In arrivo una Circolare del Dap sull’affettività, per attuare la sentenza della Consulta di Angela Stella L’Unità, 12 marzo 2025 È la novità emersa ieri nell’incontro tra il ministro Nordio e i garanti territoriali dei detenuti. Nessuno spiraglio invece su amnistia, indulto e numero chiuso. Una circolare del Dap sull’affettività in carcere per dare concretezza alla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 2024: questa la novità più importante emersa dall’incontro avuto ieri dal Ministro Nordio con la delegazione della Conferenza dei garanti territoriali dei diritti delle persone private della libertà personale. Al faccia a faccia che si è tenuto nel tardo pomeriggio a Via Arenula erano presenti da una parte il portavoce Samuele Ciambriello, la garante di Roma Valentina Calderone, il garante del Piemonte Bruno Mellano, la garante di Parma Veronica Valenti e dall’altra parte il vice ministro Francesco Paolo Sisto, il garante nazionale Riccardo Turrini Vita, Lina Di Domenico, capo Dap facente funzioni. “Siamo soddisfatti dell’incontro” ci ha detto Ciambriello “per due motivi principali. Il primo riguarda questa iniziativa sull’affettività in carcere. L’amministrazione penitenziaria è consapevole delle difficoltà di attuazione della decisione della Consulta ma sono pronti a partire. Il secondo è che il Guardasigilli ci ha dato un nuovo appuntamento per mercoledì della prossima settimana per proseguire il dialogo. Benché su alcuni aspetti non ci siano convergenze, siamo in una importante fase di ascolto e questo lo riteniamo positivo”. Durante l’incontro, ci ha spiegato Valentina Calderone, “il ministro ha escluso qualsiasi forma lineare di misure deflattive, dunque no all’amnistia e all’indulto”. Per fronteggiare il sovraffollamento bisogna sempre sperare nel nuovo piano di edilizia carcere che non si sa quando verrà messo nero su bianco, benché ci sia un Commissario nominato appositamente. Secondo i garanti “per le persone che devono scontare meno di un anno” - che dai dati forniti dal Garante Nazionale sono 8034 i detenuti - “potrebbe essere utile ispirarsi anche alla misura temporanea adottata a suo tempo dalla l. 199/2010, che si inseriva nella politica di deflazione carceraria annunciata dal governo Berlusconi in occasione del Piano carceri del gennaio 2010”. L’art. 1 della legge in questione introduceva la possibilità di scontare presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza la pena detentiva - anche residua di pena maggiore - non superiore a 18 mesi. Ma su questo punto non c’è stata risposta positiva dal Governo che ha ribadito invece la necessità di trovare delle comunità dove far scontare la pena ai tossicodipendenti e quella di rimpatriare nei Paesi di origine i detenuti stranieri. No da Nordio anche all’aumento dei giorni di liberazione anticipata speciale, prevedendo uno sconto di ulteriori 15 giorni a semestre. Contrarietà, rispetto alle proposte dei Garanti, dell’introduzione del numero chiuso nelle carceri. Veronica Valenti ci ha detto che poi i garanti durante l’incontro hanno “difeso il lavoro della polizia penitenziaria costretta a sorvegliare con pochi agenti centinaia di detenuti” ma anche il fatto, ribadito nella lettera lasciata a Nordio, che “l’investimento del Governo è rivolto unicamente a rafforzare l’area della sicurezza e dell’ordine - prevedendo solo l’assunzione di 1.000 unità della Polizia penitenziaria destinataria di una formazione, che verrebbe però ridotta da 6 a 4 mesi - a discapito delle esigenze dell’area educativa o del trattamento e/o dell’UEPE che, grossomodo in tutta Italia, lavorano con la metà del personale previsto da pianta organica”. Su questo punto Nordio ha risposto che stanno scorrendo le graduatorie ma solo degli educatori ma non dei mediatori linguistici. Per quanto concerne la magistratura di sorveglianza, infine, il responsabile di Via Arenula ha detto ai garanti di aver fatto richiesta al Csm di nuove risorse ma di non aver ancora ricevuto una risposta positiva in tal senso. Reati “da carcere” la Consulta interviene sui permessi premio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2025 La Corte costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2025, ha dichiarato incostituzionale la norma che vietava per due anni i permessi premio ai detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l’esecuzione della pena. Una decisione storica che ridisegna i confini tra giustizia punitiva e funzione rieducativa, riconoscendo maggiore autonomia ai magistrati di sorveglianza e tutelando i diritti fondamentali dei detenuti. Il provvedimento nasce dal ricorso di G.K., detenuto dal 2017 per tentata rapina e omicidio. Dopo anni di buona condotta, aveva ottenuto permessi premio per ricostruire i legami familiari. Nel marzo 2023, però, fu accusato di aver tentato di introdurre droga in carcere al rientro da un permesso. Pur non essendo ancora condannato per questo fatto (il processo è ancora in corso), la legge penitenziaria (art. 30-ter) gli precluse automaticamente nuovi permessi fino al 2025. Fabio Gianfilippi, magistrato di Sorveglianza di Spoleto, ha sollevato il conflitto costituzionale, denunciando l’irragionevolezza di un sistema che equipara l’imputato al condannato, ignorando i progressi del detenuto. La Corte costituzionale ha evidenziato due profili di incostituzionalità. Il primo riguarda la violazione della presunzione di innocenza (art. 27 Cost. e art. 6 Cedu) dove la norma trasformava una semplice imputazione in una “presunzione di colpevolezza”, privando il detenuto della possibilità di difendersi. Come sottolineato nella sentenza: “Una disposizione che vincola il giudice a presumere colpevole l’imputato sottrae ogni margine di valutazione autonoma sulla reale consistenza del fatto”. La Consulta ha richiamato la giurisprudenza europea (Cedu e Carta dei Diritti Ue), che estende la presunzione di innocenza a tutti i procedimenti, non solo a quello penale. Il secondo profilo riguarda la lesione della funzione rieducativa della pena, ovvero l’articolo 27, comma 3, della Costituzione. L’automatismo legale ignorava completamente il percorso individuale del detenuto. La Consulta ha ricordato che “il magistrato di sorveglianza deve valutare i progressi concreti, non applicare