Dal minorile al carcere degli adulti. “Così si fallisce il reinserimento” di Ilaria Beretta Avvenire, 16 marzo 2025 “Sarò io ad andare? Sarai tu? Negli occhi dei ragazzi c’è quasi la rassegnazione di chi è abituato a non essere interpellato mai”. Il messaggio arriva dall’Istituto penitenziario per minorenni di Bologna per mano di don Domenico Cambareri, che ne è cappellano. Al Pratello - questo il nome con cui la struttura è conosciuta e che da regolamento potrebbe ospitare quaranta persone - attualmente risiedono 47 giovani in esecuzione penale ma presto 24 di loro, scelti nella fascia d’età tra i 18 e i 25 anni, usciranno dal “privilegiato” circuito della giustizia minorile. Non teoricamente, visto che continueranno a essere in capo all’Ipm, ma senz’altro fisicamente: la loro destinazione è infatti la sezione penale del carcere per adulti del capoluogo emiliano, la casa circondariale Dozza, dove tra l’altro proprio ieri si è verificato il suicidio di un giovane di 35 anni, il diciottesimo a livello nazionale da inizio anno. Il trasloco - approvato nelle scorse settimane dal Ministero della giustizia e dal Dipartimento della giustizia minorile - è atteso a brevissimo, probabilmente entro il 24 marzo: alla Dozza una settantina di adulti sono già stati sgomberati dalla sezione dell’Alta sicurezza e trasferiti a Fossombrone per lasciare spazio ai ristretti della sezione penale, che a sua volta verrà riconvertita ad ospitare i ragazzi degli Ipm che ad oggi non sono ancora stati trasferiti. La misura è stata criticata dal Comune di Bologna e dalla Regione, nonché dalla Camera penale, dal Garante dei diritti delle persone private della libertà, i sindacati e diverse associazioni attive nei penitenziari. Si parla di “situazione drammatica” con la Dozza che oggi conta un indice di sovraffollamento tra i più alti in Italia con 782 presenze a fronte di 507 posti disponibili e che andrebbe ad aggravarsi con l’arrivo di una settantina di giovani adulti provenienti sia dal Fratello sia da altri istituti penali per minorenni d’Italia. “I trasferimenti non sono necessariamente provvedimenti negativi - scrivono in cordata le associazioni che operano nell’Ipm e che lamentano un mancato coinvolgimento nell’operazione - ma è impensabile e ingiusto che i criteri per realizzarli si fondino esclusivamente sulle quantità delle persone da trasferire e sui metri quadrati disponibili (anche non disponibili). Gli stessi trasferimenti interni comportano costi umani oltre che organizzativi”. Perplessità genera anche il fatto che le strutture del carcere per adulti della Dozza mancano di spazi adeguati con la Cisl che ricorda, per esempio, che le stanze “a differenza che nel minorile non sono dotate di docce e l’acqua calda manca”. Molti dei ragazzi coinvolti sono ex minori stranieri non accompagnati, provengono da contesti molto deprivati, con vita di strada e inserimento nella microcriminalità, avvezzi all’uso di sostanze stupefacenti e la cui gestione è spesso risultata difficile per le comunità educative alternative. “Ciò non vuol dire - scrivono però i presidenti del Consorzio Gruppo Centro di Solidarietà, Giovanni Mengoli e Giuliano Stenico - che bisogna rassegnarsi ma progettare un istituto con presenza adeguata di educatori, psicologie polizia penitenziaria formata e che favorisca le attività scolastiche, lavorative e creative”. In questo contesto da un lato il fatto che la misura dovrebbe essere temporanea - in attesa del trasferimento dei ragazzi in nuovi Ipm - sembra rassicurare (anche i Garanti regionali dichiarano che, se lo spostamento si prolungasse oltre i tre mesi, si tratterebbe di “alto tradimento”); dall’altro desta ancora più preoccupazione perché i ragazzi rischiano di essere trasportati continuamente senza attenzione per i percorsi di reinserimento personali. Nel frattempo, per garantire un alloggio dignitoso ai ragazzi trasferiti e allestire le celle alla Dozza, il cappellano della struttura minorile don Cambareri ha organizzato una raccolta di lenzuola, coperte, cuscini, asciugamani ma anche magliette, bagnoschiuma e spazzolini. Il caso di Bologna riaccende - per l’ennesima volta - i riflettori sugli Ipm che affrontano il nodo sovraffollamento che invece affligge da anni le sezioni degli adulti. Inoltre, tra chi scontala pena in quella che teoricamente il sistema penale minorile italiano considera l’ultima ratio del percorso di esecuzione della pena, una percentuale sempre crescente consiste in ragazzi in attesa di primo giudizio. La quota di chi si trova in questa condizione è passata in cinque anni - dal 2019 al 2024 - dal 20% al 34% ed è segnale di una sconfitta di un sistema penale da sempre considerato a livello mondiale fiore all’occhiello della giustizia italiana. Il ministro Nordio e l’importanza della cultura in carcere di Vincenzo Giglio) terzultimafermata.blog, 16 marzo 2025 Il Guardasigilli Nordio è intervenuto nel corso della presentazione del premio De Sanctis 2025, ospitata nella sala polifunzionale di Palazzo Chigi e nell’occasione ha voluto soffermarsi sull’iniziativa “Libri Liberi” con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di portare la cultura nelle carceri, attraverso la lettura dei grandi classici […] Sarebbe un privilegio poter partecipare attivamente a queste letture”. Ha anche espresso il desiderio di leggere in un istituto minorile, indicando particolarmente il Beccaria di Milano, e focalizzando questo suo desiderio sul “Crainquebille” di Anatole France, “la storia di un venditore ambulante che, per aver offeso un vigile, entra in un interminabile “vortice giustizialista, o giudiziario”. Nella visione del Ministro, il Crainquebille rappresenta la “lotta del potere nei confronti della persona debole, ed è la lotta del debole contro la ottusità delle leggi e anche di alcuni magistrati”. E dunque “Portare nelle carceri questi messaggi di cultura, dalla letteratura alla poesia, ai drammi significa portare un soffio di speranza ma anche dare un piccolo messaggio a quelli che ‘controllano’ queste persone; il faro dev’essere il vero frutto della saggezza, cioè il dubbio”. Parole ispirate, concetti elevati, messaggi di speranza: tutto questo ci viene trasmesso dal Ministro Nordio, con il valore aggiunto del pensiero prioritario rivolto ai minorenni detenuti del Beccaria. Già, i minorenni in galera: i ristretti negli istituti penitenziari minorili (IPM) erano 1.444 a fine 2023, sono 1.707 a fine 2024, con un aumento del 18% su base annua. Tale aumento unanimemente attribuito all’introduzione del cosiddetto Decreto Caivano del settembre 2023 (per la consultazione della fonte, a questo link), proprio quel decreto di cui il Ministro Nordio esaltava la duplice valenza punitiva e rieducativa. A quanto pare, la valenza punitiva ci sarebbe stata eccome e si sarebbe manifestata ai suoi livelli più alti proprio nel Beccaria così caro al Ministro e così presente nei suoi pensieri. Già, il Beccaria: quello venuto agli onori delle cronache per violenze e torture in danno dei minori che hanno avuto la sfortuna di esservi ristretti. Violenze così diffuse ed abituali, stando alle indagini, da meritarsi la denominazione di “Sistema Beccaria”. Già, vale davvero la pena leggere Crainquebille (l’edizione italiana è stata pubblicata da Sellerio nel 1992, con la traduzione di Roberto Tinti) perché, come si legge nella scheda di presentazione, è “una satira graffiante della giustizia ingiusta che, con cieca stupidità, colpisce i deboli e gli innocui”. E già, è proprio quello che ci vuole di questi tempi e che ci invita a fare il Ministro: riflettere sulla ottusità delle leggi e della loro applicazione e lottare a difesa dei deboli. Invito raccolto: lo stiamo facendo anche in questo post. La riforma Nordio, i dubbi dentro FdI e la tattica del “Vedremo” di Flavia Perina La Stampa, 16 marzo 2025 Magari è vero, magari sono tutti determinati ad “andare avanti con la massima celerità” come il centrodestra giura da due giorni, ma è difficile archiviare sotto la voce “gaffe” l’intemerata del sottosegretario Andrea Delmastro contro il doppio Csm. Ed è legittimo chiedersi se Fratelli d’Italia non abbia deciso di attivare anche sulla giustizia, come sul federalismo, come sul premierato, la strategia a lungo termine del “vedremo”, con due evidenti vantaggi: far decantare lo scontro con i magistrati e disinnescare una difficile prova referendaria a ridosso delle prossime elezioni. La destra italiana, peraltro, per la rivoluzione della giustizia non si è mai sbracciata. Alla solenne conferenza stampa in cui fu presentato il testo Giorgia Meloni non c’era nemmeno: preferì lasciare la ribalta a Carlo Nordio e Antonio Tajani, che dedicarono la riformissima a Silvio Berlusconi, citandolo ripetutamente come ispiratore. Ora che si è arrivati al rush finale è lecito pensare che il melonismo esiti a lanciarsi nel fuoco - il fuoco di una battaglia durissima contro il potere giudiziario e non solo - per uno stravolgimento della Costituzione voluto da altri, che non è mai stato nei suoi programmi e nei suoi orizzonti, e per di più rischia di incrinare il mito fondatore della destra amica dei giudici coraggiosi, la destra di Falcone e Borsellino. La strategia del “vedremo” può risultare un efficace riparo. Ha già funzionato ai tavoli dell’autonomia differenziata, dove la maggioranza ha tirato il freno a mano nonostante le insistenze di Roberto Calderoli perché fossero subito rammendati i buchi aperti dalla sentenza della Corte Costituzionale. E nel “vedremo” è stato annegato anche il presidenzialismo-premierato, scomparso dalle cronache dopo la prima approvazione parlamentare. Tutto fa pensare che Palazzo Chigi si sia disamorato del colossale progetto riformista messo nero su bianco nel 2022. Non gli serve, non ne vede più la necessità. Il governo è solido, gli alleati riottosi ma sempre inchiodati a percentuali minori, gli avversari inconcludenti e divisi: lasciar perdere è l’opzione più pratica per mantenere il primato alle prossime politiche e guidare i giochi della successione a Sergio Mattarella. Poi (si spera) qualcuno si sarà pure reso conto che quei tre cavalli di battaglia - repubblica presidenziale, Italia federale, separazione tra giudici e pm - appartengono al giurassico del centrodestra, al lessico di una destra, di un leghismo, di un forzismo che non esistono più. La destra “alternativa al sistema” di Giorgio Almirante, la Lega dell’indipendentismo padano di Umberto Bossi e di Gianfranco Miglio, la Forza Italia di Silvio Berlusconi, dei suoi 136 processi e di classi dirigenti appena uscite dalla tempesta di Mani Pulite. Le elezioni del 2022 sono state, probabilmente, l’ultima spiaggia di quei richiami, l’ultima volta che hanno funzionato come calamita identitaria per gli elettori. Di qui in avanti il copia-e-incolla dei vecchi programmi diventerà inutilizzabile. Cambiano le domande dell’opinione pubblica, dovranno cambiare le risposte: Europa, guerra e pace, Trump e Putin, spese militari, dazi, Difesa integrata, disimpegno Nato. Ed è comprensibile che qualcuno abbia cominciato a chiedersi: ma chi ce lo fa fare di impantanarci in battaglie di un’altra era? Non è meglio dire “vedremo” e passare oltre? Sciopero dei magistrati. “Inchiesta” ministeriale di Luigi Nicolosi Corriere del Mezzogiorno, 16 marzo 2025 Richiesti i contenuti dei verbali di rinvio delle udienze redatti a causa della protesta. Per il ministero della Giustizia si è trattato di una mera richiesta di chiarimenti. Di tutt’altro avviso è l’Associazione nazionale magistrati, secondo la quale dietro quell’istanza, inoltrata prima alla presidenza della Corte di appello di Napoli e poi girata a quella del tribunale di Napoli Nord, si celerebbe in realtà un tentativo di ingerenza sull’operato di giudici e pubblici ministeri. Tra toghe e governo è ormai scontro a oltranza e a neppure un mese di distanza dallo sciopero contro la riforma della Giustizia firmata dal guardasigilli Carlo Nordio a tenere banco è un nuovo, controverso episodio. A innescare l’ultima polemica è la richiesta da parte del ministero di conoscere i contenuti dei verbali di rinvio delle udienze redatti in occasione della protesta - che aveva fatto registrare un’adesione superiore al 75 per cento - indetta dalla categoria lo scorso 27 febbraio. La richiesta, rivela l’Anm Napoli, è stata riportata nella nota che giovedì è stata diramata ai 92 giudici di area penale e civile del tribunale di Napoli Nord per capire, in particolare, ai verbali di rinvio delle udienze fosse stato allegato anche un comunicato dell’Anm che faceva riferimento alla condanna in primo grado del sottosegretario Andrea Delmastro, ritenuto colpevole di rivelazione di segreto d’ufficio. La mossa, tuona la giunta sezionale dell’Associazione nazionale dei magistrati, “senza che sia stata disposta un’ispezione ufficiale e servendosi della collaborazione dei dirigenti degli uffici interessati, rischia di risultare come un’inammissibile forma di sindacato sulle modalità di adesione allo sciopero dei magistrati”. Ancora più dura la reazione della giunta esecutiva centrale dell’Associazione, che esprimendo vicinanza ai colleghi napoletani, attacca: “La singolare richiesta del ministero di avere conoscenza del contenuto dei verbali di rinvio delle udienze per il tramite della presidente della Corte di appello costituisce un’indebita ingerenza nei confronti dei colleghi che hanno esercitato un diritto costituzionale”. A dare fuoco alle polveri è stato un articolo pubblicato alcuni giorni fa sul quotidiano Il Tempo, nel quale si rappresentava che un giudice in servizio nel tribunale di Napoli Nord aveva inserito nel decreto di rinvio dell’udienza del 27 febbraio il comunicato dell’Associazione dello scorso 21 febbraio. Nel documento si sottolineava che “per dimostrare l’inutilità della separazione delle carriere, basta osservare la vicenda processuale che si è conclusa con la condanna in primo grado del sottosegretario Delmastro. Alla richiesta di archiviazione del pm un giudice ha ordinato l’imputazione e alla richiesta di assoluzione di un pm il tribunale