Strage nelle carceri: aumentano i suicidi e la violenza è ormai fuori controllo di Gianluca Ottavio giornalelavoce.it, 17 marzo 2025 L’emergenza nelle carceri italiane ha raggiunto livelli mai visti prima, con 18 suicidi in soli due mesi e mezzo, un numero che segna un record negativo e supera persino il drammatico bilancio dello scorso anno, quando si registrarono 90 casi in dodici mesi. L’ultimo detenuto a togliersi la vita è un 69enne senegalese nel carcere di Verona, portando a quattro i suicidi avvenuti in appena tre giorni. A questi si aggiungono le morti ancora da chiarire di un 35enne marocchino a Bologna e di un 50enne di origine africana a Poggioreale-Napoli. Su 66 decessi registrati nei penitenziari italiani, ben 47 sono classificati come avvenuti per “altre cause”, numeri che dipingono un quadro di assoluta criticità. Secondo il Sindacato della Polizia Penitenziaria (Spp), la situazione è fuori controllo e ad aggravare il bilancio c’è il costante aumento delle aggressioni agli agenti, con una media di 30 episodi alla settimana. A questo si aggiunge la diffusione di cellulari illegali all’interno delle celle, con circa 20 dispositivi sequestrati ogni settimana, segnale evidente di una gestione penitenziaria ormai compromessa. Il segretario generale dello Spp, Aldo Di Giacomo, sottolinea che i detenuti che si tolgono la vita sono sempre più giovani e con un disagio psichico crescente, spesso persone che non dovrebbero trovarsi dietro le sbarre ma essere seguite con programmi di supporto psicologico e sociale. La maggioranza dei suicidi riguarda detenuti stranieri, in particolare nordafricani, che spesso si trovano in una condizione di isolamento linguistico e culturale. La mancanza di psicologi, psichiatri, mediatori culturali e interpreti nelle strutture penitenziarie contribuisce ad aggravare un clima già insostenibile, privando chi è in carcere di strumenti fondamentali per affrontare la detenzione. Di Giacomo denuncia l’incapacità dello Stato di garantire la sicurezza e la dignità delle persone affidate alla sua custodia, così come di tutelare il personale penitenziario esposto quotidianamente a violenze e tensioni. Per il sindacalista è necessario un piano di riforme che preveda misure alternative alla detenzione, capaci non solo di ridurre il rischio di reiterazione del reato, ma anche di favorire un vero reinserimento sociale. Il carcere, secondo la Costituzione italiana, non dovrebbe essere solo punitivo, ma un luogo di rieducazione. Per realizzare questo obiettivo servono risorse economiche adeguate, un impegno concreto dell’amministrazione penitenziaria e la collaborazione degli enti locali, perché senza strumenti concreti ogni tentativo di cambiamento resterà solo sulla carta. Oltre ai numeri spaventosi sui suicidi, resta il tema irrisolto del disagio mentale nei penitenziari, una questione che lo Stato continua a ignorare. Non si può pensare di affrontare l’emergenza carceraria senza considerare la fragilità psicologica di chi vive la detenzione, spesso in condizioni disumane e senza un sostegno adeguato. I numeri parlano chiaro: se il carcere non diventa un luogo di recupero e reintegrazione, si trasforma solo in una fabbrica di disperazione e morte. Il piano Nordio sulla custodia cautelare: utilizzare le caserme dismesse di Francesco Bechis Il Messaggero, 17 marzo 2025 Dopo la separazione delle carriere (in discussione al Senato), il Guardasigilli lavora alla prossima riforma: rivedere le modalità con cui scatta la carcerazione preventiva. Un detenuto su quattro, in Italia, si trova in carcere senza una condanna definitiva. O senza alcuna condanna. Un lungo limbo dietro le sbarre. C’è un elefante nella stanza quando si parla di emergenza sovraffollamento e si chiama custodia cautelare. Il governo studia un piano per rivedere il sistema e spostare questa marea umana di detenuti in attesa di giudizio in strutture ad hoc. Caserme dismesse o da riqualificare, per cominciare. O comunque strutture a “detenzione attenuata”. Da mesi il dossier è sul tavolo del Guardasigilli Carlo Nordio. Per il ministro, ex pm, è un’antichissima battaglia. “Stiamo lavorando per modificare quelli che sono i criteri della custodia cautelare, che si sono rivelati fallimentari” ha fatto sapere venerdì incontrando le Camere Penali a Venezia. “Questa trilogia per cui il sospetto di fuga, il pericolo di inquinamento della prova, la reiterazione del reato sono diventate quasi formule metafisiche, formule di stile e provvedimenti dei magistrati, questo non va bene”. Parole, si dirà, di certo apprezzate dalla platea dei legali. Invece qualcosa si muove. Sul dossier, insieme a Nordio, c’è il sottosegretario leghista Andrea Ostellari e ovviamente anche il meloniano doc Andrea Delmastro, a capo del Dap, nei giorni scorsi finito al centro di una bufera per l’intervista al Foglio in cui ha lanciato un siluro contro la riforma della separazione delle carriere. Ebbene, il governo valuta la possibilità di spostare almeno una parte dei detenuti in attesa di giudizio definitivo fuori dalle carceri. E guarda alle tante caserme militari dismesse lungo lo Stivale come possibili strutture alternative di detenzione. Ci vorrà tempo, certo. Ché la priorità assoluta, così ha fatto sapere la premier Giorgia Meloni e così ha riferito Nordio in un recente vertice di maggioranza, è far viaggiare spedita la riforma costituzionale sulla giustizia. Magari togliendo dalle sabbie mobili in Parlamento le altre riforme giudiziarie avviate dal centrodestra, dal tetto di 45 giorni alle intercettazioni alla nuova legge sulla prescrizione. Ma il prossimo fronte politico è, appunto, la custodia cautelare. Che va a braccetto con il sovraffollamento, un’emergenza che Meloni ha particolarmente a cuore. Dettaglio: pare che la premier abbia recentemente manifestato con una certa schiettezza - eufemismo - al commissario per l’edilizia carceraria Marco Doglio, nominato dal governo a settembre, le sue rimostranze per il lavoro sull’ampliamento degli spazi carcerari che procede troppo a rilento. Sicché ha disposto che ogni due settimane, con cadenza fissa e di persona, il commissario la aggiorni sullo stato dell’arte, numeri alla mano. Ma torniamo alla detenzione cautelare e alla fiumana di cittadini italiani in carcere senza sentenza. I numeri del ministero della Giustizia, aggiornati al 28 febbraio, sono da capogiro: 15.167 le persone trattenute in carcere per un provvedimento di custodia cautelare, su un totale di 62.165. Un quarto, appunto. Di questi, 9395 sono donne e uomini in attesa di un primo giudizio. Sospesi. Al buio. Necessità e virtù vanno di pari passo in questo lavoro sotterraneo del governo per studiare il trasferimento di un’importante fetta della popolazione carceraria. Già perché il piano iniziale, approntato nei primi mesi della legislatura, era sfruttare le caserme abbandonate come vere e proprie carceri ex novo. Una mappatura assai dettagliata delle strutture militari disponibili è stata costantemente aggiornata e consegnata ai vertici dell’esecutivo. Ma due conti del Mef hanno presto suggerito di usare cautela. Ristrutturare da cima a fondo le caserme per adibirle a carceri ha costi proibitivi per le casse dello Stato. Soprattutto per la mole di personale di polizia da mobilitare per rendere sicure le nuove strutture. Di qui il piano B che prende forma: usarle per la custodia cautelare. Mentre si continuano a studiare soluzioni per allargare gli spazi carcerari. Preso atto che la costruzione da zero di nuovi istituti ha tempi troppo lunghi, il governo valuta una seconda opzione: le carceri “montabili”. Ovvero moduli con capienza tra le quattro e le otto persone costruiti da ditte esterne e poi montati negli spazi aperti delle carceri, di caserme o di altre strutture. Sul piano vigila Meloni in persona, come si è detto, con i resoconti cadenzati chiesti al commissario. Sulla custodia cautelare invece lavora il ministero di via Arenula dove una prima ricognizione è già stata avviata. Si tratterebbe, a dire il vero, di una “seconda” riforma sul tema, dopo che il Ddl Nordio, ormai due anni fa, ha introdotto la “collegialità” del Gip nella decisione sulla detenzione cautelare in carcere, affidata a un pool di tre magistrati. I numeri parlano chiaro. Un quarto dei detenuti italiani è in carcere senza aver ricevuto una condanna definitiva. Una parte di loro, magari quelli imputati per reati non violenti, può essere trasferita in futuro. Nordio lavora dietro le quinte. Ma prima deve mandare in porto la riforma costituzionale al centro di un interminabile duello tra governo e magistratura. Il piano di Nordio per la custodia cautelare: strutture a detenzione attenuata e carceri “montabili” di Alessandro D’Amato open.online, 17 marzo 2025 Il ministro della Giustizia lavora sull’attenuazione del carcere preventivo per chi è in attesa di giudizio definitivo. Ma prima la riforma della giustizia. Strutture a detenzione attenuata per la custodia cautelare. Per fermare il carcere preventivo che oggi tiene in galera un detenuto su quattro. Che è dietro le sbarre mentre si trova in attesa di giudizio. O senza condanna definitiva. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio pensa quindi di usare le ex caserme dei militari per costruire zone di detenzione specifiche per chi non è stato condannato. “Stiamo lavorando per modificare quelli che sono i criteri della custodia cautelare, che si sono rivelati fallimentari”, ha fatto sapere venerdì incontrando le Camere Penali a Venezia. “Questa trilogia per cui il sospetto di fuga, il pericolo di inquinamento della prova, la reiterazione del reato sono diventate quasi formule metafisiche, formule di stile e provvedimenti dei magistrati, questo non va bene”. La custodia cautelare - Il carcere preventivo in Italia si può comminare sulla base di tre soli elementi. Il pericolo di fuga, la reiterazione del reato, l’inquinamento delle prove. “Questa trilogia per cui il sospetto di fuga, il pericolo di inquinamento della prova, la reiterazione del reato sono diventate quasi formule metafisiche, formule di stile e provvedimenti dei magistrati, questo non va bene”. A lavorare sulla questione il sottosegretario Andrea Ostellari. Oltre ad Andrea Delmastro, a capo del Dap e pochi giorni fa finito in una bufera per le critiche alla riforma della giustizia del suo ministro. Oggi il governo pensa di spostare almeno una parte dei detenuti in attesa di giudizio definitivo fuori dalle carceri. E guarda alle caserme militari dismesse come alternativa di detenzione. La riforma della giustizia - La premier Giorgia Meloni ha fatto sapere che la priorità rimane comunque la riforma costituzionale sulla giustizia. Ma il sovraffollamento delle carceri è comunque un problema. I numeri del ministero della Giustizia, aggiornati al 28 febbraio, dicono che sono 15.167 le persone trattenute in carcere per un provvedimento di custodia cautelare, su un totale di 62.165. Di questi, 9395 sono donne e uomini in attesa di un primo giudizio. Le caserme, secondo un piano del governo, dovevano essere trasformate in carceri tout court. Ma l’idea aveva un costo troppo alto per le casse dello Stato. E allora ecco il piano B: usarle per la custodia cautelare. Mentre si continuano a studiare soluzioni per allargare gli spazi carcerari. Le carceri montabili - Il governo valuta una seconda opzione: le carceri “montabili”. Ovvero moduli con capienza tra le quattro e le otto persone costruiti da ditte esterne. E poi montati negli spazi aperti delle carceri, di caserme o di altre strutture. Anche queste da usare per la custodia preventiva. Di Marco: “Potenziare la pena esterna. I pm devono motivare la detenzione preventiva” di Michela Allegri Il Messaggero, 17 marzo 2025 Il problema delle carceri in Italia, e del “male di vivere all’interno delle carceri”, è sempre più concreto. Una possibile soluzione alla questione del sovraffollamento, secondo Giampaolo Di Marco, segretario generale dell’Associazione nazionale forense, potrebbe essere quella di potenziare l’esecuzione penale esterna e gli uffici di riferimento, sfruttando i fondi ancora non utilizzati del Pnrr. Il ministro Carlo Nordio ha detto che è al lavoro per modificare i criteri della custodia cautelare, che si sono rivelati “fallimentari. Questa trilogia per cui il sospetto di fuga, il pericolo di inquinamento della prova, la reiterazione del reato sono