divieti predefiniti”. Un principio già affermato in passato (es. sentenze numero 186/ 1995 e 173/ 2021), ma disatteso dalla norma cancellata. La decisione ha un’importanza pratica enorme. In carcere, infatti, sono frequenti imputazioni per reati come il possesso di cellulari o piccoli traffici, spesso contestati con procedimenti lunghi. Senza una condanna definitiva, molti detenuti vedevano bloccati i benefici per anni, pur mostrando miglioramenti. La Corte costituzionale ha specificato che il giudice di sorveglianza può (e deve) considerare anche queste accuse, ma senza subordinare la decisione all’esito del processo. Ad esempio, se un detenuto è accusato di introdurre uno smartphone, il magistrato valuterà se quel gesto compromette davvero la sua affidabilità, tenendo conto del comportamento successivo. La sentenza ribadisce che il sistema penitenziario deve essere flessibile e individualizzato. Anche in caso di condanna definitiva, il magistrato può concedere permessi premio se ritiene che il reato commesso non pregiudichi la rieducazione. Come scrive la Consulta: “Il rispetto del principio rieducativo esige che il giudice resti libero di valutare il concreto rilievo del fatto, tenendo conto dei contributi della difesa”. Un passaggio cruciale, che restituisce centralità alla figura del magistrato di sorveglianza, spesso oscurata da automatismi. Tale decisione segna un passo avanti verso un carcere più umano e costituzionalmente orientato. Cancellando una norma del 1975, la Corte costituzionale ha accolto gli inviti lanciati già nel 1997, allineando l’Italia agli standard europei. Sì alle carriere separate, no alla rissa: c’è l’intesa sul lodo Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 12 marzo 2025 Il vertice di maggioranza a via Arenula: la riforma costituzionale sui magistrati correrà senza modifiche, ma spazio anche a nuova prescrizione e intercettazioni. Accordo su tutto. Sui tempi per separare le carriere, che saranno brevi, il più possibile. Nessuna modifica al testo del ddl costituzionale, ora al Senato, e dritti lungo la strada che dovrebbe portare all’approvazione definitiva in Parlamento entro l’anno. Intesa pure sul resto del “programma giustizia”, sulle riforme rimaste a mezz’aria. Dalla prescrizione alle intercettazioni. Con una clausola: non infierire. Non mandare avanti altre proposte, non ancora calendarizzate o comunque non approvate neppure da un ramo del Parlamento. Tanto per intendersi: niente giornata per le vittime degli errori giudiziari, la “legge Tortora” che aveva fatto storcere il naso all’Anm, e niente commissione d’inchiesta sulla magistratura, che provocherebbe reazioni ancora più stizzite. E insomma: al vertice di ieri pomeriggio sulla giustizia passa il lodo Nordio, con lo sprint sulla separazione delle carriere e “riduzione del danno” sul resto. Ne aveva dato anticipazione il Dubbio. Alla fine, lo schema è stato condiviso nella densa seppur non lunghissima (un’oretta e mezza) riunione svolta nel tardo pomeriggio a via Arenula. Tavolo a cui hanno preso posto, col guardasigilli, il suo vice Sisto, i sottosegretari Delmastro e Ostellari, i capigruppo di tutto il centrodestra e i presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia delle due Camere. E il piano d’azione è stato formulato appunto in una chiave anche meno severa di quanto si potesse ipotizzare. Lo certifica il comunicato diffuso dal ministero della Giustizia a fine incontro: nella “proficua riunione”, è stata “ribadita la priorità del disegno di legge costituzionale della separazione delle carriere e della riforma del Csm”, e “si è convenuto di portare avanti i ddl frutto del programma della coalizione di centrodestra, tra i quali le norme sulla prescrizione, quelle sulle intercettazioni, sul sequestro degli smartphone e sulla geografia giudiziaria. Accanto a queste misure”, inoltre, “ovviamente sarà dedicato grande impegno al ddl sulla sicurezza in esame al Senato”. Definitivamente “sdoganata” dunque non solo la legge Zanettin che fissa in 45 giorni la durata degli “ascolti” ma anche il testo che impone ai pm di sottostare al controllo del giudice nel sequestrare i dispositivi elettronici dell’indagato. Ma visto che, come spiega uno dei parlamentari intervenuti alla riunione, “non c’è alcuna intenzione di avvalorare anche solo involontariamente l’idea di un approccio vendicativo nei confronti della magistratura, saranno tenute da parte altre iniziative che potevano suonare, a torto o a ragione, come un attacco alle toghe, dalla Giornata per le vittime degli errori giudiziari”, appunto, “alla commissione d’inchiesta sui pm politicizzati”. Chiaro: più chiaro di così non si può. Tutti soddisfatti. Anche il capogruppo di FI al Senato Maurizio Gasparri che, tra i vertici dei partiti di governo, era il meno entusiasta di un’eventuale “ritirata” che avesse lasciato spazio al solo “divorzio” tra giudici e pm. La logica è altrettanto leggibile: rispettare la consegna della premier Meloni, condivisa con Nordio e col sottosegretario alla Presidenza Mantovano, secondo cui la magistratura non deve poter lamentare un “accanimento” da parte del governo e della maggioranza. È quello che, nell’Esecutivo, definiscono “pacchetto Parodi”: il punto di caduta, cioè, dell’incontro di una settimana fa a Palazzo Chigi, in cui la presidente del Consiglio, Mantovano e Nordio si sono impegnati, con il neopresidente dell’Anm e la sua Giunta, a non aggiungere alla separazione delle carriere altri carichi da novanta. Va detto che aver inserito anche nella nota ufficiale il riferimento al ddl sulla geografia giudiziaria, importantissimo (anche per l’avvocatura) ma assai meno glamour per il mainstream dell’informazione, conferma implicitamente che le leggi in materia di giustizia finiranno davvero lì: prescrizione, i due testi sugli “ascolti” e il riordino dei Tribunali. Stop. Il che significa, come lascia intendere un altro dei convenuti di ieri al vertice con Nordio, che non ci sarà spazio per un’iniziativa di via Arenula sui trojan: “Non ne abbiamo neppure parlato”. Nordio considera inopportuno, a questo punto, intervenire anche sui virus spia. Allo stesso modo desisterà, almeno finché non avrà incassato il sì confermativo al referendum sulle carriere, anche sulla riforma della