Cinque giorni nell’inferno carcerario, dove la Costituzione italiana è violata di Cesare Burdese* L’Unità, 15 marzo 2025 Nei giorni a cavallo di febbraio e marzo, con una delegazione di Nessuno tocchi Caino e delle Camere penali, ho visitato l’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso, le carceri di Cuneo, di Fossano, di Saluzzo, di Asti, di Alba e di Vercelli. In viaggio nell’universo carcerario da quarant’anni, ogni volta rimango sconcertato per la miseria materiale dei luoghi e i limiti dell’esecuzione penale in atto. Constato realtà lontane dalla retorica del carcere che riabilita. Per rimediare, le azioni possibili sono, la più immediata, intraprendere la via giuridica del nostro stato di diritto e, a lungo termine, la creazione di un fronte culturale architettonico, al momento inesistente. Le nostre carceri sono orfane dell’architettura come mezzo per umanizzare la pena. La mia attenzione è rivolta all’ambiente fisico delle carceri, nel suo rapporto coi bisogni dell’utenza. Le ultime che ho visitato presentano, chi più chi meno, le criticità di tutte le carceri che, per come sono costruite e gestite, mortificano i sensi negando dignità e tradiscono il monito costituzionale. Sovraffollamento, condizioni igienico sanitarie deprecabili, disumanità dei luoghi di vita e di lavoro, criticità nel servizio sanitario, mancanza di opportunità formative e lavorative, sottodimensionamento e impreparazione dell’organico, latitanza della Magistratura di sorveglianza… Nell’IPM di Treviso, dove l’ozio forzato rischia di diventare la regola, lo spazio per una esecuzione penale legale non c’è: mancano aule scolastiche, laboratori, spazi per coltivare gli affetti esterni, aree all’aperto per il gioco e l’attività fisica. Le “camere di pernottamento” sono inadeguate a ospitare i 25 ragazzi presenti, sicché alcuni dormono su giacigli improvvisati con materassi sul pavimento; i servizi igienici sono anguste cabine. Si confermano: ambienti fatiscenti e illuminati con lampade al neon per mancanza di luce naturale, visuali verso l’esterno impedite, assenza totale di verde. Pur escludendolo la norma, i detenuti “giovani adulti” non sono separati dai minorenni, quelli in attesa di giudizio dai definitivi. È questo un modello di esecuzione penale costituzionale e utile? Quelle piemontesi, a eccezione di Fossano, sono carceri che sorgono in aperta campagna, risalenti agli anni ‘80 del ‘900 e concepite con soluzioni standard per garantire la massima sicurezza, secondo logiche di contenimento e incapacitazione. L’architetto Sergio Lenci, innovatore nel recente passato dell’architettura carceraria, descrisse quelle soluzioni “corrispondenti a uno Stato dispotico e assolutista, precostituzionale, indifferente ai problemi della detenzione e preoccupato solo della custodia di un detenuto reso al massimo grado inerme”. La quotidianità detentiva si consuma principalmente in celle e corridoi desolati e desolanti, quasi sempre fatiscenti. Gli spazi al chiuso e all’aperto sono fortemente compartimentati, ai detenuti è impedita ogni possibilità di movimento autonomo, i cortili di passeggio sono simili a recinti per cani o a scatoloni di cemento, alcuni reparti sono bui e maleodoranti scantinati. Solo la Casa di Reclusione di Fossano, dove la popolazione detenuta è “selezionata all’ingresso”, presenta aspetti architettonici più accettabili. È collocata in un antico convento nel centro storico. La cosa ha consentito di realizzare una bottega interna con accesso direttamente dalla via, aperta al pubblico e gestita dai detenuti, per la vendita dei prodotti carcerari. Tale realtà è la rappresentazione plastica del “rapporto del carcere con la città”, cardine di una azione penale mirata al reinserimento sociale dei detenuti. Alcuni alberi nei cortili interni, la vista di una antica torre campanaria e i colori caldi delle pareti degli edifici e delle coperture in cotto, consolano detenuti e detenenti. Nella Casa di Reclusione di Saluzzo, sovrasta la miseria architettonica degli spazi detentivi la sala studio della sezione che ospita il Polo universitario, luminosa e spaziosa, a testimonianza che il riscatto anche architettonico del carcere può avvenire aprendolo alla cultura. Nella Casa di lavoro di Alba il paradosso è che solo una minima percentuale dei 44 detenuti lavora. Sulla base di tutto ciò, rimango perplesso per come il Ministro Nordio intenda fronteggiare il cronico sovraffollamento carcerario. Tralascio l’ipotesi irragionevole e irrealizzabile di rifunzionalizzare a carceri le caserme dismesse. Mi inquieta, perché più fattibile, la soluzione di stipare nelle carceri esistenti, ovunque ci sia spazio libero, decine di prefabbricati, per creare 7.000 nuovi posti detentivi. In questo modo, si congestioneranno ulteriormente carceri già al collasso per la perversa logica della detenzione sociale da tempo in atto, trasformandole in bolge dantesche dove, separati da barriere fisiche, detenuti e detenenti si fronteggeranno senza alcun costrutto né speranza. *Architetto L’appello e le proposte di Antigone per ridurre il numero dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2025 L’associazione chiede di attuare le indicazioni della Commissione Ruotolo: più autonomia agli istituti, attività riabilitative obbligatorie. Oltre all’assunzione di 10mila giovani operatori. “È assolutamente necessario che si discuta ai più alti livelli e in Parlamento di quanto sta accadendo nelle carceri. Siamo a un punto critico da cui è necessario uscire con una serie di provvedimenti urgenti che non possono più essere rimandati senza mettere a rischio la dignità di chi in carcere è recluso, ma anche di chi in carcere lavora”. A lanciare l’appello è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione da oltre vent’anni in prima linea nella tutela dei diritti nelle strutture detentive. Un grido d’allarme che arriva in un momento critico: i dati parlano di un sistema al limite, tra sovraffollamento record, condizioni igienico-sanitarie indegne e un’emergenza suicidi che non accenna a placarsi. Alla fine di febbraio 2024, le persone detenute in Italia erano 62.165, a fronte di una capienza regolamentare di 51.323 posti. Ma la capacità reale, considerando le strutture inagibili, è di appena 46.836 unità. Un divario che si traduce in 15.329 detenuti senza un letto, con un tasso di affollamento del 132,7%. “Siamo di fronte a un sistema che viola quotidianamente la dignità umana”, denuncia Gonnella. A peggiorare il quadro, le condizioni delle carceri: muffe, infiltrazioni, riscaldamenti assenti in inverno, temperature infernali in estate, celle senza luce naturale. In molti istituti, come Regina Coeli a Roma o la Dozza a Bologna, i detenuti trascorrono fino a 20 ore al giorno in spazi fatiscenti. Il diritto alle telefonate, fondamentale per mantenere legami familiari, è ridotto a 10 minuti settimanali in alcune strutture. Il 2023 ha segnato un triste primato con 89 suicidi, mentre nei primi mesi del 2024 se ne contano già 16. “Questo contesto genera tensione cronica, logora detenuti e operatori e alimenta la recidiva, che in Italia è al 70%”, spiega Gonnella. “Come può una persona uscire dal carcere trasformata, se vive in condizioni disumane?”. Una domanda che interroga l’intera società, considerato che il 95% dei detenuti tornerà in libertà. Le proposte - Per spezzare il circolo vizioso di degrado e sofferenza, Antigone avanza un piano che chiama in causa istituzioni, regioni e società civile. Al centro della strategia c’è l’urgenza di ridurre il numero di detenuti, un obiettivo che passa attraverso misure straordinarie come l’ampliamento delle alternative al carcere - dagli affidamenti in prova alle detenzioni domiciliari - e la revisione della legislazione sui reati minori. Un intervento non più rimandabile, già sollecitato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, per restituire alle carceri una dimensione umana. Parallelamente, l’associazione chiede di dare concretezza alle proposte della Commissione Ruotolo, insediata per innovare il sistema penitenziario: un nuovo regolamento che garantisca maggiore autonomia agli istituti, imponga attività riabilitative obbligatorie e riformi un sistema sanzionatorio interno che spesso alimenta conflitti invece di risolverli. Diritti fondamentali, troppo a lungo negati, devono tornare prioritari: dalle telefonate quotidiane - almeno per i detenuti a media sicurezza - all’accesso effettivo a servizi educativi. “Il carcere non può essere una sospensione della vita”, ribadisce Gonnella, sottolineando come il contatto con le famiglie e la formazione siano strumenti vitali per contrastare l’emarginazione. Altro pilastro è l’investimento in risorse umane: l’assunzione di 10.000 giovani operatori, da inserire in ruoli educativi, psicologici e di mediazione culturale, rappresenta una risposta concreta al burnout del personale esistente, schiacciato da carichi di lavoro insostenibili. Non meno cruciali sono gli investimenti territoriali: Antigone sollecita le Regioni a finanziare corsi di formazione professionale per agevolare il reinserimento lavorativo e chiede alle Asl di intensificare le ispezioni per verificare il rispetto degli standard igienico-sanitari, spesso disattesi in strutture fatiscenti. Un mosaico di interventi che punta a trasformare il carcere da luogo di pura sofferenza a spazio di giustizia riparativa, dove i diritti non siano un privilegio ma il fondamento di ogni percorso di riabilitazione. “Il carcere non è un mondo a parte: è lo specchio della società”, conclude Gonnella. Violazioni sistematiche dei diritti, come quelle denunciate, minano la credibilità di uno Stato di diritto e alimentano insicurezza. L’articolo 27 della Costituzione impone che le pene siano “rieducative”, ma oggi l’Italia è più volte condannata dalla Corte europea dei diritti umani per trattamenti inumani. La sfida è trasformare le carceri da luoghi di esclusione a spazi di giustizia riparativa. “Servono coraggio politico e risorse - conclude Gonnella -. Ma soprattutto serve comprendere che un carcere più umano è un Paese più sicuro”. Un appello che, in assenza di interventi immediati, rischia di restare inascoltato, mentre le celle continuano a riempirsi di sofferenza. La mozione sul carcere sveglierà il Parlamento? di Catello Vitiello* Il Dubbio, 15 marzo 2025 Dalla mozione parlamentare sul carcere la scossa a un sistema che volta lo sguardo. L’emergenza carceraria in Italia è una ferita aperta che non si riesce a rimarginare, un problema strutturale che si trascina da decenni e che nel 2024 ha raggiunto un punto di rottura. Con un tasso di sovraffollamento del 132%, una crescita esponenziale dei suicidi in carcere e una carenza di personale ormai drammatica, il nostro Paese rischia di subire nuove sanzioni dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come già avvenuto con la storica sentenza Torreggiani del 2013. Di fronte a una crisi che minaccia di trasformarsi in una vera e propria emergenza umanitaria, il Parlamento ha deciso di intervenire con la mozione 1/00406, presentata dall’onorevole Davide Faraone e sottoscritta da esponenti di diverse forze politiche, dal Partito democratico ad Azione, da Alleanza Verdi- Sinistra a +Europa. Il testo, depositato alla Camera il 27 febbraio, rappresenta un segnale forte: la politica torna a interrogarsi sulle condizioni di vita all’interno delle carceri e impegna il governo a intervenire con urgenza, in modo da porre rimedio a una situazione che da troppo tempo è fuori controllo. I numeri contenuti nella mozione offrono uno spaccato impietoso della realtà: a fine 2024, i detenuti presenti nelle strutture penitenziarie italiane erano 61.861, a fronte di una capienza effettiva di 46.837 posti, con un incremento di quasi seimila unità in appena due anni, mentre il numero degli istituti rimane invariato e l’adeguamento delle risorse è fermo da tempo. Il tasso di suicidi ha raggiunto livelli mai visti: nell’ultimo anno si sono registrati 246 morti in carcere, di cui 89 per suicidio. E nei primi due mesi del 2025 la scia di sangue non si è arrestata, con altri 16 suicidi e 31 decessi per altre cause. Al quadro allarmante della condizione detentiva si aggiunge la cronica carenza di personale. Nei penitenziari italiani mancano oltre seimila agenti di polizia penitenziaria. Gli educatori sono appena 983 in tutta Italia, con carichi di lavoro insostenibili che arrivano fino a un operatore ogni 150 detenuti nelle strutture più sovraffollate. Sul fronte della magistratura di sorveglianza la situazione non è migliore: appena 236 giudici per tutto il Paese, costretti a gestire oltre centomila detenuti in attesa di una decisione sulle misure alternative. Le carceri della Campania rappresentano l’epicentro di questa crisi. A Napoli, Poggioreale è diventato il simbolo del fallimento del sistema penitenziario italiano. Costruito nel 1914 per ospitare poche centinaia di detenuti, oggi ne accoglie oltre duemila in condizioni al limite della dignità umana. Celle progettate per tre persone ospitano fino a dieci detenuti. Il disagio psicologico tra i reclusi è ormai diffuso e il sistema non è in grado di offrire un supporto adeguato. Il quadro non è migliore negli altri istituti campani, da Secondigliano a Santa Maria Capua Vetere, da Benevento agli istituti per minori, dove la presenza di giovani detenuti è in crescita e il sovraffollamento ha raggiunto soglie allarmanti. La mozione parlamentare non si limita a fotografare una realtà già ben nota, ma propone un piano d’azione per affrontare l’emergenza in maniera strutturale. Si sollecita il governo a intervenire per ridurre il sovraffollamento, e a rivalutare la proposta Giachetti sulla liberazione anticipata speciale, che potrebbe portare alla scarcerazione di quasi ventimila detenuti con pene brevi. L’assunzione di nuovo personale, sia per la polizia penitenziaria che per il settore educativo e sanitario, è un’urgenza non più rinviabile. Il rafforzamento della magistratura di sorveglianza è essenziale per garantire tempi certi nella concessione delle misure alternative e per ridurre il numero di persone in custodia cautelare, che ancora oggi rappresentano quasi il 25% della popolazione carceraria. La mozione interviene anche su altre questioni cruciali, come l’attuazione della sentenza costituzionale n. 10/ 2024 che garantisce ai detenuti il diritto ai colloqui intimi, il miglioramento delle condizioni di salute all’interno delle carceri attraverso una cabina di regia tra i ministeri della Giustizia e della Salute e la revisione del ddl Sicurezza per evitare che le madri con figli piccoli vengano incarcerate. L’iniziativa parlamentare segna un punto di svolta in un dibattito che per anni è rimasto ai margini del discorso pubblico, relegato a sporadiche denunce delle associazioni per i diritti umani e a interventi emergenziali privi di una strategia di lungo periodo. Dopo la condanna della Cedu