Carceri, opposizioni contro le ricette Nordio di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 marzo 2025 M5S da un lato e Pd, Avs, Iv, +Europa e Azione dall’altra presentano due mozioni per chiedere un’assemblea straordinaria alla Camera. I due documenti si dividono però sulla pdl Giachetti di liberazione anticipata speciale. Dopo gli appelli, le promesse, gli annunci, le visite, le proposte e le controproposte, i commissari e i tavoli di lavoro, gli allarmi e le rassicurazioni, ora è il momento di voltare pagina. E di fare: la politica deve occuparsi sul serio delle carceri. Lo chiedono tutte le opposizioni, riunite questa volta, con una lettera inviata al presidente della Camera Lorenzo Fontana affinché convochi un’assemblea straordinaria dei deputati per discutere di sovraffollamento e suicidi, di salute mentale dei detenuti e degli agenti, di risorse e reinserimento sociale, di organici e sanità, di misure alternative, di liberazione anticipata, di lavoro e di affettività, di dipendenze, di donne con bambini, di minori reclusi negli Ipm e di tutto ciò che rende gli istituti penitenziari italiani un pozzo di disperazione senza fondo e senza via d’uscita. Non conformi alla Carta dei diritti umani. Vademecum della discussione, due mozioni diverse esposte ieri in conferenza stampa a Montecitorio: una firmata da Pd, Avs, +Europa, Azione e Iv, e l’altra dal solo M5S. Mozioni che si sovrappongono in larga parte ma che si dividono su una delle poche proposte di legge che, secondo i Garanti territoriali dei detenuti e la maggior parte degli addetti ai lavori, è davvero in grado di fare la differenza subito: la liberazione anticipata speciale, contenuta nella pdl del deputato radicale Roberto Giachetti, che giace in commissione Giustizia dall’ottobre 2020. Grillini o non grillini, i 5 Stelle dicono ancora di no. La loro capogruppo in Commissione Giustizia della Camera, Valentina D’Orso, spiega così la “contrarietà netta da parte del M5S”: “Noi vogliamo dare risposte complesse a problemi complessi e non ci convince e non ci ha mai convinto la soluzione emergenziale. Riteniamo che la responsabilità dello Stato debba anche essere nell’accompagnamento alla libertà, nel reinserimento sociale dei detenuti, perché questo poi evita la recidiva”. Altra particolarità del documento pentastellato che non trova rispondenza nella mozione delle sinistre sta nella richiesta di reperimento di risorse varie al fine di ampliare la capienza delle carceri realizzando “nuove strutture” e riqualificando quelle già esistenti. Finanziamenti anche per nuove Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza destinate ai cosiddetti “folli-rei”) e per “implementare il numero di strutture con finalità terapeutiche per i detenuti tossicodipendenti”. Le risorse finanziarie, suggerisce D’Orso, avrebbero potuto essere reperite anche dal fondo Pnrr. Infine, malgrado si chieda un “cambio di rotta” rispetto all’”evidente torsione securitaria e repressiva” imposta dalla maggioranza, il testo 5S chiede al governo di “salvaguardare e rafforzare” il regime speciale 41 bis, “adeguando le 12 strutture detentive in modo da garantire realmente la separazione tra questi detenuti”, e potenziando il relativo gruppo operativo mobile. Punta invece alla “diminuzione del numero dei detenuti” la mozione delle sinistre, presentata dal deputato Davide Faraone (Iv), che al primo degli 11 punti di impegno per il governo chiede di favorire il più rapido iter parlamentare della pdl Giachetti che prevede, tra le altre cose, un aumento dello sconto di pena per buona condotta da 45 a 60 giorni ogni sei mesi. “Personalmente penserei anche alle carceri con numero chiuso”, aggiunge il segretario di +Europa Riccardo Magi nella conferenza stampa a cui hanno partecipato anche Rita Bernardini e Sergio D’Elia di Nessuno tocchi Caino. Mentre la capogruppo di Iv Maria Elena Boschi ricorda che “nonostante tutti gli interventi in aula, le richieste di informativa al ministro Nordio, interrogazioni, question time, visite nelle carceri, il governo fa finta di nulla e non dà risposte”. Alla proposta Giachetti contrappose il Decreto carceri di Nordio “dicendo che avrebbe risolto tutti i problemi. Oggi - conclude Boschi - abbiamo la conferma che è stato un provvedimento inutile. I numeri sono aumentati: le ricette di Meloni non stanno funzionando”. Il Pd pone l’accento anche sulla sanità penitenziaria e sulle assunzioni di agenti, magistrati di sorveglianza e funzionari giuridico-pedagogici: “Abbattere il sovraffollamento è un dovere”, afferma la deputata Debora Serracchiani, responsabile nazionale Giustizia. “Il ministro Nordio non fa nulla, anzi ha prodotto un aggravio introducendo oltre 50 nuove figure di reato - aggiunge la capogruppo di Avs Luana Zanella - e tradisce così la sua cultura giuridica”. Amnistia e indulto sono le grandi assenti della discussione, solo evocate. Richieste invece proprio ieri dalla Cei, in occasione del Giubileo, per “favorire pene alternative e per attivare occasioni di giustizia riparativa”. Nelle stesse ore in cui un detenuto moriva nel carcere Capanne di Perugia, asfissiato dai fumi dell’incendio che aveva appiccato per protesta nella sua cella. Emergenza carceri, una seduta straordinaria alla Camera di Valentina Stella Il Dubbio, 13 marzo 2025 Una seduta straordinaria sull’emergenza carceri alla Camera dei deputati. È quanto hanno annunciato ieri tutte le opposizioni in una conferenza stampa con Chiara Braga (Pd), Maria Elena Boschi (Iv), Riccardo Magi (+ Eu), Luana Zanella (Avs), Fabrizio Benzoni (Az), Valentina D’Orso (M5s), convocata insieme a Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino su iniziativa di Roberto Giachetti (Iv). “Abbiamo chiesto al presidente Fontana di convocare la capigruppo per poter stabilire una data il primo possibile, speriamo che se ne possa discutere in Aula già la prossima settimana”, ha esordito Boschi. Durante la seduta sarà presentata una mozione che impegna il governo “a favorire il più rapido iter parlamentare della proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale e ordinamentale”, ad aumentare gli organici di polizia penitenziaria, educatori, psicologi, magistrati di sorveglianza, a stanziare risorse per il reinserimento dei detenuti, istituire cabina di regia tra ministero della Salute e Giustizia per migliorare l’assistenza sanitaria dei reclusi, dare vita alle stanze dell’amore in carcere come richiesto dalla Consulta, escludere dal circuito penitenziario le donne con i loro bambini. Il M5S non ha sottoscritto tale mozione e ne ha presentata un’altra come ha spiegato la deputata Valentina D’Orso: “Abbiamo presentato una mozione che contiene 17 impegni perché bisogna dare risposte complesse a un problema complesso e sono quasi tutti sovrapponibili rispetto a quelli delle altre forze di opposizione ma ribadiamo la nostra contrarietà netta alla liberazione anticipata speciale”. Per Maria Elena Boschi, “Meloni non può continuare a far finta di nulla. Il ministro Nordio e il sottosegretario Delmastro hanno già tutta la nostra sfiducia. Non è la prima iniziativa per richiamare l’attenzione sul dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane, ma nonostante tutti gli interventi in Aula, le richieste di informativa al ministro Nordio, interrogazioni, question time, visite negli istituti di pena, il governo fa finta di nulla e non dà risposte. Non risponde a noi né alle tante persone che nel carcere vivono e lavorano. E di fronte alla proposta di Giachetti di liberazione anticipata speciale il governo sette mesi fa disse che non era quella la soluzione e che con il decreto legge di agosto sulle carceri avrebbero risolto tutti i problemi. Oggi abbiamo la conferma che è stato un provvedimento inutile”. Presente anche Debora Serracchiani, responsabile giustizia dem: “Abbattere il sovraffollamento è un dovere. Però questo governo non sta facendo assolutamente nulla”. Il leader di +Europa, Riccardo Magi, ha poi denunciato un rapporto con Via Arenula “disperante”, proprio perché il ministro della Giustizia Carlo Nordio “continua a negare l’evidenza delle nostre carceri”. La mozione condivisa da Pd- Az- Avs e +Eu, ha spiegato quindi Magi, “rappresenta un’ulteriore iniziativa politica e parlamentare nel tentativo di provare a prendere per mano il governo, in modo anche un po’ didascalico e pedagogico, dopo che ci abbiamo provato tante volte fin qui constatando una mancanza disarmante di cultura giuridica e costituzionale. A Via Arenula c’è anche un problema di inconsistenza e debolezza della politica”, in quanto, ha osservato ancora Magi rammentando le varie modifiche del codice penale introdotte su impulso del ministero dell’Interno o dei Trasporti, “è come se di fatto il titolare alla Giustizia fosse commissariato”. È stata la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, a descrivere, dati alla mano, l’allarmante situazione dietro le sbarre dove almeno 62mila detenuti stanno subendo “trattamenti degradanti”. “Il decreto “Carcere sicuro” - ha affermato - non ha diminuito il sovraffollamento né lo stato d’illegalità dentro i nostri istituti, anzi per certi versi la situazione è peggiorata”. “Mi ha chiamato il direttore dell’Ipm di Casal di Marmo per chiedermi se potessi aiutarlo in qualche modo ad acquistare 30 televisione per i ragazzi, visto che non hanno più risorse. A breve inizierò a fare una colletta”, ha detto Bernardini. La capogruppo Pd alla Camera, Chiara Braga, rispondendo ai cronisti sull’auspicio di un discorso alle Camere di Sergio Mattarella, come fece Giorgio Napolitano più volte sollecitato da Marco Pannella, ha detto: “Il presidente della Repubblica non ha fatto mancare il suo messaggio per una assunzione di responsabilità” sul tema, “ma c’è qualcuno che fa finta di non sentire”. Per Fabrizio Benzoni (Azione), “visto che nella maggioranza non c’è la volontà di rieducare i detenuti, dobbiamo portare avanti con sempre maggiore forza questa battaglia per le carceri”. La capogruppo di Avs Luana Zanella ha evidenziato le contraddizioni del Guardasigilli: “Conosco dai tempi dell’Università l’attuale ministro Nordio, abbastanza per poter dire che egli tradisce la sua cultura giuridica. Non ha fatto nulla per affrontare la situazione delle carceri, anzi ha prodotto un aggravio introducendo oltre nuovi reati e aggravanti: questo mi fa dire che sono furibonda con lui. La destra parla solo di nuove carceri, hanno pure voluto un commissario speciale, ma poi nella relazione sullo stato delle carceri lo stesso ministro ammette che quel percorso non è facile: non possono fare neanche quello”. Sisto: “Ergastolo misura anticostituzionale. Il carcere punti al recupero” di Leonardo Di Paco La Stampa, 13 marzo 2025 Ospite al convegno organizzato dal gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali di Torino, il viceministro della Giustizia ha aggiunto: “Il diritto al lavoro deve andare di pari passo con il diritto alla salute ma nei penitenziari italiani c’è un Bronx sanitario”. “L’ergastolo è una misura anticostituzionale”. Lo ha affermato Francesco Paolo Sisto, intervenendo al convegno organizzato dal gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali di Torino sul tema del lavoro come strumento di inclusione per le persone detenute. “Le pene - ha spiegato Sisto durante il suo intervento - devono tendere alla rieducazione, ed è essenziale garantire un monitoraggio costante affinché il carcere non sia solo un luogo di detenzione, ma anche di recupero”. Il rischio, altrimenti, “è che si perda di vista il principio costituzionale, riducendo la pena a una mera privazione della libertà, senza offrire una prospettiva di reinserimento”. In questo contesto “il lavoro rappresenta uno degli strumenti più efficaci per la rieducazione, in quanto riduce la recidiva, restituisce dignità e migliora le condizioni psicologiche dei detenuti, con benefici per l’intera società”. Tuttavia, ha specificato Sisto, il diritto al lavoro deve andare di pari passo con il diritto alla salute. “È inaccettabile che negli istituti di pena le cure mediche siano carenti o tardive, con detenuti costretti ad attendere mesi per una visita. Questa situazione genera frustrazione e sdegno, minando il principio fondamentale secondo cui la detenzione deve privare della libertà, ma non della dignità”. Poi un monito: “Troppo spesso le strutture penitenziarie diventano un “Bronx sanitario”, dove il diritto alla salute viene sistematicamente ignorato. Questo è inaccettabile e richiede un intervento deciso da parte degli enti locali”. Il lavoro negli istituti di pena - Il 62% di coloro che scontano una condanna nei penitenziari italiani ha già vissuto l’esperienza del carcere. Tuttavia, tra chi ha intrapreso un percorso lavorativo, il tasso di recidiva scende drasticamente al 2%. Questi dati sottolineano il ruolo fondamentale che il mondo imprenditoriale può svolgere a supporto del sistema carcerario italiano, contribuendo allo sviluppo di programmi riabilitativi capaci di bilanciare la sicurezza nell’esecuzione penale con la rieducazione delle persone private della libertà. Da mesi, il Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali Torino è in prima linea con un progetto dedicato all’inserimento lavorativo delle persone detenute, realizzato in collaborazione con il Fondo Alberto e Angelica Musy e la Fondazione Ufficio Pio. “Per noi giovani imprenditori l’impegno sociale è prioritario - commenta la presidente del Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali Torino, Barbara Graffino - e per questo motivo abbiamo scelto di portare avanti il progetto di reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, unendo le forze con il Fondo Musy e l’Ufficio Pio, per offrire insieme una seconda possibilità a chi ha sbagliato e desidera ora rimettersi in gioco. Un impegno che trova un riscontro evidente nei numeri sulle recidive: il lavoro è il principale veicolo di riscatto per queste persone ed è motivo di grande soddisfazione che siano le nostre aziende a fornirgli l’occasione di rifarsi una vita”. Le carceri affollate e l’oblio sul problema di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 13 marzo 2025 L’8 marzo di 5 anni fa, il giorno del decreto delle zone rosse istituite dal governo Conte, scoppiarono rivolte in molte carceri italiane. Lo Stato per proteggere i cittadini prevedeva il distanziamento. Ma chi tutelava i detenuti, costretti a stare in celle sovraffollate? A Modena, dopo che un carcerato risultò positivo al Covid, si scatenò l’inferno. La città emiliana aveva allora una capienza di poco più di 300 persone, ma ne ospitava oltre 560. I detenuti fecero irruzione nella farmacia, riuscirono ad accedere ai farmaci che normalmente sono in cassaforte. Nove di loro, quasi tutti molto giovani, morirono nelle ore successive in seguito a overdose di metadone. Fu aperta un’inchiesta giudiziaria, poi archiviata. Fu la più grave strage mai avvenuta nelle carceri della nostra Repubblica, e non esistono casi analoghi in Europa. Eppure in pochi ricordano l’inferno del Sant’Anna, in quell’8 marzo 2020, quando l’Italia era in preda al terrore del Covid e piangeva i suoi primi morti. Qualche polemica locale, la storia delle vittime raccontata in libri destinati a non diventare best seller (ricordiamo qui Luigi Manconi, Daria Bignardi, l’ultimo di Alessandro Trocino) e nulla di più. Il silenzio sulla strage di Modena, purtroppo, riecheggia quello sull’intero sistema penitenziario, abbandonato a se stesso da una politica che da troppi anni ha deciso di buttare via la chiave di un gigantesco problema sociale, facendo leva sulla persecuzione molto più che sulla prevenzione. Come se la persecuzione di un crimine potesse in qualche modo sostituire l’attuazione di quell’ideale così ambizioso tracciato dallo splendido articolo 3 della nostra Costituzione (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”). Come ha sintetizzato il professor Vittorio Manes (docente di Diritto penale all’Università di Bologna) in un’intervista rilasciata a “Il Foglio”: “Il ricorso ossessivo al diritto penale come strumento di risoluzione di problemi sociali anche molto gravi si basa sull’illusione che basti introdurre un reato per ottenere una risposta in termini di diminuzione dei tassi di criminalità, cosa che invece non accade”. Accade invece che quel meccanismo di vasi comunicanti che sono i trasferimenti fra i vari istituti penitenziari per evitare l’eccessivo sovraffollamento sia ormai saturo, con numeri mai visti. Propriol’altro ieri i garanti territoriali dei detenuti hanno incontrato il ministro della Giustizia Carlo Nordio per proporre la loro ricetta, ma le posizioni sono molto distanti, visto che il Guardasigilli ha da sempre escluso qualsiasi provvedimento deflattivo. Così oggi, di fronte a un sistema ormai collassato, a fare il tifo per l’unica soluzione percorribile, cioè un provvedimento di clemenza o almeno di accelerazione delle liberazioni anticipate, ricordando anche il monito del discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella, quando di fronte all’allarmante numero di suicidi del 2024 parlò di “condizioni inammissibili” nelle carceri, rimangono solo qualche politico eretico, i mai abbastanza ascoltati garanti, e la Chiesa con Papa Francesco (“propongo ai governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società”, ha scritto nella Spes non confundit, la bolla di indizione del Giubileo). Parole inascoltate. Eppure, l’ultima volta che fu adottato l’indulto, ormai quasi vent’anni fa, degli oltre 27mila detenuti liberati, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere. Al governo c’era Romano Prodi, all’opposizione Silvio Berlusconi, il voto del suo partito fu determinante. Altri tempi. Carceri, in arrivo la circolare del Dap sulle “stanze dell’amore” di Martina Amante Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2025 A riferirlo il Garante dei detenuti dopo un incontro con il Guardasigilli Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è detto “d’accordo per tre quarti” con le proposte contenute nel documento-appello che gli è stato consegnato dai Garanti dei detenuti durante un incontro al dicastero di Via Arenula. Il Guardasigilli ha confermato la sua contrarietà “ad amnistia, indulto e a qualsiasi forma di indulgenza lineare”, ha riferito Samuele Ciambriello, portavoce della conferenza dei Garanti. Novità in arrivo per le cosiddette “stanze dell’amore”: a breve il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) emanerà