diventate quasi formule metafisiche, formule di stile e provvedimenti dei magistrati”. Cosa ne pensa? “La trilogia in questione deve rimanere nel codice di rito, visto che si tratta di presupposti applicativi, ma occorre prevedere e rafforzare l’obbligo per il magistrato di indicare gli elementi concreti su cui fonda il periculum invocato nell’ordinanza applicativa della misura. In caso contrario deve essere prevista la nullità dell’atto. E deve anche essere previsto il divieto di reiterare la richiesta di misura in caso di annullamento dell’ordinanza per omessa indicazione degli elementi “individualizzanti”, che consentano di dimostrare la sussistenza del pericolo di fuga, dell’inquinamento probatorio e della reiterazione del reato”. L’indice nazionale di sovraffollamento delle carceri in Italia supera il 130%. Oggi sono 62.115 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 51.323 posti. L’associazione Antigone denuncia che la capienza reale è diminuita negli anni, aggravata dall’incuria e dalla mancanza di manutenzione, rendendo le strutture sempre più fatiscenti e invivibili. Questo cosa comporta? “Provoca il mal di vivere all’interno del carcere, per cui nel 2024 i suicidi sono stati 90 e nel 2025 circa 20, se si considerano anche gli appartenenti alla Polizia penitenziaria. L’indirizzo politico attuale pare quello di programmare una nuova edilizia penitenziaria, costruendo nuove carceri, ma questa tendenza non appare idonea a risolvere nell’immediato il problema della sovrappopolazione carceraria, un problema ormai strutturale. Sarebbe più proficuo investire le risorse economiche stanziate per la manutenzione ordinaria e straordinaria degli istituti penitenziari già esistenti, potenziando anche l’esecuzione penale esterna. Una soluzione che permetterebbe di contenere l’emergenza. Per non consentire l’accesso in carcere, in caso di espiazione di pene brevi, e fare uscire dagli istituti penitenziari i detenuti che devono scontare pene residue fino a 4 anni, occorre investire risorse e potenziare l’organico all’interno degli istituti di pena e negli Uffici Esecuzione Penale Esterna, il cui contributo è un presupposto indefettibile per eseguire l’istruttoria su cui la magistratura di sorveglianza basa i provvedimenti di ammissione dei condannati ad espiare la pena fuori dagli istituti”. Quale sarebbe un vantaggio di uno svuotamento delle carceri e come potrebbe avvenire? “In tempi rapidi lo svuotamento potrebbe avvenire utilizzando i fondi del Pnrr, ancora da spendere, investendo il più possibile sulle misure alternative, sulle sanzioni sostitutive e, più in generale, sull’esecuzione penale esterna. A tal fine il Ministro dovrebbe emettere la normativa secondaria. Il decreto Nordio prevedeva un termine di sei mesi per l’emissione della normativa di rango secondaria, ma ad oggi siamo ancora in attesa, nonostante l’emergenza carceri”. Uno dei punti su cui il governo è al lavoro è la trasformazione delle caserme in luoghi di detenzione differenziata, per chi è stato condannato in via definitiva a pene brevi per reati che non destano allarme sociale. Cosa ne pensa? “Il problema potrebbe essere che ancora una volta si investe a livello di edilizia penitenziaria con tempi che, allo stato, non si possono minimamente prevedere. In questo modo, inoltre, si potrebbe ottenere l’effetto di distogliere le diverse Forze di Polizia, dislocate sul territorio nazionale dal controllo e dalla prevenzione sul territorio per mandarle a fare i piantoni ai detenuti trattenuti nelle camere di sicurezza in caserma. Un compito per il quale è specificatamente formata la Polizia Penitenziaria”. L’estrazione, il carcere senza umanità di Natalia Sinico vita.it, 17 marzo 2025 Abbiamo chiesto ai giovani della Scuola Holden di scrivere un racconto immaginando luoghi senza Terzo settore. Natalia Sinico, venticinquenne di San Donà di Piave (Ve), ci ha restituito uno spaccato sulle carceri, un luogo in cui niente nasce, ma tutti muoiono. Cosa accadrebbe se, da un giorno all’altro, il non profit scomparisse? È questa la provocazione al centro del numero di marzo di Vita: “Provate a fare senza”. E abbiamo chiesto a tre giovani della Scuola Holden proprio di scrivere un racconto immaginando luoghi senza Terzo settore. Ne sono usciti tre contributi sorprendenti, pieni di inventiva e di senso. Come quello di Natalia Sinico, 25 anni, che ha provato ad immaginare il mondo delle carceri italiane senza più nessuna umanità per i detenuti. Sono le sette e mezza del mattino e ti svegli dove ti sei svegliato ieri e il giorno prima e quello prima ancora. Hai dormito male come il giorno prima e quello prima ancora. Le luci sono rimaste accese, ti sei legato un calzino intorno agli occhi e sei riuscito a dormire forse un paio d’ore di fila. Non ti ha svegliato la luce, né i mugugni della stanza a fianco, ma le gocce di umido sulla coperta infeltrita e la puzza di muffa. I muri erano bianchi con qualche chiazza nera sugli angoli del soffitto quando sei entrato la prima volta in questa stanza, ora sono verdi e bagnati. Sollevi la coperta. Ti siedi sul letto e muovi le dita dei piedi, sono raggrinzite e gelide, ma tu senti solo il dolore. Il freddo non lo senti più. Scendi dal letto, scavalchi uno dei tuoi compagni di stanza, accendi i tre fornelli elettrici e metti dell’acqua a scaldare. Fai due passi, ti abbassi i pantaloni e pisci, prendendo la mira sul bordo per non fare rumore. È bollente, pensi e un brivido di sollievo ti drizza i peli delle cosce. Ti lavi il viso con l’acqua ghiacciata del lavandino, lo stesso lavandino che usi per lavare il cibo, i piatti, i denti, le mani, i piedi, il culo da quando la doccia - un tubo che sporge dal muro - non funziona e la carta igienica non arriva più. Iniziano a svegliarsi anche i tuoi compagni, che non sono diventati tuoi amici e mai lo diventeranno. Siete in sette in nove metri quadri. Ci sono tre letti, uno a castello e uno singolo, e fate a turno in cinque, perché due di voi sono troppo anziani per dormire per terra. Sono ormai le otto e mezza, perché la guardia apre un pezzo di porta. La guardi e vedi gli occhi divisi da una sbarra che si muovono per la stanza. Appoggia per terra una confezione di stuzzicadenti aperta e non richiude la porta. Li prendi e li appoggi sul lavandino. Intanto si alzano anche gli altri tuoi compagni, uno a uno vanno a pisciare. Ora tutte le carceri sono come San Vittore, prima quelle piccole non erano mica così, attacca il più anziano. Racconta la stessa storia ogni giorno. Ti racconta ogni giorno di quando c’erano il teatro, i laboratori di artigianato, la mensa in cui lui cucinava e le giornate passavano dignitosamente. Il mio amico Eugenio era diventato liutaio nella stanza in cui ora immatricolano i detenuti, ti dice. Ieri Eugenio si chiamava Ernesto, la scorsa settimana Enrico. L’unica cosa che non dimentica mai è che è morto. Si è impiccato, ha avuto un infarto, aveva un tumore. Tu non lo ascolti più. Immagini solo come potesse esserci un teatro in un luogo tanto ostile, in cui niente nasce e tutti muoiono. La stanza, i corridoi puzzano di disinfettante e muffa, nei bagni, quando ancora erano aperti, c’era tanfo di fogna. Di Ernesti ne hai conosciuti anche tu tanti, ma non erano liutai. Era gente qualsiasi, o quasi, finita lì perché in questa vita non avevano potuto scegliere altro se non delinquere. Come è successo a te del resto. ai a prendere gli stuzzicadenti, gli altri si siedono, tranne il più anziano; ne prendi sei e ne spezzi uno. Li nascondi nel palmo chiuso della mano destra, lasciando uscire solo le punte. Ne pesca uno il secondo più anziano, poi il terzo, poi il quarto e così via. Tu sei l’ultimo, il più giovane. Hanno tutti un bastoncino integro tra le mani, tu nel pugno chiuso hai quello spezzato. Lo passi sul fuoco di un fornello e inizi a disegnare sul pavimento una griglia. Giocate ad un rudimentale gioco dell’oca, vi scambiate qualche battuta, pranzate, mettete a scaldare altra acqua per lavarvi alla buona in quella che dovrebbe essere una doccia, ma non lo è mai stata. Il più anziano continua a raccontare di teatri e laboratori, che non credi siano mai esistiti. Le guardie passano a controllare ogni ora e lasciano nel via vai della giornata un cuscino in più. Il più vecchio lo rivendica e nessuno obbietta. È sera e arriva il momento in cui aspetti che si spengano le luci, ma le luci sono accese da giorni, settimane, forse mesi. Non ti ricordi più neppure che anche tu una volta in quel posto avevi partecipato a teatro, avevi preso il diploma, facevi i turni in mensa e avevi i piedi caldi e i calzini asciutti e potevi urinare rumorosamente e cagare da solo nei bagni, sebbene zozzi e rivoltanti. Passa una guardia, controlla, ti fa un cenno con la testa. Senti due passi, si spegne la luce nella tua cella e senti proseguire il ticchettio delle scarpe. È tutto silenzioso, non è mai stato così silenzioso, pensi. Se c’è una cosa che ti ricorderai sempre del carcere è il rumore. I tacchi delle guardie, le chiavi che penzolano, le mandate, le urla, i respiri affannosi dei tuoi compagni, i fornelli, le chiacchiere continue. Sei sempre solo, eppure non sei mai da solo. Dorme solo il più anziano, lo senti russare e stringi al petto la lettera di tua sorella, l’ultima che hai ricevuto a cui non hai mai risposto. Dice che ha saputo delle nuove attività carcerarie, che spera tu sia contento, appena riapriranno le visite verrà a trovarti. È fiduciosa, la popolazione carceraria si sta riducendo, soprattutto gli anziani. Fuori non sono così fortunati, dice. C’è appena un poco di luce che entra dal corridoio, è quasi buio dopo tanto tempo, guardi lo stuzzicadenti a metà annerito e consumato; ti alzi, ti avvicini al letto del più anziano, gli sfili il cuscino da sotto la testa e glielo premi con forza sulla faccia. Si sveglia e tu premi più forte. Si dimena, scalcia e tu premi e premi e premi ancora. Ha degli spasmi, sono sempre più lievi e sai che è questo il momento in cui devi metterci ancora più forza. I versi non li senti, non svegliano più nessuno. Avrai un cuscino e qualche razione di cibo in più per qualche giorno. Domani mattina arriveranno la guardia ed un medico, scriveranno il numero di matricola e la causa del decesso. Impiccagione, arresto cardiaco, tumore, poco importa. Le manette che non servono ogni giorno: basta fare finta di non vedere di Manuela D’Alessandro giustiziami.it, 17 marzo 2025 Quasi tutti i giorni al terzo piano del palazzo di giustizia, scelto come punto di osservazione perché c’è la sala stampa, si vedono incedere a passo lento nel corridoio persone trascinate in manette con un sottile cavo di acciaio dagli agenti penitenziari. Sono in apparenza tranquille, non esprimono quasi mai manifestazioni di rabbia e che, insomma, non parrebbero rientrare nei casi descritti nella legge 492 del 1992 introdotta nel 1992 approvata in piena tangentopoli per il ribrezzo provocato dalle immagini del politico Ezio Carra portato in giro per il tribunale con gli schiavettoni ai polsi. La norma introdusse il principio generale che “salvo in particolari circostanze come la pericolosità del soggetto e il pericolo di fuga, non è ammesso l’uso delle manette nella traduzione del recluso. In tutti gli altri casi l’uso delle manette ai polsi o di qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica è vietato”. È veramente difficile, proprio a una neutra osservazione dello stato delle cose (la foto pubblicata è di pochi giorni fa), immaginare che ogni santo giorno calpesti i marmi un detenuto così irrequieto e pericoloso (i processi a imputati di elevato profilo criminale non sono certo quotidiani) da costringere alla violazione di un principio generale. Il regolamento penitenziario peraltro prevede che “nelle traduzioni sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni pubblicità”. Invece ogni giorno c’è la possibilità di guardare negli occhi, a volte no perché sono fissi a terra, persone in attesa di entrare in un’aula di giustizia legate a un cavo e con le manette che per fortuna, a differenza di quanto avvenne con Ilaria Salis in Ungheria, gli vengono tolte durante i processi. Il tema non è quello degli agenti che si limitano a eseguire degli ordini o forse solo a seguire delle prassi (la pericolosità andrebbe valutata dal direttore del carcere o dalla magistratura). Vorremo invece aprire una riflessione