nel 2013, l’Italia aveva avviato un percorso di riforme, poi abbandonato. La pandemia aveva momentaneamente ridotto la popolazione detenuta, ma dal 2022 il sovraffollamento è tornato a crescere, senza che vi sia stata una risposta strutturata. Mentre in Paesi come la Francia, la Germania e la Spagna si adottano modelli di detenzione alternativa per le pene brevi, in Italia la logica punitiva continua a prevalere su quella rieducativa, con il risultato di intasare le carceri e compromettere il reinserimento sociale di chi ha già scontato la propria pena. Ora il governo dovrà rispondere: la politica avrà il coraggio di affrontare l’emergenza con una riforma vera, o si continuerà a inseguire soluzioni tampone che lasciano inalterato un sistema marcio dalle fondamenta? L’Italia è chiamata a una scelta chiara: rispettare la propria Costituzione e gli impegni internazionali o rassegnarsi a essere nuovamente condannata per il trattamento inumano dei propri detenuti. Quel che è certo è che il tempo delle parole è finito. Servono riforme vere, coraggiose, capaci di restituire alla giustizia il volto che la Costituzione le ha assegnato. *Avvocato penalista, responsabile Giustizia di Italia Viva Nuova grana Delmastro sul doppio Csm. Nordio: “No problem, la riforma avanza” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 15 marzo 2025 Il sottosegretario si lascia sfuggire alcune critiche alla riforma. L’audio della conversazione finisce online, l’opposizione insorge, il ministro minimizza. Nel momento di maggiore coesione da parte della maggioranza, un infortunio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha fatto addensare delle nubi attorno al cammino della riforma della giustizia e rilanciato una polemica politica che sembrava sopita dopo l’incontro della settimana scorsa a Palazzo Chigi tra il governo e le toghe. L’esponente dell’esecutivo, infatti, si è lasciato andare a una serie di disinvolte e personali considerazioni sul testo Nordio, nel corso di una conversazione informale con un cronista del Foglio, che poi è stata pubblicata. Considerazioni per certi versi clamorose, visto che mettono in discussione alcuni pilastri della separazione delle carriere, a partire dall’istituzione di un doppio Csm, avallando di fatto l’argomento principale di chi si oppone alla riforma, e cioè che si tratta di un modo surrettizio per sottomettere i pm all’esecutivo. “Dare ai pubblici ministeri un proprio Csm”, ha “spifferato” Delmastro al giornalista, “è un errore strategico che, per eterogenesi dei fini, si rivolterà contro”. “I pm”, ha proseguito, “prima di divorare i politici, andranno a divorare i giudici. C’è un rischio nel doppio Csm, o si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti Paesi, oppure gli si toglie il potere di impulso sulle indagini”. Per il sottosegretario, “l’unica cosa figa della riforma è il sorteggio dei togati al Csm”, mentre qualche perplessità viene da lui registrata anche sull’istituzione dell’Alta Corte disciplinare. A coronamento della leggerezza di Delmastro, l’affermazione secondo cui nella sua persona “convivono entrambe le pulsioni, sia quella garantista che quella giustizialista, a corrente alternata secondo le necessità”. Come era comprensibile, le frasi sono subito rimbalzate nei flash d’agenzia e nelle edizioni mattutine dei telegiornali, tanto che il diretto interessato, che inizialmente aveva pensato di non rilasciare dichiarazioni in merito sottolineando a chi lo aveva cercato di aver comunque definito “ottima” nel suo complesso la riforma, ha poi ritenuto opportuno (verosimilmente per un intervento di Palazzo Chigi) diffondere una nota ufficiale per una messa a punto. “L’impianto della riforma”, ha messo nero su bianco Delmastro, “è ottimo, ribadisco che nella maggioranza c’è assoluta condivisione delle misure messe in campo e proseguiremo speditamente per approvare la riforma il prima possibile. Ribadisco che grazie al sorteggio e all’Alta Corte disciplinare ci sarà una vera indipendenza della magistratura dalla politica, perché questa ne rimarrà finalmente fuori”. “Ho argomentato”, ha proseguito, “che in fase di stesura della riforma c’era un confronto fra due opzioni, quella con un Csm unico e quella con due, ognuna delle due con vantaggi e svantaggi. La soluzione di approdo, pur nei diversi percorsi argomentativi e nelle sfumature interpretative, è assolutamente condivisa e sostenuta senza tentennamenti da tutto il centrodestra. Ogni altra ricostruzione”, ha concluso, “è una forzata distorsione della realtà”. Impossibile una secca smentita, dato che la conversazione era stata registrata, e dopo la nota di Delmastro è stata messa integralmente online sul sito del quotidiano diretto da Claudio Cerasa. Ma a quel punto le reazioni politiche, soprattutto da parte dell’opposizione, si erano già moltiplicate, invocando nella maggior parte dei casi le dimissioni del sottosegretario: “Adesso basta”, hanno commentato i deputati del Pd che si occupano di giustizia, “per la dignità e l’onore delle istituzioni il sottosegretario Delmastro delle Vedove si dimetta. Se il ministro Nordio ha anch’egli un minimo di personale e politica dignità”, hanno incalzato i dem, “chieda al sottosegretario di fare un passo indietro”. Più o meno stessi toni dal M5s, con la senatrice pentastellata Maiorino che fa un passo in più, chiedendo lo stop all’esame del ddl Nordio, attualmente in commissione a Palazzo Madama. Non mancano reazioni stupite anche da chi non è contrario alla riforma, come il leader di Iv Matteo Renzi, il quale si chiede se Meloni “fa dimettere il ministro della Giustizia Nordio, che ha fatto la riforma, o il sottosegretario Delmastro, che dice che la riforma fa schifo”. Nel perimetro della maggioranza, il portavoce di FI Raffaele Nevi si limita a ribadire che “quelle di Delmastro sono considerazioni personali”, mentre per il deputato meloniano Giovanni Donzelli “l’audio rubato della conversazione smonta tutto, Fratelli d’Italia è compatta, avanti con la riforma della Giustizia!”. Nel pomeriggio, infine, sono arrivate le parole del Guardasigilli, a margine di un evento nella “sua” Venezia. Nordio ha minimizzato l’accaduto parlando di “enfatizzazione giornalistica di una discussione complessa, che ha tenuto conto di varie problematiche connesse a una importante revisione costituzionale”. “Alla fine”, ha aggiunto, “il risultato è stato ottimo, come l’amico Delmastro mi ha tempestivamente ribadito. L’intera coalizione va avanti compatta, accelerando i tempi della doppia lettura parlamentare”. Alla quale seguirà, sempre secondo il ministro, la rimodulazione del codice di procedura penale. “Non abbiamo gettato maschere”, ha detto ancora Nordio, “perché non ne abbiamo mai avute, e il testo della norma è trasparente e univoco”. “Lo sgradevole processo alle intenzioni che alcuni membri dell’Anm continuano a fare”, ha concluso, “prospettando la soggezione del Pm all’esecutivo non aiuta il dialogo che ci proponiamo di mantenere, pur nella differenza di idee”. Poi, il Guardasigilli ha rilanciato sulla questione della custodia cautelare, affermando che l’esecutivo è al lavoro “per modificare i criteri della custodia cautelare che si sono rivelati fallimentari”. “Mi è scappata”: le prime parole di Delmastro al ministro Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 marzo 2025 L’incredibile giornata di Delmastro che lascia allibiti Meloni e Nordio. Prima le scuse, poi la smentita al Foglio, che però pubblica l’audio delle sue dichiarazioni contro la riforma della giustizia. L’irritazione della premier. “Scusate, mi è scappata”. Così ieri mattina, appena giunto al ministero della Giustizia, il sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove si è giustificato col Guardasigilli Carlo Nordio e lo staff di Via Arenula per le sue dichiarazioni, riportate sul Foglio, contro la riforma costituzionale elaborata dallo stesso ministro Nordio. Le frasi di Delmastro (“Dare ai pm un proprio Csm è un errore strategico, l’unica cosa buona della riforma è il sorteggio”) hanno lasciato di stucco il ministro della Giustizia. Stupefatta anche la premier Meloni, che non ha nascosto irritazione. Incamerate le scuse, seppur con una certa incredulità, la premier e i vertici di FdI hanno stabilito la linea: tutti zitti. Nella convinzione che il caso si sarebbe placato nel giro di poche ore. L’ondata di indignazione dei partiti di opposizione, uniti nel chiedere le dimissioni di Delmastro (e dello stesso Nordio), e le richieste di chiarimenti dell’Anm hanno indotto invece il governo a cambiare strategia. Con una nota Delmastro ha smentito quanto riportato dal Foglio, che però sul suo sito ha pubblicato l’audio con le parole clamorose di Delmastro. Il sottosegretario Delmastro ha accusato il Foglio di aver “esasperato il significato dei ragionamenti” da lui svolti. “Ho argomentato che in fase di stesura della riforma c’era un confronto fra due opzioni, quella con un Csm unico e quella con due, ognuna delle due con vantaggi e svantaggi”, ha aggiunto. Qualsiasi lettore, ascoltando l’audio del colloquio, potrà constatare però che le affermazioni di Delmastro sono state riportate in maniera puntuale, e che, dall’altra parte, il sottosegretario non ha portato avanti alcuna “argomentazione” sui vantaggi e gli svantaggi dell’istituzione di un unico o un doppio Csm. Semplicemente, in maniera clamorosa, il sottosegretario alla Giustizia ha bocciato la riforma della giustizia del suo ministro, che la maggioranza ha già approvato in prima battuta alla Camera. Messo da parte l’imbarazzo mattutino, il ministro Nordio è intervenuto nel pomeriggio cercando di scacciare via le polemiche sul caso. “È l’enfatizzazione giornalistica di una discussione complessa, che ha tenuto conto di varie problematiche connesse a una importante revisione costituzionale. Ma alla fine il risultato è stato ottimo, come l’amico Delmastro mi ha tempestivamente ribadito”, ha dichiarato il Guardasigilli, che poi ha attaccato l’Anm: “Lo sgradevole processo alle intenzioni che alcuni membri dell’Anm continuano a fare, prospettando la soggezione del pm all’esecutivo non aiuta il dialogo che ci proponiamo di mantenere, pur nella differenza di idee”. In precedenza, infatti, il sottosegretario del sindacato togato, Rocco Maruotti, aveva affermato: “Con le dichiarazioni di oggi del sottosegretario Andrea Delmastro, il governo ha calato la maschera: questa riforma da sola non basta e sarà necessario portare il pubblico ministero sotto le direttive del potere esecutivo o quantomeno togliere al pubblico ministero il potere di impulso delle indagini”. Durissima la reazione del Pd: “Adesso basta. Per la dignità e l’onore delle istituzioni il sottosegretario Delmastro delle Vedove si dimetta. Apprendiamo infatti che l’intervista sul Foglio, esiste, c’è ed è pure registrata! Per questo non poteva essere smentita. Se il ministro Nordio ha anch’egli un minimo di personale e politica dignità chieda al sottosegretario di fare un passo indietro. È evidente in ogni caso che il sottosegretario ha perso, ma non avevamo necessità di ulteriori prove, ogni credibilità”, hanno affermato in una nota la responsabile nazionale Giustizia del Pd, Debora Serracchiani, i capigruppo in commissione Giustizia di Camera e Senato, rispettivamente Federico Gianassi e Alfredo Bazoli, e il capogruppo Pd in commissione Antimafia, Walter Verini. “Come fa la presidente del Consiglio a continuare a sostenerlo? Difende la presenza al governo di chi pensa che la riforma fa schifo? E con quale faccia la difenderanno in Senato, alla Camera e davanti al paese nel referendum?”, hanno aggiunto. Il M5s ha invece chiesto di fermare l’esame della riforma in Parlamento, sostenendo che con le sue parole Delmastro “ha ammesso che il governo vuole mettere le procure sotto la frusta della politica, così da addomesticarle e renderle innocue per alcuni”. Nella maggioranza le esternazioni di Delmastro sono state subito derubricate dal portavoce di Forza Italia, Raffaele Nevi, a “considerazioni personali”. Di diverso avviso Tommaso Calderone, capogruppo del partito azzurro in commissione Giustizia: “Una posizione indecifrabile e incomprensibile”. Per FdI “l’audio del sottosegretario Delmastro pubblicato dal Foglio contiene in sé tutte le risposte agli attacchi in malafede delle opposizioni”. Gelo, invece, da parte della Lega, che non è intervenuta sulla vicenda. Intanto martedì prende il via la discussione della riforma in commissione Affari costituzionali al Senato. Un insolito Delmastro travolge la riforma di Nordio di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 marzo 2025 Più dello sciopero dei giudici, più dei convegni, delle assemblee, degli editoriali, delle interviste televisive. La critica di maggior peso alla riforma della giustizia del governo Meloni - quella che vuole separare una volta per tutte le carriere dei magistrati, sdoppiare il Csm e sorteggiarne i togati - è arrivata da parte del sottosegretario Andrea Delmastro in un esplosivo “colloquio informale” uscito ieri sul Foglio. “C’è un rischio nel doppio Csm - dice il colonnello meloniano -. O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti paesi, oppure gli si toglie il potere di impulso sulle indagini. Ma dare un Csm al pm è un errore strategico che, per eterogenesi dei fini, si rivolterà contro. Quando un pm non dovrà neanche più contrattare il suo potere con i giudici in un solo Csm e avrà un suo Csm che gli garantirà sostanzialmente tutti i privilegi, quel pm prima ancora di divorare i politici andrà a divorare i giudici, che hanno il terrore di questa roba”. È la conferma, peraltro molto ben argomentata, di un sospetto che aleggia da tempo tra i detrattori della riforma: separare una volta per tutte giudicanti e requirenti vuol dire assegnare a questi ultimi un potere immenso. Di fatto sarebbe un via libera alla “repubblica dei pm”. Non per caso piace molto ai più grandi inquisitori della storia patria, primo tra tutti Antonio Di Pietro, che la settimana scorsa in Senato si è detto entusiasta dei piani governativi. Delmastro sembra consapevole dell’evidenza, e infatti in quella che a un certo punto è diventata una stralunata confessione intima arriva a dire che “nella mia persona convivono entrambe le pulsioni, sia quella garantista che quella giustizialista, a corrente alternata secondo le necessità”. L’ultimo atto dello scoop del Foglio consiste nell’ammissione del carattere punitivo della riforma: “L’unica cosa figa è il sorteggio”, confida il sottosegretario. Se l’intenzione è di dare un colpo alle vituperate correnti, creare un Csm i cui membri non vengono più scelti tramite un voto ma con il pallottoliere è la mossa giusta, perché significa togliere alle toghe organizzate ogni possibilità di intervento sull’organo di governo autonomo della magistratura. Così mentre l’articolo si diffondeva, il panico ha cominciato a prendere corpo tra via Arenula e palazzo Chigi: del resto