand, Andreotti e persino Kohl volevano una Germania più europea e non un’Europa più tedesca. Prima di loro, i padri fondatori dell’unità europea avevano parlato di una Comunità europea di difesa che però fu fermata dai nazionalismi francesi e italiani. È questo il dilemma che torna a presentarsi a ogni passaggio importante, come è accaduto con l’euro, che ha rafforzato l’unità europea, o con il progetto di Costituzione europea, la cui bocciatura nel 2005 l’ha invece indebolita. Per non parlare del “suicidio” inglese con la Brexit (su cui tra i cittadini del Regno Unito sembra in atto un ripensamento). Il dibattito di Senato e Camera in vista del Consiglio europeo del 20 e 21 marzo, maggioranza e opposizione si presentano profondamente lacerate al loro interno. Senza chiarire se si pensa che il vero interesse nazionale italiano è nella costruzione europea o in una politica nazionalistica, continueranno a prevalere posizioni confuse, motivazioni opache, divisioni contraddittorie. Dato il suo carattere ambiguo, infatti, il RearmEurope di Ursula von der Leyen può suscitare il consenso o il dissenso sia degli europeisti sia dei nazionalisti. Gli uni e gli altri hanno perciò il dovere di una chiarezza aggiuntiva. Gli europeisti che approvano questo progetto devono spiegare che lo fanno per rafforzare l’unità europea. Gli europeisti che, invece, lo disapprovano devono chiarire che sono contrari a RearmEurope, ma anch’essi si muovono in un’ottica europeista (nel mondo sottosopra di oggi succede di fare scelte diverse pur avendo gli stessi fini). Gli uni e gli altri, insomma, devono far capire che, anche se divisi in questo passaggio specifico, perseguono lo stesso obiettivo. Ad esplicitare le ragioni delle loro scelte, naturalmente, sono chiamati anche nazionalisti e antieuropeisti favorevoli o contrari a RearmEurope (anche in questo caso compiendo scelte diverse malgrado gli stessi fini). Quest’esigenza di chiarezza esigerebbe una vera e propria rifondazione degli schieramenti in cui si divide oggi la politica italiana: alla luce dell’alternativa Europa/nazionalismi, gli aggregati che compongono le attuali maggioranza e opposizione appaiono contraddittori. Non è problema che si possa affrontare oggi, ma neppure rinviare sine die. L’alternativa Europa/nazionalisti pone domande scomode anche a chi ha sinceramente a cuore la pace. La causa di quest’ultima sembrerebbe esigere una netta bocciatura del piano RearmEurope. Spinge in questo senso un’indubbia verità: la presenza di armi è un fattore che di per sé induce alla guerra. Ma la pace, pur essendo un ideale assoluto che non ammette compromessi, è anche una realtà che si costruisce in modo concreto e attraverso scelte imperfette. L’unità europea è una di queste: tale unità è nata da una sincera scelta di pace dopo la Seconda guerra mondiale ed è oggi la più importante garanzia in questo senso in un mondo multipolare che segue la legge del più forte e considera la guerra il modo “normale” di risolvere le controversie internazionali. Guardando il panorama internazionale, non appare del tutto fondato dipingere un’Europa bellicista: grazie alla sua storia sofferta che continua, malgrado tutto, a ispirarne le scelte di fondo, lo è assai meno di altri. Un vero pacifista non è chi usa la pace quale arma ideologica, ma chi la costruisce nei fatti attraverso scelte anche difficili. Infine, una postilla sul problema del rapporto tra cattolici e politica. Proprio i cattolici sono stati tra i principali costruttori della via di pace rappresentata dall’unità europea dopo la tragedia in cui i nazionalismi avevano fatto precipitare l’Europa e il mondo nella Seconda guerra mondiale. Nel loro dna è infatti profondamente iscritto il senso dell’universalità e della fraternità che ha ispirato una costruzione sovranazionale, inedita e originale, finora unica al mondo. La situazione attuale sollecita che anche le loro energie si mobilitino per l’Europa e per la pace. Non farlo potrebbe significare perdere un’occasione preziosa per mostrare che la loro presenza in formazioni politiche diverse non li rende irrilevanti. Indicare una via per l’Europa - più solida e decisamente migliore di quella