ha pronunciato condanna. Questo dimostra - proseguiva ancora il comunicato - che il pm può chiedere l’assoluzione, nonostante la sua carriera non sia separata da quella del giudice, e che il giudice non è succube del pm”. A questo proposito l’Anm Napoli ricorda che “lo sciopero del 27 febbraio e le modalità di astensione dalle udienze sono state stabilite nel rispetto della legge e del codice di autoregolamentazione, con invito ai magistrati aderenti ad allegare ai verbali di udienza un comunicato predisposto dall’Associazione dal contenuto critico sull’imminente riforma costituzionale”. Intanto, mentre la riforma della giustizia prosegue a passo spedito nel suo iter parlamentare, Cristina Curatoli, presidente dell’Anm Napoli che già nelle scorse settimane aveva stigmatizzato l’ipotesi di separare le carriere di pm e giudici e di sdoppiamento del Csm, non nasconde un certo timore per quanto accaduto nella cittadella giudiziaria di Aversa: “C’è preoccupazione per l’ennesimo comportamento anomalo. Non comprendiamo le ragioni di questa richiesta, ricevuta tra l’altro da tutti i colleghi di Napoli Nord. Il rischio di un’ingerenza da parte dell’Esecutivo c’è e questa vicenda sembra dimostrarlo. Lo sciopero, mi preme ricordarlo, è un diritto costituzionalmente garantito e il 27 febbraio la magistratura l’ha esercitato rispettando le prescrizioni della normativa vigente e del codice di autoregolamentazione”. Sisto: “Le toghe in piazza mettono in dubbio la separazione dei poteri” di Simona Musco Il Dubbio, 16 marzo 2025 Il viceministro interviene sulla protesta dell’Anm, ribadendo “il rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e leale collaborazione” con le istituzioni. Non è possibile stabilire se e quanto lo sciopero dei magistrati dello scorso 27 febbraio contro la separazione delle carriere abbia o meno impattato sugli investimenti del Pnrr. Ma il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, intervenuto alla Camera per chiarire il dubbio sollevato in tal senso dal capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia Tommaso Calderone, ne ha approfittato per chiarire ulteriormente il suo punto di vista sull’astensione e per rispondere alla magistratura, più che al collega. Sottolineando come la scelta di scendere in piazza sia stata inopportuna, a suo dire, contraria al principio di separazione dei poteri. Calderone aveva chiesto di conoscere gli “effetti” dello sciopero organizzato dall’Associazione nazionale magistrati, al quale stando ai dati comunicati dalla competente articolazione ministeriale avrebbe aderito il 73,5 per cento dei magistrati in servizio. Diciannove, invece, le astensioni sui 211 fuori ruolo, circa il 9 per cento. Ma pur non potendo quantificare, nell’immediatezza, “l’impatto finanziario che lo sciopero potrebbe avere avuto sugli investimenti del Pnrr del sistema giustizia”, il punto per Sisto è un altro. “In uno Stato di diritto come il nostro, che si fonda sul principio della separazione dei poteri - ha sottolineato - l’astensione rivolta ad un provvedimento legislativo appare espressione di dissenso, quantomeno atipica e, in uno, inopportuna. Non può non leggersi, con dispiacere, l’atteggiamento della magistratura deliberatamente teso alla forte contrapposizione all’azione di governo”. Insomma, un attacco frontale, per quanto “garbato”, ai magistrati, che ovviamente hanno la libertà, in quanto cittadini, “di manifestazione e di partecipazione politica”. Ma tali diritti, ha aggiunto Sisto, andrebbero esercitati “tutelando i principi, pur essi costituzionali, di imparzialità della magistratura e di leale collaborazione con le istituzioni”. Concetto, quest’ultimo, che significa rispetto dei ruoli, ha aggiunto il viceministro. “È il caso di ricordare che la funzione di indirizzo politico compete esclusivamente al governo e al Parlamento - ha sottolineato -, e non di certo alla magistratura. Le istituzioni, invero, appartengono e rispondono all’intera collettività e tutti devono potersi riconoscere in esse”. Sisto, andando oltre il quesito posto da Calderone, ha ricordato che la riforma, “scritta per i cittadini” e parte del programma di governo, affonda le proprie origini nelle scelte dei padri costituenti. Motivo per cui “le legittime opinioni della magistratura su temi politicamente sensibili non devono essere espresse scendendo in piazza”. Un concetto ribadito recentemente dall’ex presidente della Camera Luciano Violante in audizione al Senato: il magistrato, ha sottolineato, “scendendo in piazza scontenta l’altra parte della piazza e questo non è, ovviamente, compatibile con il suo ruolo. E, quindi, non deve scendere in piazza in modo tale da fare dubitare della sua indipendenza e imparzialità nell’adempimento dei compiti alla magistratura assegnati: l’una e l’altra, indipendenza e imparzialità, essendo valori di rango costituzionale. Provocare tali tipologie di guerre sante, alla fine, costituisce solo occasione di pregiudizio per i cittadini e questo, certamente, non è né buono e né giusto”. Sisto ha dunque replicato alla magistratura, più che a Calderone. Che, dal canto suo, si è detto “ampiamente soddisfatto della risposta e delle osservazioni” proprio in merito alla distinzione di funzioni tra i poteri dello Stato. “È un dissenso assolutamente atipico - ha evidenziato il deputato di FI -. E non è soltanto - mi sia consentito - verificare se si accontenta o no una parte della piazza, sono in ballo valori costituzionali. Stiamo discutendo di altissimi valori costituzionali. Immagini se dopo una sentenza dal Parlamento o dal governo non condivisa, il Parlamento andasse a scioperare in Piazza Montecitorio contro i magistrati o, meglio, contro una sentenza dei magistrati: sarebbe - ahinoi - il caos istituzionale. E questo non va bene, non va bene per la sicurezza del cittadino italiano. Ognuno deve esercitare al meglio con disciplina e onore il ruolo istituzionale e costituzionale che ha. Quindi, è necessario verificare se questo sciopero, certamente legale, sia o sia stato un disservizio per il cittadino italiano”. Da qui l’invito al ministero a verificare gli esiti della protesta sul sistema giudiziario. Ogni 15 giorni, ha promesso Calderone, “o nei tempi che mi consente il Regolamento presenterò una interrogazione o un’interpellanza urgente per conoscere questi dati. Perché il cittadino italiano - lo ribadisco ha la necessità di conoscerli”. Don Ciotti: “Libera è un’onda di ribellione. Oggi le mafie sono più forti anche se uccidono meno” di Francesco La Licata La Stampa, 16 marzo 2025 L’associazione compie 30 anni: “Boss e imprese senza scrupoli ora collaborano. La legalità non resti solo una parola, troppe vittime aspettano ancora giustizia”. Ricorda “quell’ondata di ribellione morale e fermento civile” partita dalla Sicilia ferita e sconvolta dalle stragi del 1992, da cui tutto - si può dire - sia nato. E nel trentesimo anniversario della rete “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” nata a Roma il 25 marzo del 2025, don Luigi Ciotti, fondatore e presidente dell’associazione, traccia le sfide per il futuro. Trent’anni di Libera: abbastanza per fare qualche bilancio... “Trent’anni di una rete plurale, nata per rendere più incisivo l’impegno delle realtà che la compongono. Trent’anni di tappe importanti, a cominciare dalla legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie approvata grazie anche alla nostra mobilitazione: un milione di firme raccolte in tutta Italia! E da lì la nascita delle cooperative di giovani per coltivare le terre dei boss - la prima a Corleone, nel 2001 - e tanti progetti per aiutare enti e associazioni locali a farsi carico di immobili, terreni e realtà produttive da restituire alla collettività. Sempre su impulso di Libera, nel 2010 è stata creata l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati. Sul fronte dell’educazione, oltre ai percorsi di cittadinanza nelle scuole, dal 2005 abbiamo protocolli con diverse Università italiane per corsi di approfondimento sulla criminalità mafiosa. E sempre del 2005 è la fondazione dei presidi: motori di iniziative concrete sui territori. La prima Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie si è svolta il 21 marzo del 1996, ed è poi diventata l’approdo annuale del sostegno quotidiano ai famigliari di quelle persone. Dal 2017 è riconosciuta con legge dello Stato. Nel 2013 abbiamo contribuito con una vasta campagna civica all’approvazione della legge sullo scambio politico-mafioso. Nel 2016 è partito il progetto Common sul monitoraggio civico. Nel 2018 abbiamo partecipato alla firma del protocollo interministeriale Liberi di Scegliere, che ci ha consentito di offrire un’opportunità di vita alternativa a tante donne e minori in fuga dalle famiglie mafiose di origine. Sono solo i passaggi più significativi di un impegno che ha davvero tanti volti e non ha mai smesso di ampliarsi, assumendo anche una dimensione internazionale in Europa, America latina e Africa. Oggi per rispondere a nuove sfide ci siamo anche riorganizzati internamente: c’è una co-presidenza con la brava Francesca Rispoli, e un sistema di condivisione delle responsabilità con tutte le realtà aderenti. E c’è una nuova casa a Roma, dentro un bene confiscato, che è anche un centro di documentazione prezioso sulla storia e le storie del movimento antimafia, aperto al pubblico”. Lei ha sempre fermato l’attenzione, sin dal primo discorso, sui concetti di democrazia e solidarietà sostenuti dall’indispensabile obiettivo di realizzare piena legalità, anche nelle zone del Paese più esposte al deficit di democrazia. Perché senza giustizia non c’è democrazia e senza verità non può esserci giustizia? “Sono dimensioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda. La verità e la giustizia non sono “accessori” della vita, ma la condizione affinché una vita sia libera e dignitosa. E come possono delle persone a cui mancano queste garanzie essenziali, costruire, tutelare e promuovere la democrazia? Ecco perché “legalità” rischia di essere una parola vuota, se non è accompagnata dalla concretezza di interventi politici, sociali e culturali che restituiscano dignità all’esistenza di tante persone lasciate ai margini. E alle storie di tante famiglie che ancora aspettano di sapere la verità sulla morte dei propri cari. Democrazia è anche trasformare la memoria del passato in un’etica del presente, un’etica della corresponsabilità. Democrazia è partecipazione! È questo il pilastro degli ordinamenti democratici: senza il coinvolgimento attivo di tutti, la democrazia rimane un modello astratto, pronto ad essere sostituito con altri, meno “impegnativi” ma anche meno tutelanti verso i diritti fondamentali. Purtroppo oggi questo pericolo è dietro l’angolo…”. Lei è un religioso ma ha sempre rivendicato la necessità di avere un ruolo sociale e politico e il diritto/dovere di poter incidere nella realtà. Ciò ha provocato reazioni ostili anche da governi e istituzioni. Penso a un vicepresidente del consiglio che le si è rivolto chiamandola “un signore in tonaca” solo perché lei si era permesso di porre attenzione alla possibilità in infiltrazioni mafiose nel grande appalto per la costruzione del ponte tra Sicilia e Calabria. In altre occasioni siete stati accusati di aspirare ad un potere economico con la gestione dei beni sequestrati alle mafie... “Sono provocazioni che prendono di mira me o Libera, ma puntano a screditare un impegno più vasto. È il tentativo subdolo di far credere alla gente che nessuno si muove senza un tornaconto, e che l’interesse personale viene sempre prima del bene comune. Non è così, e tanti percorsi di valore sono lì a dimostrarlo, a partire proprio da quelli sui beni confiscati. È un falso mito quello secondo cui “ci guadagniamo”, perché non siamo neppure noi a gestirli. A guadagnarci è invece la società tutta, perché quei beni esclusivi e illeciti tornano a essere pubblici, utili e trasparenti. Quanto al mio il ruolo di sacerdote, posso dire che è sempre la fede, cioè il rapporto con il Dio amore che ci parla attraverso il Vangelo, a guidarmi: sia nelle scelte personali che nell’impegno pubblico e condiviso con altri. È la stessa dottrina sociale della Chiesa a dire che lo sforzo nel costruire condizioni concrete di libertà e giustizia ci viene richiesto dal Vangelo. La fede è anche ciò che mi fa essere “contro” le mafie, ma sempre “accanto” alle persone, incluse quelle che possono aver commesso dei crimini. C’è sempre una possibilità di conversione e rinascita, prendendo consapevolezza del male fatto e della sofferenza causata. Lo vediamo coi giovani coinvolti nei percorsi di giustizia riparativa del progetto “Amunì”. Ma lo vediamo talvolta anche in alcuni adulti, che attraversano crisi di coscienza sincere”. Trent’anni di Libera: sembra un miracolo ciò che siete riusciti a realizzare, pur con qualche problema, a volte, di frizioni interne e qualche incomprensione... “Quello che conta sono i fatti, le cose realizzate non certo per “miracolo” ma con fatica, studio, confronto, investimento di tempo e risorse. Quello che conta è una rete che nel tempo si è allargata e oggi ha anche una dimensione internazionale. Quando uno sforzo coinvolge così tante persone, è normale credo che qualcuno non si riconosca fino in fondo, e preferisca prendere altre strade. L’importante è che il dissenso rimanga dentro un argine di rispetto reciproco, e non danneggi il grande impegno collettivo”. Il valore della memoria, anche come risarcimento per le vittime delle mafie... “Purtroppo sappiamo che un risarcimento reale non potrà esserci, perché quelle persone sono morte e nessuno le restituirà ai loro cari, ai loro progetti. Ma sarebbe tanto più grave se la memoria delle loro vite spezzate si fermasse a un’ostentazione di “buoni sentimenti”. Le vittime e le loro famiglie non ci chiedono celebrazioni, ma un impegno “di carne”, quella carne che è stata a loro dilaniata dalla violenza. Ci chiedono di liberare il passato dal velo delle tante verità nascoste o manipolate, ma anche di liberarci dalla retorica della memoria, quella memoria che usa parole d’occasione per celebrare in morte ciò che ha dimenticato o omesso di difendere in vita”. Il suo rapporto con la Chiesa. L’incontro con Bergoglio insieme coi familiari delle vittime... “È stato un momento intenso. Resta nella memoria di tutti noi l’appello del Papa a continuare senza scoraggiarsi: “Il desiderio che sento è di condividere con voi una speranza, ed è questa: che il senso di responsabilità piano piano vinca sulla corruzione, in ogni parte del mondo”. Nella Chiesa di Papa Francesco mi sento particolarmente a casa. Perché non vuole convertire gli altri e portarli al suo interno, ma apre le porte per uscire nel mondo e condividerne le fatiche. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” ha scritto Bergoglio nella Enciclica Evangelii Gaudium. Quest’anno tornate in Sicilia, c’è un rapporto particolare con quella terra? “Si può dire che proprio in Sicilia tutto sia nato. È dalla Sicilia sconvolta per le stragi mafiose del ‘92 che partirà quell’ondata di ribellione morale e fermento civile destinata nel giro di pochi anni a trasformare il nostro modo di concepire l’antimafia, richiamando i cittadini tutti a mettersi in gioco al fianco delle istituzioni, ma anche a denunciare le loro inadempienze. Fra le storie siciliane, avremo quest’anno un’attenzione speciale per le vittime del territorio di Trapani. Ricordo ad esempio Mauro Rostagno, il sociologo, attivista e giornalista torinese assassinato per la sua denuncia puntuale non soltanto dei crimini mafiosi, ma della rete di complicità di cui potevano godere. E poi i piccoli Giuseppe e Salvatore Asta, uccisi a pochi anni insieme alla loro mamma. La sorella maggiore Margherita è diventata un punto di riferimento importantissimo dentro Libera”. Nell’isola si è combattuta una battaglia importante per la legalità e a sostegno del lavoro di una magistratura non sempre sostenuta dai governi, come accade nel momento attuale in cui si depotenziano gli strumenti di legalità delegati ai giudici in nome di un presunto primato della politica... “Il conflitto fra governo e magistratura non può che indebolire la democrazia. Bisogna fare attenzione a chi cerca di far passare il ruolo di garanzia dei giudici, e quindi anche la loro attività di verifica costituzionale delle leggi, come se fosse un’ingerenza indebita. La verità è che il legittimo esercizio del potere, se pretende di svincolarsi da qualsiasi controllo, diventa illegittimo. E apre la porta a pericolosi abusi. Troppe volte abbiamo visto istituzioni corrotte fiancheggiare le mafie anziché combatterle. Ma anche laddove non esiste una complicità diretta, ci sono scelte legislative che possono avvantaggiare il mondo criminale: un mondo in continua trasformazione, che si adegua alle opportunità dei mercati. Oggi le mafie uccidono meno, ma sono più forti. Mafie transnazionali, tecnologiche e imprenditoriali, che nel nome degli affari hanno rinunciato a sfidare apertamente lo Stato e persino a farsi la guerra al proprio interno, preferendo quasi sempre agire sottotraccia: meno delitti, più profitti. Non ha neppure più senso parlare di “contaminazione” mafiosa, perché assistiamo a una sovrapposizione fra obiettivi e metodi dei boss e di un certo capitalismo liberista senza freni. La stessa ingordigia, la stessa prepotenza, lo stesso disprezzo per la vita e la dignità umana e per l’integrità dell’ambiente. Le imprese criminali agiscono stabilmente insieme a quelle legali, diventando “fornitrici di servizi” per imprenditori senza scrupoli, che apertamente ne cercano la collaborazione. Quando ci sono poteri, magari legittimati dal voto popolare, che prendono apertamente a modello la spregiudicatezza mafiosa, il pericolo che la democrazia collassi è reale. E l’equilibrio fra organi dello Stato diventa un argine da salvaguardare o ogni costo”. Caso Almasri, il Tribunale dei ministri ha chiesto documenti anche ai Servizi segreti di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2025 I magistrati potrebbero voler esaminare carteggi e interlocuzioni che ci sono state nell’organizzazione del viaggio a bordo di un volo di Stato per riportare il libico a casa. Non solo il ministero della Giustizia e la direzione centrale immigrazione del Viminale. Nelle scorse settimane il Tribunale dei ministri di Roma, che sta indagando sulla vicenda del rimpatrio del generale libico Osama Njeem Almasri, ha chiesto di acquisire documentazione anche alle Agenzie di sicurezza, ossia agli uffici dei Servizi segreti italiani. L’indagine è quella a carico della premier Giorgia Meloni, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e di quello della Giustizia Carlo Nordio e del sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano. Sono tutti stati iscritti per favoreggiamento e peculato, il solo Nordio anche per omissione di atti d’ufficio. Il fascicolo era stato aperto dalla Procura di Roma - che poi lo ha trasmesso al Tribunale dei ministri - sulla base dell’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti. L’atto dovuto del procuratore Francesco Lo Voi è diventato nella narrativa di Meloni un atto ostile: è noto il video in cui la premier, dando notizia dell’inchiesta a suo carico, parlava di Lo Voi come lo stesso procuratore del “fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”. Di lì le solite avvertenze: “Non sono ricattabile, non mi faccio intimidire”. Nel frattempo il Tribunale dei ministri ha iniziato a inviare i decreti di esibizione: alla Direzione centrale immigrazione e polizia delle frontiere del Dipartimento di Pubblica Sicurezza e anche al ministero della Giustizia, alla Corte d’Appello e alla Procura generale di Roma. Sono stati dunque acquisiti i documenti che servono per ricostruire quanto accaduto tra l’arresto del generale libico in un albergo di Torino all’alba del 19 gennaio scorso su mandato della Corte penale internazionale che lo accusa di torture e il suo ritorno a casa a bordo di un aereo di Stato dopo la scarcerazione da parte della Corte di Appello di Roma il 21 gennaio. Scarcerazione motivata per vizi procedurali e in particolare per le “mancate interlocuzioni” intercorse con il ministero della Giustizia. Documenti sono stati chiesti, nelle scorse settimane, anche alle Agenzie di sicurezza, in particolare l’Aise. Segnale questo che il Tribunale dei ministri vuole fare chiarezza sull’utilizzo del Falcon 900 a disposizione dei Servizi segreti (che hanno eseguito le indicazioni governative). Per questo i magistrati potrebbero aver chiesto carteggi e interlocuzioni che ci sono state nell’organizzazione di quel viaggio o anche delucidazioni sulle informazioni in possesso degli 007 nel momento in cui Almasri era arrivato in Italia. ?Per il ministro Piantedosi le modalità di rimpatrio del libico erano in linea con quanto avvenuto in altri casi e con governi diversi. L’aereo era volato già nella mattinata del 21 da Ciampino a Torino, prima che la Corte d’appello disponesse la scarcerazione di Almasri. Ciò, ha spiegato Piantedosi nelle scorse settimane, “rientra tra quelle iniziative a carattere preventivo, e quindi aperte a ogni possibile scenario (ivi compreso l’attuale trasferimento in altro luogo di detenzione) che spettano a chi è chiamato a gestire situazioni che implicano profili di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico”. I “motivi di sicurezza dello Stato” sono alla base del provvedimento di espulsione. Il Tribunale dei ministri ha 90 giorni per effettuare attività di indagine. Secondo quel che risulta al Fatto, nessuno degli indagati è stato finora convocato per un eventuale interrogatorio. A fine aprile si saprà se il fascicolo verrà archiviato o trasmesso con relazione motivata al procuratore Lo Voi, affinché chieda l’autorizzazione a procedere. Melfi (Pz). Detenuto di 25 anni si impicca in cella lecronachelucane.it, 16 marzo 2025 Si è tolto la vita ieri sera nel carcere di Melfi un giovane detenuto. Si tratta di un cittadino di origine tunisina di 25 anni, arrestato poco tempo fa per scontare una sentenza definitiva. Nonostante i soccorsi immediati, non c’è stato nulla da fare. A darne notizia il segretario generale della Uil-Pa - Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, il quale precisa: “Salgono così a 17 i detenuti che si sono tolti la vita nei primi 73 giorni dell’anno, cui bisogna aggiungere un operatore. La tragica media è di un suicidio ogni 4 giorni. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il Governo Meloni hanno l’obbligo politico e morale, e probabilmente non solo, di fermare la pena di morte di fatto, che colpisce random detenuti (indipendentemente dal reato eventualmente commesso) e personale penitenziario. Servono interventi urgenti per alleggerire il carico sulle carceri, dove ci sono 16mila detenuti oltre i posti disponibili; bisogna potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, ai quali mancano almeno 18mila agenti, e introdurre moderne tecnologie, compresa l’intelligenza artificiale. Urge garantire l’assistenza sanitaria e avviare riforme complessive”. Bologna. Un altro detenuto morto al carcere della Dozza di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 16 marzo 2025 Un altro detenuto morto in carcere. Un magrebino di 35 anni è stato trovato senza vita ieri mattina nel letto della sua cella. Era entrato nel carcere della Dozza di Bologna da appena una settimana. È stato il garante regionale per le persone private della libertà, Roberto Cavalieri a rendere pubblica la notizia. Da quel si sa il detenuto aveva iniziato da poco una terapia con il metadone, quando gli agenti della polizia penitenziaria sono entrati in cella non hanno trovati segni o tracce che porterebbero a pensare a un suicidio. Per questo motivo la Procura, avvisata dalla direzione del carcere dell’accaduto, ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo. Servirà a stabilire con certezza la causa della morte. A gennaio era deceduto un detenuto 40enne di origini pachistane, che mentre camminava in corridoio si è accasciato, forse per un malore. Da dicembre è l’ottavo detenuto morto nelle carceri dell’Emilia-Romagna. Una piaga che continua a segnare con ritmi vertiginosi questo inizio di 2025 con 62 morti nelle carceri italiane, 17 dei quali per suicidio. Nulla a che vedere con l’anno precedente quando si è toccato il fondo con 246 reclusi morti in tutto il Paese, 91 dei quali si sono tolti la vita. Una situazione che a gennaio ha spinto le Camere Penali di Modena e Bologna a proclamare l’astensione dalle udienze per protestare “contro le condizioni inumane e degradanti in cui versano gli istituti di pena italiani ed il frutto di politiche carcerocentriche che paiono purtroppo insuperabili nell’attuale assetto parlamentare”. Il presidente della Regione Michele de Pascale era andato in visita alla Dozza sottolineando la necessità di interventi adeguati. In regione sono 3.850 ad oggi i detenuti, un carcere come quello di Parma, con 752 ristretti, non ha mai gestito una cifra simile. Numeri da record anche alla Dozza di Bologna con 950 detenuti a fronte di una capienza di 500. Lecce. Detenuto di 30 anni muore dopo il ricovero in ospedale di Francesco Oliva corrieresalentino.it, 16 marzo 2025 I familiari: “Vogliamo capire come è potuto accadere”. Giovane detenuto, di appena 30 anni, muore per un infarto. La vittima è Cosimo Giorgino, originario di Casarano. Purtroppo due giorni fa ha accusato un malore nel carcere di borgo “San Nicola”. La disperata corsa in ospedale, il ricovero, il tentativo, rivelatosi infruttuoso dei medici, di salvargli la vita. E ora i familiari voglio avere delle risposte e capire se Cosimo poteva essere salvato e se in carcere sia stato seguito con le doverose attenzioni. Dietro le sbarre seguiva una terapia di farmaci. Ed era anche tanto ingrassato. Giorni prima aveva confidato, nel corso di un colloquio, che gli stessi medici gli avevano parlato di un quadro clinico poco rassicurante e che si sarebbe dovuto sottoporre ad una serie di accertamenti. Le sue parole sarebbero state chiare: “Mi hanno detto che sono a rischio infarto”. Due giorni fa il malore. Nonostante i soccorsi siano stati tempestivi, una volta arrivato al Vito Fazzi, è spirato poche ore dopo. La salma è stata trattenuta presso la camera mortuaria dell’ospedale del capoluogo salentino. Gli inquirenti, già nella giornata di domani, dovrebbero disporre accertamenti medico-legali nonostante ancora non sia stata depositata una formale denuncia. Il giovane era detenuto da tempo: il 4 ottobre del 2023 si presentò presso la caserma dei carabinieri di Casarano dopo alcuni giorni in cui si era reso irreperibile, destinatario di una misura cautelare per una rapina presso la tabaccheria “Cesarino Shop”, avvenuta in corso XX Settembre, a Casarano, terminata peraltro con il ferimento del proprietario che aveva tentato di opporsi, e di numerosi furti compiuti nel centro abitato del paese. “Oggi piangiamo un ragazzo di 30 anni, morto in carcere per un attacco cardiaco, giunto sì, ancora vivo, presso il Vito Fazzi due giorni or sono, ma in condizioni così disperate che ogni terapia è risultata, poi, di fatto, vana - commenta l’avvocato Luca Puce - lo piangiamo noi e lo piange la sua famiglia, moglie e figlio di neppure due anni; un ragazzo, che non più tardi di dieci giorni fa, mi confidava, nel corso di un colloquio, che gli era stato rappresentato, a chiare lettere dal personale sanitario, che era a rischio infarto. Quanto accaduto, quindi, purtroppo, non può essere ricondotto, in via esclusiva, a tragica fatalità, ma è anche il risultato di un “sistema carcere”, che, evidentemente, non funziona, che fa acqua da tutte le parti e non certamente per mancanza di professionalità in capo a chi, con tanti sforzi, nelle più svariate vesti, ci lavora all’interno, ma semplicemente per carenza di personale, di mezzi, di investimenti adeguati” prosegue l’avvocato. “Voltaire, già nel 1700, scriveva “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Del carcere, pochi parlano, una sparuta minoranza, si ha paura e si tende con molta facilità ad ignorarlo; invece, bisogna comprendere che l’idea generale di esso come luogo di contenimento, quasi di parcheggio coatto, di autori di reato, potenzialmente, pericolosi, perché dediti a delinquere, è sbagliata. E chi ci governa, - conclude il legale - questo, finalmente, dovrebbe capirlo ed iniziare ad affrontarlo con la dovuta serietà e non limitarsi, come spesso accade, a trattarlo come slogan nell’imminenza di questa o quella campagna elettorale” Foggia. Nel carcere 642 detenuti per 300 posti, tra sovraffollamento e materassi introvabili immediato.net, 16 marzo 2025 Il carcere di Foggia è ormai al limite del collasso, con 642 detenuti stipati in una struttura progettata per ospitarne 300. Un sovraffollamento del 210%, che rende le condizioni di detenzione disumane e insostenibili, come denunciato dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). Oltre alla carenza di spazi, la struttura è in emergenza anche per la mancanza di letti e materassi, mentre continuano ad arrivare nuovi detenuti senza alcun intervento per alleggerire la pressione su un carcere già saturo. “Se continua così - denuncia Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe - si dovranno ospitare i detenuti per terra”. Sovraffollamento record e gestione fallimentare - A livello nazionale, il tasso medio di sovraffollamento è inferiore al 130%, ma in Puglia la situazione è ben più grave, con una media regionale che tocca il 165% e Foggia in cima alla classifica. Questo anche a causa della chiusura della sezione reclusione, che ha ulteriormente ridotto i posti disponibili. “La gestione dei detenuti nella nostra regione è semplicemente sbagliata - accusa Pilagatti -. Se il sovraffollamento medio in Italia è sotto il 130%, come mai in Puglia si arriva al 165%? Perché Foggia è stata trasformata in una scatola di sardine, riempiendola di detenuti pericolosi, difficili da gestire e già autori di violenze contro poliziotti e altri detenuti? E soprattutto, perché le richieste di trasferimento di questi soggetti vengono ignorate, alimentando solo paura e tensioni?”