se le perplessità di Delmastro sull’operato del ministro Nordio erano note ma confinate nel recinto dei retroscena, da ieri hanno lo status di posizione ufficiale. Vano ogni tentativo di aggiustare il tiro. “Hanno esasperato il significato dei miei ragionamenti, ribadisco che l’impianto della riforma è ottimo”, ha dettato Delmastro alle agenzie all’ora di pranzo. E un’ora dopo il Foglio ha fatto uscire l’audio della conversazione con il suo cronista Ermes Antonucci: inequivocabile la bocciatura della riforma, nessuna esasperazione, tutto vero. Il commento pomeridiano di Nordio da Venezia, a margine di un incontro con i penalisti, è suonato addirittura surreale: “La nostra condivisione è totale e senza riserve”. In tutto questo va da sé che l’Anm ha gioco facile ad affondare il dito nella piaga. “Ora sarà più difficile per il governo continuare a sostenere che la riforma non avrà conseguenze - ha commentato il segretario Rocco Maruotti -, le parole del sottosegretario introducono un importante elemento di chiarezza”. E se dalle opposizioni piovono richieste di dimissioni verso il sottosegretario, appare chiaro che anche dalle parti del governo in qualche modo bisognerà venire a capo della frattura che c’è dentro al ministero della Giustizia. Delmastro è uno degli esponenti di Fratelli d’Italia più vicini a Giorgia Meloni: colpire lui significa colpire molto vicino alla premier e questo è un elemento che non sfugge a nessuna analisi. Allo stesso tempo, però, quella della giustizia, ormai totalmente intestata a Nordio, è l’unica riforma di sistema sopravvissuta alla prima metà dell’esistenza di questo esecutivo: l’autonomia differenziata è stata affondata dalla Consulta, il premierato è scomparso dai radar, mentre la separazione delle carriere veleggia in parlamento senza che le opposizioni si siano mostrate in grado di fare granché per rallentarla. L’ultimo ostacolo, il referendum costituzionale che con ogni probabilità andrà in scena nella primavera del 2026, presenta un unico vero fattore di rischio, cioè che diventi un sondaggio sul governo, a prescindere dal merito della questione. Uno scenario non inedito nella storia recente (Matteo Renzi si eclissò così) e che a palazzo Chigi hanno ben presente. In questo contesto l’uscita di Delmastro potrebbe prestarsi ad altre letture dietrologiche, che sia dalle parti delle opposizioni sia tra le toghe in effetti non mancano. Ma la verità è probabilmente più semplice: il governo con la maggioranza parlamentare più ampia da tanto tempo a questa parte scricchiola in modo pauroso. Nonostante le apparenze. O forse proprio come le apparenze. Meloni furiosa su Delmastro. Forza Italia: “Ora serve chiarimento” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2025 Mantovano e Fazzolari lo fanno smentire. Tajani chiede un “vertice di maggioranza”. Mulè: “Così aiuta la sinistra”. L’ennesimo scivolone. Stavolta politico. Consegnato al Foglio, in uno sfogo per dire che della riforma sulla separazione delle carriere gli piace “solo il sorteggio”. E nient’altro. Un colpo, durissimo, all’unica riforma costituzionale che il governo proverà a portare a casa, quella della Giustizia. E anche al suo stesso ministro, Carlo Nordio, che su questa riforma ha puntato tutto. È l’ennesima giornata nera per il sottosegretario alla Giustizia di FdI, Andrea Delmastro Delle Vedove. Appena a Palazzo Chigi leggono le dichiarazioni che Delmastro affida al Foglio contro la separazione delle carriere scatta l’allarme. Anche gli alleati, soprattutto quelli di Forza Italia, scattano contro Delmastro. Il primo è il vicepremier Antonio Tajani, che si è intestato la riforma della Giustizia. Sa che ci sono resistenze e sa che i dubbi di Delmastro - quello di dare troppo potere ai pm con un doppio Csm - sono condivisi dentro Fratelli d’Italia. La linea che Tajani dà ai suoi dal Canada, dove partecipa al G7, è chiara: attaccare il sottosegretario spiegando che la sua è un’opinione “personale” e che si va avanti sulla riforma. Così intervengono il portavoce Raffaele Nevi per dire che “si va avanti in maniera compatta” e Tommaso Calderone che parla di “posizione incomprensibile”. Tajani però decide di non lasciarla passare. Non interviene in prima persona. Lo fa fare al suo viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Tajani è pronto a chiedere un chiarimento di maggioranza, una riunione per capire se ci sono ancora le condizioni per andare avanti sulla riforma. Sisto quindi chiama Delmastro, che però si giustifica così: “Sono stato tratto in inganno, le mie frasi sono state decontestualizzate. Si va avanti”. Forza Italia è dubbiosa, teme il trappolone, che l’unica riforma venga bloccata dai veti incrociati. Così il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, parlando col Fatto, critica chiaramente l’uscita del sottosegretario meloniano: “Diamo a Delmastro ciò che è di Delmastro e alla riforma ciò che è della riforma: la maggioranza ha deciso e non si torna indietro. Sapesse quante cose a me non piacciono del governo, dalla deriva panpenalista in giù, ma noi le votiamo per lealtà. Si chiamano compromessi e compensazioni”. Certo, Delmastro sta diventando un problema nella maggioranza, anche politico, dopo i diversi scivoloni: “Io lo invito a mordersi la lingua - conclude Mulè - soprattutto perché per il ruolo che ricopre ogni suo ragionamento può aprire inutili fronti interni e prestare il fianco all’unità delle molto divise opposizioni”. Anche la Lega vuole un chiarimento dal sottosegretario e quindi Delmastro parla anche col suo collega Andrea Ostellari, che però si mostra meno battagliero di Sisto. Chi invece non ci sta è il ministro Nordio. Si sente tradito, colpito nella sua battaglia. Così lo chiama. Lo rimprovera e gli chiede di rettificare. Il ministero della Giustizia non esclude una nota per sconfessare ufficialmente il sottosegretario. Alla fine, da Venezia, il Guardasigilli smussa le polemiche parlando alle Camere Penali: “Ha già chiarito, c’è stata un’enfatizzazione giornalistica, si va avanti con la riforma”. Ma chi non l’ha presa per niente bene è la premier Meloni. Parte alle 9 da Roma per Torino per partecipare a un evento sulle Olimpiadi invernali, ma decide di non parlare direttamente col suo sottosegretario (che per tutto il giorno sarà impegnato nelle caserme della Penitenziaria). La definiscono come “furiosa”, per un danno d’immagine enorme per il governo. Sa che al referendum le opposizioni useranno questa dichiarazione contro il governo e non bisogna dare strumenti al centrosinistra e al mondo della magistratura e degli intellettuali che si uniranno per fare fronte comune contro l’esecutivo. La ritiene una scivolata, che danneggia l’esecutivo. Ma affida tutto ai suoi due fedelissimi, i sottosegretari Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari. Sono loro a dover gestire il caso. Entrambi vengono descritti come molto irritati con il sottosegretario. Anche perché sanno che un’uscita del genere non può che far arrabbiare i magistrati che infatti, tramite l’Anm, accusano l’esecutivo di volerli mettere sotto il controllo della politica. La nota di rettifica viene fatta con l’aiuto di Fazzolari. Non si può smentire perché c’è il rischio reale - e in effetti è così - che un audio possa sconfessarlo una seconda volta. Si decide quindi di precisare in una nota che il contenuto delle parole di Delmastro è stato “esasperato”. Una certa freddezza arriva anche da Fratelli d’Italia: a difenderlo ci pensano solo il responsabile organizzazione Giovanni Donzelli, la sua fedelissima Carolina Varchi e il senatore Marco Lisei. Gli altri restano in silenzio. Imbarazzato. Ancora una volta. “Delmastro? Avrà bevuto. Ma la riforma di Nordio è giusta”. Parla Di Pietro di Gianluca De Rosa Il Foglio, 15 marzo 2025 L’ex pm di Mani pulite, ministro e oggi agricoltore scherza sulla vicenda Delmastro: “In fondo chissenefrega di cosa dice, quel che conta è che questa legge è giusta. Io sono per la separazione delle carriere dal 1989”. “Ma chi se ne importa di quello che dice Delmastro, la riforma della magistratura è giusta”, dice Antonio Di Pietro. L’ex pm di Mani Pulite, ministro del centrosinistra, leader dell’Italia dei valori, oggi semplice agricoltore nella sua terra, il Molise, ci risponde al telefono proprio da lì dove, con qualche difficoltà di linea, gli raccontiamo delle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia contro la riforma costituzionale voluta dal suo diretto superiore, il ministro Carlo Nordio. “Probabilmente Delmastro sarà andato a bere insieme a Nordio e avrà un po’ esagerato”, scherza Di Pietro. “Tempo 48 ore e gli faranno rimangiare quel che ha detto”. Anche prima, lo informiamo. Delmastro ha già riconfermato la sua fiducia nella riforma. Dice di essere stato frainteso. “Eh vedete, è arrivato il cazziatone”, ride l’ex pm. Tutto risolto dunque? “Ma penso proprio di sì, anche perché, ripeto, la riforma è giusta. Io dico che la separazione delle carriere andava fatta sin dall’ ‘89 quando è arrivato il codice Vassalli e il sistema accusatorio, la separazione delle carriere è la naturale conseguenza logica di quel codice”. Lo dice proprio lei che fu pm d’assalto, qualcuno si stupirà. “E certo che lo dico. Il giudice deve essere terzo tra le parti”. “Io non ho fatto solo il pm, i soggetti del processo penale previsti dal primo titolo del codice li ho interpretati tutti”, dice prima di partire con un lungo elenco: “Il poliziotto l’ho fatto, il procuratore pure, il giudice anche, l’avvocato ci mancherebbe, l’imputato mi è toccato, l’indagato ahimè anche, la parte lesa e quella civile pure. Insomma, mi manca solo il responsabile civile per le ammende poi le ho fatte davvero tutte, e sa cosa le posso assicurare?”. Cosa? “Che dipende dalla ‘giacchetta’ che ti metti addosso quando entri in un’aula di Giustizia per sentirti in un modo piuttosto che in un altro. Ecco perché sono favorevole alla riforma: perché con qualsiasi ‘giacchetta’ quando entro lì dentro ti devi sentire sereno, oggi non è così. Non risolverà tutti i problemi della giustizia, ma questa è una legge giusta, a prescindere dal Delmastro di turno”. Riforma Nordio, l’Anm: “Hanno gettato la maschera: il vero obiettivo è il controllo del pm” di Simona Musco Il Dubbio, 15 marzo 2025 Dopo le parole di Delmastro, il sindacato delle toghe ha gioco facile nel rilanciare il pericolo già prospettato in piazza con lo sciopero contro le carriere separate. Alla fine la colpa, dice il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sarebbe dell’Associazione nazionale magistrati. Colpevole di fare il processo alle intenzioni del governo, “prospettando la soggezione del Pm all’esecutivo”, cosa che “non aiuta il dialogo che ci proponiamo di mantenere, pur nella differenza di idee”. Un “pericolo” che, però, è identico a quello prospettato dal sottosegretario Andrea Delmastro nella sua chiacchierata “informale” col Foglio, che ha poi reso pubblico l’audio della stessa. Il sindacato delle toghe ha dunque avuto gioco facile, potendo offrire al pubblico una dimostrazione plastica di quanto sia attuale il pericolo prospettato in piazza il 27 febbraio scorso: il tentativo della politica di controllare la magistratura. E che a proporre gli stessi argomenti dell’Anm sia un fedelissimo di Giorgia Meloni, per giunta inquilino di via Arenula, non fa che rafforzare la loro posizione. “Delmastro non è né un onorevole qualunque, né soltanto il sottosegretario di via Arenula - dichiara a Repubblica il presidente dell’Anm Cesare Parodi -. O smentisce le ipotesi di sottoposizione del pm al potere politico oppure, con tutta la prudenza e l’ascolto, devo dire che le sue parole confermano tutti i nostri timori. Perché stavolta lo dice lui, non noi”. L’ordine di scuderia in maggioranza è fare quadrato attorno al sottosegretario, smentendo qualsiasi tentativo di controllo del pm. Ma gli argini sono ormai rotti, come si capisce dalle parole, ancora più dure, pronunciate dal segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti: “Con le dichiarazioni del sottosegretario Delmastro il governo ha calato la maschera: questa riforma da sola non basta e sarà necessario portare il pm sotto le direttive del potere esecutivo. O, quantomeno, occorrerà, secondo loro, togliere al pm il potere di impulso delle indagini”. Entrambe le tesi sono sempre state smentite dal governo, in ultimo durante l’incontro a Palazzo Chigi, quando Meloni aveva anche smentito l’indiscrezione pubblicata dal Fatto Quotidiano sulla volontà di voler toccare i rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria. “Da oggi perciò - aggiunge Maruotti - sarà più difficile per il governo continuare a sostenere che la riforma non avrà conseguenze, come l’Anm va sostenendo dall’inizio. Il loro disegno, oltre a non migliorare la giustizia, servirà solo ad assoggettare i magistrati al controllo del governo: ora è ancora più chiaro. Le parole del sottosegretario alla giustizia introducono un importante elemento di chiarezza”. Un progetto che non è previsto dalla lettera della riforma, ma che, secondo quanto denunciato anche dal Csm in un parere critico, sarebbe lo sfogo naturale, da mettere in pratica con norma ordinaria una volta approvata la modifica costituzionale. Critiche arrivano anche dai vertici delle correnti. “Abbiamo ripetutamente sottolineato le forti criticità di questa riforma: non solo contraddittoria e priva di costrutto ma anche pericolosa - dichiara al Dubbio Claudio Galoppi, segretario di Magistratura indipendente -. Bene che se ne accorgano anche autorevoli esponenti governativi. Speriamo ora che sulle ragioni della politica prevalga la valutazione oggettiva e serena di una riforma sgangherata che deve essere integralmente riscritta”. Critico anche il segretario di Area, Giovanni Zaccaro: “Mi sembra una favola dei fratelli Andersen - commenta - in cui arriva un bambino che urla “il re è nudo” e svela l’inganno. Il sottosegretario Delmastro ha svelato ieri con franchezza i veri rischi della riforma Nordio, così come mesi fa aveva svelato cosa pensa la maggioranza dei diritti delle persone arrestate”. Per Magistratura democratica a intervenire è il segretario Stefano Musolino: “Mi domando se si possa avviare una riforma costituzionale, quando i protagonisti di questo progetto non fanno mistero di agire sulla base di valutazioni stimolate da opportunismi e strategie di piccolo cabotaggio - spiega -. La riforma costituzionale è una cosa seria che impegna il Parlamento in plurime votazioni a maggioranza qualificata, quasi sicuramente chiederà il coinvolgimento popolare tramite i referendum. Tutto questo può essere giustificato da un giudizio in ordine a quale idea sia più “figa” dell’altra? Alla volubilità garantista o giustizialista del sottosegretario di turno? Credo che queste esternazioni testimoniano quanto poco riflettuta, meditata sia stata questa riforma, il cui consenso è alimentato da una potente macchina mediatica, fondata su labili suggestioni”. Secondo la presidente di Unicost, Rossella Marro, le dichiarazioni del sottosegretario “rivelano che anche per esponenti del governo la riforma costituzionale in corso di approvazione presenta forti profili di criticità, che porterebbe inevitabilmente a uno sbilanciamento di potere a favore dei pm, minando gli equilibri democratici. A meno di non essere propedeutica, come Delmastro sembra ventilare, ad una ulteriore riforma, ancora più pericolosa, che collocherebbe i pm sotto l’esecutivo, nonostante la maggioranza abbia ad oggi sconfessato questo esito. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a riforme pericolose, pasticciate o, peggio, tese a realizzare obiettivi che non si ha neanche il coraggio di esprimere chiaramente davanti alla pubblica opinione”. Per Andrea Reale, esponente del gruppo Articolo 101 nell’Anm, le parole di Delmastro “costituiscono l’ennesima dimostrazione della distanza siderale che intercorre tra il dichiarato intento punitivo della riforma costituzionale, in corso di approvazione, e la battaglia di moralizzazione dell’autogoverno, che da sempre ispira l’elaborazione programmatica di ArticoloCentouno dentro l’Anm. La definizione del sorteggio in esse contenuta svilisce la portata salvifica di tale meccanismo rispetto al delicatissimo percorso di recupero di credibilità della magistratura, unica e costante preoccupazione di chi patisce dall’interno le conseguenze della degenerazione correntizia”. L’inganno del reato di femminicidio di Andrea Pugiotto L’Unità, 15 marzo 2025 Il bene giuridico della vita non ammette diversa tutela a seconda del genere. Ed elevare a reato autonomo l’omicidio di una donna “in quanto donna” sulla base del movente trasforma il giudice in palombaro dell’animo umano. L’ergastolo? Lo prevede già l’omicidio aggravato da stalking. Il ddl governativo è stato uno spot per l’8 marzo e c’è chi dice: è già pronto un posto davanti alla Corte Costituzionale. Il reato di femminicidio è la mimosa che il Governo intende regalare a tutte le donne: “Un altro passo avanti nell’azione di sistema che sta portando avanti fin dal suo insediamento” per contrastare la violenza di genere e tutelarne le vittime, ha commentato la Presidente del Consiglio. Sfidando l’impopolarità, vorrei dire che è un inganno. E che semmai il nuovo art. 577-bis c.p. - parafrasando le parole di Meloni - rappresenta un altro passo avanti nell’azione di sistema che il Governo sta portando avanti, fin dal suo insediamento, per fare del pan-penalismo la risposta ad ogni allarme sociale. Il preannunciato delitto di femminicidio dimostra che la fabbrica di nuovi reati lavora a pieno regime, senza cali di produzione. È così da anni e l’attuale XIX Legislatura non fa eccezione. Servirebbe regolare il flusso di questo rubinetto che la politica tiene sempre aperto. 1. Il reato di femminicidio è la mimosa che il Governo intende regalare a tutte le donne: “Un altro passo avanti nell’azione di sistema che sta portando avanti fin dal suo insediamento” per contrastare la violenza di genere e tutelarne le vittime, ha commentato la Presidente del Consiglio. Sfidando l’impopolarità, vorrei dire che è un inganno. E che semmai il nuovo art. 577-bis c.p. - parafrasando le parole di Meloni - rappresenta un altro passo avanti nell’azione di sistema che il Governo sta portando avanti, fin dal suo insediamento, per fare del pan-penalismo la risposta ad ogni allarme sociale. 2. Cominciamo col dire che, nonostante gli squilli di tromba, il Governo non ha introdotto alcun nuovo delitto: il Consiglio dei ministri ha solo deliberato un disegno di legge, prodromo al normale procedimento legislativo parlamentare. Per fortuna, viene da dire. Sarà così possibile emendare un testo normativo tecnicamente scadente, nonostante provenga dagli uffici legislativi di ben quattro ministeri (Giustizia, Interni, Famiglia e Pari opportunità, Riforme istituzionali). Introdurre un nuovo reato, infatti, richiede il rispetto di canoni costituzionali che il proposto art. 577bis vìola, così prenotando “prima di nascere un posto nell’aula della Consulta” (Michele Passione, il Dubbio, 11 marzo). A giustificare la tipizzazione di un reato autonomo, devono ricorrere ragioni attinenti alla specificità del bene giuridico tutelato. A impedire l’arbitrio del giudice in sede applicativa, il precetto deve essere tassativamente determinato nei suoi elementi costitutivi. A renderne possibile l’accertamento giudiziario, la condotta vietata deve avere una sua materialità. A motivare un inasprimento sanzionatorio dev’essere l’inadeguatezza della pena già presente nell’ordinamento. Non è solo un problema di costituzionalità: in questioni così delicate - qual è il ricorso alla leva penale - “i tecnicismi sono l’unica alternativa alle parole a vanvera” (Emmanuel Carrère, V13, Adelphi, 2023, 219). A vanvera, invece, è elevare a reato autonomo l’omicidio di una donna “in quanto donna”, perché il bene giuridico della vita non ammette diversa tutela a seconda del genere. Per questo, il Governo cerca di tipizzare l’evento in base ai suoi possibili moventi: ma “l’atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa”, posto alla base del femminicidio, trasforma il giudice in un palombaro dell’animo umano, chiamandolo a un accertamento impossibile o arbitrario. Quanto alla circostanza che l’uccisione della donna miri a “reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”, non è quanto subisce qualunque vittima di omicidio? Sul piano sanzionatorio, il reato di femminicidio “è punito con l’ergastolo”. Ma già ora è così, quando un omicidio è aggravato dall’essere commesso da uno stalker (art. 576, n. 5.1, c.p.) oppure se la vittima è il coniuge, anche legalmente separato, o il partner dell’unione civile o la persona convivente con il colpevole o a lui legata da relazione affettiva (art. 577, n. 1, c.p.). 3. L’annunciato reato di femminicidio è, dunque, una mimosa appassita che emana il maleodorante odore di populismo penale. Per quanto sovrastate dalle fanfare governative (e dal frettoloso plauso di molte realtà associative femminili e femministe), alcune voci controcorrente hanno parlato - a ragione - di ricorso alla leva penale “in chiave simbolica e quasi consumistica”; di un “messaggio suggestivo” veicolato da un reato introdotto per dare all’opinione pubblica una “soddisfazione mediatica”, usando così il diritto penale “come strumento di consenso politico e come mezzo pedagogico”. Un reato-spot, annunciato a ridosso della Festa internazionale della donna “come la réclame del panettone alla vigilia di Natale”. Sigilla il tutto la comminazione del “fine pena mai”, in attesa - viene da pensare - di affiancarvi la pena accessoria della castrazione chimica, come propone un disegno di legge d’iniziativa leghista (A.S. 839). Qui l’inganno da svelare è duplice. Giuridicamente, all’esito del giudizio sarà possibile mitigare la condanna all’ergastolo, attraverso il bilanciamento con eventuali attenuanti (come prevede espressamente il 3° comma del nuovo art. 577-bis). Empiricamente, sugli autori di femminicidio la misura della pena non esercita alcuna deterrenza (come insegnano i tanti casi di subitaneo suicidio, consumato o tentato, del reo). Ma che importa? Ciò che conta è il messaggio rivolto alle vittime e ai loro familiari, cui il disegno di legge promette un’inedita centralità in fase processuale e di esecuzione della pena. Anche questo è un tratto tipico del populismo penale, che del paradigma vittimario fa un asso pigliatutto che tutto giustifica. 4. Il preannunciato delitto di femminicidio dimostra che la fabbrica di nuovi reati lavora a pieno regime, senza cali di produzione. È così da anni e l’attuale XIX Legislatura non fa eccezione. Redigendone con acribia il catalogo, Ermes Antonucci (il Foglio, 21 ottobre 2024) ha parlato di un’autentica “sbornia giustizialista”. Nel solo primo biennio di governo Meloni, infatti, sono stati già introdotti 48 reati di nuovo conio. Qualche esempio? Rave illegali. Lesioni nei confronti di medici e operatori sanitari. Danneggiamento di apparecchiature sanitarie. Riproduzione abusiva di opere coperte da diritto d’autore. Incendio boschivo. Traffico di migranti e conseguente morte. Abbattimento di esemplari di orso bruno marsicano. Omicidio e lesioni nautiche. Spaccio non occasionale di sostanze stupefacenti. Reato di “stesa”. Violazione degli ordini di protezione in caso di presunti abusi familiari. Imbrattamento di teche e custodie di opere d’arte. Violenza o minaccia nei confronti del personale scolastico. Nuovi delitti in materia di accessi abusivi a sistemi informatici. Indebita destinazione di denaro o cose mobili. Reato universale di gestazione per altri. Il totale andrà ricalcolato se - ad esempio - sarà approvato in via definitiva il disegno di legge governativo in tema di sicurezza, già licenziato a Montecitorio (A.C. 1660): da solo, immette una trentina tra nuovi delitti, inedite circostanze aggravanti e giri di vite sanzionatori. Qualche esempio? Punisce come reato la “resistenza passiva” nelle carceri e nei centri per migranti. Sanziona a titolo di illecito penale i blocchi stradali e ferroviari. Modifica in peius la normativa penale in materia di: accattonaggio; danneggiamento in occasione di manifestazioni; violenza, minaccia, resistenza e lesioni personali a un pubblico ufficiale; tutela di beni mobili e immobili adibiti per l’esercizio di funzioni pubbliche. Apporta modifiche in materia di circostanze aggravanti comuni e di truffa. Introduce il delitto di occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui. Rende facoltativo il rinvio dell’esecuzione della pena per la rea incinta o madre di neonato. Prevede la revoca della cittadinanza in caso di condanna definitiva per gravi reati. La direzione di marcia è sempre la stessa: ricorrere, più che alla leva, alla clava penale. 5. Servirebbe regolare il flusso di questo rubinetto che la politica tiene sempre aperto. La decisione circa il se, il come e il quanto punire, infatti, è squisitamente politica: in ragione di ciò, la Costituzione riserva alla legge le relative scelte di criminalizzazione. In termini di politica del diritto, però, ciò si traduce nell’autosufficienza della maggioranza di governo in materia penale. Così, come i pani e i pesci nell’Evangelo, i reati e le pene si moltiplicano in ragione della volubile volontà del Governo, espressa anche attraverso i suoi atti equiparati alla legge. Incrementandoli, la macchina giudiziaria ne esce ingolfata e si concorre a riempire gli istituti di pena oltre il necessario. È un circolo vizioso che va interrotto, introducendo a livello costituzionale valvole di sicurezza ad hoc. Quali? Chiedo ai pochi lettori interessati di pazientare: ne scriverò presto, su queste pagine. Delmastro, il caso Garlasco, e i problemi irrisolti della giustizia italiana di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 15 marzo 2025 Il nostro sistema giudiziario è intrappolato in una spirale di ipocrisia e di pressioni mediatiche: un pendolo che oscilla costantemente tra garantismo e giustizialismo. Anche se la politica italiana è momentaneamente assorbita dalle polemiche sulla guerra in Ucraina, il vero indicatore della crisi profonda che attraversa il nostro Paese resta pur sempre la giustizia. Il sottosegretario di fertile ingegno Andrea Delmastro Delle Vedove ne ha detta un’altra delle sue in un’intervista a Ermes Antonucci del Foglio. Dopo essersi definito giustizialista e garantista “a giorni alterni” (ma di quest’ultima patologia a dire il vero nessuno si era accorto, c’è da dire che la schizofrenia, metaforicamente parlando eh, spesso cela taluna delle manifestazioni sintomatiche) Delmastro come Fantozzi di fronte all’ennesima visione della Corazzata Potemkin, sbotta dopo la millesima domanda sulla riforma Nordio e rivela che per lui è una boiata pazzesca. Le sue non sono affermazioni peregrine, in effetti egli dice ciò che tutti sanno e pochi ammettono: che l’unica vera riforma efficace è quella che trasferisce le procure sotto l’esecutivo. Con la riforma sbandierata da Meloni e Nordio, afferma il sottosegretario, “un Pm non dovrà più contrattare il suo potere coi giudici in un solo Csm, ma avrà un proprio organo che gli garantirà tutti i privilegi e, prima ancora di divorare i politici, divorerà i giudici, terrorizzati da questa prospettiva”. Un punto, questo, tutt’altro che chiaro e che forse necessiterebbe di una spiegazione, ma la tesi sull’autoreferenzialità dei Pm è la stessa su cui si basa l’Anm per opporsi alla riforma. Esisterebbe dunque un corpo scelto e autoreferenziale di inquirenti che si auto-protegge, restando indifferente persino ai giudici. L’unico punto poco chiaro è perché proprio le procure dovrebbero lamentarsene, a meno che l’indignazione pubblica non sia solo una facciata, mentre in privato si fregano le mani. Vedremo se Delmastro finirà vittima dell’ennesima gaffe o se, come il bambino che svelò la nudità del re, se la caverà con un paio di scapaccioni. Sotto la cenere cova un altro incendio, alimentato dal riaccendersi improvviso di uno dei tanti delitti spettacolari che hanno segnato le cronache italiane: Garlasco. Nel frattempo, Alberto Stasi, l’ex biondino definito “dagli occhi di ghiaccio”, è ormai un uomo amareggiato e imbolsito, giunto alla fine della pena tredici anni dopo l’omicidio (pardon, femminicidio) della sua fidanzata. Ora, però, emergono nuovi sviluppi: le indagini sono state riaperte, c’è un nuovo indagato - un amico del fratello della vittima, subito etichettato come il nuovo mostro - e sono state rinvenute tracce genetiche che lo collegano al luogo del delitto. Le nuove indagini forensi, condotte con metodiche più avanzate dalla procura di Pavia e dal genetista che risolse il caso di Yara Gambirasio, avrebbero escluso la presenza di tracce di sangue nel dispenser del sapone, che secondo l’accusa Stasi avrebbe usato per lavarsi le mani dopo l’omicidio di Chiara. Una novità dirompente, perché smantella uno dei capisaldi dell’accusa, se non l’unico: la presenza esclusiva delle sue impronte sulla scena del crimine. Ora emerge un ragionevole dubbio, peraltro già ammesso nelle sentenze, che riconoscevano indagini e accertamenti condotti in modo errato. Come per l’uscita di Delmastro, la vera ragione dello scandalo è altrove, anche se l’ipocrisia dei luoghi comuni resta la stessa. Ciò che è davvero scandaloso (e indicibile) nel processo Stasi è che solo in Italia, e forse in qualche repubblica della Sharia, può accadere che un imputato, dopo due assoluzioni consecutive, venga infine condannato, trasformando ragionevoli dubbi in certezze assolute attraverso una rilettura soggettiva degli stessi elementi di prova che i primi giudici avevano ritenuto insufficienti. Secondo il costante insegnamento della Cassazione, questo non dovrebbe essere possibile, eppure accade quando si tratta di certi delitti che infiammano i talk show serali. In altri paesi i procuratori non possono appellarsi contro le assoluzioni; in Italia, una norma simile era stata introdotta, ma la Consulta l’ha cancellata perché alterava la parità delle parti nel giusto processo. Perché da noi il processo deve fare giustizia, qualunque cosa significhi. Meglio se in fretta e con una bella condanna finale. L’assoluzione è vista solo come un delitto rimasto impunito. Di fronte a madri addolorate, padri e sorelle straziati che attaccano i giudici colpevoli di emettere sentenze non allineate all’aspettativa della forca, l’esito non può che essere una condanna. Bisognerebbe accettare una verità elementare: il tanto sbandierato principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio ha un corollario inevitabile di civiltà: è meglio rischiare che un colpevole resti impunito piuttosto che mandare un innocente in carcere. Dunque, se quattro o cinque giudici ritengono che non ci siano prove sufficienti per una condanna, non ne bastano cinquanta di parere opposto per rovinare la vita di un colpevole di comodo. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che ciò che più spesso spinge i giudici è la convinzione che certi crimini ad alto impatto simbolico non possano restare impuniti, e tra questi il femminicidio, per il quale, secondo l’immaginario forcaiolo, il colpevole non può che essere il fidanzato, il compagno, il marito, meglio ancora se lombrosianamente “dagli occhi di ghiaccio”. E il fatto che, proprio mentre emerge il possibile orrore di un errore giudiziario mostruoso, il governo approvi una legge che introduce l’ergastolo per fumose ipotesi di femminicidio, la dice lunga sulla follia di un paese malato. Del resto, Delmastro, che a giorni alterni diventa garantista o giustizialista “pragmaticamente”, è l’emblema perfetto del popolo italiano: ora onesto, ora disonesto, ora papalino e laico, accogliente e razzista, pacifista e guerrafondaio, innocentista e colpevolista, eternamente quel “volgo disperso che nome non ha”. Caso Ramy, la perizia e il diritto prima del fatto di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 15 marzo 2025 “Nessuno speronamento”, ha stabilito la perizia del consulente nominato dalla procura di Milano nell’ambito delle indagini sulla morte di Ramy Elgaml, avvenuta il 24 novembre scorso: l’inseguimento di Ramy e del suo amico Fares Bouzidi, da parte dei carabinieri, era stato corretto; le modalità in cui l’inseguimento si era svolto erano state determinate proprio da Fares, alla guida dello scooter, “con il suo comportamento sprezzante del pericolo”; era stato lui, dunque, ad assumersi “il rischio delle conseguenze, per sé e per il trasportato”. Queste conclusioni sono state già interpretate, perlopiù, come una forma di assoluzione dei carabinieri: in pratica li avrebbero già “scagionati”. E forse è vero o forse no: saranno i giudici ora a valutare, fermo il fatto che nessuno dovrebbe auspicarsi la loro condanna, perché non è questo il punto. Il punto è che, al di là delle responsabilità individuali, sul piano sostanziale e filosofico la questione rimane quella che era, identica a sé stessa: è lecito ammettere la morte come conseguenza del mancato rispetto di un alt? Non c’è dubbio: nel momento in cui non si erano fermati davanti a quell’alt dei carabinieri, erano stati Ramy e Fares a porsi al di fuori della legge e così a giustificare una reazione. Ma è lecito ammettere che questa reazione potesse contemplare la morte come sua possibile conseguenza finale? Va ripetuto, a scanso di equivoci: il problema non è tanto quello dell’accertamento delle responsabilità individuali, ai fini di una condanna o di un’assoluzione (oppure, prima ancora: ai fini di un rinvio a giudizio o di un’archiviazione delle indagini). Il problema è che il diritto non si esaurisce mai nel suo momento “secondario”, che appunto è quello deputato all’irrogazione delle sanzioni: perché prima di quello “secondario” esiste sempre, necessariamente, un momento “primario”, che è quello dei comportamenti richiesti. E qui il discorso è molto più ampio e complesso, e ci chiama in causa tutti, collettivamente: chiama in causa le relazioni umane in quanto tali, il nostro modo di guardare alle cose e di concepire il rapporto fra bisogni e desideri, la nostra interpretazione del mondo e le parole attraverso le quali la esprimiamo. Da questo punto di vista, che non ha niente a che vedere con quello processuale, quell’inseguimento di Ramy e Fares da parte dei carabinieri assume un valore quasi simbolico: sia per le modalità, perché anche i carabinieri si erano evidentemente assunti il rischio delle conseguenze, sia per le intenzioni rivelate dai filmati di cui disponiamo, dai quali trapela un’intenzione deliberata di far cadere lo scooter, quasi una specie di compiacimento. Qualcosa di simile a ciò che il sociologo Didier Fassin, nel suo Punire. Una passione contemporanea, chiama “la parte maledetta del castigo”, per sottolineare come, “anche nelle forme considerate più civili dell’amministrazione della giustizia”, sia spesso presente una “zona d’ombra del godimento di una sofferenza provocata”. Non si tratta insomma di puntare il dito contro quei singoli carabinieri, ma di interrogarsi semmai sulle ragioni di questa “zona d’ombra”, sulla sua provenienza. Non si tratta, in altri termini, di prendersela con qualcuno in particolare; e se proprio dobbiamo prendercela con qualcuno dovremmo farlo soprattutto con noi stessi, nella misura in cui ci si possa dire vittime ma contemporaneamente anche artefici di questa realtà incanaglita, di una cultura di livore e di violenza in virtù della quale tutto, un po’ alla volta e quotidianamente, anche attraverso le forme dell’abitudine, diventa norma, e dunque normale. Anche il rovesciamento del diritto nel suo contrario, nella forza; e non a caso anche la negazione di qualunque logica della pace, fino al suo sbeffeggiamento, a favore di una logica solo di sopraffazione, di scontro e di guerra. Firenze. Detenuto morto, si indaga sulla dose fatale di Sandra Nistri La Nazione, 15 marzo 2025 È stato aperto un fascicolo d’inchiesta sulla morte per overdose del detenuto T.F., 34 anni originario di Pomezia, recluso nel carcere di Sollicciano. Il reato ipotizzato dal pm Lorenzo Boscagli è quello di morte in conseguenza di altro delitto. Sul cadavere dell’uomo è stata anche disposta autopsia. Nella cella di Fanfera - che è deceduto la mattina di giovedì all’ospedale Torregalli - sono state rinvenute delle siringhe con dell’eroina all’interno. Nel reparto dove l’uomo si trovava è stata eseguita una maxi perquisizione alla ricerca di ulteriore droga. E le indagini della procura puntano proprio a stabile come e da chi il 34enne ha ottenuto le dosi killer. Anche in considerazione del fatto che Fanfera era stato trasferito a Sollicciano da poco tempo e non aveva ancora goduto di permessi per uscire dal penitenziario. Il giovane entrava e usciva dai penitenziari ormai da molto tempo. Arrestato nel 2021 a Roma, aveva alle spalle tanti piccoli reati, dallo spaccio alla resistenza. Era diventato definitivo per un cumulo di pene e sarebbe dovuto uscire tra oltre cinque anni. Lascia una figlia. “Era tossicodipendente - spiega il suo avvocato, Laura Filippucci -, ed era stato trasferito poche settimane fa a Sollicciano dal carcere di Prato per problemi di sovraffollamento”. Difficile da capire, visto che il penitenziario fiorentino, in termini di presenze e condizioni strutturali, è uno dei peggiori a livello nazionale. Da gennaio a oggi, dietro le mura del penitenziario si sono verificati altri due morti, entrambi suicidi: un 25enne egiziano che si è tolto la vita il 3 gennaio e un 39enne romeno, deceduto lo scorso 15 febbraio. “Nelle celle di Sollicciano si è consumata un’altra tragedia, un detenuto poco più che trentenne è deceduto, sembra per overdose”, dice la sindaca di Scandicci, Claudia Sereni. “È l’ennesimo atto di una strage senza fine che richiede soluzioni urgenti. Ci uniamo all’appello del sindacato Uilpa, che chiede con forza la nomina immediata di un direttore”, conclude. Bologna. Giovani adulti alla Dozza: trasferimento il 24 marzo di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 15 marzo 2025 Lo ha annunciato, con una lettera ai sindacati, la direttrice Rosa Alba Casella “La sezione distaccata sarà autonoma per evitare contatti con gli adulti”. I cancelli della Dozza si apriranno ai giovani adulti in arrivo dai minorili il prossimo 24 marzo. È stata la direttrice della casa circondariale, Rosa Alba Casella, a comunicare la data, che adesso appare dunque vestita di un’ufficialità, alle organizzazioni sindacali della penitenziaria in servizio alla Rocco D’Amato. Dettagliando, inoltre, come dovrà quindi avvenire la gestione dei detenuti del Penale, ‘sfrattati’ dal loro reparto per far posto - la garanzia è ‘solo temporaneamente’ - ai cinquanta giovani adulti dei minorili. Una quindicina dei quali, ancora non è escluso, arriveranno dal Pratello. Nello specifico, gli adulti con condanne definitive saranno spostati nelle due sezioni al terzo piano del padiglione giudiziario rimaste libere dopo il trasferimento dei detenuti dell’Alta sicurezza a Fossombrone. Tuttavia, come spiega la direttrice, “per non pregiudicare il regolare svolgimento delle attività trattamentali e per salvaguardare i posti di lavoro alle dipendenze di ditte esterne” rimarranno nella disponibilità della Dozza “la biblioteca Pavarini, i locali destinati al call center, l’ex race, e il caseificio”. Invece, il campo del Penale e la palestra al piano terra diventeranno a uso esclusivo della sezione minorile. Il personale della penitenziaria addetto ai detenuti del Penale manterrà i suoi incarichi, ma si dovrà occupare anche di accompagnare e controllare i detenuti durante le attività trattamentali nel vecchio reparto. E andrà a integrare le unità operative in servizio negli altri piani della Dozza. Non si dovrà, invece, occupare dei giovani adulti: “Si evidenzia - si legge nella comunicazione della direttrice - che la sezione distaccata sarà gestita interamente da personale di polizia penitenziaria in forza all’istituto minorile e sarà totalmente autonoma, dovendosi evitare qualsiasi commistione con gli adulti. A tal fine - precisa Casella - è stato previsto un ingresso autonomo e il transito attraverso il cancello ingresso sarà consentito solo al personale dipendente dal Pratello”. Una definizione di ruoli e tempi che risponde, in qualche modo, alla richiesta di chiarimenti da parte dei sindacati, ma non alle perplessità mostrate anche dal mondo ‘fuori’ su questo innesto del minorile alla Dozza. Proprio per protestare, oggi in via del Gomito hanno annunciato un presidio anche le realtà anarchiche bolognesi. Modena. Al via il progetto per l’esecuzione penale esterna con 100 inserimenti l’anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2025 Rafforzare le misure alternative alla detenzione, puntando sul volontariato e sul terzo settore come strumenti di riscatto sociale. È questo l’obiettivo dell’Accordo di progetto sull’esecuzione penale esterna, siglato a Modena da una rete di istituzioni giudiziarie, enti del terzo settore e realtà professionali. L’iniziativa, della durata di due anni (2025- 2026), mira a trasformare la sanzione penale in un’opportunità di crescita, promuovendo una giustizia partecipativa e inclusiva. Il progetto, coordinato dal Tribunale di Modena, Csv Terre Estensi, Ordine degli Avvocati, Fondazione di Modena, Camera Penale Carl’Alberto Perroux e Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna (Ulepe), punta a ottimizzare l’efficacia delle misure alternative, come la sospensione del procedimento con messa alla prova e i lavori di pubblica utilità. L’obiettivo è facilitare 100 inserimenti l’anno in percorsi di volontariato o attività socialmente utili, accompagnati da formazione e monitoraggio costante. “Questo accordo amplia la rete degli enti accoglienti e permette di personalizzare i progetti riabilitativi”, spiega l’avvocato Roberto Mariani, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Modena. “Il volontariato diventa un motore di coesione sociale, essenziale per una comunità viva”. Le risorse economiche - 12mila euro dall’Ordine degli Avvocati e 8mila dalla Fondazione di Modena - saranno destinate a coordinamento e formazione. La prima fase prevede la mappatura degli enti disponibili a collaborare, incontri formativi e l’avvio dei primi inserimenti, con verifiche semestrali. “Il terzo settore realizza un principio costituzionale: la sanzione deve riparare e al tempo stesso reinserire”, sottolinea Alberto Caldana, presidente di CSV Terre Estensi. Matteo Tiezzi, presidente della Fondazione di Modena, aggiunge: “Questo percorso genera opportunità reali: per i partecipanti, è una chance di ridefinire il proprio ruolo sociale; per il volontariato, un’occasione di rafforzamento”. L’entusiasmo per l’accordo coinvolge anche la politica locale. Gli avvocati e consiglieri comunali Luca Barbari e Vincenza Carriero hanno espresso pieno sostegno all’iniziativa: “Come professionisti del diritto, siamo orgogliosi del ruolo attivo dell’Ordine degli Avvocati. Come amministratori, vediamo in questo progetto un’opportunità straordinaria per Modena, soprattutto per i detenuti della Casa circondariale Sant’Anna, che avranno concrete possibilità di reinserimento”. Barbari e Carriero evidenziano il valore simbolico e pratico dell’accordo: “Trasformare un momento di difficoltà in un’occasione di riscatto è un investimento sulla comunità. I numeri - 100 percorsi l’anno - sono significativi, ma il vero successo sarà vedere persone reinserirsi attivamente nel tessuto sociale”. Con la messa alla prova, il volontariato non è solo un’alternativa al carcere, ma un ponte verso la responsabilizzazione. “La collaborazione tra istituzioni e terzo settore è un modello da replicare”, conclude Caldana. Le prime verifiche sono attese a fine 2025, ma le aspettative sono già alte. Come sottolineano i consiglieri: “Questo accordo è un inizio. Speriamo diventi un faro per costruire una società che non punisce, ma accompagna”. Una sfida che Modena ha deciso di raccogliere, puntando sulla forza rigeneratrice della comunità. Brescia. Detenuti al lavoro, la scelta di Angelo Maiolo con la cooperativa “Alborea” elivebrescia.tv, 15 marzo 2025 “Affrontare i pregiudizi e cambiare. Non è stato facilissimo ma a distanza di 8 anni la sfida si è dimostrata appagante anche perchè nelle difficoltà si cresce, si impara, e i ragazzi (e ragazze) che hanno avuto la sfortuna di passare dal carcere insegnano molto, hanno tanto da dare”. A parlare è Angelo Maiolo, presidente della cooperativa Alborea che ha 8 anni impiega al lavoro detenuti in art. 21, che escono dal carcere per andare al lavoro e rientrano al termine del turno lavorativo, ed ex detenuti. Alborea è la cooperativa che gestisce la parte bar e food della Cascina del Parco