interpretata oggi dalla Commissione von der Leyen - dovrebbe essere anche l’obiettivo della più volte auspicata “Camaldoli europea”. Nazionalismo e armamenti: la congiura dei falliti di Alfio Mastropaolo Il Manifesto, 18 marzo 2025 Leader in gravi ambasce ripiegano su se stessi. In piena involuzione culturale, hanno riscoperto lo spirito del branco, col suo contorno di razzismo più o meno esplicito. Il 5 marzo scorso Emmanuel Macron ha indirizzato un solenne discorso alla nazione. La Francia, ha detto, deve difendersi, il pericolo russo è grave, è l’ora di riarmare la Francia e tutta l’Europa. Il più impopolare presidente della quinta Repubblica, devastato da un doppio fallimento elettorale, incapace di contrastare l’avanzata dell’ultradestra, dante causa di quel che in Italia si chiamava un governicchio, tenta il rilancio indossando i panni del chef de guerre continentale, forte di qualche dozzina di bombe atomiche. Il riarmo sarebbe pure un buon affare, dato il florido stato dell’industria francese degli armamenti. Non è diversa la condizione di Starmer. Vinte le elezioni per il collasso conservatore più che per meriti propri, sondaggi a lungo in caduta, stritolato dai danni provocati dai governi precedenti, condizioni economiche infauste, servizi pubblici disastrati, prigioniero dell’ortodossia dell’austerity, Starmer si è un po’ rilanciato col suo attivismo pro-Ucraina. Anche la Gran Bretagna è una potenza nucleare. Che diamine! Non sta bene neanche Merz, prossimo cancelliere federale. La Germania è sofferente. I servizi pubblici sono malmessi, ma è soprattutto in crisi l’ultima trincea della manifattura europea, difesa a spese delle manifatture degli altri paesi, dove rimane qualche regione vitale, come il Nord Est italiano, ma che è l’ombra di ciò che era. Le democrazie non si fanno la guerra, ma si fanno la forca. Tra libera concorrenza, divieto d’aiuti di Stato, vincoli di bilancio, moneta unica, la Germania si è salvata, ma ha fatto molte vittime: la più tragica è la Grecia. Alla lunga, la trincea sta cedendo. Tra incremento dei costi energetici, ritardi di innovazione, concorrenza cinese, Merz punta sul riarmo. Non stanno bene tanti leader d’Europa e le loro cerchie. Non sta bene von der Leyden, che ha una maggioranza risicata, non stanno bene lungo la frontiera orientale, non sta bene Meloni. Pur applicando con zelo le prescrizioni del patto di stabilità, la produzione industriale è in calo da 24 mesi. Per ragioni ideologiche flirta con Trump, immagina affari con Musk, ma non può dissociarsi da von der Leyden. Secondo una consolidata divisione del lavoro, lascia fare a Salvini, che prova a lucrare sul pacifismo. Anche a lei il riarmo appare un toccasana. Ci sono ragioni di sostanza, dietro il riarmo, Putin non è un agnellino. Ma ce ne sono pure di politiche. Dopo un quarto di secolo di martellamento anti-immigrati da parte delle destre estreme, l’aggressione all’Ucraina ha offerto ai partiti mainstream un surrogato per attrarre gli elettori. Le democrazie occidentali sarebbero sotto attacco dell’autocrazia russa e dei suoi altrettanto autocratici alleati: Cina e Iran in testa. Val la pena leggere quel documento paranoico che è la risoluzione votata l’11 marzo dall’Europarlamento. Putin, è chiaro, cova un disegno neozarista. Anche lui si trova ad affrontare terribili difficoltà interne. La Russia è un paese sterminato, ospita popolazioni eterogenee, possiede enormi risorse naturali, ma la transizione al mercato ha beneficato solo un pugno di oligarchi, arricchitisi usando mezzi legali e illegali, circondati da un ristretto strato di servizio. Sottoposta a duri metodi polizieschi e a un’intensa propaganda, la popolazione non ha migliorato granché la propria condizione. Ha aggredito l’Ucraina e prova a inquinare, non sappiamo fino a che punto, le contese elettorali in occidente. Il bellicismo sta bene pure a lui e il neozarismo è un buon narcotico per mascherare i problemi reali. Trump a sua volta, tra brutalità e arroganza, fa appello al suprematismo bianco, fino a sostenere i neonazisti d’Europa, anche lui per affrontare una situazione scomoda. Biden aveva provato a rilanciare l’economia impostando politiche di