. Detenuti ammassati e polizia penitenziaria sotto pressione - Il Sappe denuncia anche la totale assenza di interventi per migliorare la gestione della popolazione carceraria. “Non si può garantire dignità e rieducazione ai detenuti se i diritti minimi vengono negati”, continua Pilagatti. Un altro punto critico è il mancato trasferimento dei detenuti più pericolosi, che alimentano clima di violenza e tensione all’interno del carcere. “Le norme ci sono - spiega il sindacato - e prevedono carcere più duro e trasferimenti immediati per chi fomenta disordini. Eppure, questi soggetti rimangono a Foggia, rendendo impossibile la gestione quotidiana della struttura”. Foggia, il carcere dell’evasione di massa più clamorosa d’Italia - Il carcere di Foggia è già tristemente noto per aver registrato la più grande evasione di massa mai avvenuta in un paese civile, con 74 detenuti fuggiti nel 2020. Eppure, denuncia il Sappe, nessuno ha pagato per quell’episodio e la situazione della casa circondariale continua a peggiorare. “Oggi il rischio di rivolte, aggressioni e tentativi di evasione è più alto che mai - avverte Pilagatti -. Il personale penitenziario continua a subire attacchi, a sequestrare droga e telefonini con operazioni continue, eppure nessuno sembra voler affrontare davvero il problema”. Il Sappe chiede interventi urgenti, denunciando la totale assenza di risposte da parte delle istituzioni: “Speriamo non serva una tragedia per far muovere qualcuno. Il carcere di Foggia è fuori controllo e se non ci saranno interventi immediati, la situazione rischia di precipitare”. Cosenza. “Passo il tempo a guardare il soffitto con la paura di non esistere più” di Mariassunta Veneziano lacnews24.it, 16 marzo 2025 Il dramma del carcere nel diario di un ex detenuto calabrese. Mario ha vissuto l’esperienza del penitenziario. Dove la vita diventa spesso impossibile, tanto che qualcuno decide di rinunciarvi. Oppure vi si aggrappa, come lui, affidando a carta e penna le proprie emozioni. Di quel momento Mario ricorda prima di tutto i rumori. Di passi, il tocco pesante sul pavimento che diventa rimbombo sulle pareti, sul soffitto, per poi andare a piazzarsi al centro del petto, da dove forse non uscirà più se non per tornare a galla durante la notte, in quelle notti lunghe in cui sforzarsi di tenere gli occhi chiusi sembra l’unico modo per non far entrare quello che c’è fuori. Ma i pensieri non hanno bisogno di occhi. Al buio, escono dalle tane come pipistrelli impazziti. E i rumori sono di nuovo tutti lì. I passi e poi un cigolio, un tintinnare di chiavi, lo sferragliare dei cancelli. Mario è calabrese ma il suo è un nome di fantasia. Perché Mario è solo uno dei tanti. Quasi 62mila, secondo gli ultimi numeri disponibili. Sono i detenuti nelle carceri italiane, al centro in questi anni di continui appelli e allarmi, accompagnati spesso da casi di cronaca. Antigone, l’associazione che dal 1991 si occupa del sistema penitenziario, nel suo ultimo rapporto parla di un sovraffollamento del 130%. Un dato che racchiude condizioni di invivibilità che non troppo raramente sfociano in vicende tragiche. Perché la detenzione, da processo rieducativo e riabilitativo, facilmente diventa un viaggio all’inferno, un pozzo in cui l’umanità viene risucchiata e la risalita in superficie richiede muscoli e ossa, ma soprattutto nervi forti. A pagare il prezzo più alto non sono criminali conclamati, ma persone “normali” che hanno sacrificato la propria normalità sull’altare di scelte sbagliate. O, peggio, finite nel tritacarne di accuse che poi si rivelano sbagliate. Sono in tanti quelli che non ce la fanno, che in quel pozzo si lasciano affogare. Perché ci sono fragilità non viste prima e ignorate dopo. Uno degli ultimi suicidi in carcere di cui si è avuta notizia riguarda un uomo di origini calabresi, un 55enne che si è impiccato nella sua cella a Vigevano, dove era detenuto per una rapina da 55 euro. Arrestato a dicembre scorso, avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2027. A gennaio si è tolto la vita. Chi può invece vi si aggrappa alla vita, cercando uno sfogo alle proprie emozioni, per non lasciarsene sopraffare. Per qualcuno basta qualche foglio di carta e una penna. Per Mario è stato così. I suoi stati d’animo sono diventati un diario e il diario è diventato un amico a cui confidare rimpianti, speranze, paure anche. Quelle che ti assalgono di notte, quando il carcere mostra “i suoi lati spettrali, la sua dimensione nascosta” in cui tutto è “avvolto dentro un silenzio minaccioso, dove addirittura si possono avvertire presentimenti di cose fatali”. Un giorno hanno arrestato Mario e lo hanno portato in cella in attesa di giudizio, a Viterbo. Poi le contestazioni a suo carico sono state ridimensionate e ha ottenuto la scarcerazione. A decidere il resto sarà la sentenza del processo ancora in corso. L’esperienza vissuta, però, gli è rimasta addosso. E neanche un’eventuale verdetto di innocenza potrà lavarla via. Il carcere non si dimentica e il Mario di oggi non dimentica quello di ieri che si sveglia di notte, dietro le sbarre, oppure che non riesce proprio ad addormentarsi. E così scrive. Per non permettere alle ombre di inghiottirlo. “Cerco di sforzarmi, d’immaginare e vivere al meglio una condizione di normalità”. Nelle sue parole, la fatica di non darla vinta a quel tempo che all’improvviso ha preso a scorrere lentamente, scandito da giornate una uguale all’altra. “La vera sfida - riflette Mario sul suo diario - è diventata oggi riuscire a uscire dalla visione avvilente della carcerazione e puntare a una visione avvincente della stessa, riuscire così a cogliere e a ritrovare la straordinarietà nell’ordinario”, scovare anche nel piattume della detenzione aspetti “inattesi e sorprendenti, senza avvertire costantemente, proprio per la mancanza di libertà, un senso di inferiorità rispetto a chi vive “al di fuori”“. Ma fuori c’è anche chi sconta un’altra pena, quella dell’attesa. E lì spesso si posano i pensieri. “Una storia come la mia non può che lasciare il segno - si legge ancora -. Un segno indelebile dentro di me, nella mia mente, sulle mie mani, nelle mie rughe, ma anche inevitabilmente nei miei affetti più cari”. “L’indeterminatezza del tempo” diventa così storia condivisa, “la nostra storia”, in cui “le emozioni sul presente e sul futuro hanno inequivocabilmente perso il loro fascino legato alla progettualità, che si è smarrita, si è dissolta, all’interno di una zona grigia”. E anche l’amore cambia. E quando non si spegne diventa “più vivo, fertile, attivo”. Sono scintille di luce nelle tenebre. Momenti in cui non tutto sembra perduto. Rinchiuso in una cella, Mario li insegue questi momenti: “Nonostante sia quasi impossibile, cerco comunque di scovare, in questo spicchio di comunità, la bellezza, lo stupore, come fattori capaci di aiutarmi a ripensarmi nel mondo, e ogni giorno, esercitandomi nel vederli, provo a cambiare in meglio me stesso”. La speranza, in carcere, è una compagna che non abbandona mai completamente. Ma non riesce a nascondere il resto. La “sofferenza” che non passa, “sempre presente” anche se “silenziosa”. Quasi sempre non vista. “Faccio parte di quelle anime - scrive ancora Mario - su cui bisognerebbe saper posare lo sguardo”. Mentre lo sguardo di chi sta dentro vorrebbe correre oltre l’orizzonte ristretto di un panorama dove tutto ciò che cambia è l’alternarsi del giorno e della notte. E quel desiderio finisce di nuovo su un foglio, per evitare che diventi follia: “Vorrei tanto svegliarmi e riuscire a guardare lontano, possedere una visuale, una veduta ampia, allargata, infinita”. Fino ad abbracciare “le città lontane” e dimenticare i “momenti terribili” vissuti “con l’angoscia continua di finire nel tritacarne delle mie persecuzioni, delle mie ossessioni, del mio monologo di pensieri”. “Essere a piedi nudi su una spiaggia, a guardare la sabbia, a sentire il suo calore sotto di me”. Ecco cosa sogna Mario tra quattro mura, mentre aspetta di essere giudicato per ciò di cui lo hanno accusato. Come lui, tanti. “Spero e prego che questa storia possa concludersi il più presto possibile, perché mi sento “devastato”. Ho ben capito, durante le giornate di reclusione, cosa significhi passare il tempo senza testimoni, sdraiato a guardare il soffitto, per ore, con la paura di non esistere più, pensando di trasformarmi, da un momento all’altro, in un automa, un uomo non più capace di provare sentimenti autentici”. E forse, anche adesso che Mario è fuori ma che non tutto è finito, questi pensieri tornano. E di notte si mescolano alla paura, al ricordo spaventoso di quel passato che è “una terra abitata da soggetti troppo diversi da me, persone sanguinarie, arrabbiate, disturbanti, spaventevoli”. Mentre il presente stringe la mano al futuro. E in quel futuro c’è la volontà di cambiamento, perché nulla potrà essere più come prima. In qualsiasi caso. “Oggi, la mia parola d’ordine è e deve essere “ripensarmi”, per inventare il mio domani, iniziando con il mettere in discussione ciò che sono stato. Mi auguro davvero, e con tutto il cuore, che tale processo si compia, che io ci possa riuscire davvero”. Torino. La notte degli errori: a fronteggiare la rivolta all’Ipm agenti in servizio da due settimane di Giuseppe Legato La Stampa, 16 marzo 2025 Una relazione del Ministero svela le incredibili mancanze della notte tra il 1° e il 2 agosto: inerzia, indecisione, caschi e sfollagente chiusi in cassaforte. Pronte contestazioni disciplinari. La rivolta tra l’1 e il 2 agosto 2024 al carcere Ferrante Aporti di Torino, passata alla storia come una delle notti più travagliate in un penitenziario italiano negli ultimi 10 anni, non ha solo generato interminabili ore di guerriglia e una serie di misure cautelari per una decina di detenuti minorenni. Ha partorito anche quattro procedimenti disciplinari - la cui istruttoria è in corso - per altrettanti agenti e vice-ispettori della polizia penitenziaria in servizio quella notte. Le indagini e la relazione ispettiva - Lo si apprende da una relazione redatta dalla direzione generale del personale del dipartimento per la giustizia minorile che - pochi giorni dopo i disordini il 6 agosto - ha effettuato una visita ispettiva per ricostruire fatti ed eventuali responsabilità. Il testo - che è alla base delle contestazioni disciplinari - evidenzia “un’incredibile e gravissima sequela di errori, colpevoli e totali inerzie ed omissioni rispetto alle azioni violente poste in essere dai detenuti”. Inoltre, sottolinea “l’inettitudine totale nel dotarsi degli strumenti di contenimento (caschi e sfollagente) in quanto custoditi in una stanza all’interno di una cassaforte, sostanzialmente entrata nella illegittima disponibilità dei rivoltosi”. Gli agenti sarebbero rimasti “sostanzialmente inerti dinnanzi alle violenze dei detenuti”. Critiche anche ai vertici del penitenziario - Un atto d’accusa durissimo che utilizza toni critici - senza contestazioni formali - anche per i vertici del penitenziario. Le cause della rivolta - La rivolta sarebbe iniziata a seguito dell’arresto a carico del fratello di un detenuto italiano trovato in possesso di droga prima di entrare nella sala colloqui. Da quel momento l’agitazione all’interno dell’istituto si sarebbe trasformata in violenza pura. “Armati di pezzi di ferro” i giovani avrebbero appiccato almeno “quattro incendi accatastando finanche i libri presenti nella biblioteca” a mo’ di falò. Il personale di servizio e le carenze organizzative - A fronteggiarla - perlomeno in prima battuta - nove agenti di cui sette - si apprende da fonti confidenziali - con un’anzianità di servizio che oscillava tra i 14 e i 20 giorni. La conferma è nella relazione: “Gli operatori erano di recente assegnazione, in quanto provenienti dagli ultimi corsi di formazione, sprovvisti della necessaria esperienza e della specifica conoscenza del contesto, e pertanto bisognosi di affiancamento e di guida da parte di personale più esperto”. Errori e mancanza di procedure adeguate - Gli ispettori hanno