custodia cautelare. E qui affiora un’altra sfumatura del “bilanciamento” concordato ieri dagli esponenti del centrodestra col guardasigilli: non solo è meglio evitare provocazioni nei confronti della magistratura e dell’Anm, ma è anche il caso di rinunciare a provvedimenti che la contraerea nemica (la stessa Anm e le opposizioni) liquiderebbero come cedimenti a una presunta “logica dell’impunità”. Come anticipato dal Dubbio, l’idea del governo, di Nordio, ma anche della premier, è che una seconda metà di legislatura “ipergarantista” proietterebbe una luce ambivalente pure sulla separazione delle carriere, e metterebbe a rischio l’esito del referendum. Oggi si comincerà dalla legge Zanettin, che sarà votata nell’aula della Camera. Poi man mano il resto. Senza eccessi. Nella speranza che basti a portare le carriere separate fino al traguardo. Via Arenula, vertice di maggioranza: “Avanti compatti su separazione delle carriere” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2025 In agenda anche prescrizione, intercettazioni e sicurezza. Verso il vado di una circolare del Dap sulla “stanze dell’amore” per i detenuti che applichi le sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione. No ad amnistia e indulto. Priorità al disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere e alla riforma del Consiglio superiore della Magistratura; avanti tutta anche sugli altri Ddl nel programma della coalizione di centrodestra, tra i quali le norme sulla prescrizione, quelle sulle intercettazioni, sul sequestro degli smartphone e sulla geografia giudiziaria; “grande impegno”, infine, anche per il “disegno di legge sulla sicurezza in esame al Senato”. È quanto è emerso dal vertice di maggioranza tenutosi ieri al Ministero della Giustizia a cui hanno partecipato oltre al Ministro Nordio anche i presidenti delle Commissioni Giustizia e i capigruppo di maggioranza di Camera e Senato. “Agire compatti ed evitare, riguardo ai vari provvedimenti, fughe in avanti sul tema della Giustizia, cercando di scongiurare un ulteriore innalzamento dei toni su alcuni argomenti”, è il messaggio condiviso al termine della riunione. Sì perché il clima resta teso tra le toghe ed il Governo Meloni. Tutti i componenti togati del Csm, insieme ai tre laici Carbone, Romboli e Papa, hanno infatti depositato una richiesta di apertura di una pratica a tutela delle Sezioni Unite. L’istanza arriva a distanza di sei giorni dalle dichiarazioni con le quali esponenti di governo - dalla premier Meloni al vicepremier Salvini - hanno accolto il verdetto della Cassazione che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale per i migranti trattenuti sulla nave “Diciotti” della Guardia costiera dal 16 e al 25 agosto del 2018 su ordine dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sul punto era intervenuta anche la Presidente della Cassazione, Margherita Cassano, bollando come “inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”. E sempre nella giornata di ieri il ministro Nordio, ha incontrato Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, e Riccardo Turrini Vita, Garante nazionale dei detenuti. Il colloquio, cui ha partecipato anche una delegazione di Garanti territoriali, si legge in una nota, ha toccato le tematiche contenute nel ‘documento-appello’ che è stato consegnato da Ciambriello al Guardasigilli: buone prassi, attività trattamentali, misure alternative, depenalizzazione reati minori, umanizzazione della pena e diritto all’affettività. E proprio sul quest’ultimo argomento qualcosa si muove. “Sul tema dell’affettività, ovvero per quelle che dai media vengono definite le stanze dell’amore, il Dap sta preparando una circolare che applichi quanto richiesto dalle sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione, a conclusione di quanto studiato dal gruppo lavoro istituito al Dap lo scorso anno. “Gradualmente gli istituti si adegueranno e dunque al momento ci sarà un’applicazione a macchia di leopardo nei vari istituti del Paese”. Così il portavoce Samuele Ciambriello. “Il ministro Nordio è favorevole su due terzi delle tematiche e delle proposte arrivate da noi - ha detto Ciambriello - . Di sicuro è fermo il suo ‘no’ su un eventuale indulto o amnistia per i detenuti. Ma, riguardo al sovraffollamento, ha garantito che ci saranno nuovi posti per gli istituti, puntando all’aumento di comunità, in particolare per tossicodipendenti, e meno carcere. Riguardo allo sfollamento delle carceri, un ruolo importante lo avranno i magistrati di sorveglianza, il cui numero potrebbe essere incrementato”. Il garante dei detenuti del Piemonte Bruno Mellano ha aggiunto: “La novità è che ci è stato detto che sono favorevoli a partire anche in fase sperimentale nonostante molti istituti abbiano fin dall’inizio detto che non erano preparati. È un po’ quello che abbiamo detto noi già un anno fa, ossia partire laddove c’erano istituti che avevano proposto delle soluzioni pratiche”. Tuttavia Mellano fa anche notare che la questione è stata un po’ “derubricata dicendo che si tratta di un colloquio fatto in maniera diversa quindi chiederemo di vedere la circolare”. Secondo i dati riportati dal Garante nazionale, sono tremila le persone in carcere a cui restano da scontare non più di sei mesi di detenzione. Sono invece 19mila quelle che hanno da scontare non più di dieci anni mentre ottomila devono scontare ancora un anno. L’appuntamento per un nuovo incontro con i Garanti territoriali al ministero della Giustizia è previsto mercoledì prossimo. Il ministro realizza il sogno di Vassalli ma il sorteggio rischia di svilire il Csm di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 12 marzo 2025 Caro Ministro, soltanto la vecchia stima verificata in tanti anni e la mia lunga esperienza nel Parlamento sui problemi della giustizia, mi consentono di inviarti un mio messaggio. Ho scritto varie volte sui problemi della giustizia in questi anni, ti ho dedicato articoli anche molto critici, ho invocato il tuo impegno ad attuare quello che hai sostenuto nei tuoi libri e finalmente ci troviamo di fronte ad un testo di legge che tenta di risolvere il problema cruciale della organizzazione giudiziaria e del processo penale Ti trovi di fronte ad un mare di critiche ma anche ad adesioni a volte non previste. Nessuno