lungo periodo. Che però hanno ben poco alleviato le condizioni di larghe fasce di popolazione. Il peso del debito pubblico è enorme e allora, tra sanzioni e ritiro della protezione militare, Trump vuole scaricare sull’Europa, il Canada e altri, le sue difficoltà. Nel mentre in quel brandello d’occidente che è Israele, Netanyahu ha fatto a pezzi quanto restava del diritto internazionale per prendersi una sproporzionata e sanguinaria vendetta sulla popolazione palestinese e rinsaldare la sua barcollante posizione politica. La Cina osserva sorniona gli eventi. Non è sola. Osserva la congiura, non concordata, dei falliti. Leaders in gravi ambasce, e le loro cerchie, ripiegano su se stessi. In piena involuzione culturale, hanno riscoperto lo spirito del branco, col suo contorno di razzismo più o meno esplicito. Incapaci d’immaginare qualche forma di cooperazione internazionale che promuova la pace, sui temi dello sviluppo e del riscaldamento globale - del resto anche la cooperazione intraeuropea è prigioniera del principio di concorrenza - puntano su nazionalismo e armamenti. Fa da mediocre contorno la congiura, questa sì concertata, dei falliti della sinistra italiana. Che i tempi consiglino una più intensa cooperazione europea anche militare è ovvio. Per corroborare l’ovvietà Michele Serra ha proposto la grande manifestazione popolare. Ma lui stesso si è accorto che di Europe ce ne sono parecchie. Non c’è solo la “fortezza Europa”. Cui aderisce un pezzo di dirigenza Pd, mentre un’altra concorda con la segretaria sulla sua drammatica inadeguatezza e sui suoi costi enormi. È l’occasione per i falliti del Pd e dintorni, sconfitti dagli elettori e delle primarie, per liberarsi, col sostegno di stampa e tv padronali, di una segretaria non deferente, rea a quanto pare di lesa fede europeista e democratica, di stolido pacifismo. Con tripudio dell’ultradestra. Falliti sì, ma pericolosi. “Si parla troppo di armi e poco del resto: la piazza diventi movimento europeo” di Francesca Schianchi La Stampa, 18 marzo 2025 L’ex presidente della Consulta, Gustavo Zagrebelsky: “L’Europa è una scatola vuota, Trump prodotto di incultura. Nel Pd non sanno che fare, io la penso come Schlein”. Tre giorni fa, piazza del Popolo a Roma si è riempita di persone scese a manifestare sotto la bandiera blu a stelle oro dell’Europa. Ora, passata l’onda di entusiasmo, la politica deve tornare a confrontarsi su riarmo e sostegno all’Ucraina. Per iniziare una conversazione su tutto questo, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, intervenuto da remoto sul palco di sabato, pone una domanda: “Prima di tutto bisogna chiedersi: qual è la spinta morale, politica, emotiva, che ha portato in piazza tutta questa gente?”. Qual è, secondo lei? “Quando Michele Serra ha lanciato la proposta, mi sono detto che era una risposta alla paura e alla frustrazione di questo momento. E, più che per l’Europa, le persone penso siano scese in piazza per la pace”. Lei ha definito la manifestazione “prepolitica”. Come si fa ora a portare avanti le istanze di quella piazza? “Prepolitica ma anche iperpolitica, nel senso che va al di là della politica dei partiti. Ora, penso che sarebbe importante che questo movimento riuscisse a uscire dai confini dell’Italia, diventando un movimento europeo europeista”. Chi dovrebbe prenderne le redini? “Servirebbero tante Serre, diciamo così, tanti Michele Serra in tanti posti d’Europa, per poi stabilire un coordinamento e creare un movimento federalista europeo come predicava Altiero Spinelli”. In piazza c’era chi ha idee diverse sul riarmo: come si può trovare una sintesi? “Questo è il lavoro che spetta alla politica. Intanto, a livello prepolitico bisogna essere d’accordo su due cose. La prima, è il desiderio di pace, che è alla base della nascita dell’Europa. Avendo la consapevolezza che viviamo il rischio di una guerra come mai l’abbiamo conosciuta finora. In passato i conflitti venivano combattuti con armi crudelissime, ma non definitive: si poteva farsi la guerra e poi tornare indietro. Dopo il nucleare, la tecnologia bellica non permette più di tornare indietro”. E la seconda cosa su cui essere d’accordo? “Che l’Europa possa essere