ritenuto “inopportuno” comunicare al detenuto l’avvenuto arresto del fratello giunto per un colloquio e hanno evidenziato quanto abbiano inciso “le difficoltà sotto il profilo organizzativo-gestionale, risultate determinanti nell’evento critico”. Ecco le principali carenze individuate: L’intervento della polizia in occasione dell’iniziale principio di rivolta “è mancato di tempestività”; non vi era un efficace piano di coordinamento e di gestione delle emergenze. Con riguardo a quella notte si parla di “assenza totale” dello stesso; errore nel permettere ai detenuti inizialmente estranei alla rivolta di scendere in palestra, unendosi di fatto al gruppo più facinoroso; mancanza di procedure definite per consentire al personale di Polizia di disporre tempestivamente delle chiavi dell’armeria di Reparto, che finirono nelle mani dei giovani detenuti, rendendo impossibile per gli agenti potersi dotare di caschi e attrezzature antisommossa. Le conseguenze della disorganizzazione - Finanche “il Direttore ebbe difficoltà nel reperire le chiavi dell’armeria in cui era custodito l’armamento di Reparto” e ciò “impediva l’intervento del personale di Polizia Penitenziaria”, costringendo tutti ad attendere “l’arrivo di altri colleghi, con intuibili riflessi in termini di tempestività nella risoluzione delle criticità”. Reggio Emilia. Pestarono un detenuto, dieci agenti della Polizia penitenziaria reintegrati di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 16 marzo 2025 Sono stati riammessi al lavoro i dieci agenti imputati e processati: la sentenza escluse il reato di tortura. Non torneranno ora in servizio alla Pulce, ma saranno destinati in via provvisoria ad altre strutture. Sono stati al momento riammessi al lavoro i dieci agenti della polizia penitenziaria imputati e processati per tortura aggravata nel carcere di Reggio, reato contestato dalla Procura che, al termine del processo di primo grado con rito abbreviato, è stato riformulato dal giudice Silvia Guareschi in abuso di autorità contro detenuti in concorso. I poliziotti non erano più operativi in via obbligatoria dal luglio 2023, in virtù delle norme sull’ordinamento del corpo di polizia penitenziaria, a seguito della misura cautelare interdittiva applicata dal gip Luca Ramponi che poi fu prolungata in via facoltativa. Al momento non torneranno in servizio alla Pulce, ma saranno destinati in via provvisoria ad altre strutture carcerarie del proprio distretto di competenza territoriale. Il decreto è stato notificato nel pomeriggio di giovedì: gli agenti vengono reinseriti mantenendo la stessa qualifica finora rivestita, e per loro la decorrenza giuridica ed economica del reintegro è scattata dal giorno stesso. Il fascicolo d’inchiesta, seguito dal pubblico ministero Maria Rita Pantani, riguarda le condotte tenute verso un44enne tunisino allora detenuto a Reggio, costituito parte civile attraverso l’avvocato Luca Sebastiani: gli accertamenti si erano basati sul video delle telecamere interne. Secondo la ricostruzione accusatoria, il detenuto uscì dalla stanza della direttrice del carcere dopo averla insultata per essere stato sanzionato per violazioni del regolamento. Fu incappucciato con una federa al collo e colpito con pugni mentre veniva spinto verso il reparto di isolamento. Quindi denudato e condotto nella cella; a volto scoperto, sarebbe stato preso a calci e pugni e lasciato nudo dalla cintola in giù. Gli agenti devono rispondere anche di lesioni al 44enne - reato riqualificato nella sentenza in percosse aggravate - e di falso nelle relazioni. Il pm aveva chiesto 5 anni e 8 mesi per un viceispettore, accusato di tutti e tre i reati; 5 anni per altri sette imputati per tortura e lesioni; 2 anni e 4 mesi per i due che dovevano rispondere solo di falso. Il giudice Guareschi ha deciso le condanne, tutte quante con pena sospesa per cinque anni e non menzione nel casellario. Nei provvedimenti si fa riferimento al fatto che ora non si può fare una previsione sulla durata e sull’esito del procedimento penale, e neppure su un’eventuale conseguente misura disciplinare che potrà essere presa solo avuta la totale e definitiva conoscenza dei fatti accaduti anche sul piano deontologico. È stato ritenuto che al momento non vi siano i presupposti per proseguire la sospensione e che per tutelare interessi e immagine dell’amministrazione penitenziaria sia sufficiente una misura cautelare meno afflittiva. Nella decisione si fa riferimento ai criteri di proporzionalità, idoneità e necessità nell’applicare le misure cautelari, sanciti dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea e dalla Cedu. Il provvedimento può essere impugnato davanti al Tar o facendo ricorso straordinario alla presidenza della Repubblica rispettivamente entro 60 o 120 giorni. Taranto. Dalla parte dei detenuti, i progetti dell’assicurazione “Noi e Voi” di Gianni Bruno buonasera24.it, 16 marzo 2025 Un progetto di accoglienza per detenuti in permesso premio; un protocollo d’intesa con una rete di partner e istituzioni, tra cui la Asl di Taranto, per la promozione della genitorialità e per il sostegno psicologico a bambini e adolescenti che devono affrontare il dolore di una madre o un padre tra le sbarre; la possibilità per chi è recluso di partecipare in presenza al Giubileo dei detenuti che si terrà a Roma dal 12 al 14 dicembre. Sono alcuni dei progetti messi in piedi dall’associazione “Noi e Voi” Onlus per l’anno santo indetto dal pontefice e presentati negli scorsi giorni al Mudit, in un incontro, a cui ha partecipato anche il garante regionale per i detenuti Piero Rossi, che è stato anche l’occasione per alcune realtà associative e club service di formalizzare donazioni a supporto di chi vive nel carcere Carmelo Magli di Taranto. Papa Francesco tiene particolarmente ai detenuti. Prima che le sue parole, nei 12 anni del suo pontificato, hanno parlato i suoi gesti. Nel 2013, a pochi giorni dalla sua elezione, in occasione del Giovedì Santo, pensò di lavare i piedi in un carcere minorile. Ed in occasione dell’indizione del Giubileo è tornato a chiedere con forza, ai governi, amnistia o condono della pena e percorsi di reinserimento nella società per chi ha commesso un reato. “La prima porta santa aperta dal Papa - racconta il presidente dell’associazione “Noi e Voi”, don Francesco Mitidieri - due giorni dopo quella di san Pietro, il 26 dicembre scorso, è stata in una struttura carceraria, a Rebibbia. L’ultimo evento pubblico dell’anno santo sarà il 14 dicembre proprio con i detenuti. Per noi questa è un’occasione forte da utilizzare per chiedere alle autorità competenti, per coloro che non hanno un permesso idoneo, di poter soggiornare per qualche giorno nel convento di santa Maria delle Grazie di Soleto, nel leccese e partecipare poi al Giubileo a Roma. Porteremo avanti anche un protocollo d’intesa con la Asl per il sostegno ai genitori limitati nella loro libertà personale ma soprattutto ai loro figli, che spesso reprimono i disagio provato o lo somatizzano. Per fare tutto questo l’appello è sempre alla città”. Durante la serata nella sala conferenze del Mudit, il Lions Club Taranto Poseidon, con il presidente Antonio Vito Altamura, ha donato biancheria intima destinata a chi in questo momento si trova in carcere, l’Azione Cattolica diocesana rappresentata dalla presidente Letizia Cristiano, invece, ha voluto devolvere le offerte raccolte nella Giornata della Pace al progetto dell’associazione ‘Noi e Voi’ chiamato “Oltre l’Ombra”, pensato in favore di minori e neo maggiorenni inseriti nel circuito penale o a rischio devianza. All’incontro ha portato la propria testimonianza anche Pierluigi Barbaro, maestro pasticciere della Fiery Potest Pastry Lab, la pasticceria che si trova all’interno del carcere di Taranto, gestita dalla cooperativa ‘Noi e Voi’. Dopo i panettoni, 3000 quelli venduti per lo scorso Natale, si punta a fare altrettanto per le colombe, mentre si garantisce un’entrata e si insegna una professione a chi spera in un futuro diverso. È già accaduto con alcuni, che adesso, scontata la pena, dopo l’esperienza nel laboratorio di via Magli, lavorano come panificatori. Orvieto (Pg). “Voci e colori di speranza. Lo sguardo al futuro dei detenuti” orvietonews.it, 16 marzo 2025 Martedì 25 marzo alle ore 11.00, presso il Museo “Emilio Greco” di Orvieto, la Casa di reclusione di Orvieto e la Caritas diocesana di Orvieto-Todi presenteranno il volume “Voci e colori di Speranza. Lo sguardo al futuro dei detenuti della Casa di reclusione di Orvieto per l’Anno Santo 2025”. Il volume raccoglie i lavori realizzati dai detenuti che hanno preso parte al laboratorio di pittura tenuto dall’artista Salvatore Ravo e a quello di scrittura guidato dall’arteterapeuta Anna Crispino. Filo condutture dell’intero volume è la speranza, tema dell’Anno giubilare in corso. I quadri realizzati e le poesie composte hanno fatto sì che ciascun detenuto “scegliesse - come scritto dalla direttrice della Casa di reclusione di Orvieto, Annunziata Passannante, e dal capo area educativa, Paolo Maddonni - il proprio modo per esprimere, con le parole o i colori della speranza, a che punto è arrivato con la riflessione sul proprio essere un uomo”. Interverranno mons. Gualtiero Sigismondi vescovo della Diocesi di Orvieto-Todi, Annunziata Passannante direttrice della Casa di reclusione di Orvieto, Enrico Gregori comandante di reparto Polizia penitenziaria, Paolo Maddonni capo area educativa, Salvatore Ravo artista e conduttore del laboratorio di pittura, Anna Crispino arteterapeuta e conduttrice del laboratorio di scrittura, don Marco Gasparri direttore della Caritas diocesana di Orvieto-Todi, Andrea Taddei presidente dell’Opera del Duomo di Orvieto. La presentazione del volume sarà arricchita da interventi musicali del pianista Riccardo Cambri e della cantante Anna Crispino e da alcune testimonianze dei detenuti, autori dei lavori presentati nel volume. L’incontro sarà moderato dal giornalista Gabriele Anselmi. Hanno collaborato alla realizzazione dell’evento l’associazione culturale Aitia, la Scuola comunale di musica “Adriano Casasole” di Orvieto, l’UniTre di Orvieto. Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare. Sassari. Dal carcere agli archivi del Parco dell’Asinara per regalarsi una nuova possibilità di Gavino Masia La Nuova Sardegna, 16 marzo 2025 I detenuti di Bancali impegnati nella digitalizzazione del patrimonio archivistico dell’area protetta. Continua la collaborazione tra la Casa circondariale di Bancali e il Parco nazionale dell’Asinara, attraverso l’attività legata agli studi archivistici del carcere dell’isola. Ormai è quasi completato il riordino e la digitalizzazione dei fascicoli personali dei detenuti, mentre si sta portando a compimento anche lo studio dei registri. Il lavoro è nato dall’esigenza di raccontare la storia recente del Parco attraverso il recupero di registri, fascicoli, carte, fotografie, testimonianze orali ed utensili di vita quotidiana. Oltre a censimento, schedatura e riordino delle carte, prendeva forma anche l’idea di realizzare un Osservatorio sul periodo di attività della colonia, con l’obiettivo di allestire le vecchie camerate e le celle di isolamento e punizione. La collaborazione tra gli Enti è molto proficua anche con l’archivio di Stato, che ha l’esigenza di mettere in sicurezza dei documenti preziosi che si trovavano in condizioni di conservazione precaria. L’aspetto più innovativo dell’iniziativa è stato il coinvolgimento dei detenuti nel recupero del materiale. Le carte liberate dall’oblio diventano così metafora di un passato che si apre al presente e possono essere importanti elementi per una conoscenza più approfondita dell’intero mondo carcerario. Durante il lavoro sono state selezionate migliaia di descrizioni di luoghi e storie, testimonianze, lettere e pensieri di reclusi provenienti da ogni parte d’Italia. Un ricchissimo caleidoscopio di vite umane, località e curiosi aneddoti, affiorato dai numerosi fascicoli personali custoditi negli archivi. In carcere le diverse anime della società civile si incontrano, si contaminano, provano a convivere. Nella stessa camerata si possono trovare l’analfabeta, il professore, lo scrittore, l’eroe militare, lo stalker, l’assassino. Storie diverse, di vite dimenticate, di soprusi, di violenze, di emarginazione, di errori giudiziari. Parallelamente, nel progetto si sono alternati una quarantina di detenuti con le loro storie di vita personale e voglia di riscatto. La storia di Ylli - Proprio la scorsa settimana uno dei detenuti, Ylli Ndoj, di origini albanesi, residente in Italia dal 1994, ha completato la sua partecipazione al progetto che durava dal 2017 e oggi si trova in libertà condizionale, in attesa di rientrare nella sua famiglia di origine. La storia di Ylli inizia dall’età di 14 anni, quando era tra i più bravi della scuola e tutti pensavano che sarebbe diventato un dottore o un avvocato. Invece, complice il cambio politico dell’Albania e lo scoppio della guerra civile nel 1991, lo costrinsero a lasciare il suo Paese e arrivare clandestinamente in Italia. Dove venne inserito in alcune attività illecite e iniziò ad essere accusato di reati, in una gradualità crescente sino ad una condanna di 30 anni nel 2005. “Da quando sono stato trasferito a Bancali - racconta Ylli - ho impegnato le mie giornate con la lettura, lo studio e i primi lavori grazie all’area educativa che mi ha dato fiducia. Dal 2017 ho iniziato il progetto legato all’Asinara, prima all’interno del carcere e poi, grazie ai benefici dell’articolo 21 della semilibertà, ho potuto lavorare negli uffici del Parco a Porto Torres. Oggi finalmente, grazie anche a questo lavoro e al mio impegno, a tutte le persone che durante questi anni mi sono state vicine e mi hanno incoraggiato, dall’area educativa del carcere di Bancali al personale del Parco, mi è stata concessa la libertà”. Lettera a Sergio Ramelli, ostaggio ucciso da un odio degli estremismi senza memoria nero e rosso di Ermanno Paccagnini Corriere della Sera, 16 marzo 2025 Chiude il suo viaggio negli “anni di piombo”: dopo la vicenda del cugino brigatista, affronta quella del ragazzo di destra massacrato da un commando di Avanguardia operaia. Una lettura letteraria e una lettura storica. Con “Uccidere un fascista” Giuseppe Culicchia viene a chiudere il cerchio della sua rivisitazione degli anni Settanta, “anni di piombo”, dopo Il tempo di vivere con te (2021) e La bambina che non doveva piangere (2023), tutti Mondadori. Una rivisitazione attraverso tre figure: il cugino Walter Alasia nel primo e la madre di lui, Ada Tibaldi, nel secondo. E ora, a specchio con il primo, storia di due ragazzi “di ieri” uccisi “nel pieno della giovinezza”, il terzo pannello del trittico: “Sergio Ramelli, una vita spezzata dall’odio”. Uno sguardo che, se ha come scenario la “stagione dell’odio”, va però anche oltre i confini, partendo dalla “guerra civile” che “non è finita mai. Perché ha saputo piantare i semi dell’odio” che, passando “di generazione in generazione”, ha lasciato per terra “nel mezzo, tante, troppe vite spezzate”, come appunto queste due. Una rivisitazione che Culicchia conduce attraverso un duplice strumento. Stilistico: ovvero in forma di lettera a Sergio. E strutturale: con un procedere “a fisarmonica” nella narrazione (con i luoghi dei fatti che si raccontano), che può ben essere sottolineato da quei: “Fammi allora tornare per un momento all’origine di tutto, Sergio, prima di raccontare i tuoi ultimi giorni di vita e quel che accadde dopo”; “Sergio, credo valga la pena rendere un’idea del clima che si respirava a Milano in quegli anni”; “Tu perdonami ancora, Sergio, se ci sto mettendo tanto ad arrivare al racconto del ragazzo che eri e che sarai per sempre, al modo in cui sei stato ucciso e a come il tuo ricordo sia ancora motivo di disturbo per tanti, troppi”. Un procedere ricostruttivo da raccontatore di “storie”: non solo delle vicende di Sergio, ma anche dei vari contesti politici, ideologici, organizzativi, di omertà, sino a certo fariseismo dell’informazione e soprattutto a “una latitanza di coscienze” (così Gaspare Barbiellini Amidei sul “Corriere” del 21 settembre 1985), nel mentre vengono dipanandosi preparativi dell’agguato, stillicidio di Sergio, omicidio, indagini, processo, sino all’oggi dei colpevoli, tra i quali “c’è chi ha fatto carriera sino a ricoprire prestigiosi incarichi ospedalieri”. Tutto con rigoroso ricorso alle fonti (e corpose note a fine volume); con tanto di avviso: “Non è opera di fantasia, se non per alcuni dialoghi e passaggi che l’autore è stato costretto a ricostruire ricorrendo alla sua immaginazione poiché non era presente al momento dei fatti”; e di reattiva motivazione: “Noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia” di Pier Paolo Pasolini. Una narrazione che, pur nel ricordato andamento a fisarmonica, non ti molla (tanto più se in quegli anni c’eri), nel suo procedere anche riflessivo e interrogativo: su ciò che ha rappresentato e rappresenta quel “fatto” in sé e in parallelo con quanto accaduto, su sponda opposta, al coetaneo Walter Alasia: ad accomunare i quali (e non solo loro) “non c’erano in realtà solo la fede calcistica, la moda dei blue jeans e dei capelli lunghi, l’ammirazione per gli indiani d’America” ma “istanze di giustizia sociale, innanzitutto”, e l’anelito “a un mondo diverso”: sia pur perseguito in modi differenti, dato che “al contrario di Walter, però, Sergio non aveva commesso alcun atto violento”. Un Sergio ucciso per le sole sue idee: per aver scritto un tema, “contro le Brigate rosse” che alcuni mesi prima avevano assassinato due militanti del Msi. Vittima del metodo standard di Avanguardia operaia: “Nel momento in cui si era certi che il “fascio” di turno si sarebbe trovato per strada da solo, la squadra incaricata lo circondava per poi colpirlo sul capo con chiavi inglesi Hazet 36, fino a farlo cadere a terra privo di conoscenza. Quei colpi avevano un che di simbolico. Era come se si volesse estirpare un pensiero non conforme. A chi ha idee diverse dalle nostre, noi gli sfondiamo il cranio”. E cercando “di raccontare ogni cosa con onestà, guardando alle persone e ai fatti per quello che erano o che sono, senza indossare le lenti oscurate dell’ideologia”: che mi pare intento conseguito anche narrativamente (con il solo appunto d’un fastidioso refuso). La figura di Sergio Ramelli, giovane militante del Msi assassinato cinquant’anni fa a Milano nella primavera del 1975, è doppiamente prigioniera di chi lo ha trasformato in un simbolo sulla base dei propri pregiudizi faziosi. Lo spiega molto bene Giuseppe Culicchia nel libro Uccidere un fascista (Mondadori). Per gli estremisti neri Ramelli è uno dei loro: un martire neofascista da onorare ogni anno, con grande sfoggio di saluti romani, nel luogo in cui fu aggredito. Scompare la realtà di un ragazzo che certo era iscritto al Fronte della Gioventù missino, ma non risulta abbia mai dato prova di fanatismo. Sergio vivo, per coloro che oggi lo celebrano, sarebbe stato probabilmente un avversario da criticare, sia pure all’interno della stessa area politica, in quanto rappresentante di un’ala legalitaria e opportunista. C’è però un’altra faccia della medaglia. Il tentativo reiterato di screditare la memoria di Ramelli onde trovare un barlume di giustificazione a un crimine che, per le modalità efferate e vili dell’agguato compiuto da diversi aggressori muniti di pesanti chiavi inglesi contro un giovane disarmato, suscita un’istintiva repulsione a prescindere da qualsiasi considerazione ideologica. Capita così che sia stata dolosamente proiettata su Ramelli l’ombra della violenza neofascista, che certo negli anni Settanta era una realtà diffusa, ma che con lui non aveva nulla a che fare. Le prepotenze e le angherie semmai il giovane missino le aveva subite, come racconta Culicchia, tanto da doversi ritirare dall’istituto tecnico che frequentava, dove era già stato oggetto di aggressioni per le sue idee da parte degli studenti di estrema sinistra. Peraltro la persecuzione della famiglia, con minacce, telefonate anonime, scritte sui muri, proseguì imperterrita anche dopo la sua morte. Eppure può capitare di sentir dire (chi scrive lo ha ascoltato con le sue orecchie anni fa), da parte degli attuali frequentatori dei centri sociali, che Ramelli “di mestiere faceva il picchiatore fascista”, quando semmai i picchiatori - non di mestiere, ma comunque brutali - erano i militanti del servizio d’ordine di Avanguardia operaia che lo ridussero in fin di vita (morì dopo un mese e mezzo di straziante agonia) e che vennero condannati anni dopo dalla magistratura milanese, tra le proteste di chi ancora solidarizzava con loro in nome di una concezione distorta dell’antifascismo. Il nodo, difficile da accettare per la sinistra più settaria, è che l’antifascismo di per sé, in quanto atteggiamento negativo, non è affatto sinonimo di piena adesione ai valori costituzionali. Può esistere un antifascismo intollerante e violento, capace di azioni squadriste simili a quelle delle camicie nere: non erano forse antifasciste le Brigate rosse? Spesse volte in realtà dietro il richiamo verbale all’antifascismo si cela un oltranzismo di sinistra propenso a bollare come “fascisti” tutti coloro che la pensano in modo diverso. Così diventa solo un modo per legittimare posizioni estreme. Del resto un meccanismo simile, nella storia dell’Italia repubblicana, è stato attivato anche a destra, allorché i neofascisti si autodefinivano “anticomunisti” per stendere una patina di presentabilità sulle loro pulsioni autoritarie e nostalgiche. Culicchia già ha dedicato un libro al giovane brigatista Walter Alasia, ucciso nel 1976 in uno scontro a fuoco in cui morirono anche due poliziotti. E questo suo lavoro contribuisce altrettanto a una ricostruzione onesta della violenza dilagante negli anni Settanta. Lascia tuttavia perplessi la sua tendenza ad accreditare la tesi dietrologica per cui il terrorismo italiano fu il prodotto di ingerenze straniere volte a stabilizzare l’assetto fondato sull’egemonia della Dc. A parte la mancanza di prove convincenti, nel nostro Paese purtroppo la violenza politica ha una storia più che secolare (lo ricorda lo stesso Culicchia) e la polarizzazione ideologica degli anni Settanta era un terreno assai fertile per farla esplodere, senza bisogno di alcun “grande complotto”, anche se certamente trame eversive ce ne furono, alcune con la complicità di pezzi dello Stato. Perché il Manifesto di Ventotene non basta più di Andrea Malaguti La Stampa, 16 marzo 2025 “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare esso stesso un mostro. Quando guardi a lungo un abisso anche l’abisso ti guarda dentro”. Friederich Nietzsche. Stiamo guardando l’abisso. E l’abisso guarda dentro di noi. Sabato mattina, poche ore prima della manifestazione organizzata da Michele Serra in piazza del Popolo, a Roma, per chiedere più Europa e più pace, obiettivi larghi sui quali è difficile essere in disaccordo. Mi chiama Gabriele Segre. È a Gerusalemme, dove vive ormai da qualche mese. Gli chiedo come vanno le cose e lui, con la lucidità di sempre, mi racconta cosa succede a un mondo perennemente schiacciato dalla paura del conflitto, soffocato da una tregua destinata a non durare a lungo. Riflettiamo rapidamente sul fatto che ormai la parola guerra è entrata nei nostri discorsi quotidiani. Al pari della parola Trump. Non c’è un dibattito che possa farne a meno. Stiamo cambiando, inesorabilmente, un pezzo ogni giorno. Si trasforma il nostro modo di pensare. La scala delle nostre priorità. Siamo schiavi di un discorso pubblico che non lascia scampo, condizionato dalle scelte muscolari dei Grandi della Terra. Siamo nelle loro mani. “Ho paura che il senso di disagio che si prova qui presto lo si respirerà in tutta Europa”, mi dice. Guardiamo nell’abisso. È tornato in Israele dopo sei mesi a Torino. La sensazione che gli rimane addosso è quella di una roccia scavata da una goccia che non smette più di cadere. “I sentimenti che avevamo nei mesi successivi al 7 ottobre sono sempre più presenti nelle nostre coscienze. Abbiamo paura che una soluzione non arriverà mai. La mancanza di fiducia nella politica è pressoché definitiva. Non credo la recupereremo. È qualcosa di irrazionale”. Alla fine dell’analisi non so più se sta parlando di Israele o di Bruxelles, del Medio Oriente o dell’Occidente. Temo che non ci sia nessuna differenza e che la piazza di Roma sia lì per questo. La società civile che grida alla politica: avete fallito, dove siete spariti, non lo vedete che abbiamo bisogno di aria nuova, di meno armi e più idee? Applaudo anch’io a Michele Serra che dice: “Siamo tanti perché siamo un popolo, diversi ma europei”. Giusto. Buon punto di partenza. Ma ora? Se fossimo nel 1951 il luccicante raduno romano sarebbe un trionfo. Settantaquattro anni dopo De Gasperi è frustrante essere ancora alle manifestazioni sentimentali, in cui bisogna fare slalom dialettici per evitare la parola Zelensky (con l’eccezione Scurati). Certo, in un Paese di servi sciocchi e osannatori a cottimo, questi trentamila partigiani del buonsenso riempiono il cuore. Anche se non è facile dire di che cosa. Siamo alla prepolitica. Il dibattito sui contenuti chi lo guida? Tre domande. Mandiamo le armi all’Ucraina? Non le mandiamo? Ogni Paese si muove per conto proprio o l’Europa, Gran Bretagna inclusa, crea una forza difensiva condivisa, comune, larga, capace di compensare il disimpegno americano nella Nato e di impedire alla Russia di spaventarci semplicemente facendo bu? Voto per la terza opzione. Adesso che l’ombrello americano si sta chiudendo, essere pacifisti diventa più complicato. Theodore White, grande cronista delle campagne presidenziali americane, ogni quattro anni scriveva un libro: “The making of the President”. La tesi dell’ultimo era: l’America deve scegliere se essere un luogo o una nazione. È esattamente il problema che ha l’Europa Se sei una nazione hai un proposito, se sei un luogo sei banalmente un terminale. Ci penso mentre un collega torinese mi racconta la storia di Artemio, un bambino di sei anni, ucraino, che arriva nel Verbano assieme alla sua mamma per visitare la nonna che lavora come badante in una casa con terrazzo da cui si vede il Lago Maggiore. Artemio è ipnotizzato dalla bellezza di quel posto. Dalla pace. Ma non riesce a nascondere l’inquietudine. Dice alla nonna: “Dov’è la Russia?”. La nonna lo guarda con tenerezza. Lo prende e in braccio e gli chiede: “Perché vuoi sapere dov’è la Russia e non l’Ucraina?”. Il bambino la folgora. “Perché voglio sapere se i russi ci vedono”. Suppongo voglia dire: perché, se i russi ti vedono, ti sparano. Lo ha imparato sulla sua pelle. Aveva tre anni quando la guerra è iniziata. È cresciuto in un mondo fatto di esplosioni, fughe, case crollate, lacrime e paure. L’insicurezza è la sua unica compagnia. Così, quando vede passare gli aerei si chiede allarmato: “Non ci andiamo a nascondere nel rifugio?”