Gallo a Bresciadue. E Maiolo è l’esempio pratico, lampante, di come il carcere può rieducare offrendo un percorso di riabilitazione nella società, e dando ad un detenuto l’occasione per imparare un lavoro, una professione che sarà preziosa per il suo ritorno nella società quando avrà pagato il suo debito con la Giustizia. “Non è stato semplice - ci confida Angelo Maiolo - ci sono delle difficoltà ma le difficoltà sono soprattutto i nostri pregiudizi”. Verona. Micaela Tosato: “Chiedo che Ion rimanga in Italia” Corriere di Verona, 15 marzo 2025 La veronese Micaela Tosato, convolata a nozze il 4 marzo nel carcere di Rebibbia con il detenuto romeno Nicolae Ion di 52 anni, ha scritto una lettera al ministro Carlo Nordio per chiedere che il marito possa finire di pagare il suo debito con la giustizia in Italia. Questo perché Ion dovrebbe essere trasferito in Romania per scontare gli ultimi due anni di condanna. Il 52enne era a Montorio e solo pochi mesi fa è stato trasferito a Rebibbia. Ieri per lui si è tenuta l’udienza della Corte suprema di Bucarest, che sta valutando il suo caso. Secondo Tosato, il marito “ha un percorso detentivo perfetto”. In carcere a Montorio Ion ha studiato, conseguito un diploma e lavorato. Una volta scontata la pena avrebbe già un lavoro a Verona, oltre alla possibilità di ricongiungersi con la moglie. Il giudice - spiega Tosato - “dice che avere un lavoro, una famiglia, un percorso detentivo perfetto non sono motivi sufficienti perché lui sconti la pena in Italia”. La lettera di Micaela Tosato Gentile Ministro Carlo Nordio. Le scrivo una lettera aperta perché sicuramente ho più possibilità che lei la legga. Le PEC ministeriali fanno 1.000 passaggi prima, lo sappiamo. Le scrivo perché mio marito, Nicolae Ion, del quale sono certa avrà sentito parlare, perché al suo caso sono stati attenzionati i suoi sottosegretari dalla Garante Nazionale Irma Conti e dall’ Onorevole Flavio Tosi, mi ha appena chiamato dicendomi che da oggi, dopo aver tentato il suicidio poco tempo fa, inizia lo sciopero della fame, delle sete e della terapia. Dato che soffre di ipertensione e in passato ha avuto un ictus la cosa mi preoccupa non poco. Ieri c’è stata l’udienza della Corte Suprema di Bucarest, ancora non sappiamo l’esito, ma abbiamo ben poche speranze. Il giudice che ha parlato con Nico, che ha partecipato all’ udienza in collegamento, dice che avere un lavoro, una famiglia (abbiamo lottato come leoni per riuscire a sposarci, insieme alla Garante di Roma Valentina Calderone, alla Garante Nazionale Irma Conti, all’ ufficio stato civile del Comune di Bovolone e con la collaborazione della Direzione del Carcere di Rebibbia NC), che aver fatto un percorso detentivo perfetto, lo dimostrano le relazioni della CC di Verona, che aver studiato conseguendo il diploma di terza media e aver frequentato l’istituto alberghiero interno all’istituto, lavorando in contemporanea (e solo chi è stato in carcere sa cosa vuol dire), non sono motivi sufficienti perché lui continui a scontare la sua pena in Italia, considerando che gli rimangono solo due anni per terminare. Dice sempre questo giudice che l’Italia che conosce il suo percorso può sospendere il procedimento. Bene! Gli avvocati Simone Bergamini e Francesco Spanò hanno presentato ben sette richieste di sospensione alla Procura di Verona e altre istituzioni, documentando e argomentando il tutto, ricevendo come unica risposta che nel 2021 Nico non aveva rapporti solidi in Italia. Anche qui avremmo da rispondere dimostrando tantissime lettere, ma dal 2023 le cose sono cambiate. La nostra relazione era nota in sorveglianza e in Carcere a Verona. Ora mi chiedo, dato che è tutto documentato con diplomi, buste paga, proposta di assunzione, relazioni carcerarie, cosa deve fare di più un uomo che ha creduto nell’ articolo 27 della Costituzione Italiana? Ammazzarsi? Perché a questo lo state portando! Il suo non sarà uno dei tanti suicidi o una delle morti non classificate. Stavolta, come ho già detto, nessuno potrà dire non sapevo! Nemmeno lei. Mi aspetto una risposta da lei che è veneto come me, che è stato magistrato. Vengo a Roma, non c’è problema. Le inondo l’ufficio con tutta la documentazione. Mi deve dire perché questa integerrima istituzione giustizia non riconosce l’impegno di un detenuto nel voler cambiare. Con Osservanza. Saluzzo (Cn). Daria Bignardi: “Bisogna valutare l’importanza della libertà e sceglierla” di Giulia Poetto La Stampa, 15 marzo 2025 Ospite del progetto “Adotta uno scrittore” ha incontrato gli studenti dell’istituto Soleri Bertoni e i detenuti del carcere Morandi. Quando adotti una scrittrice col mal di carcere, lo fai consapevole di non essere vaccinato. Servirà tempo per capire se qualcuno degli studenti della quarta DB dell’Istituto Soleri Bertoni di Saluzzo che ieri mattina hanno incontrato la scrittrice Daria Bignardi sia stato contagiato, ma dal lavoro di scrittura che tutti hanno fatto dopo aver letto la sua ultima opera, “Ogni prigione è un’isola”, è evidente come questo abbia fatto quello che ci si aspetta da un libro, essere un buon compagno di viaggio nel mare della complessità. Quello al Soleri Bertoni era il primo atto dei quattro previsti dal progetto “Adotta uno scrittore” del Salone del Libro di Torino; nel pomeriggio il secondo, nel quale Bignardi ha dialogato presso la casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo con detenuti studenti del liceo artistico della sezione distaccata del Soleri Bertoni. Venerdì 11 aprile Bignardi tornerà al Morandi per il terzo atto, e con lei ci saranno gli studenti della quarta DB; chissà che la scrittrice non trovi il tempo per visitare anche la Castiglia di Saluzzo, carcere fino al 1992. L’incontro al Soleri Bertoni, al quale erano presenti la vicepreside Carla Bianco, la professoressa Laura Carletti e le volontarie Mariella Carena e Rossella Scotta, è stato un ping pong tra due che si sono messi in gioco - Bignardi con il libro, gli studenti con la sua lettura e le loro riflessioni. Lasciate da parte le note difficoltà strutturali, uno dei problemi più urgenti, il confronto ha toccato numerose questioni aperte del sistema carcere, compresa quella ontologica. “Così com’è, il carcere non serve: ci vuole un carcere diverso, con molte meno persone - ha detto Bignardi -. Fondamentali per sopravvivere in carcere sono le relazioni - con i compagni di cella, gli agenti, gli educatori, i volontari -, perché la condizione più crudele e vicina alla tortura è quella dell’isolamento”. Se è ormai pacifico che lo studio e il lavoro in carcere sono gli strumenti principali per abbattere il rischio di recidiva, c’è ancora molto margine di miglioramento sull’offerta lavorativa per le detenute donne, che rappresentano il 4% della popolazione carceraria: “Di solito sono lavori che hanno a che fare con la cucina o la sartoria: sarebbe ora di andare oltre gli anni Cinquanta”. Alla domanda sul perché le donne delinquono meno degli uomini, Bignardi ha risposto ipotizzando che sia in parte una questione di natura, in parte una questione di cultura. Dal dentro al fuori, con il momento dell’uscita dal carcere, molto più difficile del previsto - “un detenuto di 24 anni, che dentro aveva le idee chiarissime su cosa avrebbe fatto una volta fuori, mi ha confessato in modo disarmante che il problema è quel giorno in cui esci, quando non sai se andare a destra, dritto o a sinistra”, e la difficoltà di riabituarsi alla libertà, direttamente proporzionale alla durata della detenzione: “Più a lungo sei privato della libertà, più tempo ci metti a riadattarti”. Così sulla libertà: “Occorre valutarne l’importanza e decidere di sceglierla”. Una decisione paragonata a quella tra luce e tenebre, raccontata nel Vangelo di Giovanni: “L’uomo tende alle tenebre, più interessanti, ma dopo esserci passato attraverso sceglie la luce, e ci si trova meglio”. La chiusura sull’esperienza del volontariato in carcere: “Io sto sempre bene quando vado in carcere per mille motivi, tra cui anche l’autenticità delle relazioni. È una cosa un po’ magica: tu dai tempo, e in cambio ricevi moltissimo”. Oltre a Daria Bignardi, la 23ª edizione di “Adotta uno scrittore” ha portato in provincia di Cuneo Federico Vergari all’Istituto Comprensivo Sommariva Perno di Corneliano d’Alba e Morena Pedriali Errani all’Istituto Istruzione Superiore Cravetta Marconi di Savigliano; l’8 e il 9 aprile sarà la volta di Paola Zannoner all’ I.C. Papa Giovanni XXIII di Marene. Lunedì 19 maggio, all’interno della 37ª edizione del Salone del Libro di Torino, l’incontro conclusivo. Massa Carrara. Il teatro come accoglienza, “Passaggi” dal carcere al palco di Daniele Rosi La Nazione, 15 marzo 2025 Promuovere la cultura dell’accoglienza e il rispetto di ogni persona in quanto essere umano. Su queste premesse si sviluppa la nuova edizione di “Passaggi” il Festival di teatro-carcere che torna il 21 e 22 marzo agli Animosi e al Ridotto. Due le giornate di spettacoli teatrali aperte a tutti e con il coinvolgimento delle scuole. Passaggi è organizzato dal Comune e da Experia aps compagnia teatrale, che da molti anni lavora per la realizzazione di laboratori teatrali all’interno delle Case di Reclusione di Massa, Lucca e San Gimignano e numerose attività collaterali racchiuse sotto la denominazione Fuori e Dentro le Mura. L’iniziativa è stata presentata in Comune dall’assessore Gea Dazzi, la vicesindaca Roberta Crudeli, Cristina Sichi e il regista e direttore artistico di Experia, Alessandro J. Bianchi. “Sono appuntamenti importanti a livello sociale e artistico - ha spiegato Bianchi - e c’è tanto lavoro da parte di persone che usano alcuni dei pochi giorni che hanno di permesso per dedicarsi al teatro. Anche il confronto con le scuole sarà un momento importante”. Giovedì 20 marzo alla Casa di reclusione di Massa sarà inaugurata la seconda edizione con lo spettacolo alle 16.30 ‘Questa sera si recita Nick e Bart’ della compagnia ‘Oltre la tempesta’ della casa di reclusione di Massa. Venerdì 21 marzo alle 11 agli Animosi lo spettacolo ‘Labirinti’, riservato alle scuole, con la compagnia Talibè della Casa di reclusione di San Gimignano. Sabato 22 marzo alle 17.30 al Ridotto degli Animosi si terrà una tavola rotonda aperta sui nuovi modi di pensare il carcere e sull’esperienza del teatro all’interno del carcere, con Bartolomeo Barberis responsabile Comunità educante con i carcerati associazione Papa Giovanni XXIII, Antonella Venturi direttrice della Casa di reclusione di Massa, Gea Dazzi e Roberta Crudeli, Enrico Isoppi presidente Fondazione Cassa di risparmio di Carrara, Alessandro J. Bianchi regista e direttore artistico di Experia e alcuni attori detenuti. Coordina i lavori Claudia Volpi. Sempre sabato 22 marzo alle 21 il Teatro Animosi ospita gli spettacoli UI con la Compagnia ‘Oltre la tempesta’ della Casa di Reclusione di Massa, regia di Alessandro Bianchi e ‘Giulietta + Romeo-Per amore non si muore’ della Compagnia tempo libero della Casa circondariale di Livorno, a cura di Arci Livorno, regia di Francesca Ricci e Lara Gallo. Libri. Un memoir di viaggio e di lotta, tra peripezie picaresche e carcerarie di Andrea Colombo Il Manifesto, 15 marzo 2025 “Non mi sono fatto niente” di Maurizio “Gibo” Gibertini, l’autobiografia estrema per tempi estremi (edita da Milieu). Tra saggistica, narrativa e memorialistica i volumi che trattano degli anni tra il 1967 e i primi anni 80 si misurano in tonnellate e sono per lo più superflui. Ma, se si dovesse circoscrivere la scelta a pochissimi titoli, Non mi sono fatto niente (Milieu, pp. 336, euro 18,50), di Maurizio “Gibo” Gibertini, rientrerebbe di diritto nel mazzo. Se si tratta di restituire le emozioni soverchianti e la realtà frenetica di quel momento, la generosità e l’incoscienza, il senso forte di appartenenza a una comunità e la sua dissoluzione mai però del tutto compiuta, l’urgenza di libertà e gli errori che induceva il libro di Gibertini non teme paragoni. Eppure questo non è o non è soltanto un libro sugli anni della rivolta. È un’autobiografia, una storia estrema come estremi erano i tempi e i loro protagonisti. Se riassume un’intera parabola è quella della generazione di Gibo non di uno specifico momento, per quanto centrale e tale da incidere sui decenni a venire. Ma si sa che un Movimento è davvero tale quando le storie individuali si confondono con quella collettiva: la parabola di Gibo è anche il ritratto della Milano di quegli anni, una realtà unica per molte ragioni, incluso il fatto che in nessun’altra piazza lo scontro all’interno della sinistra rivoluzionaria raggiunse simili livelli di incarognimento e violenza, con punte di schietto squadrismo. La storia di Maurizio Gibertini parte come un tipico percorso di militanza: una famiglia operaia, il vento liberatorio degli anni 60, Lotta continua poi l’Autonomia con Rosso, la guerriglia di strada sino alla lotta armata ma senza cadaveri sulla coscienza, non per fortunato caso ma per scelta. Già alla fine del 1977 Gibo capisce che la partita è persa e come tanti immagina di poter ricominciare dall’altra parte dell’oceano, in Sudamerica. Il romanzo di Movimento diventa racconto di viaggio, il versante picaresco prende il sopravvento, le droghe, già molto presenti, dilagano, le disavventure si moltiplicano e l’autore gioca sul registro comico non meno che su quello drammatico. Il viaggio, come la lotta, è un altro modo per restare fuori dalla legge, sottrarsi allo Stato e al suo controllo. La legge chiede il conto quando Gibo torna in patria. Fioccano le denunce dei pentiti: ‘Coniglio’, al secolo Mario Ferrandi, Marco Barbone. Gli addebitano molto più di quanto abbia fatto: condannato nel processo Rosso/Tobagi, poi processato anche per l’uccisione dell’agente Custrà, nella manifestazione del 14 maggio 1977 alla quale, caso più unico che raro, non aveva neppure partecipato. Infatti sarà assolto in appello con formula piena. Il racconto picaresco si trasforma in romanzo carcerario e si parla degli anni in cui nelle prigioni lasciarci la pelle era ordinaria amministrazione: una storia di galera, di pestaggi e ammazzatine, di strategie di sopravvivenza sempre precarie. Ma anche un’istantanea raggelante dell’orrore in cui quella ricerca collettiva, violenta ma gioiosa, di liberazione era alla fine degenerata. Maurizio Gibertini non giudica, non scaglia mai anatemi. Però racconta senza sconti e i fatti parlano da soli. Fuori dal carcere Gibo non ritrova la Milano, l’Italia e il mondo che conosceva. C’è la Milano da bere, la voracità yuppie, la dissoluzione della comunità di cui faceva parte, squassata dall’impossibilità di trovare una terza via, che Gibo cerca inutilmente, tra dissociazione e “irriducibilità”. Ci sono l’eroina, la tossicodipendenza e la battaglia per uscirne. Ci sono anche i frutti di una vita sentimentale tempestosa, una figlia perduta, ritrovata e poi tragicamente persa di nuovo, un’altra che invece trova faticosamente la sua