poteva mai immaginare che il governo Meloni, dopo tentativi anche personali nei tanti anni passati ad affrontare questo problema spinoso e avversato, non si capisce bene perché, dai magistrati, sarebbe riuscito nell’intento sia pure dopo interventi legislativi molto discutibili. E perciò provo a fare una riflessione di merito per offrirti un contributo. Ho partecipato attivamente alla redazione del codice di procedura penale (che non chiamo più “nuovo”) e ricordo le tante volte che, da parte del ministro Vassalli e del sottoscritto, è stato detto che la riforma avrebbe determinato inevitabilmente la modifica della Costituzione perché il processo “accusatorio” è ben diverso da quello “inquisitorio”. È vero che negli anni la Corte Costituzionale ha falcidiato quelle norme e che l’”azione” dei magistrati ha “deviato” alcune norme dallo specifica significato, ma è urgente ricondurre il processo al suo valore originario nell’interesse dei cittadini sempre invocato! La speranza è che la separazione dei “ruoli” e dei “mestieri” possa servire a questo scopo perché non vale eccepire che il passaggio dalle funzioni requirenti a quella giudicante è ridotto al minimo. È una valutazione approssimativa che non tiene conto del processo accusatorio che dà rilevanza al dibattimento e non all’indagine preliminare come oggi avviene. Si tratta di una riforma di struttura del processo, del significato vero che il processo deve avere. Mi ha molto impressionato la dichiarazione di un magistrato che ha detto che “il p. m. è il primo giudice che il cittadino incontra”. In questa frase sta l’equivoco insieme alla manifestazione di una vecchia cultura. Questo valeva per il processo inquisitorio, dove l’unità della giurisdizione consentiva appunto un tipo di processo completamente diverso oserei dire sul piano filosofico, sistematico e pratico rispetto a quello accusatorio. Quel processo consentiva la famosa frase che ascolto da cinquanta anni: “la cultura della giurisdizione” necessaria per i pubblici ministeri per la quale ho ironizzato tante volte con Falcone che era sin da allora più…. moderno di tanti! Quindi il processo del 1989 doveva portare ad una nuova cultura e notiamo che ahimè! non vi è stata. I costituenti nel 1948 così illuminati hanno “separato” la magistratura per evitare qualunque equivoco da parte di uno Stato che si avviava alla democrazia e si trovavano di fronte al vecchio codice che prevedeva la giurisdizione come prerogativa unitaria dell’” autorità giudiziaria” Ed è questa “autorità” che inganna i cittadini e inganna in maniera sorprendente quel magistrato che ho prima citato. Diciamo una profonda verità: la confusione regna da sempre perché tutti i magistrati vengono chiamati “giudici”, dalla stampa in particolare e quindi l’opinione pubblica non crede che il p. m. “accusi” ma che decida perché… è “autorità giudiziaria”. Sostengo che per evitare un giudizio negativo che immediatamente i cittadini si fanno di fronte ad una inchiesta, bisogna far cambiare anche qui la cultura, perché il p. m. accusa, ed è una parte che “può dire che vuole”, così come il difensore, e poi il giudice decide, indipendente e soprattutto “terzo”, perché il processo è il contraddittorio tra le “parti”. Le critiche di molti e, con intelligenza da parte del mio amico Violante è che il pm con un CSM di riferimento “aumenterà” il potere della magistratura “requirente” e quindi è “pericoloso per la democrazia”, sono da considerare con grande attenzione. In verità mi viene subito da dire che è difficile che il pm diventi più “potente”, più dominus di quanto non lo sia oggi, e quindi “pericoloso per la democrazia”, ma l’equilibrio nella riforma lo si può trovare nella composizione del CSM a maggioranza di laici per evitare eccessiva “autonomia” (che è pur sempre un istituto dell’aciern regime) e soprattutto “separatezza”, e per coordinare i due “ordini” che oggi sono “poteri” come poi tutti riconosciamo. D’altra parte l’obbligatorietà dell’azione penale può essere regolata dalla indicazione del Parlamento sulle priorità da osservare come indicazione e come programma, e l’istituzione dell’Alta Corte risolvono tanti problemi. Aggiungo che per determinare un’armonia istituzionale ed evitare contrasti tra la politica e la magistratura sarebbe necessario ripristinare l’autorizzazione a procedere che un legislatore sciagurato abolì nel lontano 1993 e che tanti danni ha determinato sull’equilibrio dei poteri, e si potrebbe rivisitare la proposta di Pietro Calamandrei di un procuratore generale, Commissario della Giustizia garante della Uniformità dell’azione penale. A questo punto non posso non esprimere le mie forti perplessità sul “sorteggio” per la composizione del CSM che vede la perplessità di tanta cultura giuridica, che pur deve essere ascoltata, per il quale si spera in un ripensamento. Il CSM rappresenta i magistrati, è organo costituzionale e non può essere svilito, altrimenti sarebbe meglio eliminarlo, e la rappresentanza non può avvenire, in epoca moderna, costituzionale e democratica, con il sorteggio. Ancor più anomalo è il sorteggio per il Parlamento, è un vero e proprio oltraggio. Aggiungo per la mia esperienza che il rimedio sarà certamente peggiore del male perché le correnti a cui sono iscritti tutti i magistrati saranno ancora più presenti magari a più basso livello, perché il patriottismo correntizio sarà più accentuato e i capi - corrente determineranno una organizzazione più capillare: esperienza vissuta. Per ultimo mi permetto di rilevare che la parola” carriera” è prosaica e non sta bene in Costituzione. E invece la indicazione del “ruolo”, è più appropriata e sarebbe molto più compresa dai cittadini quando sarà celebrato il referendum perché ognuno capirà che si tratta di mestieri diversi. Questa la ratio vera della riforma che gli elettori capiranno. Il reato di femminicidio? Nuovo, ma già esistente di Nicola Galati La Ragione, 12 marzo 2025 Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per l’introduzione del delitto di femminicidio punito con la pena dell’ergastolo. Si tratta dell’ennesimo caso di populismo penale: una strumentalizzazione politica del diritto penale, mediante la proposta di introdurre una nuova fattispecie di reato dal forte impatto simbolico (peraltro annunciata proprio alla vigilia dell’8 marzo), con l’intento di rassicurare la collettività su un tema di forte impatto emotivo. Nessuno nega la gravità e la tragicità del fenomeno, si contestano però l’utilità e la legittimità della soluzione proposta. Innanzitutto è doveroso un chiarimento, perché è passato il messaggio infondato secondo cui a oggi il femminicidio non sarebbe punito (o quantomeno non con l’ergastolo). Se finora nel nostro ordinamento non è previsto un reato autonomo che punisca espressamente il femminicidio (cori esso intendendosi l’uccisione di una donna da parte di un uomo con un movente di genere), è pur vero che tali condotte sono comunque previste e punite come circostanza aggravante del reato di omicidio. Ma soprattutto, il femminicidio è già punibile con la pena dell’ergastolo, come dimostrano recenti e noti fatti di cronaca. Infatti, l’art. 577 n. 1 del Codice penale prevede la pena dell’ergastolo se l’omicidio è commesso “contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva”. L’art. 576 n. 5.1 del Codice penale prevede la pena dell’ergastolo se l’omicidio è commesso dallo stalker nei confronti della vittima. Si induce ulteriormente in errore il cittadino facendo credere che, nel nuovo disegno di legge, sarebbe prevista automaticamente la pena dell’ergastolo per il femminicidio. Non è e non può essere così, in quanto saranno sempre i giudici a valutare nel caso concreto la gravità dei fatti e la sussistenza di eventuali circostanze attenuanti che riducano la pena. È pertanto una riforma sicuramente inutile, che mostra anche diverse criticità. La formulazione provvisoria punisce infatti con l’ergastolo “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Si evidenzia immediatamente un potenziale profilo di illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge senza distinzioni di sesso (art. 3 della Costituzione). Perché allora la stessa pena non c prevista per chi cagiona la morte dì un uomo per le medesime motivazioni di genere? Si ricorre inoltre a concetti indeterminati, in violazione dei principi di determinatez2.a e tipicità della norma penale, con prevedibili problemi interpretativi legati all’eccessiva discrezionalità lasciata all’interprete. Il disegno di legge propone anche, nei casi di codice rosso, l’audizione obbligatoria della persona offesa da parte del pubblico ministero e non più della polizia giudiziaria. Norma che rischierebbe soltanto di complicare e allungare i tempi del procedimento, alla luce del carico di lavoro delle Procure. In conclusione, non si sentiva la necessità dell’ennesima ‘norma spot’ che appalta al diritto penale l’impossibile risoluzione di problematiche sociali e culturali. Il taglio dei tribunali di prossimità riduce la domanda di giustizia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2025 Secondo uno studio di Bankitalia, l’accorpamento nel 2013 dei tribunalini e la chiusura delle sedi distaccate ha portato a un calo delle liti del 6,4 e 5,1%. Si è ridotta la domanda di giustizia, presumibilmente per i maggiori costi connessi con l’aumento della distanza dai tribunali, in particolare nelle materie a più “alta discrezionalità” dove cioè il ricorso al giudizio non è l’unica opzione. È invece aumentato il numero dei processi definiti e si è ridotto il dispositon time, in particolare nelle materie più complesse e nei tribunali meno efficienti. Secondo uno studio della Banca d’Italia - “Gli effetti della riforma della geografia giudiziaria sul funzionamento della giustizia civile” - sono questi, in sintesi, gli effetti della “rivoluzione” che tra il 2013 e il 2014 ha portato alla chiusura di 25 tribunali e di 220 sezioni distaccate con l’accorpamento delle attività nei 140 tribunali rimanenti. Lo studio, firmato da Sauro Mocetti e Giacomo Roma (Bankitalia) e da Ottavia Pesenti (London School of economics), ricostruisce “serie storiche omogenee sui procedimenti definiti, iscritti e pendenti a livello di tribunale e materia”. Dai risultati emerge che dopo la riforma, improntata ad un aumento della produttività, si è registrata una diminuzione del contenzioso nei tribunali. Secondo lo studio, dunque, proprio i maggiori costi di accesso alla giustizia, “potrebbero aver disincentivato l’avvio di nuovi procedimenti”. L’accorpamento dei tribunali ha avuto un effetto leggermente maggiore di quello delle sezioni distaccate (calo del 6,4 e 5,1%, rispettivamente), “presumibilmente perché in tali casi l’aumento della distanza dagli uffici giudiziari indotto dalla riforma è stato più rilevante”. Ante riforma, le sezioni distaccate e i vecchi tribunali distavano dai cittadini, in media, 8 e 13 chilometri. Dopo la distanza media è salita a 14 chilometri. La popolazione a più di 20km di distanza è aumentata dal 9 al 21%. Secondo le stime, un aumento della distanza dal tribunale di 5 chilometri si associa a una riduzione della domanda di giustizia del 6%. I tribunali sono diminuiti di 25 unità, passando da 165 a 140 (è entrato in funzione il tribunale di Napoli Nord, con sede ad Aversa. La soppressione di quattro tribunali abruzzesi: Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto e delle sezioni distaccate delle isole minori Ischia, Lipari, Portoferraio, è stata sempre rinviata). Tra i tribunali rimasti dopo la riforma, 23 hanno accorpato uno o due dei tribunali soppressi; con riferimento alle sezioni distaccate, 107 tribunali hanno accentrato almeno una sezione distaccata, 56 almeno due. Nelle materie e nei tribunali interessati, il numero di procedimenti conclusi è aumentato del 5% e il disposition time si e ridotto sempre del 5%. Gli autori hanno poi individuato le materie che hanno registrato un maggior calo della domanda: responsabilità extracontrattuale (es. incidenti stradali) e diritti di proprietà (es. cause condominiali). Non ci sono stati effetti significativi, invece, per il diritto di famiglia (es. divorzi) o le crisi d’impresa (es. liquidazioni giudiziali); sui dati può aver inciso l’obbligo in alcuni casi di ricorrere alla giustizia (liquidazione) oppure la ricerca di soluzioni diverse o di risparmi. Un interessante chiarimento per la lettura dei dati deriva dal fatto che mentre nell’accorpamento di un tribunale si recupera tutto il contenzioso prima di competenza