uno strumento per diffondere energia e forza di pace”. Ma come si arriva alla pace? È su questo che esistono teorie diverse… “Questo è compito della politica, che ha tanti strumenti. Non penso esista solo la pace attraverso la forza professata da Ursula von der Leyen: si può raggiungere la pace anche attraverso la diplomazia, la cooperazione, la creazione di un tessuto di fiducia verso gli altri. Si parla tanto di guerra perché si è creata una sfiducia generalizzata tra i popoli”. Difficile fidarsi della Russia dopo l’aggressione all’Ucraina. “Non oso entrare su quel terreno, perché forse anche l’aggressione dell’Ucraina è stata determinata da una mancanza di fiducia. Forse la Russia, che è l’invasore, si sentiva a sua volta minacciata… Sa, la famiglia di mio padre ha origini a San Pietroburgo e a Kiev: come ho spesso scherzato, se servisse un mediatore… “. Gliela metto così: ha ragione il presidente francese Macron quando dice che la Russia è una minaccia per l’Europa? “Non lo so, ma per dire cose di questo genere occorrerebbe aver fatto tutti i tentativi per capire le ragioni storiche, lontane e vicine, dell’aggressione russa. La motivazione di Putin non è solo l’arbitrio, ma è radicata nella storia, nell’idea che dove si parla russo sia territorio russo. Non dico che sia una buona cosa, ma prima di tutto occorre comprendere. Tante volte si è ragionato così”. Una volta capite, però, bisogna andare avanti… “O tornare al manifesto di Ventotene: lì si dice che per questa ragione vanno superati gli stati nazionali sovrani”. L’Europa come si sta muovendo in questo scenario? “L’Europa di oggi è una scatola vuota. Ed è a un bivio: il carattere di uno stato è un’economia, una cultura e la sicurezza garantita da una forza difensiva. Ripeto: difensiva. Dinanzi a una minaccia, da verificarsi diplomaticamente, bisogna avere gli strumenti per difendersi. Sia chiaro, nemmeno io voglio finire suddito della Russia putiniana”. Non si fa che parlare di difesa, ma con idee diverse su come realizzarla. “Ho apprezzato una frase che i giornali hanno attribuito alla presidente del consiglio Meloni: “Si parla troppo di armi”. Io ci aggiungerei: e troppo poco di altro”. Di cosa? “Contatti tra governi, diplomazia, relazioni tra le strutture della società. Io trovai sbagliatissimo allo scoppio della guerra interrompere i rapporti culturali e accademici con la Russia: servì solo a compattare il popolo russo su Putin”. Cosa ne pensa del piano di riarmo di Von der Leyen? “A prima vista la cifra di 800 miliardi sembra enorme, ma non so nemmeno se sia adeguata all’obiettivo e alla sua realizzazione concreta. Forse serve più che altro a mettere in moto economie nazionali, economie di guerra”. Ma l’Europa trova che sia all’altezza della sfida? “Se penso che l’Europa deve essere fatta dai governanti degli stati europei, no, non mi sembra all’altezza. Ma se vogliamo rilanciare l’Europa serve un popolo europeo, una spinta dal basso: da questo punto di vista, la manifestazione di sabato ci ha provato”. Che opinione ha del presidente Trump? “Trump è il prodotto della incultura in senso etimologico. Cultura ha la stessa matrice di coltura, coltivazione: si acquisisce lavorando un humus, un terreno, in tempi lunghi. C’è una parte del globo terracqueo, come direbbe la premier, a cui della cultura non importa niente, perché significa aspirazioni e obiettivi, ma anche limitazioni e costrizioni. C’è tanta gente che dice basta limiti, separazione dei poteri, diritti altrui. Li considera gabbie al prorompere di energie primordiali”. Anche in Italia ne vede? “Come no! C’è nel mondo e c’è in Italia una insofferenza per la cultura, intesa come faticosissima acquisizione di principi e valori acquisiti nel corso dei secoli”. Sulla questione armi e Ucraina, la politica italiana che si spacca sulle risoluzioni europee come le sembra? “Bisogna distinguere tra fratture, che sono insuperabili, e divergenze, che si possono recuperare. Per esempio, nella maggioranza, la Lega mi pare si muova fratturando: da partito nazionalista e sovranista, non può che avere un’idea negativa dell’Europa”. Quella nel Pd sulla risoluzione europea era una frattura o una divergenza? “Mi sembra