strada. Dopo la sconfitta Gibo non disarma: continua caparbio a cercare la libertà, vera cifra della sua e della nostra esperienza, anche quando si tratta di sbarcare il lunario come webmaster quasi ante litteram e poi, filmmaker. Il libro di Gibertini è un memoir, però scritto come un romanzo, anzi come un lungo rap mitragliato senza mai riprendere fiato, con una capacità di tenere il ritmo avvinghiando il lettore che di solito latita tanto nei volumi di ricordi quanto nei romanzi su quel tempo e con una dose massiccia di autoironia. Quelli che si misurano con il loro e nostro passato prendendolo sul serio sono di solito incapaci di riderne. I pochi che slittano verso il registro opposto rendono un servizio anche peggiore: camuffano con il grottesco quanto di radicalmente nuovo, drammatico e alla fine anche tragico invece c’era. Gibo non cade in nessuna delle due trappole e neppure azzarda analisi: non è un trattato, è un racconto. Che però delinea la demarcazione tra chi fantasticava di sostituirsi allo Stato e chi cercava e difendeva spazi sottratti alla presa dello Stato. Il confine tra torvi echi del passato e scintille di futuro. Se l’Ue si riarma e ripudia i suoi ideali condanna i giovani a studiare un’altra guerra di Maurizio Maggiani La Stampa, 15 marzo 2025 “Per favore non fate la guerra che poi dobbiamo studiarla”. Graffito diligentemente calligrafato con vernice acrilica sul cancello di una scuola fiorentina. Chi avesse voglia di interrogarsi sulla percezione che hanno della guerra coloro che sarebbero chiamati a combatterla qui trova una risposta esauriente. Ce la troverebbe anche il segretario generale della Nato Mark Rutte che invoca non più e non solo un’economia di guerra, ma anche una mentalità bellica. È la prima volta dopo mezzo secolo che trovo scritta su un muro del mio Paese la parola guerra, e allora la guerra era quella degli altri, il Vietnam. Non che nel frattempo non ci fossero state delle guerre che ci, e mi, hanno coinvolto, ma la parola guerra è sempre stata accuratamente messa da parte con l’invenzione di accorti neologismi, vedi operazione di peace keeping tanto per citarne una. Il ripudio della guerra è stato un giuramento e una promessa presi molto sul serio e non solo dalla nostra Costituzione, forse che l’Onu, a cui hanno aderito tutti gli Stati indipendenti del globo, non ha come fondamento del suo statuto quel giuramento? È questo un retaggio talmente consolidato che persino Vladimir Putin non ha osato infrangerlo, e ha fantasiosamente chiamato la sua guerra operazione militare speciale, e mette in galera chi la chiama con il suo nome. Pace è la parola dominante di questi ultimi ottant’anni di storia umana, pace la parola sulla bocca dei governi e degli stati maggiori in guerra le mille volte che il giuramento è stato infranto. Pacifista il movimento di massa globale che tra gli anni ‘90 e il 2000 ha assunto una forza tale da essere proclamato dal NYT, in un memorabile quanto azzardato editoriale, la terza potenza mondiale. E quando vogliamo parlar bene dell’Europa, impegno sempre più gravoso, ci diciamo che se non altro ci ha garantito ottant’anni di pace, interna s’intende; mentendo senza vergogna, visto che il cuore dell’Europa è stato devastato tra il ‘91 e il 2001 dalle guerre della ex Iugoslavia, guerre con risvolti genocidari, guerre ancora latenti. E a tal proposito chiedo agli appassionati europeisti senza un filo di se e senza l’accortezza di un ma, se l’Europa di Rossi e Spinelli, il tanto ricordato e poco letto Manifesto di Ventotene, quel sogno di Giuseppe Mazzini fatto progetto politico e militanza etica, non sia da considerare con il dovuto spirito critico morto per stolida ignavia e brutale egoismo a Srebrenica, e dalle sue fosse comuni mai risorto. Oggi quando esala dalla bocca dei governi e dagli stati maggiori, quando si inanella dai vapori dei media e dalle traslucide menti opinionali, la parola pace è conseguente alla parola guerra, quando non prudentemente sottintesa, nel pieno accoglimento dell’esortazione di Mark Rutte a edificare una mentalità bellica, e specificatamente per noi di qui, il rinascimento dello spirito guerriero dell’Europa dalle braci della gloriosa battaglia del Piave. Tutto questo compendiato nel discorso così colmo di ansia e venato di allucinata visionarietà della presidente Von der Leyen, il famoso discorso detto del “Rearm EU” che ha qualche possibilità di passare alla storia, dove si propone non la parola difesa, che è contemplata in ogni costituzione nazionale e comprende molte cose e molte complessità, ma il riarmo, che è parola semplice, definitiva, ignota a ogni costituzione. È un mutamento non da poco, mettiamo pure epocale se posso permettermi, una rivoluzione lessicale, politica, etica, che chiede di pensarci su per bene. Mi sbaglio? E a questo nuovo corso io sono del tutto impreparato, del resto sono stato cresciuto nella certezza dell’impossibilità di un’evenienza del genere, sono figlio della Repubblica e la Repubblica si è fondata su questa certezza. Tanto per capirci, la guerra di Bosnia, che pure ho solo sfiorato, mi ha procurato un trauma talmente devastante che ancora oggi a distanza di più vent’anni non so risolvere. A ciò che mi chiede la storia di oggi io non sono per niente certo di poter dare risposte, anzi, a dire la verità ho solo domande. Eccole. Ad appendice al suo storico discorso la presidente Von der Leyen ha solennemente dichiarato che per l’Europa il tempo delle illusioni è finito. Illusioni quali? Intendeva forse i pilastri fondanti l’Unione Europea? Quando nel ‘51 fu fondata la Ceca, l’embrione dell’Unione, i suoi padri, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, nessuno dei tre iscritto alla marcia Perugia Assisi, dichiararono ai loro popoli che mettere in comune il mercato delle materie prime indispensabili per costruire cannoni, il carbone e l’acciaio, avrebbe impedito agli Stati nazionali fino a pochi anni prima nemici di costruirne di nuovi. Oggi abbiamo il nemico alle porte, giusto?, ma non che allora fosse più distante, la Nato era di due anni prima, l’America era in piena paranoia maccartista. Delle due l’una, o erano dei bugiardi ipocriti o erano degli illusi, e da lì in poi tutti coloro a cui si deve il pensiero e l’azione per la costruzione dell’Unione Europea. Dare dei bugiardi a quelle brave persone non si può e dunque erano degli illusi e io sono lì con loro, indietro di settant’anni sulla storia. Perché se quel tempo è finito ne è iniziato uno nuovo, quello della guerra. Spiegatemelo bene, perché è un po’ scioccante messo giù così duro. E il nemico? Indicatemelo bene il nemico. Oh, certo, la Federazione Russa di Vladimir Putin e la sua ancestrale propensione aggressiva, lo vediamo bene in Ucraina e non c’è possibilità di fraintendimento. Vero è che risulta difficile immaginare con quali mezzi, visto che in tre anni non è riuscita ad arrivare a Kiev, riuscirebbe a conquistare Tallinn, Varsavia e poi Berlino e giù fino all’Atlantico, per farne cosa poi? Se domani la Russia potrà dire di aver vinto la sua guerra di aggressione, lo farà solo perché gli Usa di Trump le hanno regalato la vittoria, mi sbaglio? Se no, allora vuol dire che l’Europa è assediata da est e da ovest. Del resto il presidente Usa in quanto a minacce, verbali, non è da meno del collega russo, visto che non passa giorno senza astenersi dal minacciare di annettere “in un modo o nell’altro” la Groenlandia, un territorio della Ue. Mettiamo che accada, mettiamoci pure che gli Usa escano dalla Nato, quando si assume una mentalità bellica la paranoia non è mai troppa, in tal caso una domanda, che si fa? Dovremmo difenderci come è giusto o arrenderci come è ovvio? E ancora; i fautori del riarmo lo sostengono in base al principio di deterrenza, se incutiamo nel nemico il dubbio di una vittoria vedi che quello se ne sta buono. Giusto, ma la deterrenza si basa sull’equilibrio delle forze contendenti. Al momento la Federazione Russa è in possesso di 6257 ordigni nucleari, gli Usa soltanto 5500; i Paesi “atomici” d’Europa in tutto 615 con sistemi di lancio assolutamente ridicoli rispetto a quelli potenzialmente avversari. Quanti decenni occorrono perché la Ue si metta in equilibrio? Ma è un falso problema, è universalmente riconosciuto dagli strateghi militari che una guerra atomica non può avere vincitori. Non resta che la guerra convenzionale, a questo ci si può lavorare. In che modo? La Ue ha deciso di finanziare il riarmo degli Stati nazionali non di costruire una difesa comune. Domanda, che senso ha? È ovvio che l’Ungheria e altri eventuali Stati guidati dal sovranismo non hanno per la testa niente di comune e men che meno in tema di armi. L’Ue così com’è non avrà mai una difesa comune perché in questo semplicemente non esiste. Domanda, un’altra Europa è possibile? È anche solo immaginabile? Come? La Ue ha nel suo seno due Paesi costituzionalmente neutrali, l’Irlanda e l’Austria, e pare che intendano rispettare la loro costituzione in eterno. Che si fa, li si espelle dalla Ue, contempliamo nei suoi futuri regolamenti bellici l’obiezione di coscienza? Un’ultima domanda, l’Europa ha ampiamente dimostrato agli occhi del mondo di non avere nessuna capacità, o intenzione, di iniziativa diplomatica in nessunissima crisi che il mondo ha attraversato in questi ultimi decenni, la sua irrilevanza è ai limiti tra ridicolo e tragico, in questo negando i suoi stessi pilastri fondanti; la sua irrilevanza nella crisi ucraina, salvo pagare l’ignominia con un po’ di miliardi di euro, è vergognosa quanto il suo silenzio assoluto sulla guerra di Gaza, salvo pagare l’ignominia con la sovvenzione di contingenti di volontari di Ong impegnati nella missione impossibile di lenire almeno lo strazio dei civili. E dunque, chi al mondo sarà disposto a considerarla qualcosa di più del niente quando si presenterà al suo cospetto come forza militare? Non c’è nessuna malizia in queste domande, c’è solo la sincera affermazione della mia incapacità a darmi risposte. Oggi ci sarà una grande manifestazione a Roma, lo sappiamo, la parola d’ordine, almeno quella originaria, è suggestiva e persino sacrale: “Qui si fa l’Europa o si muore”. Hanno aderito talmente tante personalità, associazioni, sindacati, sindaci, partiti, correnti di pensiero anche diverse e anche confliggenti, persino stilisti, che c’è da vergognarsi a non esserci. Io non andrò e invidio chi ci sarà. È sempre bella una piazza popolata di buone intenzioni, è troppo tempo che non si convoca la piazza che non sia per un comizio, è troppo importante rompere la solitudine, solitudine delle persone e dei pensieri, a cui siamo indotti da decenni. Non ci sarò perché ci vedo troppo poco e mi scoccerebbe trovarmi inconsapevolmente fianco a fianco con chi a queste mie sincere e accorate domande risponderebbe con malizia, e alla fondamentale, quale Europa per cui vivere e non morire? mi sentirei ripetere che è finito il tempo delle illusioni. E ne sarei troppo mortificato, perché a chi se non a quella piazza porre le mie domande con fiducia e attesa? So di non poter escludere che non ci siano risposte, capita nel corso degli umani eventi che la storia ti ficchi in un culo di sacco, allora cosa resterà alle generazioni a venire se non doversi imparare a memoria date e personaggi in aggiunta delle catastrofi già nel programma dell’ultimo anno di scuola? Tunisia. Tra i neri di Sfax di Angela Nocioni L’Unità, 15 marzo 2025 “Hanno detto che portavano in prigione noi tre perché siamo quelli che fanno i video, denunciamo quel che ci fa la polizia”. “Unhcr dice che non può aiutarci perché non ha capacità di azione indipendente”. Joy è una giovane nigeriana, bloccata negli uliveti a Sfax insieme ad altre trentamila persone, tutti migranti subsahariani. “Era il 2023, agosto o settembre, non ricordo bene. È allora che sono arrivata in Tunisia - dice lei - da quel momento, ho cercato di dare supporto e lottare per tutti i migranti qui. Attraverso la nostra voce, vogliamo solo far sapere al mondo quello che stiamo attraversando: non stiamo bene. Sì, l’obiettivo di tutti è attraversare il Mediterraneo per una vita migliore, ma sembra quasi impossibile. Il governo Meloni dice di combattere i trafficanti, ma in realtà stanno combattendo noi, non loro. Ci stanno buttando nel deserto, vendendoci ai libici. E da lì, devi trovare un modo per liberarti dalle prigioni, e così via, in un ciclo continuo. Molte persone sono morte, ma sembra che nessuno voglia ascoltarci. Si limitano a seguire quello che il governo Meloni chiede loro di fare. Qualsiasi cosa che possa aiutare a ottenere giustizia e libertà, io la sostengo. È giusto che il mondo veda la verità, non quello che il governo Meloni racconta. Grazie a chi fa sentire le nostre voci”. Ad ascoltare lei e le altre persone di cui leggerete in queste due pagine sono state le ricercatrici e gli attivisti di Memoria mediterranea. Il documento intero lo potete leggere sul sito memoriamediterranea.org e su Melting pot nella rubrica mensile Resistenze ai confini in cui sono raccolti i risultati di lunghe ricerche sul campo con le testimonianze dirette dei migranti. Ora a parlare è Josephus, anche lui migrante ancora in Tunisia: “Ho trovato lavoro Aït Addam, nella zona di Biserta, per fortuna sono riuscito a trovare un lavoro. Lavoravo sempre nelle costruzioni, mi pagavano tre dinari e mezzo al metro. E poi ho avuto problemi con l’uomo per cui lavoravo. All’inizio, nei primi due mesi, mi ha pagato. Poi, al terzo mese, non mi ha pagato, al quarto mese non mi ha pagato. ho preso la mia famiglia e sono tornato a Tunisi e sono andato a vivere nella zona di Ariana. Poi, ad Ariana, siamo riusciti a stare con altre persone nello stesso appartamento, per risparmiare. Sono riuscito a trovare un lavoro in un cantiere. Il 21 febbraio 2023 stavo lavorando, e è successa una cosa terribile dopo il discorso presidenziale che ha fatto esplodere tutto. A lavoro ho ricevuto una telefonata da un mio amico che mi ha detto che stavano attaccando i neri nella zona. Tra marzo e aprile del 2023, molti migranti, tra cui Josephus organizzano manifestazioni pacifiche, pubblicano video attraverso il profilo Twitter di Refugees in Tunisia. Joseph racconta: “Chiedevamo una tessera che ci proteggesse un poco per poter andare alla polizia e denunciare un problema, come un datore di lavoro che non paga. La polizia dovrebbe intervenire. I nostri figli dovrebbero poter andare a scuola. Mio figlio è qui da tre anni e non ha mai frequentato la scuola. È assurdo. Dovremmo avere accesso a cure mediche. Tutto questo era contenuto in una petizione che abbiamo consegnato ai dirigenti di Unhcr i quali ci avevano promesso di rispondere entro tre giorni. Sono passati tre giorni senza risposta. Abbiamo continuato a protestare e, dopo una settimana, ci hanno detto che non potevano esaudire le richieste, non avevano capacità di azione indipendente. Una mattina la polizia ha iniziato a