se sia possibile evitare che persone vengano ammanettate senza una necessità reale e contro una legge di civiltà che fa propri i diritti di libertà e di dignità. Quelli per cui vale la pena non far finta di non vedere. Se la magistratura diventa un ostacolo alla democrazia di Carlo Tortarolo Il Giornale, 17 marzo 2025 Ma cos’è questa ondata di proteste da parte della magistratura? Davvero, con la riforma in arrivo, si porrà fine alle polemiche che per anni hanno contrapposto i giudici alla politica? Se il tuo lavoro di magistrato ti consente uno stipendio sontuoso, l’immunità da critiche e una totale irresponsabilità dal punto di vista civile, forse dovresti considerare di non usare la tua posizione per attaccare i rappresentanti del governo che ti concede tali privilegi. Dopotutto, la tua libertà di parola non dovrebbe essere illimitata, soprattutto quando le tue decisioni influenzano la vita di milioni di cittadini. Questi, infatti, subiscono le tue sentenze, ma tu non risponderai mai in modo serio per le conseguenze delle tue azioni. Non è vero che la giustizia è il fondamento della democrazia. È la democrazia che è il fondamento della giustizia. In Cina la giustizia funziona “bene” e nella Russia di Stalin la giustizia era “impeccabile”. Ma la giustizia che ha valore in un contesto democratico è quella che deriva dal consenso popolare, che solo la politica può legittimamente suscitare. Il giudice non è un sacerdote, ma un servitore della legge che si piega alla volontà collettiva espressa attraverso il voto. Questo assurdo concetto di magistratura come garante della democrazia - quasi un “sacerdote” del sistema - è il segno di quanto la magistratura abbia perso il contatto con la realtà e si sia rifugiata in un mondo a parte. In questo mondo, i giudici si attribuiscono competenze che esulano dalla loro funzione originaria. Questo modo di fare, e il concetto di una magistratura che occupa spazi lasciati vuoti dalla politica, fa parte di una narrazione distante dalla realtà e dalle problematiche concrete che hanno segnato gli ultimi trent’anni. Le inchieste giudiziarie, spesso, hanno screditato la politica, minato la fiducia nei valori dello Stato e della Costituzione. Siamo arrivati al punto di far credere che tutti i politici siano delinquenti. In un Paese dove un giudice, con un avviso di garanzia, può decidere chi sono i “cattivi politici”, la democrazia è in pericolo. La giustizia non può precedere la politica. La politica si fonda sul consenso democratico, che si esprime attraverso le leggi votate dai parlamentari eletti. “I giudici sono soggetti solo alla legge”, come recita l’articolo 101 della Costituzione, ma la legge è espressione di quel consenso. I politici devono ispirare fiducia nel sistema e convincere i cittadini a comportarsi bene e a rispettare le leggi. Se qualcuno trasgredisce, i giudici devono punire, ma non devono mai dimenticare che il loro compito è applicare la legge, non interpretarla a loro piacimento. Purtroppo, la giustizia non sembra essere la priorità per molti magistrati, che continuano a invocare l’indipendenza senza considerare le gravi problematiche legate all’amministrazione della giustizia, una delle criticità più gravi del nostro Paese. Quando un giudice è chiamato a trattare il caso di un politico, dovrebbe avere il senso della misura, pensando alle ripercussioni che le sue azioni potrebbero avere sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Non dovrebbe affrontare tali casi con l’euforia di chi vede una carriera fiorire sulle disgrazie altrui, spesso finendo per accusare qualcuno che, dopo anni, si dimostrerà innocente. Un tempo si faceva riferimento al principio della ratio legis, cioè al criterio ispiratore di una legge, all’intenzione che ne sta alla base. Questo principio sembrerebbe abbandonato, altrimenti non si spiegherebbe come mai i magistrati, quando una legge non piace loro, cerchino in ogni modo di ostacolarla con decisioni che vanno contro i suoi stessi principi ispiratori. Così facendo, la magistratura diventa un ostacolo alla democrazia, rifiutandosi di sottoporsi alla legge, e quindi al consenso democratico. E se c’è uno scontro tra legge e magistratura, non può che prevalere chi ha il consenso democratico. Altrimenti finirebbe la democrazia. Pierluigi Tirale: “Vi racconto Guido Alpa, amico e maestro” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 marzo 2025 “La solidarietà non è soltanto un valore, ma anche una regola giuridica alla quale si devono uniformare i comportamenti. Non è del tutto univoco nella interpretazione dei giuristi se la solidarietà sia vincolante anche a livello europeo. Il fatto che questo principio sia inserito però nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è la riprova che stiamo parlando di un principio non soltanto valido da un punto di vista sociale o etico, ma anche da un punto di vista giuridico”. Con queste parole il professor Guido Alpa evidenziò, in occasione dell’uscita del suo saggio intitolato “Solidarietà. Un principio normativo” (Il Mulino), una traccia fondamentale di studio per i professionisti del diritto e per il legislatore. Lo sguardo attento del giurista deve tenere conto dei cambiamenti della società e dei momenti storici che si vivono. “Questa - dice al Dubbio l’avvocato Pierluigi Tirale, già consigliere Cnf - è stata una delle caratteristiche che hanno reso Guido Alpa un grande del diritto, un giurista apprezzato in tutto il mondo”. Tirale ha conosciuto bene Alpa: tante le occasioni di confronto, soprattutto durante l’esperienza condivisa insieme nel Consiglio nazionale forense. “Sono stati - aggiunge Tirale - anni indimenticabili dal punto di vista umano e professionale”. Avvocato Tirale, con la scomparsa di Guido Alpa si crea un vuoto nella comunità giuridica italiana e non solo? Proprio così. Guido Alpa è stato un grande maestro. È stato uno dei più grandi studiosi del diritto che l’Italia abbia potuto esprimere. Si è occupato di diritto civile, era la materia in cui eccelleva, con tanti altri approfondimenti svolti su più temi. I suoi studi, le sue riflessioni hanno toccato sia il diritto contrattuale sia il diritto delle persone, soprattutto si è occupato di tutela dei diritti delle persone fragili. Un’attenzione e una amorevole dedizione che rispecchiavano il suo temperamento. Voglio anche ricordare che l’impegno del professor Alpa, avendo interessato il diritto dei contratti in Europa, ha dimostrato la necessità di rivolgere lo sguardo oltre i confini nazionali. Ricordo un interessante convegno organizzato con lui alcuni anni fa, dedicato al progetto di una Costituzione europea. È un tema molto delicato che si innesta alla perfezione nell’attuale momento storico. Mi consenta di aggiungere a tal riguardo un’altra riflessione. Prego, dica pure… Quanto sta accadendo induce a ritenere sempre più importante un’autentica coesione fra i Paesi europei. Una coesione non soltanto militare, ma prima di tutto di tipo socio-politico, che unisca gli Stati dell’Europa sotto un’egida e con un programma comune. Guido Alpa era favorevole alla costruzione di una Europa animata da questo spirito e io sono assolutamente convinto che sia giunto il momento di occuparsene con grande attenzione e con grande serietà. Il professor Alpa, come ricordato, è stato un giurista sempre attento ai cambiamenti della nostra società. Di estremo interesse il suo contributo, esposto neanche un anno fa durante il G7 delle avvocature organizzato dal Cnf, in materia di Intelligenza artificiale. Uno studioso lungimirante? Esattamente. Alpa si è occupato di tutto ciò che di nuovo si presentava all’orizzonte e non ha tralasciato neppure il tema attualissimo dell’Intelligenza artificiale. Un’altra qualità che lo contraddistingueva era la sua apertura alle novità che avrebbero creato cambiamenti sociali e al tempo stesso normativi. Anche per questo il tema nuovo come quello dell’Intelligenza artificiale lo ha riguardato da vicino. L’IA non sostituisce l’intelligenza umana, ma è uno strumento utile. Il tratto distintivo della sua opera è stato l’essersi occupato di moltissime materie, di quasi tutto lo scibile del diritto civile. A caratterizzare la sua opera, poi, è stata l’attenzione in materia di tutela delle persone e in particolare la tutela dei soggetti deboli. Questo, secondo me, è uno dei settori in cui Alpa più si è distinto rispetto ad altri giuristi. Lei ha condiviso tanti momenti con il compianto professore, durante l’esperienza nel Consiglio nazionale forense… Sono stato consigliere del Cnf dal 2001 al 2011 circa. Guido Alpa era allora vicepresidente, poi sarebbe andato alla presidenza del Consiglio nazionale forense. Negli anni in via Del Governo Vecchio c’è stata una collaborazione intensa e perfetta. Ho avuto con lui una grande sintonia che è continuata negli anni successivi anche quando ho avuto l’esigenza di confrontarmi su svariate questioni giuridiche e su vicende giudiziarie che ho seguito direttamente come avvocato. Ho avuto pure l’onore in alcune circostanze di ricevere alcune richieste di consigli su dei casi particolari. Sono sempre rimasto un po’ stupefatto da questa cosa. Ho un altro ricordo molto bello. Quale? Negli anni scorsi, io e altri collegi abbiamo costituito a Brescia un’associazione impegnata nell’ambito della formazione esclusivamente in presenza. L’obiettivo è favorire la conoscenza e il confronto tra avvocati; momenti che oggi vanno un po’ diradandosi. Dopo la pandemia, il sistema di svolgimento delle udienze, soprattutto nel civile, è cambiato e si è passati alla trattazione scritta. Una modalità che non rispecchia il vero modo di trattare il processo. Ogni volta che Alpa veniva coinvolto nelle nostre iniziative, rispondeva sempre affermativamente ai nostri inviti. Un modo per sottolineare l’amicizia che ci legava. Ricordo anche che all’inizio di quest’anno, a metà gennaio, gli chiesi se potevamo organizzare ancora qualcosa insieme. Mi disse che le sue condizioni di salute non glielo consentivano. Nonostante fosse provato nel fisico, non fece mancare un segno di attenzione verso l’avvocatura bresciana. Un modo di fare sempre attento e garbato, che mi ha commosso. Questo era Guido Alpa. La riforma della liberazione anticipata va alla Consulta di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2025 Vanno alla Corte costituzionale i nuovi limiti alla domanda di liberazione anticipata fissati dal decreto legge “Carceri” (92/2024). A sollevare la questione di legittimità è stato l’Ufficio di sorveglianza di Napoli (magistrato Cairo), con ordinanza pronunciata il 7 marzo scorso. In particolare, il magistrato dubita della costituzionalità delle novità procedimentali che restringono i tempi per presentare la domanda di liberazione anticipata da parte del detenuto. La disciplina della liberazione anticipata che, in base all’articolo 54 della legge sull’Ordinamento penitenziario (354/1975), consente ai condannati distintisi per partecipazione all’opera rieducativa una riduzione della pena pari a 45 giorni per ogni semestre effettivamente espiato, è stata infatti modificata dal decreto legge 92/2024 nell’intento - almeno nelle intenzioni del legislatore - di razionalizzare le procedure applicative, rendendo temporalmente certa la decisione del giudice di sorveglianza sullo “sconto di pena”. Ora infatti la decisione deve intervenire in corrispondenza di alcune situazioni esecutive tassativamente stabilite dall’articolo 69-bis della legge 354/1975: quando il detenuto presenta istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione o ad altri benefici analoghi; o quando sopraggiunge il termine di 90 giorni prima del fine pena. All’infuori di tali ipotesi, è lasciato uno spazio molto limitato all’iniziativa di parte, ammessa nei soli casi in cui il soggetto indichi nell’istanza - a pena di inammissibilità - lo “specifico interesse”, diverso da quelli sopra indicati, che sostiene la domanda. Si può immaginare che tali eccezionali casi riguardino i detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario, ai quali sono preclusi i benefici esterni, i condannati intenzionati ad accedere ai permessi premio o al lavoro all’esterno e che devono preventivamente espiare un determinato quantum di pena o i condannati anche per reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari che abbiano interesse allo “scioglimento del cumulo” di pene