che non sappiano bene cosa fare. Da una parte ci sono quelli che hanno votato sì, che predicano l’idea per cui non si può restare isolati in Europa. Dall’altra ci sono quelli che si sono astenuti, convinti anche loro che si debba anche parlare di altro che non siano armi. E questa, mi pare, è l’idea migliore”. È d’accordo con la segretaria Elly Schlein, dunque… “La mia posizione che, forse, chissà, coincide con quella della segretaria del Pd, è la seguente: è giusto parlare di sicurezza, anche attraverso la difesa, ma non basta. C’è molto altro che occorrerebbe tentare di fare”. I profitti di pochi e i debiti di molti nelle guerre senza fine di Alberto Negri Il Manifesto, 18 marzo 2025 Mentre Trump riscrive alleanze e confini, l’illusione è di uscire dalla crisi e dalle divisioni dell’Unione europea con il “keynesismo militare”: invece ci indebiteremo per riempire gli arsenali di armi americane che sono oggi il 70% dell’import bellico europeo. “Vorrei poter scrivere soltanto un verso: che la paura è finita”, diceva in questi giorni la poeta di un centro giovanile. E invece sembra che, ogni giorno, ci vogliano sempre più impauriti e sempre più poveri. Mentre siamo appesi alla telefonata Trump-Putin sull’Ucraina, allo stallo dei negoziati sulla tregua a Gaza e alla guerra del Mar Rosso contro gli Houthi yemeniti, i guerrafondai europei esaminavano ieri la proposta della estone Kallas, rappresentante della politica estera, di altri 40 miliardi di aiuti militari e civili a Kiev da aggiungere agli 800 del piano di riarmo della Von der Leyen. La quale, giova ricordare, nel settembre 2022 proclamava davanti alla Commissione europea: “Putin deve perdere questa guerra”. Oggi ci sembrano parole al vento ma lei, che in tre anni non ha mai nominato un inviato diplomatico per l’Ucraina (lo ha fatto persino il Vaticano), è stata la prima nella Ue a scegliere l’opzione militare senza neppure tentare quella politica. Altro che Europa di Ventotene: questa Ue vola ormai da anni, senza cercare alternative, sulle ali del bellicismo. Con il risultato che in Europa si è tornati a parlare di bombe atomiche e “ombrelli nucleari” con una spavalderia tragicomica. In realtà più armi avremo e più alta sarà la probabilità che le useremo (male). Altro che deterrenza: le armi nei magazzini non producono reddito o sicurezza, come viene contrabbandato, ma alimentano la tentazione di giustificare nuovi e costosi arsenali con minacce vere o inventate e soprattutto destabilizzano lo stato sociale. L’illusione è di uscire dalla crisi e dalle divisioni dell’Unione con il “keynesismo militare” come viene definito sull’ultimo numero di Le Monde diplomatique: invece ci indebiteremo per riempire gli arsenali di armi americane che sono oggi il 70% dell’import bellico europeo. Anzi già lo facciamo: secondo l’ultimo annuario del Sipri di Stoccolma gli stati europei della Nato hanno ordinato a Washington negli ultimi cinque anni 500 aerei da combattimento, oltre ad altri armamenti. Stiamo già scodinzolando ai piedi del padrone Trump che ci chiede di aumentare l’impegno nell’Alleanza atlantica. In fondo eravamo già pronti ad accoglierlo e faremo lo stesso con il suo successore. Basta pensare al caccia F-35, a cui l’industria europea fornisce alcuni componenti: molti di questi aerei da combattimento verranno forniti agli europei (Germania in testa) quando già si comincerà a pensare al successore di Trump. Del resto come rinunciare a questo prodotto del complesso militare israelo-mericano? Con gli F-35 lo stato ebraico in un giorno ha fatto fuori l’80% delle difese anti-aeree iraniane. La guerra in Medio Oriente ha visto usare più tecnologie belliche avanzate di quelle impiegate sul fronte ucraino. Pochi forse lo hanno notato ma Starlink di Elon Musk funziona, sia pure non ufficialmente, anche nei cieli della Siria del nuovo padrone, l’ex jihadista Al Jolani. Così Tel Aviv, grazie anche al suo apparato cibernetico (detiene quasi il 50% del mercato mondiale), ha eliminato quel che restava delle forze armate siriane. Oggi, oltre al Libano meridionale, da cui non accenna ad andarsene, occupa tutto il Golan ed è alla periferia di Damasco, mentre la Turchia sta ottenendo