una circolare per “garantire una omogeneità nell’applicazione e nella possibilità di riconoscere l’esercizio del diritto all’affettività in ogni istituto penitenziario”. Misure contro il sovraffollamento - Riguardo al sovraffollamento, il ministro ha garantito che “ci saranno nuovi posti per gli istituti, puntando all’aumento di comunità, in particolare per tossicodipendenti, e meno carcere. Riguardo allo sfollamento delle carceri, un ruolo importante lo avranno i magistrati di sorveglianza, il cui numero potrebbe essere incrementato”. I garanti sono convinti che serva una misura “deflattiva” e che occorra una norma per l’aumento dei giorni di liberazione anticipata speciale, prevedendo uno sconto di ulteriori 15 giorni a semestre. Tra le proposte, anche quella di ispirarsi alla misura temporanea della legge del 2010 che introduceva la possibilità di scontare nella propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza la pena detentiva - anche residua di pena maggiore - non superiore a 18 mesi. “Dal Dap circolare sulle “stanze dell’amore” in carcere” - All’incontro, a cui hanno preso parte anche i garanti di Roma, Parma, del Piemonte e membri del coordinamento nazionale, è stato ricordato il dato allarmante dei suicidi in carcere valutando la possibilità del numero chiuso; è stato sollecitato l’aumento di educatori e mediatori linguistici, ma anche psicologi, psichiatri e assistenti sociali. Quanto all’attuazione della sentenza della Consulta sulla tutela del diritto all’affettività delle persone detenute, come detto, “il Dap sta preparando una circolare”: “Gradualmente gli istituti si adegueranno e dunque al momento ci sarà un’applicazione a macchia di leopardo nei vari istituti del Paese”. Emergenza suicidi e minori - L’emergenza, sottolineano i garanti al ministro, è legata poi anche ai minori. Anche per questo i garanti, oltre a sollevare le problematiche legate agli istituti penali per i minorenni, chiedono di costruire più comunità e meno carceri minorili. “Il continuo ricorso alla penalizzazione come metodo di governo rischia di far crollare il sistema carcerario” segnala il capogruppo di Avs nella commissione Giustizia della Camera, Devis Dori. “La situazione drammatica dei giovani detenuti, costretti spesso con persone grandi, magari in carcere per reati gravi”, a causa della mancanza di spazi: “l’accumulo delle pene impedirà una soluzione e una detenzione rieducativa per quei giovani”. Occorre dunque “una depenalizzazione, un sostanziale dietro front rispetto al modello repressivo di Caivano, e la riattivazione di un sistema di pena alternativo” conclude Dori. Mentre per i suicidi in carcere “è davvero inquietante che il ministro Nordio non abbia mai detto una parola”, una piaga drammatica sulla quale il capogruppo di Avs continua a sollecitare l’attenzione. Dare una casa ai detenuti: così le parrocchie trovano soluzioni di Ilaria Beretta Avvenire, 13 marzo 2025 Da Milano a Bologna, la Chiesa mette a disposizione spazi dismessi per ospitare persone che scontano la pena in misura alternativa alla detenzione. “Il tasso di recidiva crolla”. Nella casa Don Giuseppe Nozzi - un complesso agricolo con un grande terreno e cinque strutture rimesse a nuovo - una coppia, una consacrata, tre religiosi e alcuni laici si ritrovano a fine giornata mentre, poco lontano, otto detenuti scontano la pena. Siamo a Bologna, negli spazi della parrocchia Santi Savino e Silvestro che ha scelto prima di ospitare una fraternità tra religiosi e laici e poi di aprire le porte ai carcerati, mettendo a disposizione spazi e risorse a uomini in misura alternativa alla detenzione. L’opera di misericordia di “visitare i carcerati” qui ha fatto, se possibile, un passo ulteriore, grazie a una comunità che i ristretti se li è letteralmente portati in casa, destinandogli spazi e risorse. Del progetto è responsabile padre Marcello Matté, già religioso dehoniano e cappellano della casa circondariale Dozza di Bologna. Padre Marcello ha messo a frutto la sua esperienza accanto a chi vive dietro le sbarre e nel 2022 ha ideato una casa famiglia che è un unicum in Italia. “Tutto - precisa immediatamente il religioso - nasce da un gesto di generosità da parte della parrocchia Santi Savino e Silvestro del rione Corticella che, dopo aver pagato per intero le spese di abbattimento e ricostruzione di questa struttura ormai dismessa, ha deciso di destinarla in comodato d’uso gratuito al Centro italiano di solidarietà di Modena”. Il risultato è casa Corticella, una struttura di accoglienza per condannati che, per l’ultimo scorcio dell’esecuzione della loro pena, vengono accolti in prova ai servizi sociali e a poco a poco, grazie all’aiuto di un operatore professionale, si reinseriscono nella società attraverso il lavoro. Alcuni lo trovano a pochi passi dalla casa di accoglienza dove è sorta una succursale della Frati&Livi, ditta che si occupa di restauro di volumi e fascicoli danneggiati dalle intemperie (e che, dopo le alluvioni in queste zone, non mancano). “La nostra, come altre attività simili, non sono finanziate dallo Stato - spiega padre Matté - e i territori si muovono in ordine sparso. Noi per i primi tre anni ci siamo sostenuti solo grazie all’aiuto del vescovo, da un anno a Bologna è partito il progetto Territorio per l’inserimento che sostiene queste forme alternative alla detenzione. Comunque, che questa casa sorga accanto a una fraternità ecclesiale è un messaggio dirompente perché mostra nei fatti l’inclusione”. La sua affermazione è sostenuta anche dall’esperienza della parrocchia milanese Santi Quattro Evangelisti, dove una decina di donne con figli scontano la pena in misura alternativa alla detenzione. L’ideazione e la gestione dell’opera si deve all’associazione Ciao, nata nel 1995 da un’intuizione di due parrocchiane che avevano iniziato l’attività di volontariato nel carcere di Opera e che poi hanno pensato di coinvolgere il resto della comunità. “Solo nel 2000 - commenta la sua presidente, Elisabetta Fontana - il parroco dei Quattro Evangelisti ha chiesto alle associazioni attive di presentare un progetto per la Casa della gioventù, ormai disabitata: fu scelto il nostro. E così l’ultimo piano è stato ristrutturato e trasformato in tre appartamenti completi con cucina, stanza, soggiorno e bagno più alcuni spazi comuni”. Inizialmente destinati ai detenuti in permesso che qui potevano passare qualche ora con i familiari, nel 2010 grazie a un dialogo con le istituzioni penitenziarie e una convenzione con il Comune, è iniziata l’accoglienza di sei mamme detenute con i bambini, che in questa “casa famiglia protetta” trovano un’alternativa agli Icam oppure alle sezioni nido dei penitenziari tradizionali da cui in larga parte provengono. Si tratta di una formula prevista dalla legge 62 del 2011 in assenza di case o altre strutture dove la donna con figli può andare in detenzione domiciliare e attualmente sostenuta con una linea di finanziamento approvata per tre anni con la legge di bilancio 2020, i cui fondi, però, si stanno esaurendo. Eppure, per portare avanti un’attività del genere servono volontari ma anche educatori professionali, che si occupano di accompagnamento psicologico e scolastico, e perciò la struttura si appoggia a progetti e bandi. “Senza la parrocchia - precisa il direttore Andrea Tollis - non sarebbe stato possibile nulla. La vicinanza con i detenuti permette una contaminazione che allarga la comunità e la sensibilizza: i bambini delle donne in esecuzione di pena frequentano il catechismo e l’associazione sportiva e alcune attività vengono condivise con il territorio”. La stessa cosa succede, in città, nella parrocchia San Vittore al Corpo che ha fatto della sua vicinanza - poche centinaia di metri - al più celebre penitenziario milanese una ragione di vita. Da quasi vent’anni ha sede l’associazione Il Girasole il cui focus sono i detenuti e le loro famiglie che, dal 2006, vengono supportate nella sala d’attesa del carcere e con un centro di ascolto. Dal 2012 con la collaborazione di Caritas ambrosiana e della Comunità di Sant’Egidio, l’ente ha ristrutturato un immobile liberatosi dalla parrocchia, che ha scelto di destinarlo all’opera, e ha permesso l’istituzione di una casa famiglia intorno alla quale ruotano 45 volontari e sette operatori professionisti. Alcuni detenuti arrivano in permesso premio da San Vittore, Opera e Bollate: per beneficiare di queste misure alternative serve anche un domicilio riconosciuto, che però non sempre le persone hanno perché magari la famiglia è fuori regione oppure perché si tratta di stranieri. “A queste persone - spiega la presidente e fondatrice Luisa Bove - destiniamo un primo piccolo appartamento che può accogliere fino a due ospiti. Mettiamo a disposizione viveri e diamo poche regole. In una palazzina vicina sorgono invece tre appartamenti destinati a detenuti alle misure alternative in affidamento a sevizi sociali, che possono essere ospitati anche per sei mesi. Vengono aiutati a trovare lavoro, supportati economicamente e aiutati nel reinserimento. La parrocchia è un bacino di raccolta di nuovi volontari e collaboriamo con il servizio guardaroba per persone indigenti attivo in parrocchia”. Di fronte ai 62mila detenuti ristretti nei penitenziari italiani, i pochi posti disponibili in queste strutture - nate dalla lungimiranza delle singole parrocchie e diocesi - sono numeri omeopatici ma molto simbolici della possibilità di investire in misure alternative al carcere, che non risponde alla funzione educativa che la Costituzione gli attribuisce. “A livello ecclesiale ed etico - sintetizza padre Matté - è un’operazione di valore ma lo è pure dal punto di vista civile, visto che per mantenere un detenuto in carcere si spendono 164 euro con la probabilità del 70% che torni a delinquere, mentre, con le misure alternative, questa percentuale scende sotto al 10 per cento”. Se la giustizia diventa archeologia di Stefano Zurlo Il Giornale, 13 marzo 2025 Le sentenze definitive, almeno una volta, erano un muro quasi invalicabile. Oggi non è più così. Eccola. È la storia che torna in cronaca. Cronaca giudiziaria, naturalmente. In teoria dovrebbe essere un’eccezione, rischia di diventare la norma. Ieri la prima pagina di molti quotidiani sembrava un viaggio sulla macchina del tempo: la sparatoria alla Cascina Spiotta con la confessione fuori tempo massimo del brigatista Lauro Azzolini; il delitto Mollicone, del 2001, con l’ennesimo colpo di scena in Cassazione e un nuovo processo all’orizzonte. Infine, la storia più mediatica, la morte di Chiara Poggi a Garlasco il 13 agosto 2007: ecco qui emergere un procedimento bis a Pavia che rimette in discussione tutte le certezze faticosamente raggiunte dopo un’altalena di verdetti. Qualcosa non quadra, se ci misuriamo con vicende che ormai dovrebbero essere Seppellite negli archivi e invece accendono ancora dibattimenti, scontri in aula, lacrime e opposte interpretazioni di segmenti dell’opinione pubblica sempre affamata di rivelazioni. Le sentenze definitive, almeno una volta, erano un muro quasi invalicabile. Oggi non è più così: gli avvocati di Alberto Stasi, che peraltro fanno bene il loro mestiere, ci hanno provato in tutti i modi a mettere in crisi il verdetto di colpevolezza. Sei tentativi sono andati a vuoto, il settimo ha sfondato la barriera ed é stato sponsorizzato dalla Procura di Pavia. Peraltro, se è concesso un tecnicismo, non è nemmeno un’istanza di revisione, la strada maestra in queste situazioni, ma una nuova indagine che potrebbe riaprire i giochi o forse no. Chissà. Alla procura generale di Milano era successo qualcosa di analogo per la strage di Erba, da sempre al centro della piazza mediatica: Cuno Tarfusser si era convinto dell’innocenza di Olindo e Rosa, e aveva scritto una singolare memoria, ma i vertici della magistratura milanese l’hanno ignorata. E però è ormai una moda: ci sono magistrati che studiano fascicoli polverosi e li ripropongono, come se non ne avessero sulle spalle già sufficienza: a volte lo fanno per eccesso di scrupolo, spesso perché istigati da consulenti e periti che dilatano e moltiplicano le infinite suggestioni offerte oggi dalla scienza; quasi sempre ubbidiscono alla vanità. Ma ogni volta per paradosso sbattono contro indagini fatte male che giustificano qualunque remake. La giustizia è nello specchietto retrovisore o, se si preferisce, i processi diventano cantieri senza scadenza. Si arriva ad un determinato punto, si riparte, si torna indietro, come nel rebus sempre più intricato di Arce. Qualche volta, raramente, i “supplementari” offrono finalmente squarci di verità, come è successo, dopo decenni di incomprensibile inerzia, martedì alla Corte d’assise di Alessandria: Azzolini ha raccontato quel 5 giugno 1975 e quel feroce conflitto a fuoco in cui morirono una terrorista e un carabiniere. Più di frequente la serializzazione, vedi Garlasco, è un pessimo indizio. Il protagonismo prevale sul sistema. Le prove già esaminate vengono riesaminate. Se possibile, fatte a pezzi. Il cittadino può attendere. Vedremo cosa accadrà a Pavia. Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 13 marzo 2025 La politica elude il problema della reale efficacia preventiva e orientativa della punizione e ingolfa sempre di più la macchina giudiziaria. Motivi per bocciare il nuovo reato. Premetto che ho motivo di presumere, anche da professore in pensione, che una buona parte degli altri professori di diritto penale sia contraria all’introduzione di un reato di femminicidio, specie secondo la configurazione contenuta nel ddl governativo. Ma questa contrarietà si inquadra - ho sempre motivo di supporre - in un orizzonte critico ben più ampio, che include il sempre più frequente uso del diritto penale come strumento di consenso politico o come mezzo pedagogico. Il fenomeno perdura da alcuni decenni. I motivi per cui va avversato sono molteplici, e peraltro condivisi dal prevalente numero degli studiosi di diritto penale che operano anche fuori dai confini italiani. Provo a riassumerli, cominciando dal rilievo che la politica elude il problema della reale efficacia preventiva e orientativa della punizione innanzitutto per la seguente ragione: creando nuovi reati o introducendo circostanze aggravanti i politici di turno mostrano di rispondere in modo sollecito alle aspettative di protezione e alle paure dei cittadini. La pena come strumento di pronto intervento e ansiolitico sociale, per di più a costo zero. Mentre, escogitare strategie di prevenzione (di natura sociale, economica, educativa, ecc.) volte a incidere con maggiore efficacia sulle cause profonde dei mali da contrastare, presuppone capacità progettuali, competenze e risorse, sia economiche sia umane. Troppo complicato: assai più facile e rapido gonfiare la già obesissima massa degli illeciti penali, anche a costo di generare mostriciattoli legislativi. Tanto saranno poi i giudici a cercare di darvi un senso più o meno compiuto, e a doversi accollare la responsabilità (che viene loro così di fatto delegata) di contrastare le condotte indesiderate. La delega alla giustizia penale, se è politicamente comoda perché deresponsabilizza il ceto politico, presenta per altro verso un serio inconveniente pratico: il continuo aumento dei reati ingolfa sempre più la macchina giudiziaria, contribuendo ad aggravare la lentezza dei processi. Una ulteriore ragione dell’uso smodato del penale è individuabile nella tendenza a sfruttarne il potenziale simbolico-comunicativo, come medium per rimarcare agli occhi dei cittadini l’importanza dei valori da tutelare e per promuoverne l’interiorizzazione nella coscienza sociale. Ma un simile impiego simbolico-promozionale merita di essere assecondato? Non sono in realtà il solo a ritenere che il diritto penale, più che a promuovere il progresso culturale e morale, dovrebbe più laicamente servire a prevenire danni sociali, diagnosticabili come tali a prescindere da preferenze morali, eventualmente anche maggioritarie. In uno stato liberal-democratico è più coerente astenersi dall’assegnare alla repressione anche il compito di cercare di correggere o orientare inclinazioni etiche, disposizioni psicologiche, tipi di mentalità o atteggiamenti interiori. Non a caso, questa pretesa - peraltro illusoria - è storicamente tipica degli stati autoritari, che confondono legalità e moralità. In una società pluralista come la nostra, sarebbe costituzionalmente legittimo perfino seguitare a pensare che all’uomo spetti una posizione di supremazia rispetto alla donna: ciò che è vietato non è pensarla così, ma tradurre questa visione tradizionale in comportamenti violenti o comunque illeciti. La pena carceraria non solo è da tempo in crisi, secondo il punto di vista maggioritario degli esperti, perché è ben lungi dal realizzare gli scopi a essa tradizionalmente attribuiti. Oggi se ne abusa irrazionalmente, sino al punto da indurre Papa Francesco a stigmatizzare la deriva punitivista cui in questi tempi sempre più si assiste. A ciò si aggiungano i fondati dubbi sulla compatibilità dell’ergastolo con l’articolo 27 della Costituzione. Si presume che la minaccia di una pena a vita possa davvero fungere da deterrente del femminicidio e assolvere una funzione pedagogica nei confronti di quanti non hanno ancora interiorizzato come valore la parità di genere e il rispetto della donna come persona titolare di eguali diritti? In una democrazia costituzionale degna di questo nome, convertire i maschilisti dovrebbe costituire un obiettivo da perseguire solo con la cultura, l’educazione, la promozione di condizioni ambientali più evolute nei contesti in cui perdurano visioni patriarcali. Per punire condotte aggressive ai danni delle donne, sono più che sufficienti le norme incriminatrici esistenti. Oltretutto, se fosse davvero necessaria una nuova incriminazione diversa dal generale delitto di omicidio, si dovrebbe per coerenza configurare una ulteriore e autonoma fattispecie per sanzionare l’omicidio motivato da omofobia, e così via. Ma non basta. Se si entra poi nel merito della progettata fattispecie, ci sarebbe da mettersi le mani ai capelli. Un insulto ai princìpi di un diritto penale costituzionalmente orientato. Già a prima vista risalta la notevole indeterminatezza, esposta a obiezioni di incostituzionalità, della formulazione testuale della condotta punibile. Colpisce, non secondariamente, la declinazione in chiave psicologistica e di censura morale del disvalore del femminicidio, che si presume in ogni