concorrenti. Resta dubbia la posizione del condannato che non abbia intenzione (o, più frequentemente, non abbia la possibilità) di richiedere alcun beneficio esterno perché, ad esempio, privo di domicilio o di riferimenti familiari esterni. È questa - per inciso - la situazione di migliaia di detenuti stranieri ospitati nelle carceri italiane. Un tale assetto è dubitato di incostituzionalità dal magistrato di sorveglianza di Napoli che ha chiesto alla Consulta di valutare la compatibilità del nuovo articolo 69-bis dell’Ordinamento penitenziario con i principi costituzionali, anzitutto con quello iscritto nell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, che impone alle pene l’obiettivo della rieducazione del condannato. Ad avviso del rimettente, infatti, la nuova disciplina, modificando i principi in materia di valutazione della liberazione anticipata, in precedenza ancorata al criterio principale della “semestralizzazione” (una valutazione, cioè, operata con riguardo a ogni singolo semestre di pena scontata), favorirebbe un criterio di valutazione complessiva dell’intero periodo detentivo, con la conseguenza che, allontanandosi nel tempo la prospettiva premiale connessa alla fattiva partecipazione al trattamento rieducativo, agli occhi della persona ristretta l’istituto perderebbe quella funzione di potente stimolo all’adesione trattamentale che è tanto più forte quanto più è ravvicinato il riconoscimento della connessa premialità. La liberazione anticipata ne risulterebbe del tutto snaturata, riducendosi a mero meccanismo di natura “algebrica” funzionale al raggiungimento dei limiti di pena per accedere ai benefici esterni al carcere o avvicinando il termine finale dell’esecuzione. Risulterebbe inoltre violato il canone sancito dall’articolo 3 della Costituzione, poiché il diritto alla valutazione della liberazione anticipata sarebbe irragionevolmente limitato alle situazioni indicate dalla disposizione penitenziaria censurata, evidenziandosi anche sotto tale profilo lo snaturamento dell’istituto, ridotto a funzione servente alle misure alternative e svuotato della sua propria autonoma funzione di impulso alla rieducazione. I conviventi ammessi ai colloqui in carcere con il detenuto presentando una autocertifica di Anna Larussa altalex.com, 17 marzo 2025 È sufficiente l’autocertificazione a provare il rapporto di convivenza, salva la responsabilità penale nel caso di mendacio. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione penale con la sentenza n. 7825/2025. Un detenuto in stato di custodia cautelare in carcere vedeva negato dal Giudice per le indagini preliminari il proprio diritto a svolgere i colloqui in carcere con la compagna, come tale risultante da apposita autocertificazione di data antecedente l’arresto, da un certificato anagrafico attestante la medesima residenza e l’inserimento nello stesso nucleo familiare, dall’occupazione della stessa abitazione all’atto dell’arresto; circostanza, quest’ultima, che, tuttavia, non veniva considerata dal giudicante univocamente indicativa della sussistenza di un rapporto more uxorio. La difesa dell’interessato interponeva ricorso per cassazione, per violazione dell’art. 18 Ord. pen. e dell’art. 111, settimo comma, Cost., per avere il provvedimento impugnato ritenuto non provata la qualifica di convivente, nonostante le allegazioni prodotte, richiedendo erroneamente una prova ulteriore rispetto a quella prevista dalla normativa penitenziaria, e così discriminando la relazione di convivenza rispetto a quella fondata sul matrimonio. Il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, con requisitoria scritta, concludeva per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. Quadro normativo - L’art. 18, legge 26 luglio 1975, n. 354, con lo scopo di dare pratica attuazione al diritto della persona detenuta al mantenimento di relazioni familiari e sociali, prevede che “I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici” attribuendo la competenza a concedere i permessi di colloquio al giudice che procede e, prima dell’esercizio dell’azione penale, al giudice per le indagini preliminari. Le concrete modalità di svolgimento del colloquio sono previste dall’art. 37, D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 il quale prevede che “I colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi”. Orbene mentre l’art. 18 Ord. pen. utilizza il termine “congiunti” e si esprime con particolare favore per la realizzazione dei colloqui con i “familiari”, l’art. 37 prevede, al comma 1, che, insieme ai congiunti, anche i “conviventi” siano ammessi in via ordinaria alla fruizione dei colloqui (laddove le “persone diverse” da essi sono, invece, autorizzate solo in presenza di “ragionevoli motivi”). Ed invero, in forza della legge 20 maggio 2016, n. 76 (“Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”), “i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario”. In ambito penitenziario la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria 8 luglio 1998, n. 3478, relativa al “riordino e chiarimento del regime dei colloqui e corrispondenza telefonica”, ha accolto una nozione ampia di “convivente”, ricomprendendovi “tutti coloro che coabitavano col detenuto prima della carcerazione, senza attribuire alcuna rilevanza all’identità del sesso o alla tipologia dei rapporti concretamente intrattenuti con il detenuto medesimo (more uxorio, di amicizia, di collaborazione domestica, di lavoro alla pari, ecc.)” e al fine di dimostrare la condizione di “convivente”, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha chiarito che, in assenza di documentazione utile, è consentito il ricorso all’autocertificazione ai sensi dell’art. 2, legge n. 15 del 1968 (circolare n. 544994 del 23 febbraio 1998). La sentenza - Ritenuto ammissibile il ricorso, sul presupposto e con la precisazione che i provvedimenti che riguardano l’accesso ai colloqui vanno ricompresi nella categoria di quelli sulla libertà personale, avverso cui è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, i giudici di legittimità ne hanno altresì riconosciuto la fondatezza: ciò in quanto l’autocertificazione e lo stato di famiglia si rivelano, in astratto e salva prova del contrario, elementi di prova pienamente idonei a dimostrare la condizione soggettiva del richiedente alla luce del quadro normativo come sopra sinteticamente ricostruito. Nel caso in esame, il Giudice per le indagini preliminari procedente aveva ritenuto l’autocertificazione prodotta non idonea a provare la condizione abilitante senza specificare sulla base di quali concreti elementi fosse pervenuto a tale determinazione ma riferendosi genericamente a non meglio specificati accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria. In ragione della riscontrata carenza di motivazione e della fondatezza delle censure difensive, la Sezione assegnataria del ricorso ha disposto l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato per una nuova decisione sul punto da parte dell’Ufficio del Giudice per le indagini preliminari procedente, in diversa persona fisica. Calabria. Ripartire dal carcere si può, la Garante: “Fondamentali le sinergie istituzionali” di Elisa Barresi ilreggino.it, 17 marzo 2025 Audita in commissione regionale antindrangheta, ha aperto un confronto che porterà a ripensare la detenzione con uno sguardo particolare rivolto ai minori: “Con loro ascolto e dialogo sono fondamentali”. Continuano le attività di ricognizione e di avvio del mandato dell’Autorità garante regionale, l’avvocato Giovanna Russo, nel settore penitenziario. La Calabria conta ben 12 istituti penitenziari per adulti, un istituto penale minorile, l’Ipm di Catanzaro, due Rems una a Girifalco e una a Santa Sofia de Piro. Una regione complessa che vive da sempre contraddittorietà che di certo non hanno risparmiato nel tempo il mondo del carcere. Già nel primo mese da quando ha assunto il suo mandato istituzionale, la Garante ha effettuato una riunione per la ricognizione della Sanità penitenziaria calabrese, condividendo con la Regione e il Prap della Calabria delle linee operative volte a riorganizzare la sanità, sull’intero territorio, offrendo così ai cittadini ristretti una qualità delle cure adeguata ai Lea. “Già nel primissimo incontro con il presidente del Consiglio Mancuso, condividevamo e convergevamo sull’idea di focalizzare l’attenzione sulla sanità penitenziaria per la parte di mia competenza, fornendo dati e progettualità concrete. Al tema presta molta attenzione anche il presidente Occhiuto, ben consapevole che una sanità penitenziaria che funzioni favorisce reali garanzie e tutele per tutti. In questa direzione l’Autorità Garante è pronta a fare responsabilmente la propria parte al fine di rendere concreto il diritto alla salute dei privati della libertà, promuovendo attività di efficientamento dei servizi all’interno dei nostri istituti di pena”. Ha effettuato già, in un solo mese, tre visite istituzionali, partendo dalla casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro in occasione della cerimonia del Giubileo delle carceri, e nei giorni scorsi si è recata presso il Centro di giustizia minorile della Calabria e successivamente all’Ipm di Catanzaro. In programmazione le visite presso gli altri istituti della regione e le due Rems. Impegnata in attività di sensibilizzazione della tematica carceraria e dei diritti umani, ha già presenziato in queste settimane a più convegni, volti a diffondere la cultura della giustizia dentro e fuori le mura, lavoro indispensabile per la stessa. È stata altresì audita in Commissione regionale per l’eguaglianza dei diritti e delle pari opportunità, al fine di vagliare con la commissione ulteriori attività di sensibilizzazione per la detenzione delle donne. Successivamente ha fortemente voluto ed è stata condivisa l’audizione in Commissione consiliare contro il fenomeno della ‘ndrangheta, della corruzione e dell’illegalità diffusa. Vogliamo incontrarla a distanza di un mese e chiederle concretamente cosa ha trovato nelle visite istituzionali che ha già effettuato in così poco tempo. “Parlare del sistema penitenziario significa accingersi ad affrontare un tema altamente complesso tanto per l’interdisciplinarietà con la quale dovremmo descrivere tutte le realtà che lo compongono, quanto per le varie articolazioni e le connesse peculiarità delle stesse. Posso sicuramente dire che ho trovato delle amministrazioni impegnate in prima linea, pronte a fare la loro parte, a cui va tutta la mia vicinanza istituzionale per i sacrifici che compiono nelle loro attività quotidiane. La mancanza di personale e di una formazione specialistica sono dati effettivi sui quali bisogna continuare a lavorare per una migliore condizione di vivibilità negli istituti”. “Ho avuto modo di interloquire con i direttori degli istituti, con alcuni operatori penitenziari ed ho trovato una comunità-Stato che, con abnegazione e coraggio, risponde al dettato costituzionale di umanizzazione della pena, malgrado il momento sociale molto complesso. Le persone private della libertà auspicano percorsi che diano loro una reale seconda chance attraverso un trattamento penitenziario che permetta un ripensamento e un reinserimento tangibile”. “Mi hanno particolarmente colpito le riflessioni dei minori e dei giovani adulti che ho incontrato giorni fa. Tanta voglia di riscatto, sicuramente esito di un processo di ripensamento della loro vita. I ragazzi hanno bisogno di riconoscersi nell’autorevolezza, nelle regole che non rinunciano alla relazionalità. L’ascolto e il dialogo sono fondamentali”. A proposito di minori detenuti e di minori in comunità, quale è la sua visione a riguardo? “Sì, li ho incontrati a Catanzaro, alla presenza del direttore della struttura, della dirigente del Cgm e di altri funzionari che quotidianamente si dedicano alle loro tensioni emotive, caratteriali e ai loro problemi di salute. Ciascuno con il proprio vissuto ha una storia di vita spesso triste e di importanti fragilità. Sono persone che, accompagnate in un reale percorso di attività educative, formative e di reinserimento, auspicano che la loro esistenza si normalizzi e che il rientro in società non li marchi per sempre”. Voglio fare un cenno alla sua audizione in Commissione regionale anti-’ndrangheta. Perché questo studio e quali riflessioni su criminalità organizzata e carcere? “Questo studio è la riflessione scientifica che curo da anni per una giustizia giusta dentro e fuori le mura, per una realizzazione del welfare penitenziario che concepisca gli istituti come case di vetro, libere da illegalità e criminalità. Il fenomeno della criminalità carceraria è complesso, ma va affrontato con rigore scientifico e dati concreti, istituto per istituto. A noi interessa rieducare e garantire i diritti delle persone più deboli e fragili, quelle che vivono un altissimo rischio di cadere nelle maglie della criminalità. Le attività trattamentali, la rieducazione e il reinserimento previsti dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario saranno realizzabili solo se riusciremo a mettere al centro la sicurezza. Partendo dalla complessità dell’eterotopia carceraria, facendo tesoro dei migliori uomini tanto del settore penitenziario quanto dell’antimafia nazionale, saremo in grado di realizzare la normalizzazione e l’auspicata pacificazione della realtà carceraria. Sconfiggere la criminalità da dentro è necessario e urgente, oggi più che mai, soprattutto per evitare che si ledano i diritti dei detenuti più deboli e di chi una seconda vita vorrebbe davvero costruirla”. Verona. Si impicca con un laccio, 69enne deceduto nel carcere di Montorio di Luca Stoppele veronasera.it, 17 marzo 2025 È il 18esimo carcerato che si toglie la vita in Italia quest’anno. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria: “Situazione complessiva risente del grave sovraffollamento generale e della straordinaria penuria di agenti”. Un uomo di 69 anni di nazionalità senegalese si è tolto la vita nel carcere di Montorio. Il detenuto avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2030, ma si è suicidato impiccandosi con un laccio. Dall’inizio dell’anno, sono stati 19 i suicidi nelle carceri italiane: 18 da parte di detenuti, più quello di un operatore. “Il carcere, lungi dall’essere strumento di recupero e risocializzazione è ormai luogo di morte e di sofferenze atroci, per detenuti e lavoratori, in primis quelli del corpo di polizia penitenziaria che vedono svilito e mortificato il proprio diuturno sacrificio”, ha commentato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, nel condividere ieri, 16 marzo, la notizia del suicidio avvenuto nel carcere veronese. “Anche a Verona la situazione complessiva risente del grave sovraffollamento generale e della straordinaria penuria di agenti della polizia penitenziaria - ha aggiunto De Fazio - Sono 590 i reclusi presenti a fronte di soli 318 posti disponibili, gestiti da 318 operatori di polizia penitenziaria, quando ne necessiterebbero almeno 420. Del resto a livello nazionale sono 16mila i detenuti oltre la capienza, mentre ammontano a oltre 18mila le unità mancanti alla polizia penitenziaria, la quale subisce carichi di lavoro insostenibili e viene sottoposta a turnazioni massacranti con la compressione dei più elementari diritti, nella sostanziale indifferenza delle istituzioni. Il ministro della giustizia Carlo Nordio e il Governo Meloni hanno il dovere di fermare la carneficina in atto, così come hanno l’obbligo di legge, politico e morale di garantire condizioni di lavoro accettabili e dignitose alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria, che sono ormai stremati nelle forze e mortificati nel morale. Servono interventi immediati per deflazionare compiutamente il sovraffollamento detentivo, rafforzare gli organici degli agenti, garantire l’assistenza sanitaria e avviare riforme strutturali. Il sistema penitenziario è al collasso”. E alle parole di De Fazio si sono aggiunte anche quelle dell’europarlamentare del Partito Democratico Sandro Ruotolo: “Ho visto con i miei occhi il fallimento del sistema penitenziario italiano: celle sovraffollate con 9-10 brande in pochi metri quadri; condizioni igieniche inaccettabili; detenuti ammassati in cortili minuscoli, cibo indegno; caldo soffocante d’estate e un numero ridicolo di psichiatri per affrontare il disagio mentale - ha riferito Ruotolo - Non è un caso che sempre più persone in carcere si tolgano la vita. Non è un caso che la disperazione sia diventata la regola. Sovraffollamento, carenze di organico, condizioni di vita disumane e una disperazione che si trasforma in tragedia. Non possiamo più girarci dall’altra parte. Il Governo ha il dovere di fermare questa escalation. Non si può accettare che nelle carceri italiane si muoia così. La destra continua a promettere nuove carceri, ma non guarda dentro le carceri. Un Governo che ignora la disperazione e gioca sulla pancia del Paese, senza pensare al suo futuro. Morire di carcere non può essere la regola. In un Paese civile, tutto questo sarebbe inaccettabile”. Bologna. Ancora una volta la terribile definizione di “trovato morto” di Vito Totire* labottegadelbarbieri.org, 17 marzo 2025 Si allunga ancora la terribile sequenza di detenuti definiti col termine di “trovato morto” nelle carceri italiane. “Trovato morto” è una definizione insolita e sorprendente che fa pensare piuttosto che alla ultima drammatica vicenda, a un oggetto o anche magari a una persona trovato/a imprevedibilmente dopo essere stata dispersa. E in effetti questa ultima persona deceduta a Bologna è stata persa di vista o non sufficientemente monitorata. Per carità l’errore, anche in medicina, è possibile ma la frequenza degli eventi pone interrogativi non più rimandabili. Il carcere lascia trapelare le notizie che ritiene opportuno. In questa circostanza non si è trattato di un “suicidio? Nordafricano, entrato in carcere da poco, in trattamento con metadone. In una struttura così pesantemente morbigena come la Dozza di Bologna (in analogia con quasi tutte le carceri italiane) la definizione di “trovato morto” fa pensare a una insufficienza di valutazione prognostica e a un evento totalmente inaspettato. Visto quello che trapela, forse il carcere non era la collocazione adeguata per questa persona. Forse la sua condizione non era compatibile con la detenzione. Se accolto altrove non sarebbe stato “trovato morto” … con la grande sorpresa di chi ha rinvenuto il cadavere. Ma era in cella da solo? Ha usato “solamente” metadone? Il carcere di Bologna, il luogo massimamente morbigeno di tutta la città, vede allungarsi la terrificante scia di morti che iniziò subito, appena fu inaugurato. Il carcere di Bologna e le istituzioni devono ancora dare una risposta sul primo “caso” di morte alla Dozza appena aperta: “J.B.”, una persona privata della libertà che aveva preannunciato il suo suicidio dichiarando per ore e giorni le sue intenzioni e battendo per ore e per giorni sulle sbarre della cella. Il giudice aveva disposto il trasferimento in casa di cura ma questo non avvenne per mancanza del personale di custodia. Non ci risulta che qualcuno fu chiamato a rispondere del tragico evento né in sede civile né in sede penale. Non per pregiudizio ideologico e per aprioristica diffidenza contro una istituzione totale (per definizione incapace di garantire speranza di vita e di salute a tutti/e) ma sulla scorta di eventi ed esperienze precedenti, anche per questo ultimo ed ennesimo “trovato morto” coltiviamo l’ipotesi che la persona non fosse compatibile con la carcerazione. Ogni tanto esponenti del ceto politico dichiarano la loro buna intenzione di garantire un percorso diverso dal carcere per le persone con problemi di tossicodipendenza. Ma da 50 anni “le chiacchiere stanno a zero” come si dice in gergo popolare. Con questo “clima” si attendono alla Dozza 50 nuovi detenuti giovani: dovrebbero arrivare il 17 marzo, cioè domani. L’onorevole Nordio o il carcere di Bologna hanno comprato i necessari letti a castello o i nuovi ospiti dormiranno sui materassi per terra (quelli non marcescenti individuati dalla Ausl nella ultima” cortese” visita)? L’istituzione totale non vuole interferenze e rivendica il principio della “autodichia” ma questa gestione dimostra tutti i giorni di essere foriera di lutti e di una strage strisciante. Nel mese di agosto 2024 abbiamo chiesto un incontro al Tribunale di sorveglianza per illustrare il nostro parere e le nostre proposte sul carcere di Bologna. Nessuna risposta; dopo un contatto telefonico ci è stato riferito che dovevamo utilizzare una posta (una “pec”) diversa da quella usata ad agosto. L’abbiamo usata ma la risposta è stata: “pec non abilitata alla ricezione”. Non è necessario essere esperti in comunicazione per comprendere che il tribunale di sorveglianza in verità non intende “comunicare”. Cantava Fabrizio De Andrè “se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare”. Auspichiamo una indagine giudiziaria e una sanitaria (da parte della Ausl) sull’ultimo “trovato morto” e avanziamo fin d’ora istanza di costituzione di parte civile, prima che venga trovata morta ancora una altra persona. *Medico e psichiatra, portavoce del Centro Francesco Lorusso di Bologna Salerno. Detenuto che rischia cecità trasferito per “errore” e costretto a sospendere le cure di Petronilla Carillo Il Mattino, 17 marzo 2025 Il detenuto di Salerno era stato individuato come partecipante ad una rissa poi è stato scagionato. Detenuto, malato, incompatibile con il carcere, trasferito per uno scambio di persona per “punizione” fuori Campania, destinatario di una misura restrittiva poi revocata. Continua il calvario per Vincenzo P. un giovane ex tossicodipendente di Salerno, pusher, in carcere proprio per reati legati alla droga, ma malato, affetto da una patologia agli occhi che, a causa della sua detenzione, era peggiorata quasi a portarlo alla cecità. Quando la sua intricata vicenda sanitaria sembrava in fase di soluzione, arriva l’imputazione per rissa e il trasferimento dal carcere di Ariano Irpino - dove stava seguendo un percorso terapeutico - a Terni dove sono nuovamente bloccate le cure. Ma andiamo per ordine. Vincenzo P. aveva protestato per le mancate cure e, dopo la messa in mora del ministero della Giustizia da parte di uno dei suoi legali, l’avvocato Vincenzo Rispoli, qualcosa si era mosso: era stato operato ad un occhio ma l’avanzamento della cecità non si era fermato. Avrebbe dovuto seguire terapie specifiche e anche un altro intervento all’altro occhio ma per lui arriva l’accusa di aver partecipato ad una rissa all’interno del carcere di Ariano irpino. Riconosciuto tra i partecipanti da una agente penitenziario, nell’immediatezza dei fatti viene trasferito, ad inizio mese, poi, arriva anche l’ordinanza cautelare emessa dal gip del tribunale di Avellino. I suoi legali, gli avvocati Vincenzo Rispoli e Mirko Manzi, basandosi sui video ripresi dalle telecamere di sicurezza del carcere irpino, hanno però dimostrato la sua estraneità a quei fatti tant’è che il provvedimento è stato revocato e, per quel solo capo di imputazione, Vincenzo P. è stato scarcerato per insussistenza degli indizi di colpevolezza. Ma resta in carcere per i reati di droga. Il detenuto salernitano era stato operato ad uno dei due occhi soltanto qualche giorno prima della rissa ed era stato accompagnato in infermeria da un agente perché gli doveva essere cambiata la medicazione. Da quelle accuse si è difeso ed ha avuto ragione ma per lui resta il problema sanitario. E la lontananza dalla Campania dove era stata attivata la pratica per fargli seguire un percorso terapeutico e un nuovo intervento. Tutto fermo, dunque, mentre la malattia rischia di andare avanti e quanto fatto finora di andare perso. Secondo quanto riferiscono i suoi legali, difatti, il trasferimento ha rallentato il decorso ospedaliero e anche le cure a cui era sottoposto nonostante ci sia stato un riconoscimento dell’incompatibilità carceraria a causa del suo stato di salute da parte anche della magistratura di Pescara. Ultima spiaggia, per lui, resta l’esame della richiesta presentata dai suoi difensori al giudice della sorveglianza di Avellino che verrà discussa a fine mese. Mamone (Nu). Visite psichiatriche in carcere con la realtà virtuale di Tiziana Tripepi innlifes.com, 17 marzo 2025 Prendete una casa di reclusione in un luogo isolato, un direttore Asl illuminato e una startup che opera nel campo della realtà virtuale. Metteteli insieme e otterrete un progetto che ha dell’incredibile: a Mamone, 60 km da Nuoro, nel nordest della Sardegna, da circa un anno i detenuti della casa circondariale si sottopongono visite psichiatriche e psicologiche a distanza, grazie a visori realtà virtuale