quel che si aspetta da anni, un’ampia conquista territoriale e di influenza. Poco importa che la popolazione alawita, i cristiani e i drusi temano nuovi pogrom. La Siria è diventata il teatro di un nuovo braccio di ferro geopolitico tra Turchia e Israele. Ma è anche il terreno di una trattativa di Mosca per il mantenimento delle sue basi militari aeree e navali, aspetto che non infastidisce Erdogan che sta finendo di costruire con i russi la più grande centrale nucleare del Mediterraneo. E neppure Israele che all’Onu ha appoggiato le conquiste territoriali di Mosca in Ucraina mentre Putin e Netanyahu (il leader che è stato più volte di tutti al Cremlino) sono quasi sempre pronti a mettersi d’accordo. Lo stesso ministro degli esteri turco Hakan Fidan ha ammesso che la Turchia ha convinto la Russia (e l’Iran) a non intervenire in Siria in aiuto ad Assad durante l’offensiva dei ribelli. Questo intervento di Ankara ha a che fare anche con la guerra ucraina: i turchi detengono sul Bosforo le chiavi del Mar Nero, Erdogan ha già dimostrato di negoziare con un successo con Putin e i turchi sanno perfettamente che Mosca considera vitale poter contare su una base navale nel Mediterraneo per la sua flotta nel Mar Nero. PUTIN NON CHIEDE solo annessioni territoriali e tornare a vendere gas in Europa ma una profondità navale strategica per reclamare la sua zona di influenza. Agli europei, nutriti da anni di retorica bellicista e di fake news, può apparire come una notizia incredibile ma Mosca, almeno per il momento, ha vinto la guerra. Anche la battaglia del Mar Rosso tra gli Houth filo-iraniani e gli americani ha il suo corollario strategico. Gli Houthi controllano dal 2014 la capitale Sanaa e gran parte del territorio a Nord, dicono che vogliono colpire le navi dirette in Israele finché durerà l’assedio di Gaza e in passato hanno anche lanciato attacchi missilisti contro il porto ebraico di Eilat, così come nel 2019 avevano bersagliato gli impianti petroliferi sauditi. La mancata reazione americana a protezione del regno wahabita allora fu uno dei grandi motivi di dissenso tra Washington e Riad che pure dalla guerra aperta agli Houthi, lanciata nel 2015, è uscita pesantemente sconfitta. Oggi gli americani intendono vendicare i sauditi, ospiti delle trattative con Mosca e Kiev, e convincerli a entrate nel Patto di Abramo con Israele. Libia. Rastrellamenti senza pietà dopo il ritorno di Almasri di Don Mattia Ferrari La Stampa, 18 marzo 2025 Le milizie locali danno la caccia a migranti e cristiani. Tra le vittime ci sono anche bambini. La scarcerazione del generale ha sdoganato l’impunità della mafia e le sue violenze disumane. Il grido che sale dalla Libia giunge nuovamente con forza alle nostre orecchie in questi giorni in cui assistiamo a un intensificarsi delle violenze condotte ai danni dei migranti. Dalla settimana scorsa a Tripoli sono in corso arresti di massa e le persone stanno venendo deportate in prigioni non identificate. Bersaglio di queste catture sono non solo le persone migranti, ma sembra in modo specifico anche i cristiani. E molti bambini. Tra le immagini diffuse, si vede un bambino che tiene in mano un’icona del Sacro Cuore di Gesù. I video diffusi nelle scorse ore mostrano una vera e propria caccia alle persone a Janzour, a ovest di Tripoli, con i migranti che corrono cercando disperatamente di sfuggire alla cattura e alla deportazione nei lager. Mahamat Daoud, di Refugees in Libya, riferisce di grida disperate. Non mancano nemmeno i video celebrativi in cui i supporter della mafia libica celebrano gli artefici di queste operazioni: innanzitutto il Dipartimento per il Contrasto all’Immigrazione Illegale (Dcim), capitanato da Mohamed Al-Khoja, uno dei superboss mafiosi che in questi anni è riuscito a ottenere incarichi ufficiali negli apparati statali libici. C’è anche un’altra milizia che viene celebrata come collaboratrice di queste operazioni: quella delle Forze Speciali di Deterrenza (Rada), di cui è braccio operativo-istituzionale il generale Jeem Osama Elmasry Habish. Si tratta di colui che ormai è noto in tutto il mondo con il nome di Almasri. È difficile non vedere come la vicenda della sua scarcerazione