caso più grave di quello relativo all’omicidio comune. Come dovrebbe il giudice accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la motivazione discriminatoria o il sentimento di odio (della donna in quanto donna) sottostante all’atto omicidiario? Esistono criteri di giudizio sicuri in proposito? Temo che neanche il più esperto degli psicologi potrebbe distinguere con certezza le motivazioni suddette da motivazioni di altro tipo. È dunque da prevedere che l’accertamento giudiziario di così scivolose pulsioni motivazionali finirebbe, inevitabilmente, col risentire dei pregiudizi e delle impressioni soggettive di chi di volta in volta giudica. Per tutte le ragioni fin qui esposte, la proposta conformazione del nuovo reato non può che andare incontro a una netta bocciatura. Almeno a giudizio di quanti difendono una concezione non opportunistica o non moraleggiante del diritto penale. E, a questo punto, azzarderei anche una provocazione (beninteso, senza alcun intento di prevaricazione o condizionamento di libere scelte dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale). Auspicherei cioè che l’opposizione critica nei confronti di questa ennesima strumentalizzazione politica del penale venisse manifestata una buona volta in forma visibile ed eclatante da parte della maggioranza dei professori in servizio, che ho motivo di supporre decisamente contraria a un delitto di femminicidio così concepito. Perché non protestare sospendendo per qualche giorno lezioni ed esami, organizzando manifestazioni pubbliche, levando la voce critica all’esterno dei circuiti accademici, analogamente a quanto fanno i magistrati per contrastare riforme loro sgradite? Forse qualcuno obietterà che reazioni di questo genere non sono compatibili con la dignità accademica. Ma è più dignitoso continuare a subire una politica penale che da professori consideriamo contraria a ogni principio, dando sfogo alle nostre critiche soltanto nelle pubblicazioni specialistiche? Caso Ramy, il consulente della procura scagiona i carabinieri di Roberto Maggioni Il Manifesto, 13 marzo 2025 La difesa di Fares: confutiamo la perizia. Gli avvocati dei due ragazzi: Elgaml è morto schiacciato dall’auto che li inseguiva non per la caduta dallo scooter, giubbotto e palo del semaforo sono stati distrutti. La relazione del consulente nominato dalla procura di Milano scagiona il carabiniere alla guida dell’auto che Il 24 novembre ha inseguito Fares Bouzidi e Ramy Elgaml fino allo schianto mortale all’angolo tra via Ripamonti e via Quaranta. Secondo il consulente l’inseguimento è stato corretto, il militare ha frenato quando doveva frenare ed esclude l’ipotesi di speronamento volontario. La responsabilità dell’incidente viene così fatta ricadere dal consulente su Fares, alla guida dello scooter, indagato per omicidio stradale con il carabiniere alla guida dell’auto. Qui si ferma la consulenza ed entreranno in scena i rilievi delle difese di Ramy e Fares. Il ragazzo è morto schiacciato dall’auto dei carabinieri, non per la caduta dalla moto; quando i carabinieri chiamano l’ambulanza non dicono ai soccorritori che il corpo era sotto il muso dell’auto; nei giorni seguenti il palo semaforico contro cui è stato schiacciato Ramy sparisce, smaltito dall’azienda comunale, così come sparisce il giubbetto di Ramy, nonostante alcune piume dell’imbottitura siano state ritrovate incastrate nella targa dell’auto dei carabinieri. Due carabinieri sono indagati per falso e depistaggio anche per i video fatti cancellare al testimone che ha assistito alla fase finale dell’inseguimento e che aveva filmato con il suo smartphone auto e scooter prima dello schianto. La difesa di Fares ha già detto di essere pronta a contrastare questa consulenza con propri esperti, così come faranno i legali della famiglia di Ramy. La relazione getta però un macigno sulle fasi dell’inseguimento e sulla tesi dello speronamento. Secondo quanto acquisito dalla procura, lo scooter guidato da Fares avrebbe perso aderenza tra viale Ripamonti e via Quaranta nel tentativo di svoltare a sinistra e la macchina dei carabinieri, molto vicina alla moto, avrebbe frenato per evitare l’impatto. Tutti e due i mezzi poi sono andati a schiantarsi vicino al palo semaforico e l’auto ha travolto il corpo di Ramy. Nelle sue conclusioni Marco Romaniello scrive: “A parere tecnico dello scrivente consulente, l’operato del conducente dell’auto Giulietta risulta essere stato conforme a quanto prescritto dalle procedure in uso alle forze dell’ordine”. E ancora: “Nei limiti dell’esito imprevedibile e drammatico del seguito della manovra difensiva obbligata, sia la risposta attentiva del conducente della Giulietta sia la sua reazione, sono state adeguate e controllate”. E infine: “La concausa determinante” della morte di Ramy “al di là dei fattori umani connessi ai conducenti, è stata, purtroppo, determinata dalla presenza del palo semaforico che ha arrestato la caduta bloccandone la via di fuga e che ha determinato l’urto e il successivo investimento del corpo al di sotto del veicolo dei carabinieri”. Su Fares scrive il consulente: “Opponendosi all’alt dava avvio a un inseguimento anomalo e tesissimo, a elevatissima velocità lungo la viabilità urbana cittadina, con una guida spregiudicata ed estremamente pericolosa” e si è “assunto il rischio delle conseguenze”. Perugia. Dà fuoco alla cella, muore detenuto. Doveva scontare ancora un anno di Luca Fiorucci La Nazione, 13 marzo 2025 Il tunisino Sami Bettibi, 56enne, per protesta si era barricato dietro alle sbarre e innescato l’incendio. Inutili i soccorsi: è morto in ospedale. I sindacati temevano che ci sarebbe scappato il morto. E, questa volta, un morto c’è stato. Si tratta di un detenuto tunisino di 56 anni, Sami Bettibi, deceduto in seguito all’incendio della sua cella. Un incendio a coperte, materassi e suppellettili varie che, secondo quanto si apprendere sarebbe stato appiccato con l’obiettivo di creare, per l’ennesima volta, caos all’interno della casa circondariale di Perugia. Secondo una prima ricostruzione ieri mattina, dopo aver svolto la visita medica in infermeria, era rientrato in cella e poco dopo per protesta si era barricato ed innescando un principio d’incendio. Sul posto sono intervenuti gli agenti di polizia penitenziaria utilizzando l’idrante per spegnere le fiamme. L’uomo, morto poco dopo in ospedale, avrebbe scontato definitivamente la sua pena nel 2026. “Era stato spostato da Reparto penale a quello circondariale ed è lì che ha inscenato la folle e drammatica protesta che gli è costata la vita”, racconta Fabrizio Bonino, segretario per l’Umbria del Sappe, che ha sottolineato come “il tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria non ha potuto impedire il tragico evento”. La salma è ora a disposizione dell’autorità giudiziaria in Ospedale, “dove l’uomo era stato portato dalla polizia penitenziaria nell’estremo tentativo di salvargli la vita”. Bonino sottolinea che il tragico evento è stato commesso nella Terza Sezione del carcere, da tempo al centro delle critiche sindacali per le sue condizioni fatiscenti, tanto che nel corso di una recente visita ispettiva del Sappe, i vertici nazionali e regionali del sindacato avevano chiesto al Dap di “valutare attentamente la possibilità di un cambio ai vertici dell’Istituto, in quanto solo attraverso una gestione più attenta e responsabile si potranno garantire condizioni di lavoro dignitose al personale e un’effettiva sicurezza all’interno della struttura”. “Purtroppo l’accaduto era stato preannunciato in più occasioni ma potrebbe essere l’inizio di una escalation se non si interviene immediatamente”: a dirlo all’Ansa è il Garante per i detenuti dell’Umbria, l’avvocato Giuseppe Caforio. “Le carceri umbre in questo momento hanno raggiunto un livello di sovraffollamento mai avuto nella storia” spiega Caforio. “Terni a fronte di una capienza di 422 ha superato i 500 detenuti - ha aggiunto - ma anche le altre carceri hanno un sovraffollamento superiore al 30% della capienza massima”. Dopo la morte del detenuto a Perugia, il Garante ha avuto “colloqui immediati” con la presidente della Regione Stefani Proietti. Perugia. Morte detenuto, proposta l’istituzione di un tavolo regione sull’emergenza penitenziaria umbriadomani.it, 13 marzo 2025 Di fronte alla tragedia che si è consumata nel carcere di Capanne la presidente della Regione Stefania Proietti insieme alla Giunta esprime grande dolore per la morte del detenuto dopo un incendio all’interno della propria cella. Tale evento drammatico è avvenuto in seguito a momenti di tensione che di frequente si verificano negli istituti penitenziari della regione gravati da persistenti problemi come il super affollamento e la mancanza di personale nelle 4 case circondariali. La presidente della Regione, appena insediata, ha preso a cuore la questione carceraria, andando a visitare la struttura di Terni, e mettendo in calendario le visite alle altre carceri, in stretto contatto con il Garante dei detenuti avvocato Giuseppe Caforio. Ma la presidente della Regione ha fatto anche altri passi concreti, si è rivolta il 10 gennaio scorso ai massimi livelli governativi come il presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni, a cui ha sottoposto anche il tema dell’emergenza sanitaria nelle carceri proponendo l’istituzione di un fondo nazionale per la sanità carceraria. Tale fondo permetterebbe una redistribuzione più equa dei costi tra le diverse regioni anche in base alla popolazione ristretta nelle carceri ma soprattutto la reale possibilità di erogare tutte le cure e i servizi necessari, anche dal punto di vista sociale, al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e quindi anche dei lavoratori che se ne prendono cura. Proprio pochi giorni fa la presidente Proietti ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Carlo Nordio, e mandata per presa d’atto anche al procuratore generale della Corte di Appello di Perugia Sergio Sottani, anch’egli assolutamente preoccupato per la situazione. Nella lettera la presidente Proietti ha denunciato “la gravissima situazione in cui versano, in queste ore, le carceri umbre a causa dello spropositato sovrappopolamento che mai come in questo momento, ha superato ogni limite di capacità di gestione e organizzativa. Mi viene rappresentato, anche dal Garante Regionale, che il carcere di Terni, già di per sé come noto complesso, avendo una sezione del 41 bis e anche ben quattro sezioni di alta sicurezza, ha raggiunto la presenza di circa 600 detenuti a fronte di una disponibilità di 422. Anche il carcere di Perugia ha una popolazione superiore di circa il 40% rispetto alle previsioni massime previste. Per non parlare del super carcere di Spoleto che è in una fase di gravissima criticità con episodi di violenza fra detenuti stessi e fra detenuti e rappresentanti della polizia penitenziaria che si susseguono quasi quotidianamente. Peraltro l’Umbria con le sue quattro carceri, perché vi è anche Orvieto che non è certo in situazioni migliori, ha circa i due terzi dei detenuti che provengono da altre regioni per reati commessi altrove”. “Questo di per sé non sarebbe rilevante - ha scritto ancora la Presidente - se questa attività ricettiva non si caratterizzasse sotto il profilo quantitativo, per avere un numero di detenuti molto superiore alla capacità ricettiva e sotto il profilo qualitativo, molti detenuti che giungono d’altrove e in particolare dalla Toscana, hanno gravi problemi di natura psichiatrica e quindi di difficilissima gestione. A ciò ovviamente si aggiunge la cronica carenza di addetti della polizia penitenziaria che aggrava il contesto. Vi è il forte timore che permanendo questa situazione si possano verificare episodi di particolare gravità che possono investire sia i detenuti stessi che il personale militare e civile addetto alla gestione delle carceri, con fatti violenti che possono ben andare oltre a ciò che già quotidianamente accade”. Nell’ambito dell’incontro la presidente della Regione aveva rappresentato al Presidente del Consiglio anche la gravità dei tanti casi psichiatrici all’interno delle nostre carceri (la maggior parte dei quali provenienti da altre regioni) che determinano necessità di ulteriori spese sanitarie che gravano esclusivamente sul sistema sanitario regionale umbro. “Nella mia funzione di rappresentante della Regione Umbria - ha concluso la lettera la presidente - chiedo un deciso e immediato intervento volto a ridurre l’attuale stato di sovraffollamento dei detenuti e al contempo un deciso rafforzamento del personale, a cominciare dalla polizia penitenziaria. Le chiedo altresì con ogni urgenza di formalizzare il Provveditorato Umbria in luogo del precedente Provveditorato Umbria-Toscana, situazione all’origine di molte criticità e dell’attuale sovraffollamento”. In accordo con la sindaca di Perugia Vittoria Ferdinandi la Presidente della Regione sta valutando l’istituzione di un tavolo sull’emergenza penitenziaria a Capanne e in tutte le carceri umbre. Firenze. Detenuto muore in cella a Sollicciano: “È stata overdose, nel carcere circolano droghe” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 marzo 2025 È il terzo morto nel carcere fiorentino da inizio anno: gli altri due sono stati suicidi. Morto un detenuto poco più che trentenne nel carcere fiorentino di Sollicciano. A darne notizia il segretario generale Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Eleuterio Grieco. La morte sembrerebbe dovuta ad una overdose, segno che nel penitenziario non è impossibile far penetrare sostanze stupefacenti. Il recluso è stato colto da un malore all’interno della cella, per poi essere trasportato all’ospedale dal personale di polizia penitenziaria. “Sembra che siano state trovate siringhe e materiale per uso di stupefacenti”, ha detto Grieco. “Come Uil-Pa polizia penitenziaria - ha aggiunto Grieco - denunciamo da mesi che il carcere di Sollicciano è fuori controllo ed abbiamo ribadito la necessita di avere una direzione stabile e un comando che riporti l’ordine e la sicurezza nei reparti di detenzione oltre a tutto quello che manca per la sua normale funzionalità. E poi: “Da mesi diciamo al Provveditore regionale che dobbiamo incontrarci e parlare di Firenze Sollicciano e di tutti i suoi problemi, ma sembra che si è di fronte ad un muro di gomma. A questo punto chiediamo che si apra immediatamente un tavolo al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e si inizi a mettere al centro la catena di responsabilità di questa amministrazione che sembrerebbe divenuta insensibile dinanzi alla vita umana”. Milano. Detenuto si impiccò durante la Prima della Scala, la procura chiede l’archiviazione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 marzo 2025 “Non è vietato avere la cintura in cella”. Ahmed Sadawi si suicidò con la cintura dei pantaloni nel bagno della sua cella di San Vittore la sera della “prima” della Scala l’8 dicembre 2023. la Procura di Milano chiede al Gip d’archiviare l’inchiesta a carico di ignoti: “In assenza di rischio specifico non previste limitazioni al possesso di oggetti”. Si era impiccato a 46 anni con la cintura dei pantaloni nel bagno della sua cella di San Vittore la sera della “prima” della Scala l’8 dicembre 2023, proprio mentre nella Rotonda del carcere su un maxischermo la “società civile” partecipava alla tradizionale visione con i detenuti della ““prima” diffusa”: ora la Procura di Milano chiede al Gip d’archiviare l’inchiesta a carico di ignoti, ritenendo che “la lettura di circolari e ordini di servizio vigenti all’epoca nell’istituto, e l’analisi delle telecamere”, escludano “responsabilità penale di alcun soggetto deputato alla vigilanza”. Arrestato il 4 dicembre per ipotesi di furto, l’egiziano Ahmed Sadawi “il 5 era visitato dallo psicologo che indicava il “livello 3” di monitoraggio, senza variare l’ubicazione del detenuto che permaneva quindi nella sezione “accoglienza”; e poi il 6, a seguito di colloquio con lo psichiatra, era collocato nel circuito a rischio “C.A.R.” con valutazione di rischio medio, e senza indicazioni specifiche sulla privazione di suppellettili ed effetti personali”. Come la cintura: In base “alle circolari e agli ordini di servizio acquisiti dalla Polizia - scrive la pm Simona Ferraiuolo - in assenza di specifiche indicazioni dei sanitari non sono infatti previste limitazioni al possesso di oggetti. La cintura con cui Sadawi compiva l’insano gesto era indossata sin dall’ingresso, lasciata nella sua disponibilità stante l’assenza di disposizioni in merito”. Inoltre “non c’erano disposizioni di dettaglio sulla frequenza dei controlli della Polizia Penitenziaria, tenuto conto anche che le misure di “sorveglianza a vista” sono residuali e adottate su richiesta motivata dei sanitari; peraltro, benché né Sadawi né il compagno di cella fossero sottoposti a “videosorveglianza”, le telecamere presenti erano attive, permettendo così di appurare lo svolgimento dei fatti”. Ahmed non aveva nessuno, e nessuno ha preso un avvocato per seguire questo fascicolo, alla cui archiviazione potrà ora eventualmente opporsi solo il Garante nazionale dei detenuti. Avellino. Detenuto suicida, assolto il medico del carcere: “Il fatto non sussiste” avellinotoday.it, 13 marzo 2025 Dopo un lungo iter giudiziario, il tribunale ha assolto Carmine Urciuoli, all’epoca responsabile sanitario del carcere di Bellizzi Irpino, dall’accusa di omicidio colposo in relazione alla morte di Luigi Della Valle, detenuto quarantatreenne originario di Montoro, che si tolse la vita nella sua cella il 18 luglio 2017. Il medico, difeso dall’avvocato Nicola D’Archi, è stato scagionato con la formula “il fatto non sussiste”, ponendo fine a un processo che ha sollevato interrogativi sulla gestione sanitaria dei detenuti con fragilità psichiatriche. Le accuse: mancato monitoraggio del detenuto - L’accusa sosteneva che Urciuoli non avesse garantito un’adeguata valutazione delle condizioni di Della Valle, il quale soffriva di disturbi psichici ed era noto per precedenti tentativi di suicidio. La Procura ipotizzava una mancata attivazione delle misure di sorveglianza previste dai protocolli per i detenuti a rischio, oltre alla mancata visita da parte di uno specialista, nonostante una richiesta in tal senso fosse stata avanzata già nel maggio 2017. La difesa, invece, ha sempre negato ogni responsabilità, sottolineando come il dirigente sanitario non fosse tenuto a predisporre direttamente tale accertamento e che non vi fosse