che ricreano in tutto e per tutto le azioni all’interno dello studio medico. La nascita del progetto - Il progetto, tuttora in fase sperimentale, nasce dall’intraprendenza di Paolo Cannas, direttore generale della Asl n.3 di Nuoro. “Avevamo l’esigenza di fornire prestazioni sanitarie nelle aree interne, dove è più difficile far arrivare medici specialisti. In particolare volevamo erogare visite psicologiche e psichiatriche, che costituiscono circa la metà delle prestazioni sanitarie richieste in carcere, ai detenuti della casa circondariale di Mamone: la soluzione poteva essere la realtà virtuale”. L’occasione nasce quando Alessandro Spano, professore ordinario di Economia aziendale presso l’università di Cagliari, conosce la startup State1, fondata da Andrea Bandera, Daniele Argiolas e Alessandro Loi (nella foto), che era andata in università per presentare State1, il primo stato virtuale al mondo. Il professore rimane colpito dal team, e lo mette in contatto con la Asl. Viene creato il bando, e State1 si aggiudica la commessa. Ma come avviene la visita? “Abbiamo ricreato uno studio medico virtuale”, spiega Bandera, Ceo di State1. “Il medico indossa il visore, apre la sessione privata (ha un suo nome utente e una password) e il detenuto entra con il proprio visore. Ognuno dei due vede l’altro rappresentato da un avatar, che riproduce gesti, espressioni e movimenti del corpo. Pur trovandosi a decine di chilometri di distanza, hanno la sensazione di stare all’interno della medesima stanza, dove potranno muoversi, camminare, parlare e fare riabilitazione utilizzando i controller (joystick)”. Intanto nel mondo “fisico” una guardia carceraria controlla (vede ma non può sentire) quello che succede nella stanza dove il detenuto sta effettuando la visita in realtà virtuale. “Il progetto è stato chiamato dalla Asl “Progetto Metaverso”, tuttavia non è nel metaverso che si entra, ma nella cosiddetta “Extended Reality” (XR), che combina le esperienze di realtà virtuale, aumentata e mista”, aggiunge Bandera. Meno costi, più sicurezza, esperienza avvolgente - La visita è regolare e certificata, i protocolli sono molto rigidi: non deve essere registrata né intercettata, ed è blindata grazie a sistemi di cybersecurity. Può essere effettuata anche utilizzando un semplice computer (quindi senza il visore), ma in questo caso si dovrà utilizzare il mouse e la tastiera invece del joystick. “Rispetto alla televisita, in videocall, la visita in realtà virtuale è più avvolgente, dà l’idea di trovarsi in un contesto sanitario in presenza”, prosegue Cannas. “Ma ci sono altri vantaggi, primo tra tutti l’abbattimento dei costi: spostare i detenuti per portarli dai medici specialisti richiede l’impiego delle guardie carcerarie e di almeno una o due macchine. Inoltre c’è un problema di sicurezza, perché nel tragitto può succedere qualsiasi cosa”. Ma qual è stata la reazione dei detenuti? “Si sono messi a disposizione (spesso queste visite servono anche per ottenere permessi o sbloccare pratiche, ndr), e a detta degli psichiatri le visite stanno andando bene”, risponde Cannas. “La prima visita è stata erogata il 21 maggio 2024, da allora ne vengono effettuate tre o quattro ogni lunedì”. Il visore può essere replicato e brandizzato - Il sistema si chiama VR Clinic ed è stato realizzato e consegnato “chiavi in mano” da State1 alla Asl 3 di Nuoro, ma può essere riprodotto e brandizzato per qualsiasi medico. Ogni medico può avere infatti il proprio gestionale, e con esso fare visite private ai pazienti. “Il costo del prodotto è di 30mila euro per la versione base (alla Asl è stato venduto al prezzo di costo), ma possono essere progettate versioni più complesse, per esempio collegando il sistema con macchinari come l’elettrocardiogramma: il paziente, con l’aiuto di un infermiere, si sottopone all’esame, e il medico può controllare i risultati in tempo reale sul suo computer senza togliere il visore”, conclude Bandera. “Abbiamo molte richieste anche al di fuori della Sardegna, ma vogliamo attendere la fine di questo periodo di sperimentazione per avere un riscontro finale. Poi lo metteremo sul mercato”. Foggia. Carcere senza materassi? Il Ministero della Giustizia non ci sta: “È una fake news” immediato.net, 17 marzo 2025 La nota da Roma: “Il Provveditorato provvederà comunque a monitorare costantemente la situazione intervenendo per qualsivoglia necessità in tal senso”. In relazione all’articolo apparso sulla stampa ieri nel quale si dà notizia della carenza di materassi e letti presso la Casa Circondariale di Foggia, divulgata dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), il Ministero della Giustizia per il tramite del provveditore regionale per la Puglia e la Basilicata, Carlo Berdini, segnala che la notizia è “destituita di ogni fondamento”. Lo comunica il Ministero della Giustizia in una nota. “In particolare, con la recente fornitura (per quanto riguarda i materassi) e con il riutilizzo dei letti recuperati presso altre sezioni detentive, ove sono in corso dei lavori di ristrutturazione, sono state soddisfatte tutte le esigenze. È inoltre disponibile una congrua scorta di letti e materassi sufficienti a soddisfare anche le future esigenze. Il Provveditorato provvederà comunque a monitorare costantemente la situazione intervenendo per qualsivoglia necessità in tal senso”, si legge nel comunicato. Torino. “Io, assolto dopo 5 anni: trattato come un mostro, sono rinato nel carcere Ferrante Aporti” di Elisa Sola La Stampa, 17 marzo 2025 Giovanni Battista Alberotanza, il comandante dell’istituto minorile Ferrante Aporti. Era accusato di favoreggiamento verso gli agenti della Polizia penitenziaria accusati di tortura al Lorusso e Cutugno. “Il carcere è ed è sempre stato la mia vita. Quando mi hanno accusato ingiustamente e sbattuto fuori da quelle mura sono stato malissimo. Mi hanno trattato come un mostro. Per l’ansia e lo stress ho perso tutti i capelli. Con 25 anni di carriera alle spalle, essere accusato di favoreggiamento nei confronti di poliziotti che avrebbero commesso torture, è stato devastane. Ho resistito e continuato a lavorare. Mi hanno trasferito al Ferrante Aporti. Qui ho ritrovato la motivazione per lavorare: educare questi ragazzi”. Giovanni Battista Alberotanza è il comandante dell’istituto penale per i minorenni di Torino. Parla oggi, dopo cinque anni dall’inizio del procedimento e dopo che è diventata definitiva la sentenza di assoluzione nei suoi confronti. Era indagato per favoreggiamento quando era comandante del Lorusso e Cutugno di Torino. Difeso dall’avvocato Antonio Genovese, è stato assolto in primo e in secondo grado, l’ultima volta “perché il fatto non sussiste”. Comandante, come sta? “Mi sento sollevato. Ho sempre creduto nella magistratura. Sapevo che non c’erano i presupposti per indagarmi”. Di cosa era accusato? “Di avere disposto un accertamento per insabbiare le condotte di alcuni poliziotti. Cosa che non ho mai fatto”. Come ha affrontato cinque anni di processi? “Ero moralmente a pezzi. È molto brutto per un comandante sentirsi dire che copre le torture. Poi ho scoperto di essere intercettato, su fatti di vita privata che non c’entravano con l’indagine. E mi hanno demansionato”. In che senso? “Quando è arrivato l’avviso di garanzia mi hanno tolto dal comando del carcere di Torino e trasferito in sottordine ad Asti. È stata una doccia fredda. Sono stato molto male perché credevo nel principio di innocenza. E invece”. E invece, cosa è accaduto? “Mi hanno trasferito. Mi hanno impedito di avere ruoli operativi. Un comandante che non entra in carcere si sente svuotato. Io nella vita ho sempre fatto il comandante. Il carcere è casa mia. L’ho vissuta malissimo”. Come ha reagito? “Ho impugnato i provvedimenti al Tar e ho vinto. Il Dap è stato costretto a pagarmi il demansionamento. Per il resto, sono stato costretto a trasferirmi da Torino ad Asti, lasciando qui mia mamma, malata e sola. Ero io che la assistevo. Ho la 104. Ho fatto ricorso perché non mi togliessero l’alloggio di servizio di Torino, dove sta mia madre. L’ho vinto. E da Asti mi hanno trasferito ad Alessandria. Ancora più lontano”. Quando è riuscito a tornare a Torino? “Nell’ottobre del 2023, quando sono stato assegnato al Ferrante Aporti. Devo ringraziare la giustizia minorile perché mi ha aiutato in una fase delicata. Subivo accuse infamanti, eppure mi hanno proposto il Ferrante, prima della sentenza di assoluzione definitiva”. Era stato lei a fare domanda? “Sì. Ricordo il colloquio e quel senso di garantismo dal capo del personale. Mi disse: “l’indagine non ci riguarda, il processo non è ancora concluso, lei è un presunto innocente”. Così sono andato avanti, per merito. E ho riacquistato fiducia in me stesso”. Come ha gestito le rivolte e le tensioni del Ferrante Aporti? “Qui c’è un’utenza particolare. Ma su cui si può lavorare tanto. Moltissimi ragazzi sono arrivati soli in Italia. Pochi parlano l’italiano. A livello di educazione c’è da partire da zero. Per me è stato motivante. Sono stato un animatore salesiano. Dopo la rivolta di agosto, abbiamo cambiato il modo di gestire le attività scolastiche e ludiche. Lavoriamo in piccoli gruppi e sempre con un educatore. Ho chiesto rinforzi e ce ne hanno mandati otto”. Meno poliziotti e più educatori è la ricetta? “Sì, in un certo senso. La base di tutto è il rispetto delle regole. Solo lavorando sul rispetto si ottengono integrazione e civiltà. Da quando abbiamo cambiato metodo, abbiamo avuto delle scarcerazioni dovute al buon atteggiamento in carcere dei ragazzi. Si è innescato un circolo virtuoso. Alcuni sono proprio cambiati”. É soddisfatto adesso? “Provo questo sentimento quando vedo un ragazzo che ringrazia e abbraccia un agente. È il sur plus che si possa avere nella carriera. Sono contento di stare qui. Certo, il mio grado non è stato ancora ripristinato e spero di diventare primo dirigente. Ma con questi ragazzi stiamo facendo un lavoro prezioso”. Tolmezzo (Ud). “Io recluso, grazie alle visite del cappellano ho ritrovato speranza” lavitacattolica.it, 17 marzo 2025 Recentemente la realtà carceraria della casa circondariale di Tolmezzo ha ricevuto la visita dell’arcivescovo mons. Riccardo Lamba, che ha tenuto nella cappella dell’istituto la prima delle sue catechesi giubilari ai ristretti (lo stesso ha fatto nel carcere di Udine). Le persone detenute sono state contente e grate di essere state visitate dal Pastore della Chiesa udinese. La sua visita, come ogni visita che non sia semplicemente formale o professionale, ma di vicinanza umana e personale, nella casa circondariale è sempre molto apprezzata da chi si sente dimenticato e abbandonato alla sua solitudine. Lo testimonia questa riflessione che abbiamo raccolto da un detenuto e riportiamo in forma integrale, quale significativo segno giubilare di speranza. “Cosa significa essere visitato in carcere? Che dire? Io sono recluso nel carcere di alta sicurezza di Tolmezzo, e qui la vita scorre tutti i giorni monotona, sempre con la stessa routine, e con un rumore fisso che ti accompagna per tutta la giornata, inesorabilmente. Voi direte: qual è questo rumore? È lo sfrigolio delle chiavi dei poliziotti, e poi c’è pure quello delle serrature delle porte. Tu cominci a convivere con questo rumore, rumore che ti mette panico e ansia, e dici: ecco, stanno venendo da me, cosa sarà successo ancora? I pensieri vagano e pensi alla tua famiglia al di fuori di queste mura, ma ecco che il poliziotto ti dice: “Andate all’ora d’aria?” Ed ecco che tutti i pensieri e le angosce svaniscono, per il momento, ma si ripresenteranno al prossimo rumore. Ed ecco che - grazie al rumore di una serratura - la mia vita è cambiata, ed oggi quando sento di nuovo quel rumore non percepisco più ansia o panico, ma speranza! Questo grazie al mio cappellano; quando venne un giorno il poliziotto ad aprirmi la porta della cella, chiedendomi: “C’è il cappellano, vuoi incontrarlo?” Ed io risposi di sì. E quel sì mi ha cambiato totalmente. Ora non aspetto altro che quel rumore, al giovedì, al venerdì e al sabato… Sono gli unici rumori che aspetto con ansia positiva. Un ringraziamento va anche al volontario che da trent’anni viene in carcere a dare speranza ed augurare una vita nuova ai detenuti, che spesso non vengono valorizzati. Grazie a loro due ho ritrovato la speranza. Ringrazio anche il volontario che anima alla tastiera le