. “No, piccolo, qui nessuno ti farà del male”. E, mentre osserva i bambini come lui che giocano sul prato, ragiona: Qui è bello, perché le sirene non suonano mai”. Questo fa la guerra sui bambini. Dunque, che cosa dobbiamo ad Artemio? W la piazza, ma la politica che fine ha fatto? Chi prova a intestarsi l’energia buona trasmessa da un’adunata intelligente, colta, fine e aureolata di glorie antifasciste, ma che non può non sentire in maniera acuta la sua insufficienza? Oggi, dopo essersi detti un po’ enfaticamente, quanto fosse bello il Manifesto di Ventotene, ne occorre uno nuovo, contemporaneo, incardinato a ideali condivisi. Gli interessi di Roma, Madrid, Parigi e Berlino sono diversi da quelli di Varsavia, Tallin e Stoccolma e non si vede un leader continentale capace di comporli. Lo spettacolo offerto questa settimana dall’Italia a Bruxelles è deprimente. Il governo è diviso, con la Lega salviniana spalmata sulle posizioni filo-putiniane incarnate dalla chiassosa portavoce di Mosca - Marija Zacharova - che attacca il Quirinale. E il Pd, incomprensibilmente lontano dalle posizioni del gruppo dei Socialisti Europei, che si spappola rinnegando le indicazioni di Elly Schlein. Il dentifricio è uscito dal tubetto. La segretaria è costretta a un braccio di ferro con l’ala senatoria e centrista del suo partito. Forse ha ragione Marco Follini quando dice che “il Pd raccoglie più di ogni altro partito la grande tradizione politica del Paese. Ma il Paese non risponde più alle logiche della politica e il Pd non sa più da che parte stare. Ed è inutile invocare un Congresso, quello lo ha già vinto Schlein nei gazebo. E lo rivincerebbe di nuovo”. Sembra un vicolo cieco. Mentre mi allontano dalla manifestazione, un collega ottimista mi raggiunge. “Sei un fanatico delle citazioni, te ne regalo una di Seneca: non è perché le cose sono difficili che non osiamo, ma è perché non osiamo che sono difficili”. Non male. È più ottimista di me. Ormai il sole è calato da un pezzo e la piazza resta vuota, immersa in una oscurità senza rive. Lo ha sentito qualcuno il grido partito da Roma? I pacificatori disinteressati alla pace di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 16 marzo 2025 Grande manifestazione ieri a Roma in Piazza del popolo, ma di quale popolo? Qual è il suo valore politico se inequivocabilmente si poteva partecipare sia con le bandiere della Nato, come sollecitava qualcuno, sia con quelle della pace (ma non con la bandiera del popolo palestinese)? Possibile che non venga il sospetto che una così indistinta convocazione sull’argomento Ucraina possa essere piegata nella direzione cogente e attuale della leadership dell’Unione europea? Lì dove garrisce al vento la bandiera blu con stelle del ReArm Ue? La sintonia temporale con la decisione di von der Leyen e dei 27 Paesi Ue di avviare un mega-programma di riarmo di 800 miliardi di euro per ognuno degli Stati membri - altro che “difesa comune” - è allarmante. Stracciati Patto di stabilità e fondi di coesione, si può fare per la preparazione alla guerra quello che per sanità e welfare era tassativamente proibito. Addio alla frugalità, riempiamo gli arsenali. E così, tanto per contraddire la volontà ondivaga di Trump che scarica gli alleati occidentali sui costi della Nato, ecco che decidiamo un fondo mostruoso per acquistare le armi Usa, le uniche sul campo, nascondendo che entriamo in uno scenario appena malcelato di doppia spesa, più soldi per le armi a ogni Stato e più soldi all’Alleanza atlantica; verso una prospettiva ancora più devastante per il patto sociale europeo - e la sua tenuta democratica - , dell’avvio di una economia di guerra che trasformi ogni produzione materiale e immateriale in nuova arma: meno automobili più carri armati, altro che green deal. Il made in Italy concorrerà all’autoproduzione di nuovi cacciabombardieri fiammanti, magari con l’improbabile e rischioso auspicio che tutto questo farà crescere Pil e occupazione, e non invece più propensione ai conflitti amati e alla violenza, insieme a una trasformazione delle basi valoriali della nostra democrazia costituzionale e non solo per l’articolo 11 che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali, ma per l’evidente trasformazione dei contenuti della convivenza civile. Perché l’obiettivo di un’Europa come fortezza armata, alternativo alla sua fondazione come baluardo di pace per l’esperienza recente della Seconda guerra mondiale, aiuta solo la crescita della destra e dei nuovi fascismi in tutto il Continente. Una grande manifestazione ieri in piazza del Popolo dunque, che, però, a questi interrogativi non risponde. Arriva invece solamente la risposta, sbagliata, del premier britannico Starmer che ha convocato - dopo quella di Macron - una riunione di circa 25 Paesi alleati dell’Ucraina, per costituire una “coalizione dei volenterosi” (Co.Vo. sarebbe l’acronimo), ripescando dalle acque limacciose della storia una terminologia a dir poco infausta - andate a vedere le distruzioni e massacri che abbiamo commesso con i “volenterosi” per invadere l’Iraq nel 2003, allora tra i volenterosi come terzo contingente c’era pure l’Ucraina. Tralasciando un giudizio su tutte le guerre “volenterose” e “umanitarie” che abbiamo promosso negli ultimi trent’anni, dalla Somalia all’ex Jugoslavia, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Siria. Stavolta “volenterosi” a fare che, quando non c’è ancora non solo una pace duratura, ma nemmeno la tregua o un timido cessate il fuoco? Starmer, Macron e Zelensky si avviano a definire l’elenco, l’area dei partecipanti a un’eventuale operazione di peacekeeping. Per questo il premier britannico convoca per giovedì a Londra una “riunione operativa” a livello di vertici militari con i Paesi alleati disposti a discutere di un futuro schieramento di “sul terreno” e di “aerei nei cieli”, a garanzia della sicurezza dell’Ucraina, dopo il raggiungimento di accordi di pace. Ecco il punto: ma a garantire un eventuale cessate il fuoco è possibile che siano schierate forze militari di Paesi Nato che, per interposto ruolo, hanno sostenuto in armi l’Ucraina dal 2014, ricordava l’ex segretario Nato Stoltenberg? Accetteremmo forse per questa funzione di mediazione armata la Bielorussia o la Corea del Nord che hanno sostenuto in armi Putin? L’idea di vere forze armate da terra, dal mare e dal cielo pronte ad intervenire per salvare il cessate il fuoco altro non è che la continuazione della guerra con i nostri eserciti; è una scelta “irachena”: è la famigerata No-fly zone dei vincitori per colpire i vinti. Qui la situazione sul campo è ben diversa. Oltre allo stallo c’è la drammatica difficoltà dell’esercito ucraino, non solo per mancanza di armi ma anche per le diserzioni. Qui una forza di interposizione o è davvero neutrale e per questo capace di fermare ogni provocazione e ogni mira espansionista di zar Putin, oppure come i “volenterosi” iracheni è benzina sul fuoco di un nuovo conflitto mondiale. Solo le Nazioni unite, ancorché vilipese e bombardate anche da Trump - ma sarà costretto a farci i conti con l’Onu e il Sud del Mondo -, hanno ancora questo potere e diritto internazionale di intervento di mediazione, anche con la forza e i caschi blu, al di sopra delle parti in guerra. L’unico augurio è che la piazza romana sia sì di volenterosi, ma contro i giochi di guerra. Concludendo. Ma, noi europeisti e anti-nazionalisti convinti, siamo davvero sicuri che la bandiera di questa Ue ridotta in armi e nuovi muri sia la giusta difesa della democrazia? A Belgrado, nel sud-est europeo, ieri da tutta la Serbia è sceso in piazza un vero oceano di manifestanti, una nuova generazione insieme a quella più anziana, tutti contro la corruzione. Dopo la tragedia della tettoia crollata a Novi Sad nel novembre 2024, protestano da quattro mesi contro il malaffare di un governo del privilegio e del favoritismo, alimentato da investimenti predatori cinesi con subappalto francese, da quelli degli Emirati per stravolgere il centro della capitale, dai contratti della Germania e dell’Ue per accaparrarsi il litio della regione di Jadar, dalla vendita di decine di caccia Rafale gestita direttamente da Macron, e dalla famiglia Trump, sodale del potere serbo, che si compra i resti dei ministeri bombardati dalla Nato nel 1999. Ebbene in piazza ieri, come in questi quattro mesi, non c’era una sola bandiera dell’Unione europea. Più spese per le armi: favorevole solo un italiano su tre di Alessandra Ghisleri La Stampa, 16 marzo 2025 Il 50% degli intervistati resta contrario al finanziamento e all’invio di armi all’Ucraina. Il 46% vede favorevolmente il riarmo dell’Europa, ma le ambiguità della maggioranza disorientano. L’Europa - con l’Italia - ha sostenuto l’Ucraina in questi 3 anni nel conflitto con la Russia principalmente attraverso aiuti economici, sanzioni contro Mosca e forniture militari. Questo posizionamento ha rafforzato il legame con Kiev, ma ha anche reso l’Ue meno percepita come un mediatore neutrale agli occhi della Russia e di fronte ai Paesi del mondo. Tuttavia, questo non significa che L’Europa non possa avere un ruolo nel dialogo per la pace, proprio per gli stessi interessi di tutte le parti in gioco nella stabilizzazione del conflitto, visto la vicinanza geografica e le conseguenze economiche. In questa direzione ci dovrebbe essere comunque un’unità di intenti tra i diversi Stati e tra i partiti politici degli stessi, ma purtroppo così non è! I cittadini italiani si sentono confusi. La difficoltà di orientarsi tra le molteplici visioni che ogni giorno vengono presentate e il fatto che la nostra nazione si trovi al centro di un mix di incertezze politiche, timori economici, disinformazione e divergenze ideologiche interne al Paese, non fa che amplificare il disordine e il caos interpretativo. Dall’inizio del conflitto - febbraio 2022 - nel monitoraggio mensile realizzato da Euromedia Research in questi 3 anni, un cittadino su due (media ponderata 49.9%) è sempre stato contrario all’invio di armi all’Ucraina come misura di difesa dell’indipendenza ucraina, mentre il 38.5% (media ponderata) è sempre stato favorevole. Oggi, la proposta di aumentare le spese militari, considerata la rovente situazione internazionale, trova il 33.5% di favorevoli tra coloro che appoggiano la possibilità di fare ulteriore debito (24.9%) e coloro che sacrificherebbero spese di altri settori come sanità, istruzione, infrastrutture. I contrari ad aumentare gli investimenti negli armamenti si distinguono nettamente con il 54.6% dei consensi a livello nazionale, tra cui emergono gli elettori della Lega (70.2%), del Movimento 5 Stelle (68.4%) e di Alleanza Verdi e Sinistra (61.3%) come molto scettici. Comunque, anche tra le file di Fratelli d’Italia si respira un’aria dubbiosa su questo progetto con il 48.8% dei contrari e il 39.2% dei favorevoli. La complessità del conflitto pone il giudizio degli italiani in una posizione assai complicata. La guerra in Ucraina è un conflitto molto articolato, che coinvolge interessi geopolitici molto complessi (come quelli tra la Nato, l’Ue, la Russia, l’America, …) e il nostro Paese, non presentandosi con una posizione univoca, come emerge dal sondaggio di Euromedia Research per Porta a Porta, genera ulteriore ansia e incertezza tra gli italiani, che non riescono a comprendere quale sia la via “giusta” per una soluzione chiara all’orizzonte. Il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha presentato un piano in 5 punti che prevedrebbe investimenti per circa 800.00 miliardi di euro per mobilitare e sostenere la difesa Ue. Il 45.9% degli italiani sarebbe favorevole, tra questi il 22.0% si dimostra grande sostenitore per indirizzare più fondi per stanziamenti legati alla difesa dei confini europei, mentre il 23.9% sarebbe bendisposto a sposare queste posizioni, ma per cifre meno importanti. Il 36.2% degli italiani invece si dimostra fermamente contrario a questo possibile finanziamento. Gli elettori di Matteo Salvini (Lega 51.0%) e di Giuseppe Conte (Movimento 5 Stelle: 46.7%) si allineano sul rifiuto del piano della Presidente della Commissione europea. L’Italia ha una lunga tradizione pacifista, rafforzata dall’articolo 11 della Costituzione - “L’Italia ripudia la guerra” - ma, essere pacifisti e difendere i propri territori non dovrebbe essere in contrapposizione con tali precetti. L’Ucraina, essendo stata invasa, si trova in una posizione in cui la difesa del proprio territorio è vista come una necessità di sopravvivenza. Molti Paesi che sostengono Kiev lo fanno non perché favorevoli alla guerra, ma perché ritengono che senza resistenza l’Ucraina perderebbe la propria sovranità e in un domani potrebbe capitare a qualche altro Stato. L’Europa del Manifesto di Ventotene sembra oggi più fragile e distante rispetto all’idea originaria di un’Unione basata su pace, solidarietà e integrazione politica. Il progetto europeo immaginato nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, puntava a superare i nazionalismi e costruire un’Europa federale capace di prevenire nuovi conflitti. Ad oggi il progetto europeo è sempre in bilico tra integrazione e frammentazione. La Ue è più che mai messa alla prova da tensioni geopolitiche, dall’ascesa dei nazionalismi e da un crescente scetticismo tra i cittadini. Ai leader europei rimane la responsabilità di riformare l’Europa per renderla più efficiente, più vicina alle esigenze della popolazione e meno ostaggio delle logiche di veto che spesso bloccano le decisioni. Non si comprende se il progetto Europa stia davvero evolvendo nella giusta direzione. Di sicuro se riuscirà a rafforzarsi con una maggiore coesione e unione politica, potrebbe riuscire ad imporsi. Tuttavia, se continuerà a essere terreno di scontri tra interessi nazionali contrapposti, rischia di perdere ulteriore rilevanza e consenso. La deterrenza non convince: gli italiani hanno dubbi sul riarmo di Enzo Risso Il Domani, 16 marzo 2025 Il 45 per cento dei giovani europei, secondo l’Eurobarometro, mette al primo posto la protezione della pace, dei diritti umani e della democrazia e solo il 5 per cento degli italiani crede che avere più armi e forza possa condurre alla pace. Alle armi. Alle armi. Il parlamento europeo ha votato il RearmEu, ma tra i cittadini europei, specie tra i giovani, le opinioni sembrano poco allineate a quelle di Ursula von der Leyen. A certificarlo è proprio l’Eurobarometro (i sondaggi transnazionali e longitudinali voluti dalla Commissione europea), nella sua recentissima pubblicazione (youth survey). Al primo posto i giovani europei mettono la protezione della pace, dei diritti umani e della democrazia (45 per cento), seguito dalla libertà di parola e pensiero (41 per cento). I paesi in cui è maggiore la spinta alla difesa della pace e della democrazia sono la Repubblica Ceca (64 per cento), l’Olanda (53), la Danimarca e la Slovacchia (52), la Svezia e l’Ungheria (51), l’Estonia, la Grecia e il Portogallo (49), la Germania e la Polonia (47), l’Italia e la Croazia (46 per cento). Le realtà nazionali in cui tema ha meno appeal sono l’Irlanda (34 per cento), Malta (35) e la Lituania (36). Più orientate al tema della pace sono le giovani donne europee (49 per cento), i giovani di età compresa tra i 25 