alcuna prova di un’omissione da parte sua. Il verdetto: nessun nesso tra il suicidio e l’operato del medico - La decisione è giunta dopo una lunga camera di consiglio, al termine delle discussioni che si sono protratte per mesi. Il verdetto ha escluso ogni collegamento tra il decesso del detenuto e il comportamento del medico, accogliendo così la linea difensiva. Anche il pubblico ministero aveva chiesto l’assoluzione, ritenendo non dimostrabile un nesso di causalità tra la tragedia e le eventuali mancanze nell’assistenza sanitaria. La difesa: “La richiesta di visita psichiatrica non gli era mai arrivata” - Nel corso del dibattimento, gli avvocati Nicola D’Archi e Michele Propenso, quest’ultimo in rappresentanza dell’ASL di Avellino, hanno evidenziato come la richiesta di visita psichiatrica non fosse mai arrivata all’attenzione del dirigente, né fosse suo compito inserirla direttamente nel sistema. Inoltre, è emerso che, dopo un’udienza cruciale per il suo caso, Della Valle appariva più sereno, come riportato dagli agenti penitenziari che lo avevano in custodia. Le contestazioni della parte civile - Questa ricostruzione è stata duramente contestata dalla parte civile, rappresentata dagli avvocati Rosaria Vietri e Matteo Fimiani, che hanno insistito sulla presunta negligenza del sistema carcerario nel prevenire il gesto estremo del detenuto. Ora si attendono le motivazioni della sentenza, che verranno depositate entro sessanta giorni. Pavia. Presidio davanti al carcere per il trapper “Jeffrey Baby”, morto suicida in cella un anno fa di Manuela Marziani Il Giorno, 13 marzo 2025 “Jordan ha pagato troppo”: il padre e gli amici davanti al carcere di Pavia. Il giovane in carcere per una rapina commessa assieme a un amico aveva subito abusi sessuali. In corso l’inchiesta per omicidio colposo. Un anno dopo la telefonata con la quale veniva avvisato che il figlio si era tolto la vita, Roberto Tinti, il padre di Jordan Jeffrey Baby, il trapper di 26 anni di Bernareggio che nella notte tra l’11 e il 12 marzo è stato trovato impiccato in una cella di Torre del Gallo di Pavia, è tornato davanti al carcere. Lo ha fatto per un presidio autorizzato dalla direttrice della Casa circondariale di Pavia, Stefania Mussio, al quale hanno partecipato anche gli amici più cari del giovane e l’avvocato Federico Edoardo Pisani che segue la famiglia. Durante la manifestazione in ricordo del 26enne che stava scontando una condanna a 4 anni e 4 mesi per rapina, è stato srotolato uno striscione con il volto di Jordan e portati dei fiori che sono stati poi consegnati al cappellano del carcere, don Dario Crotti. “Per me è un momento difficile, come ogni giorno da un anno a questa parte - ha ammesso Roberto, il padre di Jordan -. Però almeno mi conforta rivedere i suoi amici. Mio figlio per me era un ragazzo d’oro, ma sono chiaramente poco obiettivo, essendo di parte. Di certo è una persona che ha pagato un prezzo troppo alto per quanto ha fatto”. La tragedia - Una storia tragica quella del trapper che aveva problemi psichici legati all’abuso di stupefacenti e psicofarmaci. In carcere ha subito maltrattamenti e anche una violenza sessuale. Subito il padre del giovane non ha creduto che il figlio potesse aver deciso di farla finita. Per fare chiarezza sulla fine del trapper è aperto un fascicolo per omicidio colposo. “Per il procedimento per la morte di Jordan - ha detto l’avvocato Federico Edoardo Pisani - siamo ancora nella fase delle indagini preliminari. Abbiamo molta fiducia nell’operato del sostituto procuratore che si sta occupando del caso, il dottor Alberto Palermo e ci aspettiamo dei risvolti. Dopo un anno, l’attesa si fa sentire”. La condanna - Nello scorso autunno, invece, Gianmarco Fagà, l’altro trapper che era in cella con Jordan, è stato condannato a tre anni e un mese di reclusione perché ritenuto responsabile di maltrattamenti nei confronti del 26enne. “Per quanto riguarda, infine, la violenza sessuale in carcere ai danni di Jordan - ha concluso l’avvocato Pisani - è stata disposta l’imputazione coatta e fissata l’udienza preliminare nella quale è stato chiesto il rito abbreviato. Il prossimo 19 giugno il compagno di cella, un cinquantenne di Alessandria, andrà a processo”. Milano. Ipm Beccaria, incendio in una cella: 4 detenuti e un agente intossicati nella notte di Nicola Palma Il Giorno, 13 marzo 2025 Un’altra nottata difficile nel penitenziario minorile. Tutto è partito poco dopo la mezzanotte: il rogo innescato da un materasso dato alle fiamme. L’ultimo precedente era datato 31 agosto 2024: quella sera, in tre, poi ripresi nei giorni successivi, avevano approfittato del caos generato da un incendio per scavalcare il muro di cinta e scomparire nel nulla. Dopo sei mesi e mezzo di tranquillità apparente, il carcere minorile Beccaria torna a far parlare di sé sempre per lo stesso motivo: poco dopo la mezzanotte del 13 marzo 2025, alcuni detenuti hanno appiccato un rogo in una cella, dando alle fiamme un materasso secondo le prime informazioni. Le guardie penitenziarie di turno si sono accorte di quanto stava accadendo e hanno subito chiamato i vigili del fuoco, che sono intervenuti in via dei Calchi Taeggi insieme ai carabinieri del Nucleo Radiomobile. Gli intossicati Stando a quanto risulta, i sanitari di Areu sono intervenuti con tre ambulanze e un’auto medica e hanno assistito complessivamente cinque persone lievemente intossicate dalle esalazioni, di cui quattro reclusi di età compresa tra 15 e 17 anni e un agente di 31 anni; per tre di loro si è reso necessario il trasporto nei pronto soccorso di San Carlo, San Paolo e Fatebenefratelli. È questo il bilancio dell’ennesima protesta andata in scena tra le mura dell’istituto in zona Bisceglie. La situazione è tornata alla normalità attorno alle 2. Come detto, lo scorso 31 agosto era avvenuto un raid simile, durante il quale tre detenuti erano scappati. Poco meno di due mesi prima, la sera del 7 luglio, alcuni reclusi avevano dato alle fiamme effetti personali presenti nelle celle, generando un incendio che era stato domato nel giro di pochi minuti dagli agenti della polizia penitenziaria. Le fiamme e soprattutto il fumo che si era sprigionato avevano però avuto come effetto immediato il trasferimento dei giovanissimi reclusi della seconda ala in un altro settore. Altro episodio il 29 maggio, quando una settantina di detenuti aveva dato vita a una violenta protesta generata da una sanzione disciplinare a un detenuto minorenne e da un controllo antidroga. In quel caso, era stato stato necessario l’intervento degli agenti in assetto antisommossa per riportare la calma: alla vista dei poliziotti, i giovanissimi reclusi avevano subito messo fine al blitz, che comunque aveva provocato diversi danni ai vetri delle porte blindate e ad altri arredi del carcere. Rimini. “Nel carcere sovraffollamento e degrado”, l’on Croatti (M5S) interroga il Ministro altarimini.it, 13 marzo 2025 Il senatore M5S chiede interventi urgenti per migliorare le condizioni della struttura e accelerare la ristrutturazione. Il senatore del Movimento 5 Stelle Marco Croatti ha presentato un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia Nordio sulle gravi criticità della Casa Circondariale di Rimini. La recente visita del Partito Radicale ha confermato problemi già segnalati, in particolare nella prima sezione, in condizioni degradate. Nonostante i 2 milioni di euro stanziati per la ristrutturazione, i lavori continuano a subire ritardi. Il carcere soffre di sovraffollamento (133 detenuti per 118 posti) e carenza di personale (72 agenti su 139 previsti). Croatti chiede al ministero interventi urgenti e tempi certi per i lavori. La nota del Senatore Croatti - “Nei giorni scorsi ho presentato al ministro della Giustizia Nordio una interrogazione urgente in merito alla situazione della casa circondariale riminese le cui criticità sono sempre più gravi e preoccupanti. La visita alla Casa Circondariale di Rimini del 3 gennaio 2025, effettuata dal partito Radicale, ha confermato le criticità emerse durante la visita che avevo personalmente effettuato nell’agosto precedente. La loro dettagliata relazione evidenzia aspetti su cui è urgente intervenire, in particolare nella prima sezione, luogo degradato e malsano “. Dichiara il senatore del Movimento 5 Stelle Marco Croatti. “Va evidenziato che sono stati stanziati due milioni di euro per la ristrutturazione dell’ala che comprende al primo piano la prima sezione e al piano terra la sesta sezione, inagibile dal 2016, ma l’inizio dei lavori, previsto come imminente, continua a slittare da mesi. Le ultime indicazioni indicavano i primi mesi del 2025 ma la direzione segnala che non sono state ancora date indicazioni per la gestione delle persone attualmente detenute all’interno della sezione e la preoccupazione è che una volta trascorso questo periodo poi con l’avvicinarsi del periodo estivo per esigenze di carcerazione l’intervento possa slittare ancora. Come detto numerose sono le criticità segnalate. Alcuni dati vanno evidenziati perché emblematici di una situazione molto grave: i posti regolamentari sono 118, i detenuti presenti 133 con un sovraffollamento del 113%; la pianta organica del personale penitenziario è di 139 unità ma effettivamente in servizio sono soltanto in 72; il personale effettivamente in servizio è dunque la metà del previsto”. Prosegue l’esponente pentastellato. “Nell’interrogazione che ho presentato al ministro della Giustizia ho posto tre quesiti: se il ministero sia a conoscenza della situazione critica della Casa Circondariale di Rimini; quali azioni urgenti intenda intraprendere per affrontare le criticità evidenziate; quali siano le tempistiche aggiornate in merito ai lavori previsti e se il ministero intenda impegnarsi per velocizzare l’avvio dei lavori. Il carcere non può essere un luogo di tortura: serve rispetto della legalità e dei diritti umani. Non ci fermeremo finché non vedremo risposte concrete” - conclude il Senatore Marco Croatti. Torino. Imprese e Terzo settore a confronto sul tema del lavoro in carcere di Filomena Greco Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2025 Graffino: “Guardiamo alle buone pratiche per favorire l’inserimento”. Un obiettivo chiaro, arrivare ad un Protocollo d’intesa per sostenere i progetti di inserimento dei detenuti nelle imprese, in una situazione complessa come quella dell’affollamento degli istituti di pena. È il tema al centro di un appuntamento organizzato dai Giovani imprenditori dell’Unione industriali di Torino. “In questo momento non guardiamo ai numeri ma alle buone pratiche da mettere in campo per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti, facendo cultura d’impresa, coordinandoci con realtà come la Fondazione Ufficio Pio e il Fondo Musy, e cercando di ridurre la burocrazia” sottolinea la presidente Barbara Graffino. Le imprese, sottolinea il presidente dell’Ui di Torino Marco Gay, “possono essere motore di un cambiamento positivo e interpreti di processi in grado di dare benefici all’intera collettività”. Il Piemonte resta nella media sul fronte dell’affollamento degli istituti penitenziari- al 117%rispetto ad una media comunque alta in Italia, al 119% - ma con situazioni al limite come quella del carcere di Torino che raggiunge il 132%. Un terzo dei detenuti è attualmente impiegato in attività perlopiù alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria ma solo l’i% opera in una impresa privata. I numeri per il Piemonte li dà Mario Antonio Galati, provveditore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: sono 132 i detenuti in semilibertà impegnati in attività lavorative fuori dal carcere, un decimo del totale in Italia. Da un lato, dunque le buone pratiche di società private come Cisco, che gestisce una piattaforma di formazione sulle certificazioni informatiche che coinvolge detenuti. Accanto a enti del terzo settore come l’Ufficio Pio di Compagnia di Sanpaolo o il Fondo Alberto e Angelica Musy, “che rappresenta le vittime, interessate al reinserimento in società dei detenuti per ridurre recidive e dare opportunità per il futuro” spiega Angelica D’Auvare. Dall’altro invece la complessità della costruzione di percorsi che mettano insieme i dettami della Costituzione, come ricorda il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, con l’attenta analisi dei profili psicologici dei detenuti, l’offerta di formazione e la creazione di opportunità di lavoro fuori e dentro il carcere. “Proprio esperienze di lavoro all’interno del carcere - spiega la direttrice della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Elena Lombardi Vallauri - possono fare da cerniera con l’esterno. Vogliamo rendere normale questo approccio e avere sempre un gruppo di detenuti pronti a intraprendere percorsi lavorativi e di recupero”. Da luglio scorso è operativo il Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale presso il Cnel a sostegno della cooperazione tra diverse realtà per costruire un sistema integrato per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Torino. “Nuovi inizi”, il lavoro come fuga dall’oblio del carcere di Mattia Giopp futura.news, 13 marzo 2025 Muri alti, a volte troppo alti, che bloccano le persone in una zona morta senza prospettive. Spesso, la realtà del carcere si riduce a questo. Una situazione in totale controtendenza rispetto alla volontà di rieducare e reinserire sancita dalla Costituzione: tra le terapie più efficaci per non rimanere intrappolati in quella zona morta, c’è il lavoro. Con questa premessa si è aperto l’evento “Nuovi inizi: il lavoro come strumento di inclusione per le persone detenute”, che si è tenuto nella mattinata del 12 marzo nel centro congressi dell’Unione industriali Torino. A organizzarlo, la stessa Unione industriali Torino, con il presidente Marco Gay che ha dettato la linea all’apertura dei lavori: “Se le imprese vogliono avere un ruolo da protagoniste sul territorio, è loro preciso dovere aiutare chi ha più bisogno di aiuto ben oltre la corporate responsability”. Come mettono in luce i dati di The european house - Ambrosetti (Teha), il nostro paese ha enormi difficoltà nel combattere la recidività: il 62% dei detenuti è già stato in carcere almeno una volta, ed è estremamente probabile che ci torni anche dopo aver scontato la condanna. “Negli ultimi anni abbiamo visto diversi ex detenuti che delinquono apposta per tornare in carcere, perché fuori non hanno trovato posto nella comunità - ha commentato Michela Favaro, vicesindaca di Torino - Uno spreco di risorse, umane e economiche, che non può continuare”. Degli oltre 1.400 detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, solo il 21% lavora, e la maggioranza lo fa all’interno del carcere, circa il 90%. Numeri ancora peggiori rispetto alla già scarsa media nazionale, che vede l’occupazione dei detenuti al 33%, di cui l’85% alle dipendenze delle strutture carcerarie. Eppure, sempre secondo i dati Teha, favorire il lavoro in realtà esterne potrebbe ridurre la percentuale di recidività dal 62% al 2%. Favorire le relazioni tra carcere e imprese significa “favorire situazioni in cui vincono tutti, dallo Stato ai detenuti”, ha sottolineato Danny Winteler, presidente esecutivo di Teha group. I dubbi del mondo penitenziario - In leggera controtendenza solo Mario Antonio Galati, provveditore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: “Le mura del carcere devono essere alte in alcuni casi e trasparenti in altri, perché il nostro primo obbiettivo è garantire la sicurezza sociale - ha dichiarato il provveditore - Per tutti questi progetti è necessario prima conoscere a fondo i detenuti attraverso un processo scientifico. Per questo bisogna pensare prima a portare le imprese in carcere che i detenuti fuori”. Parole a cui si è affrettato a mettere una pezza il viceministro della Giustizia, Filippo Paolo Sisto, presente in videocollegamento, che ha voluto ricordare come “il carcere deve essere privazione della libertà, non della dignità. La Costituzione non ammette deroghe: tutti devono avere accesso alla rieducazione. Anche sul piano della salute, le regioni devono capire l’importanza di garantire nei penitenziari le stesse possibilità di cura che si trovano fuori”. Napoli. Casa-alloggio per detenuti della diocesi: “Su cento ospiti solo tre tornati a delinquere” di Ilaria Beretta Avvenire, 13 marzo 2025 Nel rione Sanità la diocesi di Napoli ha fissato la residenza di una casa di accoglienza per detenuti in regime di detenzione domiciliare e di semilibertà. I tre piani - un tempo abitati da una comunità di suore e in parte adibiti a istituto scolastico - sono stati risanati e ridestinati ad alloggi per dieci detenuti provenienti dal penitenziario di Poggioreale. Il trait d’union tra il carcere e la struttura esterna per l’esecuzione della pena è don Franco Esposito, storico cappellano dell’istituto e referente del Centro diocesano di pastorale carceraria. “Gli ospiti - racconta il sacerdote - vengono accolti dopo un colloquio con un operatore che, al termine, segnala la disponibilità per l’accoglienza e la presenta al giudice che, eventualmente, dispone l’affidamento esterno”. La casa funziona da quindici anni e in questa modalità ha accolto centinaia di persone: alcune vi risiedono per un periodo, altre - in prova ai servizi sociali, in regime di messa alla prova o di semilibertà - la frequentano come un centro diurno dove imparano la lavorazione del rame, la modellazione del legno o l’arte presepistica. Anche i detenuti residenti hanno la possibilità di imparare un lavoro in un laboratorio di bigotteria e in uno eucaristico, dove vengono realizzate le ostie, mentre nel pomeriggio frequentano corsi di formazione. Ogni settimana tutti gli ospiti si ritrovano per un momento di verifica dove ognuno condivide con gli altri la sua esperienza. Ma il punto sull’iniziativa la fa anche la comunità cristiana a livello diocesano che spesso viene coinvolta in azioni a favore dei detenuti. Una volta all’anno, per esempio, la pastorale carceraria propone in tutte le parrocchie una la giornata di preghiera per chi è in carcere e in quell’occasione organizza una raccolta di materiale che serve per le prime necessità dei detenuti: dai bagno schiuma agli indumenti. “Come Chiesa - spiega don Franco - abbiamo iniziato a creare un ponte tra la realtà che sta dentro e quella che sta fuori. È importante creare un’alternativa: oggi purtroppo chi sta in carcere esce con legami aggiunti con la criminalità. Bisogna sensibilizzare