del tribunale accorpato; nella chiusura di una sezione distaccata, poiché alcune materie erano già sottratte alla loro competenza, l’accorpamento comporta il conferimento al tribunale soltanto delle materie precedentemente attribuite alle sezioni. Prima della riforma, infatti, erano di competenza della sede principale del tribunale le cause di lavoro e assistenza e previdenza obbligatorie e tutte quelle non monocratiche, come famiglia, successioni e società (nel caso di Roma, famiglia, lavoro e previdenza, erano già di competenza delle sezioni nella sede principale, mentre contratti, esecuzioni, procedimenti sommari, ecc. sono stati accorpati). Lo studio poi osserva che giurisdizioni più grandi portano guadagni in termini di economie di scala e di specializzazione; ma oltre una certa soglia iniziano a prevalere i “costi di congestione” e a diventare più rilevanti questioni di equità e accessibilità, per via di una minore copertura territoriale; con un andamento ad U rovesciata. Per gli autori, comunque, i “benefici” derivanti dalla riorganizzazione sono “maggiori dei costi”, anche se - aggiungono - “alcune condizioni sono necessarie perché se ne dispieghino pienamente gli effetti”. “Ad esempio, la fusione dei tribunali richiede una integrazione e interoperabilità dei sistemi, per evitare che la trasmissione dei fascicoli da quello accorpato a quello accorpante ritardi gli effetti positivi sull’offerta di giustizia e sulla qualità del servizio”. Da Chiara Poggi a Serena Mollicone, quelle inchieste senza fine e la credibilità della giustizia di Gianluigi Nuzzi La Stampa, 12 marzo 2025 Chiara Poggi e Serena Mollicone sono state ammazzate agli inizi di questo millennio e ancora attendono giustizia. Entrambi i processi clamorosamente si riaprono, stagliando gli ennesimi dubbi sull’operato della magistratura la cui credibilità appare in caduta libera. Il comandante dei carabinieri di Arce ritorna così sotto processo per la morte di Serena e così per quella di Chiara si riaprono vecchie ferite tra gli inquirenti di Vigevano e quelli di Milano che si ritrovarono su conclusioni opposte nell’indicare l’assassino della giovane di Garlasco trovata senza vita la mattina del 13 agosto 2007 con il gatto che girava liberamente nell’appartamento tra gli investigatori che esaminavano la scena del crimine, privi degli indispensabili calzari. Il pm dell’epoca, Rosa Muscio, dispose il sequestro di tutte le scarpe utilizzate dai militari ma uno di loro consegnò quelle sbagliate. E così si dovette riniziare daccapo a mappare le impronte presenti intorno al cadavere buttato giù dalle scale che portavano alla cantina della villetta. Come se non bastasse il corpo venne riesumato due giorni dopo i funerali perché si erano dimenticati di prendere le impronte ai piedi di Chiara, indispensabili per ricostruire il cammino della vittima inseguita dal o dai carnefici. Ancora, le scarpe di Alberto Stasi non vennero sequestrate subito così come la bicicletta nera vista da una testimone accostata vicino al portone della villetta rimase fuori dallo spettro delle indagini per nove anni. Questi errori lasciano di sale il nuovo procuratore aggiunto di Pavia, Stefano Civardi, che oggi lavora su due fronti: capire chi ha ucciso Chiara e se questa sequenza è dovuta alla sciatteria o qualcosa di peggio. Così come per la Mollicone l’azzeramento delle assoluzioni del comandante dei carabinieri di Arce e dei suoi congiunti riqualifica i dubbi che Serena sia stata uccisa in quella caserma da qualcuno che voleva impedirle di parlare. Due storie, quella di Chiara e di Serena rimettono tutti noi di fronte alla crisi profonda della credibilità della giustizia. Il cittadino trova difficoltà ad affidarsi, senza ragionevoli dubbi, quando gli errori in toga rimangono impuniti, i magistrati si smentiscono tra loro e le sentenze sembrano scritte con l’inchiostro simpatico. Non sono casi isolati. Settimana scorsa, è arrivata conferma ufficiale che Liliana Resinovich a Trieste non si è suicidata ma è stata uccisa, dopo che per ben tre anni la procura ha sostenuto la tesi che si era tolta la vita. Ora, ci sarà stata anche la prima autopsia sbagliata ma ci si dovrà interrogare se per riconsiderare questa morte ci si impiega addirittura tre anni, lasciando parenti e opinione pubblica in un limbo di congetture, incertezze, frustrazioni, veleni e sfiducia. Una storia che ricorda quella di Valentina Salamone, ragazza siciliana trovata impiccata nel 2010, fuori da una villetta. Solo grazie all’abnegazione dei genitori e di qualche collega di Videonews, come Simone Toscano, il caso chiuso per suicidio fu riaperto e l’assassino, Nicola Mancuso, condannato definitivamente all’ergastolo. Venne trovato il suo Dna sotto la scarpa della giovane. Mancuso negava come tutti gli assassini che oggi davanti alla telecamera non mostrano difficoltà in esperienze attoriali nel fissare l’obiettivo e sostenere la propria innocenza, recitando a soggetto. Hanno imparato in fretta dai tempi di mariti assassini come Salvatore Parolisi e Michele Buoninconti, dopo aver ammazzato le rispettive mogli, Melania Rea ed Elena Ceste. E così Alberto Stasi su Chiara e - di riflesso - già il nuovo indagato Andrea Sempio, che nega di aver ammazzato la sorella dell’amico. Errori, lentezze pachidermiche diventano anche trampolini di lancio per le strumentali campagne di delegittimazione, per la pioggia di fake news di chi su di noi proietta - soprattutto via social - interpretazioni complottiste, manipolatorie, riducendo i tribunali a ritrovo di congiurati e relative milizie. Il risultato è devastante: quando a fine dell’estate scorsa viene uccisa senza perché nella bergamasca Sharon Verzeni, i potenziali testimoni al telefono - inconsapevoli di finire intercettati - sperano di non fare la fine di Rosa Bazzi, Olindo Romano, Annamaria Franzoni, “incastrati da prove false prefabbricate”. Eravamo abituati a non sentire mai nei comizi dei candidati alle campagne elettorali la promessa di aprire caserme della Guardia di Finanza in caso d’elezione, ma che si abbia paura di finire sotto inchiesta da semplici testimoni, innocenti, dà la misura inquietante del progressivo ineluttabile scollamento tra cittadini e istituzioni. Persistenza della “pericolosità sociale”: niente