nostre Messe, e che, quando mi vede, mi tratta come uno della sua famiglia, e non fa distinzioni, anche se io mi trovo da questa parte, diciamo dei cattivi, e lui dei buoni. Ma diventiamo tutti uguali. Oggi per me è diventato essenziale essere visitato da queste persone: insieme a quelli con la mia famiglia, sono gli unici momenti in cui dimentichi dove ti trovi, e metti il tuo cuore e la tua anima a nudo, e con loro hai un momento di gioia e di speranza, in questo inferno che si vive giorno per giorno nelle carceri. Chiedo scusa per la mia grammatica. Sono le conseguenze di un’infanzia dove non ho avuto la possibilità di essere seguito, ma il Signore mi sta dando una seconda possibilità. Grazie! Infine, in questo anno del giubileo della speranza, voglio dire ai detenuti: non perdete la fede e spogliatevi di questa omertà che vi ricopre; non c’è cosa più bella che aprirsi al Signore e avere speranza. Napoli. Quando Emanuele voleva trasformare i cattivi in buoni di Antonio Mattone Il Mattino, 17 marzo 2025 Morire a vent’anni a Napoli. Ancora un omicidio di un giovanissimo insanguina le strade della nostra città. L’agguato di sabato sera si è consumato in una strada centrale e trafficata, davanti ad automobilisti attoniti. Un’esecuzione di un ragazzo poco più che ventenne, freddato come un boss da sicari senza scrupoli. Questa volta quello che balza subito all’occhio è il cognome della vittima. Emanuele Durante era un parente di Annalisa, la ragazzina uccisa a 14 anni nel 2004 a Forcella. Quella morte scosse profondamente la città, e diventò la molla del riscatto del quartiere, con tutta una serie di iniziative e di manifestazioni che nel suo nome cominciarono a fiorire creando luoghi di aggregazione, fino alla realizzazione di una biblioteca in uno spazio comunale, dove tuttora vengono svolte attività culturali, sociali e rappresentazioni teatrali. L’omicidio di sabato sembra gettare una maledizione su una intera famiglia. Tuttavia la lunga lista di giovani napoletani che in questi anni hanno versato il loro sangue innocente, ci parla di una carneficina che ha coinvolto troppi figli di Napoli. Oggi Emanuele, ieri Santo, Francesco Pio e Giovanbattista, l’altro ieri Genny, Annalisa e tanti altri ancora. Un ricordo che si perde nel tempo e resta solo nel dolore delle madri che hanno visto improvvisamente stramazzare al suolo i propri figli nel fior fiore della gioventù. Giovani che hanno visto la loro vita rubata per una scarpa sporcata, per uno sguardo di troppo, o per aver difeso un amico; oppure per cercare di emergere da un’esistenza anonima attraverso appartenenze e modelli perversi. Altre volte per caso, alla fine per niente. Sembra che non si finisca mai di imparare da queste tragedie, eppure in questi anni sono nate diverse iniziative per i minori, di associazioni, della Chiesa e anche alcune istituzioni sembrano aver innescato processi virtuosi come un monitoraggio più efficace dell’abbandono scolastico. Tuttavia il tempo è sempre troppo poco, e la violenza giovanile è un’emergenza che forse richiederebbe un cambio di passo, una risposta più efficace e sinergica. Lo dimostra oggi con molta chiarezza la vicenda di Emanuele Durante. Era stato seguito nella Scuola nella pace della Comunità di Sant’Egidio, quando frequentava le elementari. La sua era una famiglia molto difficile, una situazione ben conosciuta ai servizi sociali. Quando i genitori si separarono andò a vivere con il padre, che per un periodo finì in carcere. Il bambino appare in un video girato durante la colonia estiva quando racconta che la cosa più bella di quei giorni di vacanza erano gli amici, ma anche il grande spazio a disposizione, che evidentemente a casa non aveva. Poi davanti alla domanda “cosa faresti se avessi una bacchetta magica”, Emanuele dà una risposta che lascia senza fiato: “i cattivi li trasformerei in buoni!”. Emanuele Durante era un ragazzino molto sensibile, chi lo ha conosciuto racconta che durante le feste che si facevano con gli anziani negli istituti era quello più affettuoso. Aveva però una grande difficoltà nell’apprendimento a scuola: restava sempre indietro agli altri bambini. “Poi lo abbiamo perso di vista” dice la maestra che lo seguiva in quel tempo. Aveva avuto piccoli precedenti, ma non sappiamo se avesse fatto uno “sgarro” oppure volesse fare il grande salto nel mondo criminale, una scelta che gli sarebbe costata cara. C’è da chiedersi come possa accadere che ragazzi normali, magari di buoni sentimenti, una volta cresciuti possano essere attratti dal fascino della malavita. Adolescenti che come altri sono appassionati di rap, musica, sport, ma che poi cercano di uscire dall’anonimato e decidono di farsi risucchiare da quel buco nero che è la camorra, una strada senza ritorno e senza futuro. Il fenomeno della violenza giovanile è molto complesso e riguarda aspetti diversi e differenti fasce d’età. Una carriera criminale che comincia fin da piccoli fino a vederli arrivare appena maggiorenni in carcere a dettare legge e a vessare i detenuti più deboli, come talvolta accade, minacciando o passando alle vie di fatto per ottenere i loro servigi. Bisognerebbe cominciare a occuparsene nei primi mesi della loro vita come più volte ha suggerito Paolo Siani, senza trascurare gli anni successivi della scuola e dell’adolescenza. È un’emergenza che richiede un grande sforzo di risorse, di intelligenze e conoscenze, con diverse sinergie da mettere in campo. Non c’è più tempo da perdere, non possiamo più cincischiare. Il sangue dei giovani di Napoli urla di fare presto. “Cesare deve morire” 13 anni dopo, da Rebibbia al cuore di Roma di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 17 marzo 2025 Gli attori di Rebibbia sul luogo del delitto, dove non erano ancora mai stati. La tradizione vuole che Giulio Cesare sia stato accoltellato nella Curia di Pompeo, dove oggi sorge l’area sacra di largo Argentina. Ed è qui che, sabato pomeriggio, è andato in scena “Cesare ‘addamurì”. Quindici pagine di copione. Sono alcuni estratti del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale 2012. I compianti registi resero famosa la compagnia teatrale di Rebibbia, sotto la regia di Fabio Cavalli, impegnata nella messinscena del “Giulio Cesare” di Shakespeare dentro il penitenziario. Alcuni di loro sono tornati a vestire quegli stessi panni, come Giovanni Arcuri nel ruolo di Cesare, Juan Dario Bonetti nel ruolo di Marco Antonio, Ottaviano interpretato da Maurilio Giuffreda e Metello da Leonardo Ligorio. Dal teatro al cinema e, di nuovo, al teatro. “Sono passati 12 anni, sono liberi, sono degli artisti - ha detto il regista Cavalli presentando lo spettacolo - grazie, perché dimostrate che si può cambiare vita attraverso l’arte”. Di fronte al pubblico assiepato alle recinzioni dell’area archeologica, gli attori hanno interpretato gli episodi che li hanno resi celebri. Dalla scena in cui un indovino cerca di mettere in guardia Cesare della congiura ai suoi danni; all’incontro notturno tra il condottiero e Cicerone; fino al “cattivo demone” di Cesare che fa visita a Bruto. “Io song’ nato libero comm’ a tte, comm’ a tutti vuje, e nun vuliss’ essere schiavo e nu rre!”, esclama Cassio a Bruto, giustificando così il tradimento del “pater patriae”. Il dialetto restituisce tutto il dramma della tragedia. Un lavoro corale, per ammissione dello stesso regista: “quello che ho fatto insieme a loro è stato tradurre in siciliano, calabrese e napoletano le parole altissime di Shakespeare”. Ma cos’è cambiato da “Cesare deve morire” a oggi? “La location prima era abbastanza ristretta”, ha detto scherzando l’attore Giovanni Arcuri. “Poi l’emozione è diversa; l’ultima volta l’ho fatto a Rebibbia insieme agli altri miei amici e compagni; ho continuato a fare teatro per conto mio e sono volentieri qui, oggi. È stata un’esperienza bellissima”. Tanta l’emozione nella compagnia teatrale, anche e soprattutto per l’inedito spazio. “È angusto per noi che veniamo dal carcere - ha commentato l’attore Giacomo Silvano, inteprete di Cassio -, e cerchiamo sempre di ordinare il personaggio sullo spazio che abbiamo a disposizione. Stare qui, dove migliaia di anni fa è accaduto quello che noi abbiamo messo in scena migliaia di anni dopo, con questa inaspettata arena di pubblico - ha proseguito - mi ha dato una carica di emozioni; era come il primo giorno di scuola”. Per l’occasione, anche la politica ci ha messo la faccia - anzi, la maschera. “Il teatro in carcere, come le altre attività creative e d’arte, possono riscattare i detenuti e farle diventare persone nuove, liberarle nel senso più proprio”, ha commentato a margine Federico Mollicone. In “Cesare ‘Addamurì” ha vestito i panni di Cicerone ed è da anni impegnato nella promozione delle attività teatrali nei penitenziari. Raffaele Bruno, deputato del Movimento 5 Stelle, nella rappresentazione ha interpretato il matto indovino ed è l’autore dell’emendamento approvato dal governo per stanziare 500mila euro all’anno per tre anni nelle attività teatrali in carcere. “Abbiamo vissuto un momento potente - ha sottolineato - questi attori, attraverso le parole di Shakespeare, incarnano la trasformazione, e a noi fanno vedere infinite possibilità”. Crosignani: così ho chiuso i manicomi di Timothy Ormezzano Corriere di Torino, 17 marzo 2025 A 92 anni, i ricordi di una vita: “Amo gli ultimi da sempre, ho visto cose disumane”. Il grande psichiatra Annibale Crosignani da quasi 92 anni (“sono nato il 10 maggio 1933, nel giorno in cui Hitler bruciò i libri all’opernplatz di Berlino”) ha scelto di schierarsi dalla parte degli ultimi. Fu la mente illuminata protagonista della rivoluzione culturale che portò alla chiusura del manicomio femminile torinese di via Giulio (dove oggi c’è l’anagrafe Centrale) e di quello di Collegno, quasi un decennio prima della legge 180. “Sono un ribelle, vado sempre contro. Mi piacciono i perdenti. Alle medie tenevo per Ettore e non per Achille. Mi veniva da dentro, era più forte di me”, dice mostrando le foto delle sue tante vite. Per dire, Crosignani fondò e visse in una comune a Romagnano Sesia. “Ma sono stato anche un autostoppista: andai fino a Capo Nord e, girando l’Europa, nel 1954, scoprii la tragedia dei campi di concentramento di Dachau e della Shoah. Sono stato pure un calciatore, a 19 anni feci un provino per il Piacenza. E ho lavorato come medico del Torino, al fianco del mitico dottor Cattaneo, negli anni Sessanta di capitan Bearzot. Nel mio cuore, però, c’è la Juve. Non è una scelta da amante dei perdenti? Beh, nessuno è perfetto - ribatte strizzando gli occhietti vispi e chiari. Ma una volta ho finto di essere del Toro”. Quando? “Nel 2015 per caso, in piazzale Umbria, incontrai Andrea Soldi, il malato di mente che sarebbe morto a causa di un Tso molto violento. Un gigante buono molto chiuso, quasi catatonico. Provai inutilmente a instaurare un dialogo: l’empatia fa molto più delle medicine. Poi dalle nostre parti rotolò un pallone che Andrea fermò con un bel tocco. Gli chiesi di che squadra fosse. “Toro”, mi rispose. Allora gli mostrai una mia foto con Claudio Sala, il poeta del gol. A quel punto Andrea si aprì, diventò simpaticissimo e mi offrì pure da bere. Quindici giorni dopo, la tragedia”. Torniamo alla sua giovinezza, lei fu una staffetta partigiana? “Avevo 12 anni, portavo al leggendario comandante Cesare Pozzi notizie di sua figlia Milvia. Una volta mi fermarono i tedeschi, dissi che stavo andando a prendere il latte, mi lasciarono andare ma che paura. C’era una certa rivalità tra i partigiani: ricordo i garibaldini, i badogliani, la Brigata Matteotti, quelli di Giustizia e Libertà. Ma eravamo tutti antifascisti”. Ottant’anni dopo la Liberazione, come vede l’italia? “Non bene. Ci sono troppi segnali preoccupanti per chi ha vissuto il Ventennio. Avevamo degli ideali che non vedo più. Sono angosciato dalle guerre. Le immagini da Gaza e dall’ucraina mi fanno impressione, perché risvegliano istanze contro la democrazia e la libertà”. I suoi studi? “A determinare la mia vita fu don Niso Dallavalle, lo stesso prete che formò Pier Luigi Bersani. E in seguito ho avuto un grande maestro in Rodolfo Amprino, professore di istologia. Nel 1946 andai a Milano a fare la prima liceo scientifico. Mi sentivo il padrone della città, solo e libero, ma mi bocciarono perché preferivo giocare a calcio. “Annibale ha la stoffa, gli serve un buon