l’opinione pubblica al problema che crea il carcere e alle soluzioni alternative. Noi riusciamo ad accogliere una quindicina di detenuti in misure alternative ed esistono pochissime altre case come le nostre. Il tasso di successo, però, è elevatissimo: su cento detenuti che saranno passati da noi, solo tre o quattro sono poi tornati a delinquere. Mancando il sostegno è difficile rendere strutturale queste opere: da parte dello Stato non c’è alcun contributo, attualmente aderiamo a un progetto regionale che sostiene i detenuti senza fissa dimora e che ancora, comunque, non è partito. Quello che siamo riusciti a fare è grazie all’8xmille e grazie ai volontari, che attualmente sono oltre cento operando dentro e fuori il carcere”. È proprio a loro che si rivolge il libro di don Esposito “Volontariato penitenziario” fresco di stampa per Iod editrice, una specie di manuale per formare chi opera nell’ambito della giustizia penitenziaria. “Io faccio questo lavoro da vent’anni - conclude il cappellano - e posso dire che non esistono i problemi del carcere, è il carcere il problema. Certo: il sovraffollamento, la mancanza di spazi e di personale sia educativo sia di polizia penitenziaria e la carenza di formazione peggiorano le cose ma, anche se queste questioni fossero risolte, il carcere non acquisterebbe senso. Non a caso la Costituzione parla di pena e mai di carceri”. Bologna. Giovani detenuti e speranze, viaggio al minorile del Pratello attraverso un podcast di Rosalba Carbutti Il Resto del Carlino, 13 marzo 2025 Don Domenico, cappellano del carcere da quasi 5 anni, racconta la sua esperienza. E critica il trasferimento dei ragazzi alla Dozza: “Un precedente pericoloso da evitare”. “Trasferire i giovani detenuti alla Dozza andava evitato. Il rischio è creare un precedente pericoloso, che allarma, così da creare una bolgia Dantesca”. Don Domenico Cambareri, cappellano del minorile del Pratello, è fortemente preoccupato dal trasloco di 50-70 ragazzi al carcere degli adulti. Nel nostro podcast “Il Resto di Bologna” (scaricabile gratuitamente da piattaforme come Spotify e dal nostro sito web) don Domenico racconta la vita del Pratello, di ragazzi difficili, ma anche di speranza e voglia di ricominciare a vivere. Lo fa mischiando Seneca e Platone ai testi dei rapper che ascoltano i ragazzi, cercando di tendere la mano a chi ha smarrito la strada. “Dovremmo essere coraggiosi e fare delle nuove proposte educative, con delle vere strutture alternative al carcere”, è l’auspicio del cappellano del Pratello, in prima linea da quasi 5 anni. E tra iniziative lanciate per aiutare i ragazzi che verranno trasferiti alla Dozza (ha dato il via a una raccolta di generi di prima necessità) e altre per stare vicino a chi esce dal carcere e si trova spaesato, magari senza una famiglia, don Domenico racconta i suoi anni al carcere minorile del Pratello e i tanti giovani che ha incontrato, cercando di instaurare un dialogo che prosegua anche dopo, fuori. Il sacerdote parla di ventenni difficili, dei loro disagi, delle tante responsabilità degli adulti. Ma anche di chi ha “compiuto un omicidio e non può tornare indietro”. Don Domenico li “porta nel cuore”. Perché “anche di fronte al peso e al rimorso del gesto compiuto, si può ancora dire a questi ragazzi guarda, hai ancora una vita, tu puoi ancora sopravvivere”. Ferrara. Concluso con successo il progetto di formazione digitale per detenuti telestense.it, 13 marzo 2025 Formazione digitale alle persone in esecuzione penale, o sottoposte a misure di comunità in Emilia-Romagna: si è concluso con successo, presso la Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara, il percorso di Pro.Digi, il progetto selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale, che punta a creare una seconda opportunità per 100 persone in situazione di fragilità, accompagnandole a maturare competenze digitali per la cittadinanza e l’inclusione, oltre che finalizzate al reinserimento lavorativo. Promosso da AECA (capofila), CEFAL Emilia-Romagna e CIOFS FP Emilia-Romagna ETS, Pro.Digi ha preso il via a Parma nel giugno del 2024, ed è approdato al carcere di Ferrara lo scorso novembre, per concludersi proprio oggi, 12 marzo, con la cerimonia di consegna degli attestati di frequenza, a cui ha prese parte anche l’Assessore alle politiche sociali del Comune di Ferrara, Cristina Coletti. Il corso è stato portato a termine da sei ospiti della struttura. Si tratta di sei persone che stanno scontando pene detentive diverse l’una dall’altra, una delle quali si trova oggi già in stato di libertà. Il percorso formativo è stato realizzato dal personale di CEFAL in collaborazione con il Centro Studi Opera Don Calabria - “Città del Ragazzo”. I nuovi “diplomati” di Pro.Digi hanno completato tutte le tre fasi del progetto formativo gratuito: la prima di riallineamento delle competenze dei partecipanti con corsi di lingua italiana e pre-alfabetizzazione digitale; la seconda con moduli di formazione digitale, oltre che con cicli di accompagnamento orientativo; e la terza - conclusasi in questi giorni - dedicata principalmente al rafforzamento delle soft-skills. “È stato un percorso dai risultati sorprendenti - racconta Federica Battaglia, coordinatrice del progetto presso il carcere di Ferrara -. I partecipanti hanno iniziato che a malapena sapevano accendere un computer, tanto che i docenti hanno dovuto insegnare a qualcuno come si utilizzasse un mouse. Eppure hanno seguito il corso con grande curiosità ed entusiasmo. Mi ha molto colpito che uno di loro - che nel frattempo ha terminato la sua pena - sia riuscito, una volta uscito dal carcere, a crearsi una casella di posta elettronica, a ricercare l’ente per cui lavoro, e a contattarmi per e-mail. Tutto ciò nonostante in carcere non sia stato possibile usare internet, ma solo strumenti formativi off-line”. “Le nozioni digitali apprese grazie a Pro.Digi saranno sicuramente di grande aiuto a queste persone nel loro percorso personale e lavorativo, sia all’interno che fuori dal carcere - commenta Giacomo Sarti di CEFAL -. Il processo di digitalizzazione accompagna ormai ogni singolo aspetto delle nostre vite, e siamo fieri di poter fornire a queste persone i necessari strumenti per affrontare con maggiore sicurezza le sfide del lavoro e, più in generale, della vita.” “Siamo molto soddisfatti dell’esito di Pro.Digi - racconta Maria Martone, direttrice della Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara -, che ha avuto un’alta percentuale di successo con i nostri ospiti, e che speriamo possa essere riproposto a favore di altre persone che hanno un gran bisogno di dotarsi di competenze che al giorno d’oggi risultano necessarie in tutti i contesti. Ci tengo a ringraziare lo staff di Pro.Digi per il lavoro svolto con passione e dedizione in un ambito formativo innovativo consentendo ai detenuti di sperimentare come il mondo stia progredendo al di fuori delle mura carcerarie ma, soprattutto, di accrescere le proprie competenza professionali in un settore che può offrire anche occasioni di lavoro all’esterno.” ll progetto è stato selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale. Il Fondo per la Repubblica Digitale è una partnership tra pubblico e privato sociale (Governo e Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio - Acri), che si muove nell’ambito degli obiettivi di digitalizzazione previsti dal PNRR e dal PNC ed è alimentato da versamenti delle Fondazioni di origine bancaria, alle quali viene riconosciuto un credito di imposta. Il Fondo seleziona e sostiene progetti di formazione e inclusione digitale per diversi target della popolazione come NEET, donne, disoccupati e inoccupati, lavoratori a rischio disoccupazione causa dell’automazione, dipendenti, collaboratori e volontari degli enti dell’economia sociale, studenti e studentesse delle scuole secondarie di primo e secondo grado e persone detenute. L’obiettivo è valutare l’impatto dei progetti formativi sostenuti e replicare su scala più vasta quelli ritenuti più efficaci in modo tale da offrire le migliori pratiche al Governo affinché possa utilizzarle nella definizione di future politiche nazionali. Per maggiori informazioni fondorepubblicadigitale.it. Ancona. Detenuti a lezione di verde urbano, al via corso Univpm a Barcaglione etvmarche.it, 13 marzo 2025 Imparare un mestiere, rendere un servizio alla collettività ma soprattutto prepararsi, una volta tornati liberi, a reintegrarsi nella società. È l’opportunità offerta dal corso professionalizzante dall’Università Politecnica delle Marche, sulla base di un protocollo d’intesa tra l’Ateneo e il comune di Ancona, a 12 detenuti, a fine pena, tra i 22 e in 55 anni, della Casa di reclusione Barcaglione di Ancona. Acquisiranno competenze nell’ambito della conoscenza delle piante ornamentali, la manutenzione differenziata del verde urbano, il riconoscimento delle avversità fitopatologiche, e gli interventi in sicurezza. Figure che rientrano nelle materie Botanica, Agronomia, Arboricoltura, Patologia vegetale, Entomologia, Manutenzione del verde e sicurezza sul lavoro e che consentiranno agli attuali detenuti di ‘prenotarsi’ una occupazione stabile. Il corso che coinvolge i docenti dell’ateneo, inizierà il 14 marzo 2025, e formerà i detenuti per essere operatori e operatrici esperti in gestione e manutenzione del verde urbano, prevede 80 ore totali di lezione, 28 teoriche e 52 di tirocinio pratico-applicativo che si svolgeranno sia all’interno delle aree adatte della Casa circondariale, in due aree comunali, il parco della Cittadella e il parco di Posatore e in aree dell’Università. Con loro i docenti dell’ateneo e i tecnici qualificati dell’amministrazione dorica. “Diamo strumenti concreti perché queste persone diventino cittadini attivi”, hanno spiegato il rettore dell’Ateneo Gian Luca Gregori e l’assessore all’università, Marco Battino. Perché, ha ricordato Gregori “l’università è anche attore di inclusione sociale oltreché di formazione. Un impegno che l’Ateneo svolge anche nell’ambito di un progetto destinato alle donne vittime di violenza del Centro Papa Giovanni diretto da don Aldo Buonaiuto in provincia di Ancona “Donne che già producono e vendono quanto realizzano”. Progetti che rientrano “nel diritto allo studio che ogni Ateneo ha il dovere di potenziare e di rendere accessibile a tutte e tutti, soprattutto - ha sottolineato Gregori - verso coloro che si trovano in condizioni di fragilità”. Per Battino “un nuovo passo avanti nella collaborazione tra la città e l’università”. L’offerta del corso è stata accolta “con entusiasmo” dalla direttrice dell’istituto Barcaglione Manuela Ceresani e dal responsabile formazione interno all’istituto di pena, Francesco Tubiello che, ha ricordato, è sede di Polo universitario. “Il corso - ha sottolineato Ceresani - è uno strumento reale sia mentre viene scontata la pena ma soprattutto dopo per reinserirsi e responsabilizzarsi”. “L’UnivPM ha aderito alla Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp) nel 2023 - ha spiegato il referente del progetto, Nunzio Isidoro - per garantire il diritto allo studio delle persone detenute e la reale fruibilità di questo diritto”. Negli anni il numero delle persone detenute iscritte ad un corso universitario è arrivato a più di 1500 iscritti, confermando l’importanza di avere obiettivi nuovi e quindi anche nuove possibilità”. Infatti il corso darà anche sbocchi professionali nel privato con impieghi a tempo indeterminato. “Iniziative di questa natura dimostrano - ha spiegato il Direttore Generale Alessandro Iacopini - che istruzione e conoscenza possono essere strumenti di profonda trasformazione personale e sociale”. Lo strumento attraverso il quale verrà realizzato il progetto è il Crismat, Centro di ricerca interdipartimentale relativo al Terzo Settore”, ha spiegato Valerio Temperini. Cremona. “Oltre la bilancia e la spada”: incontro sulla giustizia riparativa cremonaoggi.it, 13 marzo 2025 Venerdì 21 marzo alle ore 17 al Civico 81 di via Bonomelli a Cremona, si terrà il secondo appuntamento del percorso culturale Disarmare il dolore. Attraversare i conflitti nell’orizzonte della giustizia riparativa”. L’iniziativa, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sul tema del conflitto e del reato, e? aperta alla cittadinanza. All’incontro dal titolo “Oltre la bilancia e la spada: come la giustizia riparativa trasforma la comunità”, intervengono Ivo Lizzola, professore di Pedagogia sociale e Pedagogia della marginalità, del conflitto e della mediazione presso l’Università di Bergamo e Marcello Balestrieri, sociologo e mediatore dei conflitti presso la cooperativa Dike di Milano specializzata appunto nella mediazione. Modera Lucio Farina, Direttore del Csv Monza, Lecco, Sondrio. L’evento e? l’occasione per approfondire l’applicabilità del paradigma della Giustizia Riparativa anche al di fuori dell’ambito penale attraverso pratiche di mediazione sociale e di mediazione nelle relazioni comunitarie. L’appuntamento si inserisce nell’ambito della Trama dei Diritti, spazio culturale aperto a tutte le organizzazioni impegnate nella costruzione della cultura dei diritti ed e? organizzato da una rete composta da realtà che quotidianamente si occupano dei temi in oggetto: Consorzio Sol.Co Cremona, Diocesi di Cremona - Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro, Comune di Cremona, Csv Lombardia Sud Ets e Caritas Cremonese. “La comunità gioca un ruolo fondamentale nell’applicazione del paradigma riparativo” spiegano gli organizzatori dell’evento. “E? all’interno della comunità che si manifestano le conseguenze di atti lesivi, siano essi crimini o altri eventi. Pertanto, e? essenziale che la comunità stessa sia dotata degli strumenti, delle conoscenze e della sensibilità necessari per gestire tali conseguenze”. Varese. Vedere papà in uno spazio fuori dal carcere: un luogo per gli incontri figli-detenuti varesenews.it, 13 marzo 2025 Lo spazio neutro verrà allestito in un appartamento messo a disposizione dalla Caritas. Già da qualche mese viene utilizzato per usufruire di permessi premio e reinserimento sociale. Da qualche mese con la progettualità sostenuta da Regione Lombardia nell’ambito del Progetto “Spazio di Frontiera: l’inclusione sociale dentro e fuori dal carcere” gestita dalla Cooperativa Intrecci, è stato predisposto a Varese un luogo ove alcuni detenuti, con particolari requisiti, possono fruire di permessi premio. L’individuazione dei locali ha permesso di creare per la prima volta uno spazio nella città, utilizzabile per differenti scopi. Infatti i detenuti in questo contesto possono incontrare i propri nuclei familiari, i figli minori o gli operatori del terzo settore per valutare ipotesi di reinserimento sociale: creazione del curriculum per il reperimento di una attività lavorativa, ricerca attiva di risorse abitative, espletamento di pratiche burocratiche e di rinnovo di documenti. I detenuti incontrano gli operatori in un mini appartamento messo a disposizione da Caritas, sperimentandosi, così, in un luogo esterno al carcere. La Direzione della Casa Circondariale di Varese, congiuntamente ai Funzionari Giuridici Pedagogici, ha deciso di rendere questo spazio anche luogo adibito a Spazio Neutro. Il 21 marzo 2014, infatti, per la prima volta in Europa ed in Italia, in continuità con la Convenzione ONU, viene firmata a Roma, la “Carta dei Diritti dei figli di genitori detenuti” dal Ministero della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza e Bambinisenzasbarre. Tale documento è volto a tutelare i diritti dei 100 mila bambini ed adolescenti che ogni anno entrano nelle carceri per incontrare il proprio genitore recluso. L’incontro in situazione di particolare tutela di figli minori è di particolare rilevanza. L’obiettivo è quello di dare continuità al legame affettivo e tutelare la parte più vulnerabile: i bambini. La finalità principale dello spazio neutro è fare in modo che il bambino possa continuare il suo rapporto affettivo con il genitore non affidatario e recluso, considerando che questo diritto è frequentemente messo a rischio da situazioni familiari di conflitto. Brescia. “Orizzonti ristretti. Carcere e carceri”, al via la quinta edizione del cineforum sociale radiobrunobrescia.it, 13 marzo 2025 Con la primavera di quest’anno, torna la quinta edizione di Sguardi d’Insieme: la rassegna di cineforum - inaugurata nella primavera del 2023, con cadenza due volte l’anno - per ritrovarsi come comunità sempre più coesa intorno a temi sociali di grande attualità. Le tre serate si terranno per tre mercoledì di fila - 26 marzo, 2 aprile, 9 aprile - sempre alle 20.15 al Cinema Teatro Aurora di Palazzolo con ingresso libero e gratuito. Il tema di questa quarta edizione sarà Orizzonti ristretti. Carcere e Carceri: un’occasione per riflettere sulla condizione di vita nelle carceri e su come, attraverso progetti virtuosi di partecipazione collettiva, si possano ottenere dei miglioramenti nella qualità della vita tanto dei detenuti, quanto della società in cui avviene il reinserimento. Promotori dell’iniziativa sono nuovamente il Comune di Palazzolo - in particolare gli Assessorati ai Servizi Sociali e alla Progettazione Culturale - e il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST Franciacorta, in collaborazione con l’associazione Il Club, l’associazione Kuma e il Cinema Aurora stesso; oltre che ad un gruppo informale ma consolidato di cittadini palazzolesi e non, che ha deciso di chiamarsi Sguardi d’Insieme, proprio come la rassegna a cui danno un importante supporto. Ogni film verrà introdotto da un ospite che condividerà col pubblico un’esperienza associata al tema del film. Seguirà il rinfresco a cura dell’Atelier Melograno: altra iniziativa de Il Club che vede impegnate persone con fragilità e volontari nella gestione di una ricca degustazione di dolci. Nello specifico, la rassegna proporrà i film Benvenuti in galera (2023) per la regia di Michele Rho (mercoledì 26 marzo), con l’introduzione di don Fabio Corazzina: presbitero della Chiesa bresciana e dal 2023 collaboratore delle Parrocchie di Camignone, Passirano e Monterotondo, nonché coordinatore nazionale di Pax Christi. A seguire sarà la volta di Grazie ragazzi (2023) per la regia di Riccardo Milani (mercoledì 2 aprile), con l’introduzione di Marta Vezzoli: artista e arteterapeuta (formata al Clinico Lyceum), che ha condotto gruppi di arteterapia in alcune carceri di massima sicurezza e carceri minorili della Lombardia. Infine, la