e del suo tempestivo rientro in Libia con volo di Stato italiano abbia prodotto, di fatto, un rafforzamento del potere e del senso di impunità che fortifica la mafia libica e le sue violenze disumane. L’unica volta che la Corte Penale Internazionale e le forze dell’ordine erano riuscite a trarre in arresto uno di questi boss, che negli anni hanno collaudato e coordinano nell’insieme il sistema dei respingimenti, dei lager e del traffico di esseri umani e non solo, l’unica volta che finalmente uno di loro era chiamato a rendere conto dei suoi crimini contro l’umanità e crimini di guerra ed era chiamato a raccontare la verità su uno dei misteri più grossi di questa epoca storica, quel boss è stato scarcerato e riportato con volo di Stato in Libia. E ora lì, in Libia, persone migranti, cristiani, bambini stanno subendo catture e deportazioni che superano ogni immaginazione. Si è così rafforzato quel sistema di violenza e di respingimento che Italia ed Europa finanziano. La ferita che si è creata con gli accordi con la Libia nel 2017 e che si è acuita con il caso Almasri chiede una riconciliazione. David Yambio, portavoce di Refugees in Libya, fa appello a tutti: “Umani del mondo, farete rumore? Disturberete il tuo conforto per affrontare questa atrocità? O fingerete anche voi che l’essere nero sia un crimine, che la migrazione sia una condanna a morte, che queste vite non valgano il vostro fiato? I bambini braccati per le strade di Tripoli, Jenzour, Tajoura, Al-Madina Gadima, non li vedete? Non li sentite? Non mettete in discussione le vostre responsabilità morali ed etiche? Se c’è ancora un po’ di giustizia in questo mondo, che cominci con la verità. Che tutto cominci con il vostro rifiuto di tacere”. David Yambio è stato torturato direttamente da Almasri, è testimone dei suoi crimini ed è anche, come alcuni di noi, una delle vittime di spionaggio nel cosiddetto caso Paragon. Anche su questa vicenda ci sono ancora tanti misteri, ma quello che è chiaro è il quadro in cui si inserisce: la solidarietà è diventata sovversiva. Sì, la solidarietà è diventata sovversiva e viene criminalizzata e ostacolata in tanti modi, però resiste. Ed è da qui che bisogna ripartire. Urge che l’Italia e l’Unione Europea ricuciano la ferita enorme che si acuisce sempre di più con le vittime di questo sistema di respingimento e di violenza e con chi pratica la solidarietà e costruisce la fraternità. È in gioco non solo la vita di queste persone, ma anche la dignità e l’identità dell’Italia e dell’Europa. In questi giorni in cui si prova a rimettere al centro il valore dell’Unione Europea, ricordiamoci che essa è chiamata ad essere una casa di pace, di libertà, di uguaglianza e di fraternità. Essa è chiamata ad essere una sorella per i popoli del mondo, a non cedere a tentazioni di neocolonialismo economico attraverso le multinazionali o a tentazioni di chiusura a fortezza davanti agli esseri umani che bussano alle sue porte. Essa è chiamata ad essere una sorella che sa prendere per mano i popoli e le persone, dando carne a quella solidarietà e quella fraternità che costituiscono quanto di più alto ci sia nella condizione umana. È un’utopia? No, è quell’Europa che già si sta costruendo dal basso, grazie a tantissime persone, molte delle quali giovani, che praticano la solidarietà, in mare e in tante città, e costruiscono relazioni di autentica fraternità e sororità con le persone che si trovano in Africa e con quelle che bussano alle nostre porte. Quelle persone danno carne a un Mediterraneo e a un’Europa di fraternità e devono essere ascoltate e assunte. Solo partendo da loro e ascoltando il grido che sale dalla Libia e dagli altri confini potremo riscoprire quell’amore che ci può salvare. Stati Uniti. “Le deportazioni di migranti sono illegali”. Tra Casa Bianca e giudici è scontro totale di Emilio Minervini Il Dubbio, 18 marzo 2025 Il cinema è “l’arma più potente dello Stato” e Trump lo sa bene. Il cinema non inteso in senso letterale, bensì come immagine sul video prestata alla propaganda. Due aerei sono ripresi parcheggiati sulla pista, circondati dalle forze speciali salvadoregne in tenuta anti sommossa. I portelloni si aprono, persone in