sarto”, sentenziò don Niso. Così andai prima dai Salesiani a Lanzo e poi al Valsalice a Torino, dove mi indicarono di nuovo la strada”. Quale? “Pensavo di fare Legge ma un professore, don Bonello, mi consigliò di seguire il mio sogno di diventare dottore, nato leggendo “La cittadella” di Cronin. Andai al Collegio Universitario, vinsi il concorso trovai un ambiente molto stimolante dal lato culturale: c’erano Eco, Salvadori, Beccaria, Schiffer e Billia”. Nel 1968 entrò nel manicomio di via Giulio. E scoprì l’inferno... “Vidi cose disumane, la dignità era profanata. Mi identificai con le malate, che sembravano zombie. Avevano origini umili, come le mie. Ero così attratto dal loro mondo che le infermiere e alcuni colleghi mi davano del pazzo. Organizzarono uno sciopero contro di me. Lo ammetto, un po’ ci facevo, perché un matto può muoversi liberamente. Il vicedirettore chiese una visita medico legale per verificare la mia salute mentale: il direttore generale, scoprendomi sanissimo, disse che semmai bisognava visitare il vicedirettore. Era comunque arrivato il momento di intervenire”. Come? “Portai dal sindaco Guglielmetti una ex maestra delle elementari ricoverata in via Giulio. Lei si mise a recitare poesie a memoria e il sindaco mi chiese cosa ci facesse al manicomio. Venne dimessa. Cercai altri medici disposti a sposare la causa, sostenuta pure dal movimento studentesco e dall’associazione per la Lotta contro le Malattie Mentali fondata da Piera Piatti. La lotta si fece dura. Ci considerarono dei pericolosi sovversivi, dopo che una malata grave, da me slegata, ferì al capo un’infermiera. Ma il manicomio era ormai diventato indifendibile. Il 10 aprile 1969 liberammo 160 malate del reparto 5: il momento più bello della mia vita professionale”. Dopodiché, a Collegno, anticipò la legge Basaglia... “Il nostro grimaldello fece saltare il sistema. Nel 1970 entrai alle Ville per dimettere quasi tutto il reparto femminile. Collegno fu oggetto di un’occupazione già nel 1968, con un’azione nata dopo un convegno a cui parteciparono Basaglia e Pasolini. Fu la prima volta nella storia della psichiatria italiana in cui i malati ebbero modo di denunciare le sevizie subite. Anche la stampa schierò dalla nostra parte”. Infine fu primario emerito alle Molinette... “Fino alla pensione, nel 2000. Tre anni dopo mi diedero il Sigillo civico, un’onorificenza prestigiosa. Successivamente ho scritto la storia di un malato, “Ludovico e Contessa”, portata a teatro con successo da Ivana Ferri. Ora ho un altro progetto in fase avanzata, allestire un Museo della Follia con il materiale che ho raccolto negli anni: catene di ferro, cinghie di contenzione, camicie di forza. Collegno sarebbe la sede ideale”. Lei è un rivoluzionario, lo sa vero? “No, resto modesto e umile. Ho solo seguito quello il mio destino, in un preciso momento storico. Vale davvero la pena parlare della mia vita? Mi sono dato da fare, quello sì. Ho lasciato uno studio privato per fare psichiatria moderna a tempo pieno: dovendo lavorare con gli ultimi, non posso farmi pagare dai baroni. Ma ho anche io le mie sconfitte”. Quali? “Qualche caso mi è sfuggito di mano, in modo drammatico. Ricordo una malata attiva nella contestazione, voleva uscire dal manicomio. Le abbiamo trovato casa, l’ha arredata ma poi si è tirata indietro chiedendo di tornare dentro. Quando cercai di dissuaderla mi disse “lei non ha capito niente” e si suicidò davanti a me, buttandosi dalla finestra. Ecco cosa vuol dire essere uno psichiatra”. Su guerra e pace l’Europa compie troppi passi falsi di Lorenzo Castellani Il Domani, 17 marzo 2025 C’è troppa agitazione, poco coordinamento, eccessiva smania di fare piani che restano su carta. Ci si dovrebbe concentrare sulle strategie. È saggio schierare oggi dei contingenti in Ucraina o esiste un modo diverso di combinare deterrenza e distensione? L’isteria sembra essere il sentimento prevalente nelle classi politiche europee. Questa reazione è in parte comprensibile: Trump ha da un lato gettato nel caos le relazioni commerciali con minacce di dazi ed escalation protezionistica, dall’altro la Casa Bianca sembra giunta ad un redde rationem da tempo atteso sulla difesa dell’Europa. Tutto questo si svolge all’interno di un ciclo politico dove la vecchia classe politica europeista è incalzata, o è già stata sostituita, da nuovi protagonisti di estrazione nazional-populista. Un elemento che acuisce le divisioni e l’instabilità politica in seno al continente. Reazione emotiva - L’emotività e l’impulsività però non sono buone consigliere negli affari internazionali. Di qui una serie di passi falsi inanellati dalla politica europea. Dapprima la ricerca di una soluzione alla guerra in Ucraina dopo l’avvento di Trump concentrata nelle mani di pochi paesi, di cui costituiscono parte importante paesi extra Ue come Regno Unito e Turchia. Un modo di procedere, avallato in particolare da Macron e Von Der Leyen, che affievolisce la già sottile legittimità politica europea. In secondo luogo, c’è stato l’annuncio di invio di forze di peace-keeping da parte di Francia, Regno Unito e una presunta coalizione di volenterosi. Ma questa idea sconta numerosi problemi: propone truppe di peace-keeping in una situazione in cui ancora non c’è un accordo di pace; la coalizione di paesi pronti ad inviare truppe è ristretta e l’ampiezza del territorio ucraino è notevole; la volontà di Putin non sembra essere considerata in questa fase da alcuni paesi europei, eppure è centrale nel processo di negoziazione, e appare difficile che l’autocrate russo accetti la presenza di soli militari europei come garanzia di sicurezza in un accordo di pace. Se messa in pratica subito, una soluzione del genere equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra a Mosca. Considerato che nessun paese europeo sembra pronto ad andare in guerra per Kiev, il piano sembra destinato a rimanere al massimo un desiderata per il futuro quando Trump e Putin discuteranno la pace. C’è stata poi l’idea di una tregua di un mese, sempre di matrice anglo-francese, ma sia l’Ucraina che la Russia si sono mosse sul piano diplomatico soltanto quando questa proposta è stata fatta dagli Usa. E, di conseguenza, nessun leader europeo è stato invitato ai tavoli di Gedda. Un segno che le carte sono nelle mani degli americani e che gli stessi Zelensky e Putin soltanto con loro vogliono discutere i temi fondamentali. Reazione ai dazi - Quando ci spostiamo sulla politica commerciale le cose non sembrano andare meglio. La reazione a Trump avviene sui dazi a merci materiali e non ha fatto altro che dare luogo ad un ulteriore inasprimento della Casa Bianca verso i prodotti europei. Se guardiamo ai prodotti materiali, l’Ue ha soltanto da perdere in una guerra commerciale con gli Usa poiché il surplus della bilancia commerciale in materia supera i 200 miliardi di euro. Se proprio si volesse andare ad una escalation si dovrebbero allora colpire i servizi, dove invece prevalgono le aziende americane. Ma anche su questo tema non si vede ancora una strategia, un metodo per provare a portare Trump al tavolo e trovare un grande accordo su tutti gli scambi transatlantici. Persino sul piano di riarmo si poteva fare diversamente, a partire dal nome del programma: perché spaventare un’opinione pubblica in molti paesi già restia all’aumento della spesa militare con la sigla ReArm Eu? Perché mettere in mezzo i fondi di coesione europei come fonte di finanziamento? Così si dà il dritto alle forze pacifiste di far passare l’idea che si taglia il welfare per finanziare le armi. C’è il rischio di un boomerang politico grave che favorisca l’ascesa di chi vede con il fumo negli occhi una politica di deterrenza. Si doveva probabilmente trovare un modo di finanziamento più convincente e una comunicazione capace di preparare maggiormente i cittadini europei alla necessità di aumentare la spesa in difesa. Tutti questi elementi lasciano molto perplessi sul ruolo delle classi politiche europee in questo scenario. C’è troppa agitazione, poco coordinamento, eccessiva smania di fare piani che restano su carta. Ci si dovrebbe, invece, concentrare sulle strategie. Qual è, per esempio, il compromesso minimo accettabile nell’eventuale armistizio tra Russia e Ucraina da parte dei paesi europei? Come interfacciarsi con Trump e Putin in modo realistico? È saggio schierare oggi dei contingenti in Ucraina o esiste un modo diverso di combinare deterrenza e distensione? Infine, ci si può proteggere sul piano nucleare in Europa senza l’apporto degli americani, oppure è irrealistico poiché la Russia che vanta armi tattiche nucleari efficaci e un arsenale di ampie proporzioni rispetto a quello anglo-francese? Fino a quando i leader Ue non risponderanno a queste domande si continuerà con vertici che vanno a vuoto, divisioni e promesse mancate. È il caso dell’Italia. Meloni non è in grado oggi di dare l’assenso dell’Italia a missioni militari in Ucraina sia perché la Lega è contraria sia perché gran parte dell’opposizione ha scelto una postura pacifista. Così, per paura di perdere consensi, la premier preferisce attendere la soluzione orchestrata da Trump e frena sull’invio di soldati. In tutto questo c’è sicuramente una debolezza italiana, che rischia di portare il paese ad una diminuzione della sua influenza internazionale in caso di un mancato riarmo e di una politica estera debole, ma ci sono anche errori dettati dalla frenesia di gran parte della classe politica europea. Egitto. Detenuti puniti per le proteste contro le crudeli condizioni di prigionia di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2025 All’inizio dell’anno molti detenuti del Centro n. 6 per la riforma e la riabilitazione (nonostante il nome rassicurate e altisonante è un vero e proprio carcere, inaugurato nel 2023) della Città del decimo Ramadan hanno intrapreso uno sciopero della fame per chiedere la fine della privazione arbitraria della libertà e soprattutto delle crudeli condizioni di prigionia. Alla fine della protesta, almeno tre detenuti sono stati privati di tutti i loro effetti personali e sottoposti al cosiddetto taghriba (esilio interno), ossia trasferiti in prigioni le cui condizioni sono ancora peggiori e che distano centinaia di chilometri dai luoghi di origine, per rendere ancora più difficoltose e costose le visite dei parenti. Uno dei tre, il 29 gennaio, ha ripreso lo sciopero della fame per protestare contro l’avvenuto trasferimento. Lo ha interrotto il 1° marzo, dopo il ricovero nell’ospedale del nuovo carcere. All’interno del Centro n. 6, gestito dalla famigerata Agenzia per la sicurezza nazionale, si trovano detenuti in attesa del processo da mesi. Sono costretti a stare 23 ore su 24 in cella e possono fare esercizio fisico solo un’ora in un corridoio interno, contrariamente agli standard internazionali e alla stessa normativa egiziana. Salvo motivi eccezionali, le visite sono limitate a un incontro di sì e no mezz’ora al mese. Le donne in visita sono sottoposte a umilianti perquisizioni corporali e il cibo che portano ai loro parenti viene ispezionato dai secondini in modo anti igienico, senza usare guanti né lavarsi le mani. C’è chi, come Anas al-Belgaty, detenuto da 11 anni solo per affiliazione familiare, non riceve visite dal giugno 2023. Tra i detenuti c’è il noto fumettista Ashraf Omar. Nada Mougeeth, sua moglie, l’ha incontrato e ha riferito che non vede la luce del sole da più di sette mesi. Un altro detenuto del sesto centro è l’economista Abdel Khalek Farouq. Ha protestato per il divieto di fare esercizio fisico all’aperto ed è stato minacciato di essere trasferito alla prigione di Sohag, a 500 chilometri di distanza. Proprio per aver denunciato la situazione nel Centro n. 6, Hossan Bahgat, il direttore generale dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali - tra le più autorevoli Ong per i diritti umani - è attualmente indagato per “diffusione di notizie false” e “assistenza e finanziamento a un gruppo terrorista”. Il problema delle condizioni delle carceri egiziane non riguarda solo i Centri per la riforma e la rieducazione della Città del decimo Ramadan. Amnesty International ha svolto ricerche su 16 centri penitenziari in cui sono reclusi prigionieri di coscienza e prigionieri politici riscontrando prove di maltrattamenti e torture e di intenzionale diniego di cure mediche. *Portavoce di Amnesty International Italia