rassegna chiuderà con Ariaferma (2021) per la regia di Leonardo Di Costanzo (mercoledì 9 aprile), con l’introduzione della Dott.ssa Valentina Gaspari: psicologa psicoterapeuta, già collaboratrice della Cooperativa Palazzolese e della Cooperativa Paese, che da anni opera nel carcere di Bergamo in qualità di psicologa penitenziaria. “Anche quest’anno riproponiamo alla cittadinanza un cineforum volto ad aprire momenti di riflessione attiva e partecipe - ha commentato l’assessora ai Servizi Sociali Ombretta Pedercini - Ringrazio tutte le realtà che hanno lavorato insieme per realizzare l’evento ed invito tutta la popolazione ad intervenire”. Roma. Premio De Sanctis, Nordio: “In carcere bisogna portare cultura” gnewsonline.it, 13 marzo 2025 “Il nostro obiettivo è quello di portare la cultura nelle carceri, attraverso la lettura dei grandi classici”. Parla dell’iniziativa “Libri Liberi”, il ministro Carlo Nordio, nel suo intervento alla presentazione del premio De Sanctis 2025 nella sala polifunzionale di palazzo Chigi. La rassegna, patrocinata dal Ministero e organizzata dalla fondazione De Sanctis, è partita il 6 marzo da Rebibbia. L’iniziativa prevede 12 tappe negli istituti di pena per adulti e minori. “Sarebbe un privilegio poter partecipare attivamente a queste letture”, aggiunge il Ministro, che vorrebbe leggere in un istituto minorile, “penso al Beccaria” di Milano, un racconto di Anatole France, “uno dei miei autori preferiti”. In particolare il Crainquebille, la storia di un venditore ambulante che, per aver offeso un vigile, entra in un interminabile “vortice giustizialista, o giudiziario”, dice Nordio. Un’opera importante, che tratta di “lotta del potere nei confronti della persona debole, ed è la lotta del debole contro la ottusità delle leggi e anche di alcuni magistrati”. “Portare nelle carceri questi messaggi di cultura, dalla letteratura alla poesia, ai drammi”, conclude il Guardasigilli, “significa portare un soffio di speranza ma anche dare un piccolo messaggio a quelli che ‘controllano’ queste persone; il faro dev’essere il vero frutto della saggezza, cioè il dubbio”. Alla presentazione sono intervenuti anche i ministri per le Riforme istituzionali, Maria Elisabetta Alberti Casellati, degli Esteri, Antonio Tajani in videocollegamento, e dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin. A introdurre, il presidente del premio De Sanctis, Gianni Letta. L’attrice Serena Autieri è intervenuta con la lettura di “il Mezzogiorno e lo Stato unitario”, un brano di Francesco De Sanctis, noto critico letterario, filosofo e ministro che dà il nome al premio. Napoli. Bentivoglio: “Leggo Marquez a Secondigliano. Medica solitudine nostra e dei detenuti” di Ida Palisi Corriere del Mezzogiorno, 13 marzo 2025 L’attore e regista con Maurizio de Giovanni nel carcere: il fatto di provenire dal mondo dei “liberi”, popolato da persone che pur commettendo gravi errori non ne pagano le conseguenze, mi fa scattare un sacro rispetto per i detenuti. “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Sarà nel magico mondo di Macondo raccontato in Cent’anni di solitudine da Gabriel Garcia Màrquez, l’incontro nel carcere di Secondigliano delle persone recluse con la grande letteratura mondiale. A condurlo, questo pomeriggio alle 16, Maurizio de Giovanni insieme con Fabrizio Bentivoglio, alla presenza della direttrice del carcere Giulia Russo. Si tratta di un appuntamento della rassegna “Libri Liberi” promossa dalla Fondazione De Sanctis con il patrocinio del ministero della Giustizia e in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del ministero della Cultura, che porta i capolavori della letteratura nelle carceri italiane, con l’aiuto di scrittori e attori. La rassegna, dopo un giro per l’Italia, si chiuderà a Napoli il 21 dicembre nell’Istituto penale per i minorenni di Nisida. Intanto, oggi una strana alchimia unirà lo scrittore della Napoli “nera” de Giovanni, al regista e attore Bentivoglio che quasi trent’anni fa impersonò un prete pedofilo alle prese con la camorra, nel bellissimo film di Antonio Capuano Pianese Nunzio, 14 anni a maggio. Bentivoglio perché ha scelto Napoli? “Ho accettato la bellissima proposta degli organizzatori, sono loro che hanno scelto per me, io mi sono lasciato portare qui ben volentieri, anche per l’abbinamento per me fortunato con Maurizio de Giovanni che conosco e apprezzo. Il fatto di avere lui come “Virgilio” mi onora. Con Napoli poi ho un rapporto che dura da sempre, dai lavori con Peppino Patroni Griffi e Antonio Capuano, all’esperienza con la piccola Orchestra Avion Travel: tra spettacoli teatrali, film e dischi, ho sempre avuto Napoli sulla mia strada”. Cosa c’entra Cent’anni di solitudine con il carcere di Secondigliano? “La solitudine della famiglia Buendìa dispersa in un villaggetto nel mezzo della foresta amazzonica colombiana diventa in qualche modo lo specchio della solitudine all’interno del carcere. E questi incontri vengono fatti per tenerci compagnia, per rompere il muro di solitudine che sentiamo tanto anche noi che siamo liberi, figuriamoci loro che sono reclusi”. Il romanzo racconta di sette generazioni, è complicatissimo. Quali parti leggerete? “Sarebbero tutte da scegliere ma, per tagliare la testa al toro, rileggeremo le prime pagine, in modo da introdurre il romanzo con il suo incipit naturale e ci faremo poi portare da lui nel suo mondo, a partire da questo memorabile inizio. Non ci siamo dati un piano con Maurizio su cosa faremo, lui è una persona da ascoltare, il tempo non manca e credo le cose vengano anche meglio quando non sono preparate. Questo appuntamento a Secondigliano è nato così, vediamo che succede”. Lei è anche attore di teatro. Cosa si aspetta da un pubblico di persone recluse, quasi tutte per reati di camorra? “Il fatto di venire dal mondo di fuori, dei “liberi” così popolato di persone che, pur avendo commesso gravi errori non ne pagano le conseguenze, ed entrare in un luogo dove tutti quelli che sono lì stanno pagando per qualcosa che hanno commesso, mi fa scattare istintivamente un sacro rispetto nei loro confronti. Quando noi nel mondo dei liberi parliamo delle loro cose ci diciamo che questi luoghi dovrebbero essere di aiuto, utili per riconciliarsi con la società, non solo luoghi di pena. La privazione della libertà mi sembra una pena così grande che non credo che ne vadano aggiunte altre ma è chiaro che, come tutte le dolenti note, poi vengono dimenticate”. E portare la letteratura in carcere a che cosa può servire? “Queste letture servono appunto a non dimenticare: non solo a noi di loro ma anche a loro di noi. Capiscono che c’è qualcuno che li pensa. È un medicare la reciproca solitudine. Marquez è una lezione sul fare comunità, è un incantesimo da cui non si esce più anche quando si finisce di leggerlo”. Da dove viene questa sua sensibilità sociale così forte? “È qualcosa che mi è stato anche insegnato alla scuola del Piccolo di Milano che frequentavo negli anni ‘70. Ci mandavano a leggere alcuni racconti nell’istituto dei ciechi: vai a far vedere una storia a qualcuno che non può vedere, raccontandola, così che ci si possa anche rispecchiare o far venire in mente altre storie. L’utilità sociale di quello che facciamo è la ragione per cui lo facciamo, se non fosse così sarebbe complicato, anzi forse non avrebbe proprio senso farlo”. Un adulto su quattro ha ridotte competenze cognitive, nel Sud quasi uno su due di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2025 L’allarme dell’Inapp. Il rapporto sottolinea come il sistema educativo italiano non abbia mostrato progressi significativi dal 2012, nonostante le diverse riforme. Un adulto su quattro ha ridotte competenze cognitive in Italia, nel Sud quasi uno su due. È quello che emerge dal rapporto dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp). Il documento, intitolato “Le competenze cognitive in Italia nel contesto internazionale”, presenta i risultati del secondo ciclo dell’indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), un’iniziativa dell’Ocse che analizza le capacità cognitive degli adulti in lettura, matematica e problem solving. L’indagine evidenzia che il 35% degli italiani tra i 16 e i 65 anni ha competenze basse nella lettura e comprensione dei testi, un dato che supera di nove punti la media Ocse. La situazione si fa ancora più critica nelle altre due aree misurate: il 25% della popolazione adulta ha competenze ridotte nell’uso di informazioni matematiche e il 46% non riesce a risolvere problemi in contesti dinamici, percentuali anch’esse superiori alla media internazionale. Le disparità territoriali sono evidenti. Nel Nord-Est, solo il 13% della popolazione adulta ha difficoltà in tutte e tre le aree cognitive, mentre al Sud e nelle Isole la percentuale sale rispettivamente al 40% e al 46%. Le differenze tra le regioni del paese mettono in luce come la formazione e l’accesso a risorse educative non siano distribuiti in modo uniforme, con il mezzogiorno che continua a registrare risultati inferiori alla media nazionale. Il rapporto sottolinea come il sistema educativo italiano non abbia mostrato progressi significativi dal 2012, nonostante le diverse riforme. Anzi, si nota un peggioramento delle competenze in alcune regioni, particolarmente nelle aree meridionali, dove la lettura e la numeracy hanno registrato cali preoccupanti. La causa di questo peggioramento sembra risiedere anche nel cambiamento demografico: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei flussi migratori potrebbero aver contribuito al mancato incremento delle competenze a livello nazionale o al peggioramento riscontrato nel mezzogiorno, poiché immigrati e anziani rappresentano due gruppi di popolazione in cui le competenze tendono ad essere inferiori. Se la struttura demografica fosse rimasta invariata rispetto al 2012, i risultati sarebbero stati più positivi, con un miglioramento delle competenze nel Nord-Ovest e una stabilità nelle Isole. In particolare, le stime indicano che nelle regioni del Sud non ci sarebbe stato un peggioramento nella numeracy, ma una condizione di stabilità. ?L’importanza di un intervento immediato è stata ribadita da Natale Forlani, presidente dell’Inapp, che ha sottolineato l’urgenza di investire in istruzione e formazione per colmare le lacune evidenziate dallo studio: “L’indagine sulle competenze degli adulti condotta dal nostro Istituto evidenzia l’urgenza di investire in istruzione e formazione per colmare le criticità emerse. Serve il coinvolgimento di attori pubblici e sociali per costruire un’offerta formativa efficace, capace di potenziare le competenze, anche digitali, oggi indispensabili per affrontare con successo il mondo del lavoro e la vita sociale. Inoltre, è necessaria una lettura integrata dei fenomeni in atto nel nostro Paese, analizzando l’impatto dell’invecchiamento della popolazione e delle migrazioni sul patrimonio complessivo di competenze degli adulti in Italia”. Occidentalismo, sessismo, autoritarismo: ecco le fondamenta della nuova scuola di Valditara di Educare alle Differenze* Il Domani, 13 marzo 2025 “Solo l’Occidente conosce la Storia” è solo una delle incredibili affermazioni che saltano all’occhio a una prima lettura di queste Nuove Indicazioni Nazionali appena sfornate dal ministero di Giuseppe Valditara. Incredibili proprio nel senso etimologico del termine: si fa fatica a credere, nonostante le aberrazioni a cui questa destra ci ha abituato, che cose così gravi possano essere state scritte sul documento che informerà i curricula delle scuole del primo ciclo in Italia. “Solo l’Occidente conosce la Storia” è l’incipit con cui inizia la sezione destinata allo studio della storia, curata da Ernesto Galli della Loggia; ma razzismo e apologia dell’Occidente iniziano sin dalla prima pagina di questo documento. In apertura troviamo infatti una dichiarazione d’identità che passa per Atene, Roma e Gerusalemme, a rimettere al centro il cristianesimo e l’antichità classica come massime punte di traiettorie culturali che si vogliono far tornare in auge. Il disprezzo con cui vengono trattati altri mondi e culture, l’aria di superiorità con cui si guarda all’alterità, nascosti e protetti da un’immaginaria idea di nazione, è preoccupante oltre che svilente. Autoritarismo - Ma preoccupante è anche il ritorno della scrittura in corsivo come valore, il ripiegamento sulla grammatica come mezzo per inculcare regole, l’autoritarismo diffuso che s’incontra in tutto il documento. Maxima debetur magistro reverentia, una massima che viene distorta da Giovenale, mostra bene questo concetto: il maestro (sempre al maschile, anche se il corpo docente italiano è fondato per la stragrande maggioranza da donne) è una figura da trattare con reverenza, un’autorità massima da seguire, un modello di vita. La professione docente è trattata con una retorica e un sentimentalismo da libro Cuore: il maestro sarebbe un testimone di vita che susciterebbe un “sentimento naturale di allegria contagiosa” attraverso l’esposizione “al bello, al vero, al giusto in-carne-ed-ossa”. Classismo e sessismo - Ma si può scrivere addirittura di peggio. Si può scrivere che il bullismo (chiamato “dinamismi bullistici”) è dovuto alla povertà educativa e all’iperprotezione delle famiglie nei confronti della prole; si può scrivere che la violenza di genere è “una triste patologia” e che bambine e bambini devono imparare “capirsi nella complementarietà delle rispettive differenze”. Il femminismo ce lo insegna da anni: l’uomo violento non è un malato, ma il figlio sano del patriarcato. La violenza di genere non è una malattia, non è una devianza: è il prodotto di una società cis-etero-sessista che opera divisioni e gerarchie, che divide le persone in due generi a cui affida caratteristiche differenti, complementari e gerachiche, costruendoci sopra un sistema binario che alimenta violenza e disuguaglianza. L’educazione incompresa - Commentare queste Indicazioni Nazionali è veramente difficile, perché non si riesce a capire quali, tra le varie affermazioni razziste, abiliste e sessiste riportate, sia la più grave. Quello che emerge è certamente una deliberata ignoranza di quelli che sono i temi e le urgenze nel panorama della scuola e del dibattito pedagogico, per andare ad affermare la propria visione ideologica. Certamente si può da subito affermare che l’insistenza sul patto di corresponsabilità e sulla complementarietà scuola-famiglia apre alle istanze censorie dei movimenti no-choice e consegna la scuola ai veti incrociati di forze oscurantiste pronte a ingerire pesantemente sulla libertà d’insegnamento. Libertà è una parola abusata nel documento programmatico ma mai è declinata nei termini costituzionali di attributo democratico della professione docente. La libertà che resta è poca cosa dentro una struttura rigidamente declinata che fa la lista dei contenuti ammessi da un’ideologia sovranista, bianca e patriarcale. Queste Indicazioni Nazionali sono allora un ottimo documento se si vuole andare a capire cosa pensa davvero chi oggi ci governa, quali sono i loro posizionamenti, quali sono le elaborazioni che portano con loro. È il manifesto programmatico di una destra che si sente forte - anche per il panorama internazionale che si sta configurando - e che vuole lasciare la propria impronta sulla scuola. Una destra che però non ha capito che l’educazione, forse da sempre, non la fanno i programmi, e che non basta scrivere un documento infarcito di citazioni latine per creare una società pronta a propugnare i valori culturali dell’antica Roma. L’educazione è una questione molto più complessa, fatta di dimensioni esplicite ed implicite, di relazioni, linguaggi, cambiamenti culturali, e noi continueremo a combattere perché tutto questo possa andare nella direzione di una valorizzazione delle differenze, per resistere insieme ad ogni forma di disumanizzazione. “Archiviare Cappato per la morte di Massimiliano”. Il processo che può riscrivere il fine vita di Valentina Petrini La Stampa, 13 marzo 2025 Tre anni fa il viaggio in Svizzera per consentire il suicidio assistito al malato di sclerosi multipla. Dopo il pronunciamento della Cassazione il pm torna a chiedere di non procedere. Archiviazione per Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese che nel dicembre del 2022 accompagnarono Massimiliano in Svizzera per consentirgli di morire con il suicidio assistito come da sua volontà. È questa la richiesta depositata nuovamente ieri al Tribunale di Firenze dal pubblico ministero dopo che la giudice per le indagini preliminari l’aveva già respinta il 23 novembre 2023 perché Massimiliano per lei non era in possesso di uno dei 4 requisiti necessari per poter usufruire del suicidio medicalmente assistito in Italia (stabiliti dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale): non era cioè dipendente da trattamenti di sostegno vitale. La gip ha ritenuto quindi di non poter accogliere la richiesta di archiviazione perché la condotta degli indagati non ricadrebbe nelle ipotesi di non punibilità. Contestualmente, sempre la gip Agnese Di Girolamo, ha deciso però anche di sollevare la questione di legittimità costituzionale chiedendo alla suprema Corte di chiarire la definizione di trattamenti di sostegno vitale. A luglio scorso è arrivata la risposta con la sentenza n. 135/2024 che non solo ha ribadito che il suicidio assistito è un diritto e va tutelato, ma ha anche ampliato l’interpretazione. Vanno considerati trattamenti di sostegno vitale anche procedure come l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, la dipendenza da terzi, personale sanitario, familiari o “caregivers”, senza i quali Massimiliano sarebbe morto in breve e tra atroci sofferenze. Non riusciva più a muoversi, piegato dai dolori, si sentiva in gabbia, senza alcuna prospettiva. Mercoledì - alla luce di questo nuovo pronunciamento della Corte - a Firenze sono tornati a riunirsi avvocati, pm e gip. Acquisita la sentenza n.135, il pubblico ministero ha confermato la sua richiesta di archiviazione. Anche se Massimiliano non aveva fatto domanda alla sua Asl e non aveva ottenuto un diniego, era suo diritto scegliere di andare in Svizzera e da solo non poteva arrivarci. Ma perché non si era rivolto alla sua Asl? Perché nonostante il suicidio assistito sia stato introdotto nel nostro ordinamento dal 2019, in molte regioni non è applicato, non ci sono protocolli che definiscono tempi e modalità uguali per tutti, ci sono regioni che non rispondono