sparare gas lacrimogeni. Alcuni di noi sono stati catturati, la polizia li maltrattava, li picchiava, e donne e bambini stavano soffocando per i gas lacrimogeni. Ci siamo spostati tutti all’Oim. La polizia è venuta e ci ha detto che avevamo un’ora per lasciare il posto. Alcuni di noi hanno iniziato a raggrupparsi per andare all’Ambasciata americana, perché era l’unica vicina, e dove potevamo andare e fare sentire la nostra voce. Hanno arrestato molte persone, e io avevo anche dei video. Li ho pubblicati. Stavamo soffocando coi gas, hanno sparato moltissimo gas lacrimogeno. L’aria era irrespirabile, nemmeno per me era facile. Così ho preso una strada che dall’Oim porta dall’altra parte della strada verso l’Unhcr. Quando sono arrivato lì, ho trovato un gran numero di poliziotti schierati. Mentre attraversavo la strada, improvvisamente vedo una macchina fermarsi davanti a me. Ho capito che volevano prendermi, così ho iniziato a correre. Mi hanno inseguito. Poi una moto mi ha bloccato insieme a un’altra macchina. Mi hanno preso e mi hanno chiesto il telefono. Non so perché siano così crudeli o ciechi. Non capisco. Dobbiamo tutti vivere. Se cerco rifugio nel tuo Paese, non significa che tu debba trattarmi in questo modo. Hanno iniziato a picchiarmi, usavano scosse elettriche su di me, spray al peperoncino sugli occhi, e mi hanno preso il telefono. Tra tutti noi, hanno detto che avrebbero portato in prigione solo tre di noi, perché siamo quelli che di solito fanno video e denunciano ciò che fanno i tunisini, specialmente quel che fa la polizia”. Mem.med.: “Josephus divenne un bersaglio diretto della repressione a causa del suo attivismo perché documentava e denunciava le violenze subite attraverso i social media. Questo aspetto evidenzia una dinamica cruciale: l’assenza di media, attivisti e giornalisti capaci di operare liberamente, combinata con la criminalizzazione della solidarietà, ha costretto i migranti a farsi testimoni diretti delle proprie storie, assumendo un ruolo centrale nella denuncia delle ingiustizie”. Joseph continua a raccontare: “Ho passato un mese in prigione. Quando sono uscito ho visto che la polizia picchiava i neri, i cittadini ci attaccavano, e chiamavamo la polizia senza risposta. Anche i giornalisti avevano paura, non venivano, e non arrivava nessun aiuto, il che significa niente cibo che di solito portano, o materiali, sai, le organizzazioni non facevano nulla, e per me era già chiaro che le organizzazioni mi vedevano come se fossi troppo rumoroso, troppo loquace per i loro gusti. Questo è folle. Quindi ho pensato: beh, meglio che mi muova, magari provo ad andare a vivere a Sfax. Sono arrivato a Sfax, credo fosse luglio 2023”. Scrive Med.mem: “Mettere in prospettiva storica e critica la genesi di questi accampamenti informali e delle violenze quotidiane subite da chi vi risiede è essenziale per comprendere come il razzismo, l’esternalizzazione delle frontiere e l’abbandono da parte delle organizzazioni internazionali si intrecciano in un sistema di violenza e disumanizzazione strutturale. Questo sistema non è nato per caso, ma è il prodotto di politiche che stratificano e perpetuano oppressioni sulla pelle delle persone migranti, relegandole ai margini della società. Lo spostamento dell’attenzione da Tunisi a Sfax dopo lo sgombero violento del campo a Tunisi riflette un peggioramento ulteriore delle condizioni. Molti migranti per sfuggire ai raid razzisti sono stati costretti a rifugiarsi nelle campagne e negli uliveti intorno a Sfax, creando accampamenti di fortuna privi di servizi essenziali. Questi luoghi, simbolo di un abbandono sistemico, sono oggi teatro di resistenza quotidiana”. Continua Josephus: “Tra giugno e luglio 2023 è stato anche il momento in cui la città di Sfax è diventata troppo pericolosa per le persone nere. È quello che è successo a Sfax che ha spinto le persone a vivere nella zona degli ulivi, perché non c’era un posto possibile per noi, ci attaccavano nelle nostre case, la polizia ci arrestava, ci abbandonava nel deserto, ci lasciava in un posto abbandonato. Ci sono stati stupri contro persone nere, molti di noi sono stati uccisi, tanti persone abbandonate nel deserto, la polizia ha semplicemente radunato persone e le ha portate e lasciate da qualche parte, a morire di fame. In quel momento, ero a Sfax. Questo è ciò che mi ha portato alla scelta di andare a vivere nella zona degli ulivi. Non avevamo scelta, eravamo obbligati a fuggire. A poco a poco ci siamo cominciati a spostare negli oliveti, dormivamo lì, non c’erano tende, non c’era niente, dormivamo solo sotto gli alberi. Era estate, un caldo infernale. Non avevamo nessun altro posto dove andare”. Abu Dhabi. Il sogno di Shahzadi e di altri due immigrati indiani svanisce nel braccio della morte di Stefano Caliciuri L’Unità, 15 marzo 2025 Shahzadi Khan aveva un sogno, come tanti altri, che era quello di una vita migliore. Cresciuta a Banda, in Uttar Pradesh, India, con il volto segnato sin da bambina da cicatrici, aveva sempre desiderato un futuro in cui quelle cicatrici potessero essere rimosse. Quando un uomo di nome Uzair, originario di Agra, le parlò della possibilità di lavorare negli Emirati Arabi Uniti e di poter forse risolvere il suo problema estetico, le sembrò un’opportunità impossibile da rifiutare. Nel dicembre del 2021, partì per Abu Dhabi, portando con sé non solo la speranza di una vita migliore, ma anche un sogno di rinascita. Tuttavia, la sua storia non avrebbe avuto il lieto fine che aveva immaginato. Arrivata negli Emirati, iniziò a lavorare come tata per un neonato. Il piccolo, appena quattro mesi, era stato affidato alle sue cure con la fiducia che una donna come Shahzadi, lontana da casa, potesse portare amore a un bambino bisognoso di attenzione. Ma il 7 dicembre 2022, qualcosa di tragico accadde: il bambino morì dopo aver ricevuto le vaccinazioni di routine. La causa della morte rimase un mistero ma secondo alcuni testimoni la famiglia del piccolo si rifiutò di procedere con un’autopsia, firmando una rinuncia che avrebbe evitato ulteriori indagini. La situazione si complicò quando, nel febbraio del 2023, un video venne diffuso pubblicamente, mostrando Shahzadi che confessava di essere responsabile della morte del bambino. Ma quella confessione, come più volte sostenuto dalla sua famiglia, era il frutto di torture e intimidazioni. Shahzadi avrebbe rivelato che l’ammissione di colpa le era stata estorta dal suo datore di lavoro. Nonostante le proteste della famiglia, che aveva denunciato la violenza psicologica e fisica che la donna aveva subito, e nonostante l’impossibilità di una vera e propria inchiesta sulla morte del bambino, il processo continuò. Il 10 febbraio 2023, Shahzadi fu arrestata. L’11 luglio dello stesso anno condannata a morte, con il verdetto successivamente confermato in appello il 28 febbraio 2024. Nel frattempo, il padre della donna, Shabbir Khan, cercava disperatamente aiuto, sostenendo che l’ambasciata indiana non avesse fatto abbastanza per la sua famiglia e accusando il legale di aver spinto la figlia a confessare un crimine che non aveva commesso. Quando Shahzadi lo ha chiamato al telefono per l’ultima volta lo scorso 14 febbraio parlando della sua imminente esecuzione, la sua voce tremante non fece che alimentare il dolore di un padre impotente. Come estremo tentativo ha provato anche a chiedere intercessione al Ministero degli esteri indiano, ma, anche in questo caso le risposte sono arrivate tardive e insoddisfacenti. D’altra parte, anche in India la pena di morte è parte del sistema. Sebbene il paese abbia ridotto significativamente il numero delle esecuzioni, grazie anche alla Corte Suprema che ha stabilito che la pena capitale può essere eseguita solo nel più raro dei casi rari, le condanne a morte rimangono una drammatica realtà che fa riflettere sul valore della giustizia in un sistema che, spesso, lascia poco spazio al recupero e alla speranza e ne lascia molto e tragicamente agli errori giudiziari. A nulla sono valse le sue richieste di clemenza, né quelle di altre persone che cercavano di evitare una morte ingiusta. Il 15 febbraio 2024, Shahzadi Khan è stata impiccata. Il corpo è stato restituito alla famiglia solo il 5 marzo 2024, dopo tre settimane di attesa e sofferenza. La pena di morte negli Emirati Arabi Uniti continua a essere un tema controverso. La condanna capitale viene applicata con durezza, soprattutto verso i lavoratori immigrati che spesso non godono dei diritti legali e della protezione che sarebbe loro dovuta. Quello di Shahzadi non è un caso isolato. Due settimane dopo la sua esecuzione, altri due indiani, Muhammed Rinash Arangilottu e Muraleedharan Perumthatta Valappil, entrambi originari del Kerala, sono stati giustiziati per omicidi commessi in circostanze che, anche nel loro caso, sembrano essere segnate da situazioni di grande incertezza legale e da ampie difficoltà economiche e sociali. “Questa esecuzione non è giustizia”, ha dichiarato Ali Mohammad, il legale di Shahzadi Khan, definendo il tutto come “un omicidio extragiudiziale mascherato da esecuzione giudiziaria”. Shahzadi, una donna che cercava solo una vita migliore, ha pagato con la propria esistenza per un destino che forse non meritava. E il suo caso rimarrà, per sempre, un simbolo delle ombre in cui la pena di morte può gettare anche i più innocenti. Venezuela. El Rodeo, il carcere simbolo delle violazioni dei diritti umani di Lucia Antista Il Domani, 15 marzo 2025 Costruito negli anni 80, è l’emblema del sovraffollamento e della sistematica violazione delle norme internazionali. Varie Ong e le stesse Nazioni Unite hanno documentato cosa accade all’interno tra privazione del cibo, detenuti costretti a fare i bisogni nello stesso spazio in cui dormono e mangiano, acqua razionata e restrizioni alle visite familiari. Alberto Trentini, il cooperante arrestato il 15 novembre 2024 con l’accusa di terrorismo in Venezuela, è attualmente detenuto nel carcere El Rodeo I, situato nello Stato di Miranda, a circa 30 chilometri da Caracas, in una località chiamata Guatire. La sua detenzione riporta l’attenzione sulle condizioni disumane all’interno di una delle prigioni più critiche del paese, già al centro di numerose denunce per violazioni dei diritti umani. La triplice punizione dei prigionieri di El Rodeo - El Rodeo I, costruito negli anni 80, è diventato un simbolo del sistema carcerario venezuelano: sovraffollamento, maltrattamenti e una sistematica violazione delle norme internazionali sul trattamento dei detenuti. Negli ultimi mesi i familiari dei prigionieri vivono nell’incertezza più assoluta. Non sanno se i loro cari stiano mangiando e cosa, o in quali condizioni si trovino. Se hanno medicine e cure. “Quando siamo entrati, ci siamo resi conto che erano molto magri”, ha raccontato un parente di uno dei prigionieri. Questa è solo una delle tante testimonianze che descrivono un sistema carcerario che sembra progettato per infliggere una triplice punizione: fisica, psicologica e sociale. Il 12 dicembre scorso, un gruppo di prigionieri politici ha iniziato una protesta all’interno del penitenziario, chiedendo migliori condizioni di detenzione e il diritto di contattare le proprie famiglie. La protesta, inizialmente pacifica, si è trasformata in un grido disperato quando le autorità carcerarie hanno risposto con una repressione brutale. Le grida “libertà” e “giustizia” sono state sostituite da “assassini”. I detenuti, già sottoposti a condizioni disumane, sono stati puniti con l’isolamento prolungato, la privazione del cibo e l’interruzione di qualsiasi contatto con l’esterno, un trattamento che ancora continua dopo 92 giorni. Secondo fonti riportate da RunRun.es, un’agenzia di stampa digitale indipendente del Venezuela che collabora con le ong, la protesta è scoppiata dopo che i prigionieri hanno assistito al maltrattamento di detenuti stranieri. Secondo le informazioni disponibili, il governo venezuelano ha arrestato circa 120 cittadini stranieri di 17 nazionalità diverse, tra cui svizzeri, tedeschi, argentini, israeliani e americani, accusandoli di cospirazione contro il presidente Nicolás Maduro. Condizioni disumane e violazioni sistematiche - Le condizioni di detenzione a El Rodeo I sono state documentate non solo da organizzazioni per i diritti umani, ma anche dalle Nazioni Unite. In un rapporto approvato da otto organismi internazionali, si legge che i detenuti sono costretti a fare i propri bisogni nello stesso spazio in cui dormono e mangiano, un buco nel terreno situato accanto al letto di cemento. “I pasti vengono forniti all’interno delle celle, dove i prigionieri devono anche defecare in una latrina. Queste condizioni hanno portato a infezioni cutanee, disidratazione e diarrea acuta”, si legge nel documento. La conduttura dell’acqua funziona solo per due o tre minuti al giorno, costringendo i detenuti a farsi la doccia completamente vestiti per sfruttare al massimo il tempo a loro disposizione. Confinati in un isolamento assoluto, i prigionieri occupano celle singole. L’unico collegamento con il mondo esterno è una grata di metallo scuro, con un’apertura appena sufficiente per far passare il cibo. Il sovraffollamento è un altro problema critico. Dopo le elezioni del 2024, il numero di detenuti è aumentato drasticamente, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita. Le restrizioni alle visite familiari e la riduzione dei pasti giornalieri hanno aggravato la situazione. I familiari dei detenuti hanno cercato aiuto presso diverse agenzie governative, ma senza successo. “Siamo andati alla procura della Repubblica e abbiamo consegnato una lettera, ma non abbiamo ricevuto risposta. Ci è stato detto di non presentare più denunce, perché la situazione sarebbe solo peggiorata”, ha raccontato una fonte anonima a RunRun.es. Isolamento e mancanza di protezione - L’isolamento dei prigionieri politici è una pratica comune a El Rodeo. Ai detenuti è vietato telefonare, scrivere lettere o ricevere visite, comprese quelle dei propri figli. Queste condizioni violano il Codice Nelson Mandela, ovvero gli standard delle Nazioni Unite per il trattamento dei prigionieri, a cui il Venezuela ha formalmente aderito. L’articolo 43 vieta esplicitamente l’uso dell’isolamento prolungato come punizione e sottolinea che il contatto con i familiari non può essere negato per motivi disciplinari. A El Rodeo, però, queste norme vengono sistematicamente ignorate. Nonostante le intimidazioni e le minacce, i familiari dei detenuti continuano a chiedere giustizia e protestare. La detenzione di Alberto Trentini e le condizioni dei prigionieri politici a El Rodeo sono un monito per la comunità internazionale. Il sistema carcerario venezuelano, già al collasso, rappresenta una violazione sistematica dei diritti umani che richiede un’azione immediata. Senza interventi concreti, il grido di “libertà” e “giustizia” dei detenuti continuerà a rimanere inascoltato.