e i 30 anni (47 per cento), nonché le ragazze i ragazzi con un titolo di studio maggiore (56 per cento). Se focalizziamo l’attenzione sull’opinione pubblica italiana scopriamo che nel nostro paese sono pochissime le persone che credono alla reale possibilità di far crescere la pace attraverso l’aumento della forza militare e della capacità di deterrenza: si tratta solo del 5 per cento dell’opinione pubblica. Una quota che scende al 3 per cento tra le donne e sale al 7 per cento tra gli uomini. Per assicurare una pace duratura gli italiani mettono ai primi posti il rispetto dei diritti umani (33 per cento) e il dialogo interculturale (19 per cento). Seguono la cooperazione economica (17) e il disarmo nucleare (13). La restante quota del 18 per cento si suddivide tra quanti non hanno una chiara opinione e quanti sostengono una strategia per la pace basata sullo sviluppo sostenibile. Il sogno della pace perpetua - La risposta alle tensioni che la contemporaneità pone di fronte a noi vede divergere nettamente le dinamiche e le spinte tra le élite politiche ed economiche, rispetto a quelle presenti nella società e in ampi settori dell’opinione pubblica. La pace è uno di quei temi ad alto valore politico in grado di riaccendere gli animi e la coscienza delle persone, come è già accaduto in passato (basta ricordare gli esempi degli anni Sessanta, sotto la spinta della guerra in Vietnam, o quelli più recenti della fine dello scorso secolo con le grandi manifestazioni per la pace). Se le élite si stanno orientando al riarmo, cercando di coprire la loro debolezza politica con i muscoli militari, l’opinione pubblica italiana si dice pronta a dedicare parte del proprio tempo al tema della pace (31 per cento) o a cambiare il proprio stile di vita pur di veder affermati i principi e i valori della pace (25). Solo il 15 per cento dell’opinione pubblica non è disposto a fare qualcosa per la pace. A evidenziare il ruolo di questo tema nel percorso di presa di coscienza politica delle persone c’è lo stretto nesso percepito tra pace e giustizia sociale. Per il 40 per cento degli italiani la giustizia sociale è un pre-requisito della pace e, per un altro 28 per cento, i due aspetti sono inscindibilmente correlati e interdipendenti. La frattura popolo-élite, già da anni ben presente nella nostra società, rischia di trovare sul tema della pace un ulteriore importante vettore di divaricazione. Era il 1795 quando il filosofo Immanuel Kant sentiva l’esigenza di parlare di “pace perpetua”, indicandola come un nuovo compito che l’umanità dovrà proporsi, perché ogni trattato di pace era solo in realtà una tregua in vista di un’altra guerra. Da allora fiumi di sangue e morti sono scorsi e continuano a scorrere. La strategia del riarmo non ci avvicina affatto a quel compito di pace perpetua assegnato da Kant all’umanità, bensì ci approssima sempre più a una nuova occasione per mostrare la nostra capacità distruttiva e di barbarie. La storia insegna. Gli esseri umani non imparano mai. La pace è un’architettura sociale, costruirla richiede una grande fatica di Letizia Pezzali Il Domani, 16 marzo 2025 La pace è spesso intesa come un’assenza di guerra, come un oggetto residuale: ciò che esiste quando non esiste il conflitto. Una condizione passiva che permane finché nulla la disturba. Una concessione del destino, un privilegio e di conseguenza un generatore di pigrizia. Quando si riapre la possibilità di parlare di guerra, alcuni mostrano dunque un’eccitazione, mossi dal desiderio di novità e di scosse di realismo: la guerra è risveglio, metafora energica, presa di posizione. Naturalmente se si parla di guerra è perché, purtroppo, ci sono le condizioni per parlarne. Subito la pace a cui si è stati abituati in un certo angolo di mondo va incontro a un processo di svalutazione: appare come un accidente, e non come un esercizio che ha richiesto sforzo, studio e persino dramma. Questa visione è quella che, presumo, porta taluni a dire che i giovani sono deboli per via dell’eccesso di pace, e che forse un po’ di rischio di guerra li tonificherà. Per reazione a queste uscite, altri si dicono sostenitori della pace come valore, costruiscono il polo opposto, insultano i “guerrafondai”, ma non vanno molto oltre. Pochi si soffermano ad affermare una realtà fondamentale: la pace non è solo un valore da preservare, ma è un lavoro, ed è un lavoro collettivo al quale volenti o nolenti si deve partecipare tutti costantemente. La pace è energia spirituale e stimolo intellettuale, ed è una fatica immane. Distruggere è più facile rispetto a costruire, e questo non è buonismo: è una legge fisica, un principio della termodinamica. Ma se questa è la legge, la pace non è una scelta dei deboli, al contrario è la virtù di chi è sano, robusto e vitale. Solo che il lavoro va fatto. Non fare nulla, ovviamente, non è pace. Il progetto - La pace è dunque un progetto attivo. È architettura sociale, economica e politica da costruire, mantenere e difendere con determinazione. Se esiste una preparazione alla guerra fatta di investimenti in eserciti, armi, strategie militari e alleanze difensive, esiste una preparazione alla pace fatta di istituzioni, educazione, politiche economiche e scelte culturali. La pace è un pesantissimo discorso di lungo termine, ma è un lungo termine per noi interessante: è lo scenario in cui non saremo morti. La pace non è la condizione naturale dell’umanità. La guerra è più naturale, è una costante delle società umane, un vizio genetico, un lento lasciarsi andare verso la versione meno intelligente di noi stessi. La guerra è, più della pace, il risultato di una somma di atteggiamenti intellettualmente passivi. Volendo, tenetevi forte, la guerra è da smidollati. Non la pace. Talvolta la guerra si rivela inevitabile, e qui sta la ragione per cui ha senso valutare una preparazione (all’inevitabile). Il bivio - Ma questa preparazione non deve offuscare la necessità di un progetto attivo di pace. Di cosa abbiamo bisogno per prepararci a coltivare la pace con la serietà con cui alcuni intendono prepararsi alla guerra? In fondo si è sempre di fronte a un bivio. Anzitutto c’è l’economia, che può essere sia causa di conflitto sia deterrente alla guerra. Il commercio internazionale e la cooperazione economica sono possibili fondamenta di pace. L’integrazione economica trasforma paesi che si erano combattuti per secoli in partner stretti. Prepararsi alla pace significa costruire un’economia basata sull’interdipendenza (ma che sia reale e equilibrata), sulla riduzione delle disuguaglianze globali e su meccanismi di cooperazione che riducano la competizione distruttiva per le risorse. Poi ci sono le istituzioni. Le guerre scoppiano più facilmente quando mancano strutture in grado di mediare i conflitti prima che degenerino. Forse le istituzioni internazionali che abbiamo sono imperfette. Prepararsi alla pace richiede istituzioni più forti, ma anche più amate e rispettate. Capaci non solo di intervenire nelle crisi, ma anche di prevenirle. I leader populisti che insultano la diplomazia devono destare in noi la massima riprovazione. Le istituzioni di pace non sono meno importanti degli eserciti. Infine, la guerra non è solo un fenomeno politico ed economico, ma anche culturale. Mettere sotto una luce positiva la guerra è un errore intellettuale. Prepararsi a coltivare la pace significa fare attenzione al modo in cui ci si rivolge alle nuove generazioni e non solo: a tutti. Non dire “sei debole, la pace ti ha infiacchito”, ma dire “rifletti su quale può essere il tuo apporto concreto alla pace”. Il tuo ruolo nel lavoro di pace. La tua fatica, il tuo sforzo, il tuo tributo termodinamico. Se “deportare” torna a essere una parola possibile di Agostino Giovagnoli Avvenire, 16 marzo 2025 Le politiche sull’immigrazione hanno assunto una comunicazione che incute paura. Un convegno alla Cattolica ha fatto il punto su un tema attuale dal punto di vista storico sociologico e giuridico. “Deportazioni, espulsioni, migrazioni forzate” è il titolo del convegno organizzato all’Università Cattolica del Sacro Cuore dal professor Giorgio Del Zanna e dal Centro di ricerca sulla World History. Sono fenomeni diversi e le differenze tra le lingue possono creare confusione. Recentemente, una foto di uomini in catene che stanno salendo su un aereo negli Stati Uniti ha fatto il giro del mondo sotto la scritta “Deportation”. È stato un messaggio terribilmente eloquente di “cattivismo”: come ha sottolineato Maurizio Ambrosini, le politiche contro l’immigrazione sono oggi fatte anche di comunicazioni minacciose, per incutere paura, spegnere la speranza e piegare ogni resilienza. Deportation non significa deportazione, bensì rimpatrio obbligato, re-immigrazione, espulsione o simili, come ha messo a fuoco il convegno, pur analizzando i punti di contatto tra deportation - e cioè espulsione di migliaia di singoli individui - e deportazione - e cioè spostamento forzato di grandi masse o di intere popolazioni. Oggi, la confusione linguistica contribuisce allo sdoganamento di una parola che fino a pochi anni fa avremmo considerato impronunciabile e, contemporaneamente, oscura ciò è comune a questi fenomeni diversi: le ferite che aprono nei corpi e nelle anime di chi le subisce. È questo intreccio che il convegno si è proposto di affrontare. Sono temi già al centro della riflessione di settantacinque anni fa di Hannah Arendt sugli apolidi, una condizione che lei stessa ha sperimentato personalmente. Arendt usava il termine tedesco Heimatlose che significa anche “persona senza patria”, oltre che apolide in senso stretto e cioè “senza Stato”. Come ha scritto ne “Le origini del totalitarismo”, si tratta di un fenomeno non risolvibile entro l’organizzazione statual-nazionale. Dopo la Prima guerra mondiale, la definizione degli Stati nati dai trattati di pace riguardò le nazionalità che disponevano di una notevole forza numerica e trascuravano le altre: raggruppati più popoli in uno Stato, i trattati affidavano il governo a uno di essi e formavano poi arbitrariamente un altro gruppo di nazionalità definite “minoranze”. L’afflusso nei vari Stati di centinaia di migliaia di profughi fece venir meno il diritto di asilo riguardante i singoli e non considerava le migrazioni di massa o addirittura di interi popoli, nei cui confronti le abituali politiche di assimilazione e naturalizzazione fallivano. La questione dei profughi venne speso affrontata in termini di ordine pubblico e alle forze di polizia fu affidato il compito di occuparsi di loro. Al fondo di questi processi c’era l’identificazione in pratica tra cittadinanza statuale e appartenenza etnico-culturale. Spiega Arendt: “I trattati sulle minoranze dicevano a chiare lettere quel che fino ad allora era stato implicito nel sistema degli Stati nazionali, cioè che soltanto l’appartenenza alla nazione dominante dava veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica, che i gruppi allogeni dovevano accontentarsi delle leggi eccezionali finché non erano completamente assimilati e non avevano fatto dimenticare la loro origine etnica”. Si verificò la trasformazione dello Stato da strumento giuridico in strumento nazionale, vale a dire “la conquista dello Stato da parte della nazione” - che secondo Emilio Gentile è stato anche alla base della ri-fondazione del fascismo nel 1921 - con il sopravvento degli interessi nazionali sui diritti delle persone. Hannah Arendt descrisse lucidamente la figura dello Heimatlose, senza una patria e un posto nel mondo, senza cittadinanza e il diritto ad avere diritti. Gli apolidi si trovarono al di fuori di tutte le leggi e passibili di detenzioni forzate senza aver commesso alcun delitto (viene in mente quella che oggi viene definita “detenzione amministrativa”, un concetto giuridicamente a dir poco problematico). La condizione dello Heimatlose, che è innocente da ogni punto di vista, è peggiore di quella del criminale, che ha comunque diritto a un processo e rimane dotato della sua personalità giuridica (secondo un rapporto del garante dei detenuti in Italia, le condizioni di vita nei Cpr sono del tutto analoghe a quelli degli istituti di pena, ma i detenuti hanno almeno diritto alle garanzie previste dall’ordinamento detentivo giudiziale o ordinario). L’apolide, che non può appellarsi ad alcun diritto, può essere arbitrariamente espulso o recluso, e sperimenta senso di irrealtà e di perdita del mondo. La loro situazione suona ipso facto “come un invito all’omicidio […] Se li si uccide, è come se a nessuno fosse causato un torto o una sofferenza”. Naturalmente, molto è cambiato da allora. Ma si assiste oggi - sotto la spinta di nuovi nazionalismi - ad un pericoloso ritorno di qualcosa di profondamente legato alle tragedie del Novecento, anche al di là del loro nesso con i genocidi, da quello degli armeni alla Shoah, con i “campi”, dai lager ai gulag. Lo ha messo in luce Giorgio Del Zanna parlando delle grandi deportazioni di popolazioni greche e turche negli anni Venti e Trenta del secolo scorso - le prime grandi deportazioni “legali” - e Nicolò Pianciola che ha delineato un quadro complessivo delle espulsioni di massa dell’età contemporanea. A portare il discorso sull’attualità è stata la giurista Francesca De Victor che ha documentato lucidamente come i Paesi europei negano oggi di fatto il diritto di asilo agli Heimatlose del XXI secolo attraverso l’esternalizzazione delle frontiere: se i profughi non entrano “giuridicamente” in Europa si possono tranquillamente disapplicare le norme europee basate sui diritti fondamentali dell’uomo. Maurizio Ambrosini, infine, ha analizzato ancora una volta le fake news di cui è intessuta la narrazione corrente sul “problema” immigrati, ricordando tra l’altro come la società europea abbia assorbito senza particolari difficoltà l’improvviso arrivo di sei milioni di ucraini in fuga dalla guerra. Non c’è davvero in atto un grande pericolo che giustifichi il tradimento che l’Europa - splendida costruzione di umanesimo giuridico - rischia di compiere nei confronti di se stessa e dei suoi valori costitutivi.