nemmeno ai solleciti dei pazienti. Ecco perché Massimiliano aveva chiesto aiuto a Cappato per arrivare in Svizzera, prima che non fosse più capace di autodeterminarsi. La gip di Firenze deciderà nei prossimi giorni cosa fare: accogliere la richiesta di archiviazione questa volta o rinviare a giudizio in assenza di una legge quadro nazionale sul fine vita? Sia in un caso che nell’altro il pronunciamento avrà ricadute a livello nazionale. “Da anni siamo impegnati in azioni di disobbedienza civile sul fine vita perché il Parlamento è stato incapace di occuparsene e indifferente alle sollecitazioni di cittadini e malati. L’obiettivo non è continuare ad autodenunciarci, noi vogliamo uscire dai tribunali e portare il tema in Parlamento. Ma deve essere chiaro che se il Parlamento o il governo intendono legiferare per fare passi indietro rispetto alle regole già stabilite dalla Corte Costituzionale, ottenute grazie alla lotta nonviolenta, allora è molto meglio che non facciano nulla. Se dobbiamo continuare a rivolgerci ai giudici, lo faremo”. Marco Cappato ieri al termine dell’udienza ha commentato così la richiesta di archiviazione condivisa dalla Procura di Firenze. “Se la gip di Firenze deciderà per l’archiviazione, la sentenza, pur non avendo la portata di un pronunciamento della Corte, costituirà comunque un precedente e potrà essere richiamata da altri giudici in procedimenti analoghi”. Sono 6 i procedimenti giudiziari in corso. Marco Cappato, insieme ad altri 13 disobbedienti, è indagato presso i tribunali di Firenze, Milano, Roma, Bologna. Tutti sono seguiti dal Collegio legale coordinato dall’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni. Il prossimo 26 marzo inoltre la Corte Costituzionale tornerà a riunirsi ancora una volta sul suicidio assistito, questa volta sollecitata dal Tribunale di Milano ad esprimersi su un’altra discriminante che sta emergendo dalle denunce presentate: l’aiuto al suicidio assistito per malati con patologie diverse da Massimiliano, i pazienti oncologici come Sibilla Barbieri che stanno ricevendo in Italia solo dinieghi a procedere. Al rientro dalla Svizzera Cappato, Lalli e Maltese si sono autodenunciati per l’aiuto fornito a Massimiliano. Sono finiti sotto indagine sia per l’ipotesi di “omicidio del consenziente” (articolo 579 del codice penale), sia per “aiuto e istigazione al suicidio” (articolo 580 del codice penale). Il 19 ottobre 2023, però, i pm avevano escluso entrambi i capi di imputazione e chiesto per gli indagati l’archiviazione. Migranti. Mai prima d’ora il Csm aveva dovuto difendere le Sezioni unite della Cassazione di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2025 Non era mai accaduto che il Csm, o almeno la sua parte “buona” (i venti togati assieme ai tre laici di M5S, Pd e Iv), dovesse essere costretto a presentare una pratica per tutelare i colleghi delle Sezioni unite civili della Cassazione. Mai successo dalla nascita del Csm nel 1959. Stiamo parlando delle toghe che siedono al vertice della piramide della giustizia. Per giunta di quella civile. Magistrati riservatissimi, nessuno che abbia mai rilasciato un’intervista o che si sia tuffato nell’agone politico. Tant’è che, pur nella reazione distruttiva contro l’ordinanza sul caso Diciotti, neppure dal furibondo centrodestra, che come sempre non misura le parole quando si tratta dei giudici, è giunto un attacco nominativo. Nessuno ha osato citare il presidente delle Sezioni unite che firma le 37 complicatissime pagine. Il nome di Ettore Cirillo resta riservato, al pari di quelli degli otto colleghi che hanno fatto parte del collegio. E tuttavia questi magistrati sono ugualmente colpevoli di aver assunto una decisione “politica”. Il Guardasigilli Carlo Nordio la definisce addirittura “potenzialmente devastante”. Meloni aizza gli italiani che vedranno finire i loro soldi nelle tasche dei migranti. Tale è la furia aggressiva che la presidente della Cassazione Margherita Cassano è costretta a un immediato altolà contro insulti “inaccettabili”. Come quelli che via via hanno colpito Iolanda Apostolico, Silvia Albano, Marco Gattuso, toccando alla fine il vertice giuridico della Suprema Corte. Un attacco che costringe anche Gabriella Luccioli, la giudice della Cassazione che nel 2007 ha firmato la storica sentenza su Eluana Englaro, a consigliare a Nordio di ricordarsi di essere stato un magistrato. Nella lettera che gli scrive risuona tutta la delusione verso l’ex collega: “La speranza era che ella avrebbe portato all’interno della compagine di governo la voce del diritto e la sensibilità verso i diritti fondamentali della persona scolpiti nella Costituzione. Purtroppo queste speranze sono andate deluse, e ancor più forte è la delusione dopo il suo intervento sull’ordinanza delle Sezioni Unite”. Un messaggio “falso nell’impostazione e terribilmente fuorviante per la pubblica opinione”. Già, come quello di cercare a tutti i costi i voti per far passare il futuro referendum sulla separazione delle carriere sfregiando ogni giorno il volto dei magistrati e dipingendoli come altrettanti mister Hyde. Migranti. Tutelare i diritti delle persone e l’equilibrio dei poteri si può. Appunti per le toghe di Pier Luigi Portaluri Il Foglio, 13 marzo 2025 Solo in Italia i giudici disapplicano i provvedimenti di designazione. Negli altri stati dell’Unione europea le tecniche di controllo giurisdizionale su queste scelte governative riescono ad assicurare la protezione del migrante e la separazione dei poteri. Più di cent’anni da quando Fritz Fleiner, ottimo giurista tedesco, diceva che non si spara ai passeri con i cannoni: occorre misura e proporzionalità. Se proprio si deve, basta un fucile. A meno che il vero obiettivo da colpire non sia il povero uccellino, ma qualcos’altro di ben più grosso. Nella vicenda “migranti in Albania”, segnata dalle disapplicazioni giurisdizionali delle designazioni governative sui paesi sicuri (anche se fatte con legge), e dalla rimessione della questione alla Corte di giustizia, il “dubbio dell’uccellino” è nato subito. Qualche giorno fa si è svolta l’udienza davanti alla Corte, e quel sospetto s’è rafforzato. È emerso che solo in Italia i giudici disapplicano i provvedimenti di designazione. Negli altri stati Ue le tecniche del controllo giurisdizionale su queste scelte governative sono diverse, e riescono ad assicurare nello stesso tempo la protezione del migrante e la separazione dei poteri. Nessuno dubita - sia chiaro - che ogni giudice “nazionale” (italiano, francese, eccetera) abbia, in generale, il potere di disapplicare una legge contraria al diritto dell’Unione europea. Il punto è un altro. È che in questa materia la disapplicazione è, di regola, uno strumento non solo inutile, ma anche insidioso. Per semplificare al massimo, le ipotesi sono due. Primo caso. Il paese di provenienza è stato designato dal governo come sicuro, ma il richiedente protezione riesce comunque a dimostrare al giudice che “a causa della sua situazione particolare” - così dice la direttiva Ue - vi sono validi motivi per non ritenere sicuro quel paese nei confronti della sua persona. Qui il giudice non può e non deve disapplicare nulla: invece può e deve limitarsi - come quella direttiva gli impone - a considerare i fattori di pericolo riferibili al singolo migrante, eventualmente accordando la tutela domandatagli. In sintesi: la designazione resta in piedi e il migrante è salvaguardato. Secondo caso. Il paese di provenienza del singolo migrante è stato designato dal governo come sicuro, ma il giudice della protezione ha il dubbio che quella scelta legislativa abbia violato i criteri stabiliti dalla direttiva per procedere a una tale qualificazione. Semplice anche qui: un togato ben attento a non esondare dagli argini che inalveano il suo potere si limiterà a investire dell’affare la Corte costituzionale. Spetterà a essa decidere se il governo abbia rispettato o meno le regole europee sulla designazione di un paese come sicuro. Se la Consulta dovesse essere in linea con l’opinione del giudice che si è rivolto a essa, cancellerebbe la legge di designazione, che non sarebbe più applicabile nei confronti di nessun migrante. Nessuna disapplicazione, quindi, nemmeno in questo caso. Possiamo forse aggiungerne un terzo, che però deve essere considerato del tutto residuale: l’unico in cui vi sarebbe spazio per la disapplicazione. Si verifica - uso le parole della Cassazione - quando il giudice “è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia varcato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul paese di origine del richiedente)”. Un’ipotesi davvero estrema, dunque: il contrario della postura assunta dai nostri giudici (da quello romano in poi), i quali hanno sindacato la designazione di paese sicuro senza verificare se essa fosse assolutamente irrazionale. Insomma, garantire protezione ai migranti è possibile esercitando le “virtù passive” di cui parlava Alexander Bickel nel lontano 1962: che consistono nell’assicurare tutela giurisdizionale sforzandosi però - e al massimo grado - di non mettere in crisi gli equilibri relazionali col potere politico. Perché i giudici italiani non hanno sinora praticato a sufficienza queste virtù, pur così alte e nobili? Migranti. Nel Cpr di Ponte Galeria “situazione peggiore che nelle carceri” dire.it, 13 marzo 2025 Decine di uomini che vagano in enormi gabbie, palesemente sedati da psicofarmaci, con evidenti difficoltà a parlare: è la quotidianità nel Centro per il Rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma sud. Ed è quello a cui hanno assistito i rappresentanti della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute che raccontano quella visita nel corso dell’audizione della Asl Roma 3. Le condizioni sanitarie e di vita degli ospiti del Cpr di Ponte Galeria è stato al centro dell’audizione della Asl Roma 3 da parte della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute. Situato a Roma sud, il Cpr si trova in via Cesare Chiodi, nei pressi della Fiera di Roma e dell’aeroporto internazionale di Fiumicino.”Abbiamo visitato il Cpr di Ponte Galeria e siamo rimaste abbastanza mortificate dalla situazione che abbiamo trovato al suo interno- ha denunciato in apertura la consigliera Tiziana Biolghini, vicepresidente vicario della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute- con decine di uomini che vagavano in queste enormi gabbie, palesemente sedati da psicofarmaci, con evidenti difficoltà a parlare proprio a causa della sedazione”.”Ci ha molto colpito il fatto che vi siano spazi inutilizzati: forse- ha proseguito- invece che vagare ore e ore, in un movimento perpetuo, sarebbe meglio utilizzare gli spazi per l’attività sportiva e lo spazio mensa, dove in passato venivano organizzati anche alcuni laboratori. Riutilizzare questi spazi favorirebbe la socializzazione e aumenterebbe la sicurezza, poiché non vi sarebbe più l’attuale abbrutimento psicofisico che caratterizza gli ospiti del Cpr”. “Dalla Commissione di oggi- ha spiegato all’agenzia Dire la presidente della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute, Nella Converti- si evince ancora una volta che i Cpr non solo sono luoghi totalmente inadatti alla funzione che dovrebbero svolgere, ma sono luoghi di privazione dei diritti fondamentali. Persone con fragilità importanti, una volta dichiarate non idonee ad essere trattenute, vengono praticamente abbandonate per strada, senza che vi sia una reale presa in carico e senza che l’amministrazione capitolina riesca ad intercettarle per tempo. Sono quelle stesse persone vulnerabili che vivono nelle nostre strade”. “Il confronto con la Asl Roma 3 è stato utile e interessante. Consapevoli che i Cpr vadano chiusi- ha evidenziato Converti- nel frattempo stiamo vigilando e lavorando affinché vengano potenziati i servizi. Le condizioni all’interno del Cpr di Ponte Galeria sono ancora più severe rispetto a quelle previste per gli istituti penitenziari, ad esempio non è previsto alcuno spazio di socialità. Nonostante queste persone non abbiano commesso alcun reato, ma un illecito, sono trattenute con privazione totale della loro libertà e non possono godere di diritti fondamentali”. “La Commissione- ha inoltre affermato- continuerà la sua azione di sorveglianza, anche in collaborazione con la Asl per migliorare le condizioni di vita all’interno di quel luogo e, soprattutto, capire come prendere in carico le persone che fuoriescono. Ribadiamo che l’obiettivo politico è arrivare alla chiusura di questi luoghi che violano i diritti umani e nel frattempo sostenere le persone ivi trattenute”. “Il certificato di idoneità alla vita in comunità ristretta- ha informato Doriana Leotta, referente sanitario aziendale per la Asl Roma 3 del Cpr- viene rilasciato in assenza di patologie contagiose, di positività all’Hiv, di soggetto di minore età o sospetta minore età, di gravidanza o di sospetta gravidanza. In quest’ultimo caso la persona interessata viene accompagnata dalle Forze dell’Ordine al Pronto soccorso ginecologico del Grassi per accertare che la dichiarazione corrisponda alla realtà”. Leotta ha poi reso noto che “tutte le patologie che a seguito della visita risultano scompensate, come ad esempio il diabete, una cardiopatia, un’ipertensione non controllata precludono l’ingresso e il trattenimento al Cpr: queste persone, dunque, ritornano sul territorio, non hanno la possibilità di essere trattenute per l’eventuale rimpatrio dopo gli accertamenti di Forze dell’Ordine e Prefettura”. Ma prima di essere rimesse sul territorio, queste persone vengono curate? “No - ha risposto Leotta - le visite vengono svolte per il trattenimento che deve essere effettuato entro 48 ore da quando le Forze dell’Ordine hanno fermato la persona sul territorio, priva di documenti e del permesso di soggiorno. Queste 48 ore vengono utilizzate soprattutto dalla Questura, che esegue gli accertamenti del caso, e dal giudice, che decreta che la persona deve essere trattenuta in uno dei Cpr del territorio italiano”. Dunque, una persona con una cardiopatia viene lasciata in mezzo alla strada? “Proprio perché i tempi per stabilire l’idoneità sono quelli di una visita che non presuppone indagini ematiche ed elettrocardiogramma - ha replicato la referente sanitaria aziendale per la Asl Roma 3 del Cpr - se queste persone presentano un problema che possa essere ritenuto pericoloso per la propria vita, le stesse vengono inviate al Pronto soccorso del più vicino ospedale per fare indagini più approfondite. In ambulatorio noi non abbiamo né mezzi diagnostici, né mediatori culturali”. Doriana Leotta ha poi tenuto a precisare che “la tipologia delle persone che si trovano all’interno del Centro per il Rimpatrio di Ponte Galeria è mutata, soprattutto negli ultimi anni. Una volta il Cpr era solo femminile e la maggior parte delle donne presenti era vittima di tratta. Venivano immediatamente contattati i centri antiviolenza e la donna veniva spostata. Inoltre si tratta di persone che vivono sul territorio anche da 20-30 anni, lavorando in nero o privi di permesso di soggiorno perché licenziati. Sono persone che, nella maggior parte dei casi, conoscono perfettamente l’italiano, anche se a volte dichiarano di non capire”. La Asl Roma 3, comunque, non ha un controllo diretto sulla persona che viene decretata non più idonea a rimanere nel Cpr. “La persona esce dal Cpr con la documentazione di tutte le indagini sanitarie svolte. Viene invitata ad andare più vicino Dipartimento di salute mentale- ha reso noto Leotta- ma, essendo libera, una volta su territorio può ritornare anche da dove è partita, dall’altra parte di Roma. Non abbiamo un incarico, un mandato della parte sociale di questa persona, non possiamo controllare cosa faccia”. Dalla Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute arriva infine una mano tesa alla Asl Roma 3, affinché sia effettivamente garantito il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone trattenute. “Sarebbe opportuno comunicare con noi- ha concluso la presidente Converti- soprattutto per quanto riguarda i soggetti più vulnerabili, che non sempre sono pronti a seguire le indicazioni che ricevono. Forse una comunicazione preventiva prima del loro rilascio ci permetterebbe di intercettarli, prenderli in carico e accompagnarli in un percorso. Come Roma Capitale e come amministrazione capitolina vogliamo dimostrare la volontà di capire, proprio insieme alla Asl Roma 3, i modi per sapere chi siano queste persone, in quali condizioni escono da quella struttura e cosa possiamo fare noi per loro”. Migranti. Le ronde di picchiatori “anti-maranza” si organizzano su Telegram di Marco Colombo Il Domani, 13 marzo 2025 “La violenza si combatte con altra violenza”. Nel canale del neonato gruppo “Articolo 52”, protagonista di un violento pestaggio ai danni di un ragazzo a Milano, si moltiplicano gli appelli per azioni violente contro “maranza e magrebini” con “calci, pugni e mazze da baseball”. In poche ore migliaia di iscritti, nuovi gruppi in tutto il paese e anche una campagna di autofinanziamento. Si sono chiamati “Articolo 52”, con un esplicito rimando all’articolo della Costituzione che stabilisce che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, ma il loro fine è quanto di più distante dai valori su cui si basa la Carta. Il primo post sulla loro neonata pagina Instagram non lascia spazio ai dubbi: “Siamo stanchi dei soprusi e delle bande armate che impunite regnano nel caos. La violenza si combatte con la violenza”. Poco dopo appare un video altrettanto eloquente, registrato domenica sera alla Darsena di Milano. Un ragazzo straniero violentemente picchiato da un gruppo di ragazzi come punizione per aver, a detta loro, rubato una collanina. “Ti giuro che non c’entro nulla. Non ho fatto nulla”, prova a difendersi il ragazzo. Poi la scarica di pugni e calci che lo fa crollare a terra. Immagini impressionanti già diventate il manifesto del gruppo. La difesa della patria, insomma, passerebbe per ronde di cittadini. Da Milano al resto d’Italia - Col passare delle ore i follower, “gli adepti del movimento anti crimine” come si sono autodefiniti, sono cresciuti a dismisura tanto da spingere gli organizzatori a creare un gruppo Telegram in cui inviare le segnalazioni e organizzare azioni in ogni città. E sull’app di messaggistica, dove non ci sono le restrizioni dei social, i toni cambiano. “Ci servirebbero un paio di vagoni diretti nelle Marche. Solo picchiatori. Due o tre weekend di pugni in bocca e si cambia