abiti civili, incatenate, vengono trascinate giù per le scalette e messi su autobus diretti alla più grande prigione di tutta l’America Latina: il Cecot (Centro de confinamiento del terrorismo), con una capienza di 40mila detenuti. Qui vengono vestite con uniformi bianche, da capro espiatorio, messe in ginocchio e rasate prima di essere radunate nei corridoi dei bracci e condotte nelle maxi celle. Il video pubblicato dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, viene ripreso e pubblicato da Trump su Truth con la didascalia “Questi mostri sono stati mandati nel nostro paese dal corrotto Joe Biden e dalla sinistra radicale. Come hanno osato. Grazie a El Salvador e in particolare, Presidente Bukele, per la comprensione in questa situazione orribile”. Il video è confezionato ad arte per dare al cittadino la sensazione di vendetta, che giustizia è stata fatta, poco male se sommaria, almeno è fatta. Le 238 persone, presunti membri della gang venezuelana Tren de Aragua, designata dagli USA come organizzazione terroristica, sono state arrestate, detenute e deportate, senza diritto ad un colloquio per l’asilo o di un’udienza nei tribunali per l’immigrazione, a seguito di un ordine esecutivo emesso dal presidente degli Stati Uniti sulla base del Alien Enemies Act del 1798. La legge, che potrebbe essere applicata in caso di ‘ dichiarata guerra’ con un altro stato, attribuisce al Commander in Chief pieni poteri per contrastare un’invasione o un’incursione predatoria sul suolo americano da parte di un nemico esterno. Questa è stata richiamata ‘ solo’ tre volte nel corso della storia: nella guerra angloamericana del 1812 e durante le due guerre mondiali, durante la seconda furono destinatari anche italiani ed italoamericani, oltre a tedeschi, austriaci e giapponesi. L’Ordine esecutivo per la deportazione dei presunti criminali era stato sospeso per 14 giorni dal giudice distrettuale della capitale americana, James Boasberg, nella giornata di sabato, in attesa dell’esame di merito del ricorso presentato da cinque cittadini venezuelani. Il giudice ha contestualmente ordinato che: “qualsiasi aereo in partenza o in volo con a bordo immigrati ritorni negli USA”. Ordine rimasto ignorato dalle autorità americane e anzi deriso dal presidente salvadoregno, che sui social ha scritto: “oops, troppo tardi”. Il post è stato ripreso e rilanciato dal direttore della Casa Bianca, Steven Cheung, a cui si è aggiunto il Segretario di Stato Rubio che ha ringraziato il presidente Bukele. Uno sbeffeggio da parte di un capo di stato straniero nei confronti del potere giudiziari statunitense, definito da David Super, professore di legge alla Georgetown University, “un oltraggio alla Corte”. I due jet decollati dal Texas non hanno invertito la loro rotta per tornare negli Stati Uniti, seguendo l’intimazione di Boasberg, e hanno proseguito verso le loro destinazioni: El Salvador e Honduras. Ci sono però diversi dettagli ancora poco chiari, come l’orario di partenza degli aerei. Domenica mattina la portavoce della Casa Bianca, Karolin Leavitt, ha rilasciato una dichiarazione, nella quale viene negato il rifiuto ad ottemperare all’ordine emesso dal giudice, mettendo in dubbio l’autorità del giudice di emetterlo. Lo stesso giorno gli avvocati del Dipartimento di Giustizia hanno presentato un ricorso di 25 pagine, nelle quali l’ordine di Boasberg viene definito “una massiccia imposizione non autorizzata all’autorità dell’esecutivo”, sostenendo che le azioni del presidente “non sono soggette a revisione giudiziaria” in quanto, secondo i ricorrenti, sarebbero espressione dell’autorità costituzionale intrinseca della presidenza in materia di scurezza nazionale e politica estera. Lo sfregio via social perpetrato dal presidente Bukele, e rilanciato da membri dell’esecutivo statunitense, non sembrano destinati a cadere nei meandri dell’internet, anzi potrebbero aver spinto Washington verso una crisi costituzionale. Se l’amministrazione avesse davvero ignorato un ordine del tribunale vorrebbe dire che il potere esecutivo intende ignora il potere giudiziario, facendo venire meno l’equilibrio tra i poteri, imboccando una strada che porta in una sola direzione.