città. Fatemi sapere”, propone una delle quasi 4mila persone che, in meno di due giorni, si sono unite. “Come si entra in azione? Voglio fare di più che entrare solo nel gruppo”, rilancia un altro utente, con una foto di Matteo Messina Denaro come immagine del profilo. E così, con il moltiplicarsi delle richieste, si va verso la formazione di gruppi in ogni provincia. “Io direi che bisogna fare ronde in tutta Italia”, scrive uno degli utenti più attivi, “persone disposte a rompere la bocca, senza troppe parole. Si va, si rompono i denti e si torna a casa”. E nel caso il messaggio non fosse sufficientemente chiaro, aggiunge: “Spray al peperoncino, pugni, calci e mazze da baseball. Gruppi di picchiatori, parliamoci chiaro, i non coraggiosi niente”. Così nel giro di poche ore Milano viene divisa in zone, ognuna con un gruppo di riferimento e un’area specifica da “controllare”. Sui gruppi compaiono i primi sondaggi per permettere agli utenti di dare la propria disponibilità oraria per compiere azioni “anti-maranza”, mentre gli organizzatori annunciano che a breve si terrà una riunione in presenza “per vedere su chi possiamo contare veramente”. E piano piano emerge anche una matrice politica chiara tra sticker nemmeno troppo velatamente nostalgici, chi si presenta con un “buonasera camerati” e chi si vanta di avere “un mezzo busto dello zio Benny” a casa. D’altra parte, il messaggio degli organizzatori era stato esplicito sin dal principio: “Non vogliamo m*rde comuniste e traditori”. Guerra civile autofinanziata - Ed è proprio la presenza di possibili “infiltrati” che preoccupa chi vuole entrare in azione. “Sto gruppo sarà pieno di infami”, scrive qualcuno ricordando che “lo possono vedere tutti”. Arrivano così gli inviti a non discutere pubblicamente e le indicazioni su come comportarsi durante le ronde per non rischiare ripercussioni. “Copritevi i volti. State attenti sia ai magrebini sia allo Stato perché se voleva aiutarci a quest’ora non stavamo qua”, avverte un utente. Gli risponde con una naturalezza disarmante un altro membro: “Ma sì, nel chill. Passamontagna e via”. Perché in fondo, come sottolinea qualcuno, “il rischio fa parte del mestiere”. Ma i rischi ci sono e i membri ne sono consapevoli e vogliono prevenirli. Nella giornata di lunedì 10 marzo è stato così diffuso un iban di una banca lituana, con sede a Vilnius, a cui far pervenire donazioni per “finanziare le imminenti spese legali che sicuramente dovremo affrontare”. Quello che emerge dai gruppi Telegram, che continuano a moltiplicarsi, è uno scenario inquietante. Da “guerra civile”, come si auspica in uno delle centinaia di messaggi che incitano alla violenza. Migranti. Ronde anti-maranza a Milano: chi finanzia le “spedizioni”? di Matteo Castagnoli Corriere della Sera, 13 marzo 2025 Diffuso l’iban, accertamenti sul canale da 14 mila follower poi oscurato. Accertamenti delle forze dell’ordine sulla pagina “Articolo 52”, sospesa ieri, e dove alcune aggressioni a stranieri sono diventate virali. Il motto: “La violenza si combatte con la violenza”. Il monito di Gabrielli: “Rischio giustizia fai da te”. Macinavano follower. Uno dopo l’altro, e in un paio di giorni avevano già sfondato il muro dei 14 mila. Poi ieri pomeriggio la pagina Instagram “Articolo 52” è stata sospesa. Su quel profilo erano stati pubblicati video di ronde anti-maranza. Da lì, e in particolare da un breve filmato in Darsena registrato con il cellulare, era partito tutto. La scena riprendeva due giovani incappucciati contro un ragazzo nordafricano accusato di aver appena scippato una collanina. Lui si diceva innocente, ma era stato colpito con calci e pugni. Il riferimento del nome del profilo era ed è (su Telegram il canale è ancora attivo) chiaro: “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”. Articolo 52 della Costituzione. “Gli adepti del movimento anti crimine”, come si sono autodefiniti, si organizzano attraverso gruppi Telegram. Uno per zona di Milano: Nord, Sud, Ovest ed Est. E poi altri sottogruppi per evitare “gli spioni”. Ci si dà appuntamento in strada. L’obiettivo è uno, scrivono: “Siamo stanchi dei soprusi e delle bande armate che impunite regnano nel caos. La violenza si combatte con la violenza” E continuano: “Finché lo stato continuerà a ignorare, le ronde si moltiplicheranno in tutte le zone degradate”. Gli organizzatori, nei giorni scorsi hanno condiviso un iban (collegato a una carta Revolut e riferibile a una banca lituana) per creare “un fondo cassa dedicato alla copertura di spese legali di cui eventualmente qualcuno dovesse aver bisogno”. Altra parte, invece sarà utilizzato per comprare “attrezzatura di difesa come spray al peperoncino e strumenti di comunicazione come walkie talkie”. Sul gruppo in questione sono in corso accertamenti della polizia e dei carabinieri del Ros. Si lavora per capire chi ci sia dietro questi raid, un aiuto potrebbe arrivare anche dalle telecamere di videosorveglianza nell’area dei Navigli, e se dietro queste ronde si possa nascondere una rete più organizzata. Anche se, al momento, non sembrerebbero essere coinvolti movimenti strutturati. Azioni di singoli, ma non meno “preoccupanti”. Come aveva sottolineato l’ex delegato per la sicurezza e la coesione sociale dal sindaco Beppe Sala, il prefetto Franco Gabrielli. All’indomani del suo addio, aveva detto in un’intervista al Corriere: “Quello che mi preoccupa di più sono i rapporti delle fasce più giovani rispetto al comportamento di altri giovani di seconda generazione. Mi preoccupa che si creino le condizioni di uno scontro tra due gruppi di contesti sociali differenti. Riguarda tutta Italia”. Forse più di una previsione. Costruire un mondo migliore attraverso la cooperazione di Giuseppe De Lucia Lumeno* L’Unità, 13 marzo 2025 Il 2025 è stato dichiarato dall’ONU anno internazionale delle cooperative. Nella bufera politica che ha investito il mondo, dianzi allo stravolgimento delle certezze che caratterizzavano le alleanze internazionali, politiche, commerciali e militari dopo la Seconda guerra mondiale, mentre assistiamo sbalorditi alla fine definitiva dei vecchi assetti, rischiamo di perdere l’importante occasione che ci viene dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che ha dichiarato il 2025 Anno internazionale della cooperazione celebrato con il tema “Le cooperative costruiscono un mondo migliore”. Un’occasione straordinaria perché l’impatto globale del modello cooperativo, proprio alla luce dell’attuale grande incertezza geopolitica, può rappresentare una soluzione cruciale per affrontare le diverse sfide, anche nell’ottica dell’attuazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) entro il 2030. Del resto la necessità di cooperare è diventata un’urgenza avvertita a ogni livello. Da Papa Francesco che la invoca ripetutamente quale mezzo per riproporre la centralità della persona umana contro l’individualismo, al Presidente Mario Draghi che nel suo Rapporto sulla competitività dell’economia europea invoca un “maggiore coordinamento e cooperazione” fino a proporre anche l’idea di messa in comune del debito. Per il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta “L’economia sembra essersi globalizzata senza una “coscienza globale”. È necessario rilanciare l’integrazione economica e la cooperazione internazionale, correggendone i difetti con politiche che promuovano uno sviluppo sostenibile e inclusivo, capace di coniugare la crescita con il superamento della povertà, con la giustizia sociale, con la difesa dell’ambiente”. In una delle sue prime interviste da Presidente dell’ABI nel 2013, Antonio Patuelli, la cui solida formazione liberale è fuori discussione invocò la necessità della “responsabilità sociale per sviluppare un circuito virtuoso di solidità delle banche e di sensibilità sociali anche attraverso i milioni di azionisti delle banche italiane, nelle diverse forme societarie, in mutualità, cooperazione e che nelle Spa permettono impegni sociali diretti e indiretti tramite le fondazioni”. È utile, allora, rivolgere lo sguardo ai due secoli passati durante i quali, sino a circa quarant’anni fa, il capitalismo aveva costruito i meccanismi della sua accumulazione contestualmente ad articolati e plurimi meccanismi di difesa e di tutela della società dal mercato. Quest’ultimo era stato così temperato, non limitato, ma dotato di una morale sociale e istituzionale di sostegno che aveva consentito la creazione di un’immensa rete di difesa e di elevazione sociale delle classi medie che dovevano trovare sostegno per la loro attività, per sé stessi e per le loro famiglie. Per lungo tempo l’interpretazione storiografica ed economica prevalente è stata quella che identificava nello Stato lo strumento per realizzare tale contestualità tra la crescita economica e la difesa sociale, ma che, allo stesso tempo, creava quell’immenso apparato burocratico con un costo non più sostenibile. Sotto la spinta della riflessione filosofica e morale questo modello interpretativo è stato molto temperato. Accanto allo Stato, al suo fianco, si è scoperto che ciò che ha assicurato la resistenza delle classi popolari è stata una fitta rete di associazioni mutualistiche sempre più diffuse soprattutto dopo la straordinaria innovazione della Rerum Novarum che ha aperto una nuova dimensione solidale. Quel legame sociale per sorreggere la povertà ed elevarla, trasformandola in emancipazione, attraverso il risparmio e la solidarietà tra pari dava vita al mutualismo, uno straordinario insieme di istituzioni basato sulla reciproca tutela e assistenza: società di mutuo soccorso, cooperative di lavoro, di consumo, di credito, banche popolari, istituti di associazionismo non profit. La mutualità che si realizza attraverso la cooperazione è una forma storica di solidarietà, uno strumento di risposta ai bisogni sociali. Nata nella seconda metà dell’800 per contribuire al miglioramento della vita e delle condizioni dei cittadini, la cooperazione ha mantenuto l’impostazione solidaristica originaria. Oggi conferma la validità della propria proposta svolgendo un ruolo integrativo e sussidiario nella riorganizzazione del welfare della società globalizzata, operando in tutto il mondo e plasmandosi sulle specificità culturali delle società locali per la promozione, lo sviluppo e la difesa del movimento solidaristico di lotta contro la povertà e la marginalità economica e morale. Ecco perché la cooperazione ha un futuro. Se non lo avesse dovremmo rassegnarci alla vittoria del nichilismo o dell’assistenzialismo. Mentre oggi abbiamo quanto mai bisogno della soggettività della persona come mai prima. Negli ultimi decenni l’economia è stata infatti soverchiata dalla finanza stockopzionista che si è sostituita alla politica provando a distruggere gli assets dell’economia reale. Così la società è sempre più fragile e il mercato si trasforma in luogo di scontro e non di incontro. Vien meno l’imperativo di una economia giusta che non può che essere fondata sul pieno impiego e su un ritorno a una gestione partecipativa. La risposta di un’alternativa morale, di un’economia polifonica esiste. La forma solidale cooperativa diviene, in questa lotta per un’economia morale, l’alternativa fondamentale: un’impresa nella quale il fondamento dell’agire economico è il soddisfacimento dei bisogni della persona. Alla sua base è la comune volontà dei suoi membri di tutelare i propri interessi di consumatori, lavoratori, risparmiatori, secondo i principi della libertà e del mutuo aiuto. Quella cooperativa può oggi essere considerata la forma più evoluta di capitalismo democratico, nella quale il socio conta per il valore delle proprie idee e proposte e non per il “peso” economico della sua partecipazione al capitale. Un paradigma che, se applicato su scala, contribuirebbe in maniera decisiva alla fuoriuscita dalla crisi. Il movimento cooperativo continua a perseguire i valori sociali che gli sono propri, come democraticità e solidarietà, lotta contro la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale. In tutto il mondo grandi organizzazioni mutualistiche in ogni settore, accanto a un microcosmo fatto di piccolissime imprese, il cui solo scopo è quello di operare con i soci, fornendo loro lavoro, beni e servizi, rendono manifesta la resilienza del corpo sociale, della soggettività creatrice dinanzi alla macchina impersonale e distruttrice dei mercati non sorretti da principi morali e quindi da essi regolati. Il movimento cooperativo, per esempio, invece di licenziare e delocalizzare come hanno fatto moltissimi imprenditori capitalistici negli ultimi anni, reinveste gli utili all’interno della stessa cooperativa, producendo valore e occupazione perché questa forma di associazionismo economico non ha come fine ultimo il profitto, ma la solidarietà. Non molti anni fa, oltre 500 docenti delle Università italiane in un loro Manifesto su “La Cooperazione, un patrimonio del Paese da tutelare e valorizzare” evidenziarono che le cooperative sono un patrimonio, un motore di sviluppo economico e di crescita sociale, contribuiscono alla nascita dell’imprenditoria soprattutto giovanile e alla valorizzazione delle qualità imprenditive e innovative delle persone. Continua, continuerà, lo “scandalo evangelico” dell’economia fondata sulla cooperazione. Non si perda, in questo 2025, l’occasione per capirlo e valorizzarlo. *Segretario Generale Associazione Nazionale fra le Banche Popolari Italia-Venezuela, l’importanza di riportare a casa Trentini di Claudia Fanti Il Manifesto, 13 marzo 2025 A 119 giorni dall’arresto del cooperante italiano Alberto Trentini, attualmente detenuto in un carcere di Caracas con l’accusa di terrorismo, la speranza della famiglia resta legata appena a quella “prova certa” sulle sue buone condizioni di salute giunta, secondo quanto riportato dall’Ansa già il 6 febbraio, “attraverso un canale che tiene aperto un dialogo con le autorità del Venezuela”. L’ultimo ad assicurare il pieno impegno del governo italiano per riportarlo a casa è stato, il 4 marzo, il sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il quale ha tuttavia riconosciuto che “la situazione è estremamente complessa e di difficile risoluzione”. Non si è invece ancora mai espressa Giorgia Meloni, a cui, durante la trasmissione Il Cavallo e la Torre, si è nuovamente rivolta la madre di Alberto, Armanda Colusso: “Vorrei guardarla negli occhi perché capisse quanto dolore c’è e vorrei che apertamente nominasse Alberto anche per far capire l’importanza che ha mio figlio nella vita di questo paese. È importantissimo sapere che farà di tutto per liberarlo. Alberto finora non ha avuto contatti con l’esterno e dobbiamo pretendere che abbia un incontro consolare e gli venga concesso di telefonare, è un suo diritto”. Come è noto, il 45enne Trentini, un cooperante con oltre dieci anni di esperienza in ong internazionali in America Latina, Etiopia, Nepal, Grecia e Libano, era arrivato in Venezuela il 17 ottobre e il 15 novembre era stato fermato a un posto di blocco mentre si recava in missione da Caracas a Guasdualito insieme all’autista della ong per cui lavorava, Humanity & Inclusion, già Handicap International: un’organizzazione presente in circa 60 paesi che è stata tra i fondatori della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine e ha pure vinto nel 2011 il premio del Conrad N. Hilton Humanitarian Prize per il suo impegno nei confronti delle persone disabili in situazioni di povertà e conflitto. Non è comunque, il suo, un caso isolato, a conferma dell’ostilità mostrata dalle autorità venezuelane nei riguardi dei cooperanti. Dalla Colombia, dove risiede dal 2008, l’esperto di diritti umani Cristiano Morsolin, da noi interpellato, confronta non a caso la vicenda di Trentini con quella dell’ingegnere colombiano Manuel Alejandro Tique Chaves, cooperante dell’ong danese Danish Refugee Council (Drc), per la quale anche Alberto aveva lavorato, dal febbraio del 2023 all’aprile del 2024. Proprio come il cooperante veneziano, il 14 settembre, riferisce Morsolin, Tique Chaves era stato fermato dalla Direzione generale del controspionaggio militare (Dgcim) mentre si stava recando a Guasdualito: lo stesso municipio venezuelano al confine con la Colombia - un corridoio del narcotraffico e della tratta di migranti -, in cui due mesi dopo sarebbe stato arrestato Trentini. E anche del cooperante colombiano, accusato da Diosdado Cabello di nascondersi dietro una ong per reclutare paramilitari, non si hanno notizie, come evidenzia la Drc in un appello al governo Maduro affinché “fornisca informazioni sulle condizioni” del suo collaboratore, “consenta un contatto con la famiglia e faciliti l’accesso all’assistenza consolare”. Con una precisazione: “Il nostro lavoro - sottolinea l’ong danese - è centrato esclusivamente sul compito di offrire aiuti umanitari ai civili in stato di necessità, senza alcun coinvolgimento in questioni politiche”. Altrettanto inverosimile appare l’accusa di terrorismo rivolta a Trentini, in un contesto - come non manca di evidenziare anche Morsolin - segnato dall’”irritazione di Maduro verso l’atteggiamento ostile dell’Italia”, tradottasi a metà gennaio nell’espulsione di tre diplomatici italiani da Caracas. Un atteggiamento, quello del governo Meloni, che aveva condotto il 13 novembre scorso all’inesplicabile bocciatura di una missione in Venezuela da parte del Comitato della Camera sui diritti umani presieduto da Laura Boldrini, la quale aveva reagito con sconcerto alla decisione: “La destra che ha fatto scintille contro Maduro ora impedisce che un organismo parlamentare vada proprio lì dove il presidente venezuelano agisce?”. “Cosa dovrebbe fare un Comitato sui diritti umani nel mondo - aveva aggiunto - se non recarsi nei luoghi dove proprio i diritti umani sono messi a rischio come, secondo molte testimonianze, sta accadendo in Venezuela? Dimenticano, forse, che lì vivono circa un milione e mezzo di cittadini di origini italiane?”. Non si ferma, intanto la solidarietà della società civile, attraverso uno sciopero della fame a staffetta lanciato il 5 marzo e la campagna “Alberto Wall of Hope” - piattaforma online creata per raccogliere i selfie corredati dall’immagine del cooperante veneziano -, mentre la petizione lanciata per chiedere di riportarlo a casa ha raccolto circa 80mila firme. Ma c’è anche, evidenzia Morsolin, chi chiede al Comitato presieduto da Boldrini di organizzare al più presto una missione in Venezuela, per “costruire una diplomazia dei ponti e non dei muri”.