risarcimento per ingiusta detenzione di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 12 marzo 2025 Sottoposto alla misura di prevenzione, finisce in carcere per scontare una condanna definitiva, e quando esce e scatta nuovamente il divieto di frequentare locali e persone dubbie, presenta ricorso per Cassazione per il riconoscimento di un indennizzo a titolo di equa riparazione in relazione alla detenzione sofferta (inizialmente agli arresti domiciliari e, successivamente, in stato di custodia in carcere). L’uomo, un assisano di 40 anni, era stato sottoposto dal 2014 alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, con obbligo di dimora ad Assisi. Nell’ottobre 2017 la misura era stata sospesa per la necessità di espiare una condanna definitiva a 3 anni, 9 mesi e 5 giorni di reclusione. Uscita dalla galera nel maggio del 2020, il ricorrente era stato immediatamente e nuovamente sottoposto alla misura di prevenzione. Ad agosto del 2021 era stato arrestato in flagranza per violazione della misura e sottoposto alle predette misure cautelari detentive, prima dell’assoluzione pronunciata dalla Corte di appello di Perugia, con sentenza divenuta definitiva. A fronte dell’assoluzione, quindi, aveva presentato ricorso per il risarcimento. Per i giudici romani il ricorso è infondato in quanto la custodia cautelare subìta è strettamente collegata alla “persistenza della pericolosità sociale” dell’uomo, “già sottoposto alla sorveglianza speciale”, poi detenuto, nuovamente sottoposto a misure, che poi avrebbe violato. Tutto ciò costituisce un “presupposto ostativo al riconoscimento dell’indennizzo configurandosi la condotta del ricorrente, a tutti gli effetti, come dolosa”. Niente risarcimento, quindi, e condanna al pagamento delle spese processuali. Doppia via per il rafforzamento della presunzione d’innocenza Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2025 Presunzione d’innocenza rafforzata. Anche quando, per ragioni solo cronologiche, è impossibile utilizzare la disciplina attuativi della direttiva comunitaria. Chi si è visto impropriamente presentare come colpevole in un provvedimento di archiviazione, per esempio per prescrizione, ha diritto di fare ricorso in Cassazione se non può rivolgersi al giudice di riferimento, Gip in primo luogo. Lo afferma la Cassazione con la sentenza sella sesta sezione 8927, con la quale la Corte prende atto di quanto stabilito dalla Consulta con la sentenza 41 del 2024. L’anno scorso infatti la Corte costituzionale censurò quei provvedimenti nei quali, allontanandosi dalle conclusioni del dispositivo della pronuncia, la persona oggetto d’indagine o imputata viene presentata come colpevole avvalorando la tesi della pubblica accusa. Una prassi da censurare drasticamente, scrivevano i giudici costituzionali, che danneggia sia la presunzione d’innocenza sia il diritto di difesa. Ora la Cassazione, verificata l’inapplicabilità della disciplina introdotta con il nuovo articolo 115 bis del Codice di procedura penale perché il decreto di archiviazione era precedente alla data della sua introduzione, ascrive alla categoria dell’abnormità il provvedimento con l’impropria attribuzione di colpevolezza. In particolare, “l’abnormità è ravvisabile in ragione della carenza di potere in concreto del giudice di disporre l’archiviazione della notizia criminis, richiesta per l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, con una motivazione che riguardi invece la sussistenza del reato medesimo e si sostanzia nella affermazione della responsabilità penale dell’indagato”, si tratta infatti di un provvedimento che colpisce “in modo irreversibile il diritto dell’indagato a non essere indicato come “colpevole” di un fatto costituente reato, quando per detta fattispecie il pubblico ministero ritiene di non potere procedere oltre per l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione”. Di qui lo spazio per la presentazione del ricorso alla medesima Cassazione per la rimozione del provvedimento “inquinato” da affermazioni improprie sulla colpevolezza di un imprenditore per fatti di corruzione in atti giudiziari. Poche settimane fa la Cassazione, sentenzan.1276 del 2025, aveva peraltro chiarito che un ricorso è invece impossibile quando è possibile l’utilizzo dello specifico rimedio introdotto nel 2021 nel Codice di procedura. Prescrizione crediti retributivi del lavoratore-detenuto: decorrenza da fine del rapporto di lavoro lavorosi.it, 12 marzo 2025 Con l’ordinanza n. 5510 del 02.03.2025, la Cassazione afferma il seguente principio di diritto: “In tema di lavoro svolto dai detenuti in regime carcerario, la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore inizia a decorrere non già dalla cessazione dello stato detentivo, bensì dalla fine del rapporto di lavoro, il quale va considerato un unico rapporto, non essendo configurabili interruzioni intermedie, volontariamente concordate, nei periodi in cui la persona privata della libertà è in attesa della chiamata al lavoro, rispetto alla quale il detenuto non ha alcun potere di controllo o di scelta e versa in una condizione di soggezione e di metus”. Il fatto affrontato Il detenuto ricorre giudizialmente al fine di ottenere le differenze retributive relative all’attività lavorativa svolta in favore dell’amministrazione penitenziaria durante il periodo di carcerazione. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo non dovuta la somma richiesta in quanto prescritta. La Cassazione - nel ribaltare la pronuncia di merito - afferma che, con riferimento al lavoro carcerario, non rilevano, ai fini della prescrizione, le cessazioni intermedie, che si configurano come sospensioni del rapporto, a fronte di una chiamata e un prefissato periodo di lavoro secondo turni e per un tempo limitato. Per la sentenza, la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore detenuto inizia, quindi, a decorrere, non dalla cessazione dello stato detentivo, bensì dalla fine del rapporto di lavoro - da considerare, appunto, unico - solo se precedente alla scarcerazione. Secondo i Giudici di legittimità, ne deriva che è onere della P.A., che eccepisce tale prescrizione, allegare e dimostrare il momento nel quale il rapporto è definitivamente terminato per il verificarsi di altre situazioni obiettivamente incompatibili con la sua prosecuzione, dipendenti, ad esempio, dall’età, dallo stato di salute o dall’idoneità al lavoro del detenuto interessato. Non essendosi la pronuncia di merito conformata a detti principi, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dal lavoratore. Puglia. Il Garante dei minori: “Serve una rivisitazione urbanistica degli Istituti penali minorili” bariseranews.it, 12 marzo 2025 “Occorre una rivisitazione urbanistica delle carceri minorili in modo da rendere più agevole la convivenza e un rinforzo in termini di maggiore qualificazione della formazione della polizia penitenziaria, oltre che un sistema nuovo di recupero psico-dinamico dei ragazzi presenti nelle strutture. Un altro aspetto importante è che spesso ci sono ex minorenni, cioè giovani di età un po’ più adulta, e, a volte, si creano dei conflitti e così la vivibilità diventa più difficile”. Lo dice all’Adnkronos Ludovico Abbaticchio, garante regionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, a proposito di quanto avvenuto nell’istituto penale minorile ‘Fornelli’ di Bari domenica sera quando, nel corso di una vera e propria sommossa, alcuni agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti, si sono registrati diversi danni pesanti alla struttura, con i detenuti che hanno tentato di togliere le chiavi di ingresso alle guardie e di raggiungere la portineria. Ieri, insieme al garante regionale Piero Rossi, ha espresso “totale solidarietà agli agenti aggrediti”, condannando come inaccettabile ed esecrabile “ogni atto di violenza e vandalizzazione” ma ha anche messo in guardia da soluzioni semplicistiche, invitando a “maggiori investimenti sulle politiche di welfare”. Non è il primo episodio di questo genere che si è registrato negli ultimi tempi al Fornelli, dopo anni senza episodi drammatici. “Stabilire le cause di questo episodio spetta a chi di competenza”, precisa il garante secondo il quale “bisogna sviluppare politiche educative sui territori, in modo da permettere l’ingresso di equipe socio-sanitarie stabili che possano aiutare il personale e soprattutto i ragazzi nella fase di recupero comportamentale del loro vissuto”. Paola (Cs). Terzo suicidio in due mesi nel carcere cittadino di Francesco Maria Storino Gazzetta del Sud, 12 marzo 2025 A togliersi la vita un detenuto romeno. Continua l’emergenza carceri: in un anno 225 atti di autolesionismo. Terzo suicidio in carcere a Paola da inizio anno. Un romeno di 40 anni con problemi psichiatrici si è tolto la vita nella sua cella. Sul caso anche la Procura di Paola ha aperto una indagine. L’uomo si sarebbe impiccato con alcuni lembi di stoffa. È ancora alta emergenza in Calabria. Nei primi sei mesi del 2024 si sono registrati oltre 5.300 “eventi critici”, tra cui 3 suicidi, 80 tentati suicidi, 225 atti di autolesionismo e 75 aggressioni ad agenti penitenziari. Un numero che ha finito per incrementarsi nel corso dello scorso anno. E anche il 2025 si è aperto sulla scia di eventi tragici. Tra i principali problemi delle carceri calabresi il sovraffollamento e la mancanza di adeguate sezioni per i detenuti. Il 40enne è stato ritrovato senza vita dagli agenti della polizia penitenziaria nella mattinata di lunedì. Sul caso è stata aperta un’indagine da parte della Procura di Paola, un atto dovuto per chiarire le circostanze della morte e verificare eventuali responsabilità. L’uomo da quanto si è appreso si trovava da solo in cella e avrebbe compiuto il gesto estremo senza destare sospetti. L’evento riaccende i riflettori sulle ataviche carenze del carcere di Paola e sull’assenza di supporti adeguati per i detenuti con problemi psichiatrici. Un dramma che mette inoltre a nudo le criticità del sistema carcerario e la gestione dei detenuti con problemi psichiatrici. L’ennesimo suicidio finisce per riportare al centro del dibattito le condizioni della struttura penitenziaria di Paola, da tempo al centro di polemiche per la mancanza di personale e di adeguati supporti per i detenuti con disturbi mentali. La situazione non è isolata: in tutta Italia, le carceri sono sempre più luoghi di sofferenza, in cui la tutela della salute mentale dei detenuti risulta spesso insufficiente. Secondo le associazioni che si occupano dei diritti dei carcerati, il sovraffollamento, la carenza di psicologi e psichiatri e la difficoltà di accesso a cure adeguate rappresentano fattori che contribuiscono all’aumento dei suicidi dietro le sbarre. Il numero di detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane ha raggiunto da tempo livelli preoccupanti. Di fronte a questa drammatica situazione, sindacati della polizia penitenziaria tra i quali il Sappe hanno a più riprese chiesto adeguati interventi. Tra le proposte avanzate, l’incremento di personale specializzato, un maggiore sostegno psicologico ai detenuti più fragili e una revisione delle misure alternative alla detenzione per chi soffre di gravi disturbi psichiatrici. La morte del quarantenne è l’ennesimo segnale di un problema di enorme gravità che non può più essere ignorato. Mentre la Procura indaga, resta il dolore per una vita spezzata e il monito di un sistema che necessita di un cambiamento radicale per garantire dignità e tutela a tutti i detenuti. Prima del rumeno a Paola si erano tolti la vita a inizio gennaio un dipendente della Casa circondariale e un detenuto. Firenze. Condizioni critiche nel carcere di Sollicciano, il resoconto di Antigone Toscana di Julian Zeni okfirenze.com, 12 marzo 2025 Oltre alla questione numerica, le condizioni strutturali dell’istituto risultano estremamente compromesse. L’Osservatorio Antigone Toscana ha effettuato una nuova visita al carcere di Sollicciano il 7 marzo scorso, riscontrando un peggioramento delle condizioni già critiche rilevate nel dicembre precedente. La struttura ospita attualmente 534 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 497 posti, aggravata dall’indisponibilità di 136 posti. Il sovraffollamento ha portato all’utilizzo di letti a castello a tre piani, con celle occupate fino al limite massimo. In alcuni casi, il reparto di isolamento viene usato come area di primo ingresso per mancanza di spazio. Oltre alla questione numerica, le condizioni strutturali dell’istituto risultano estremamente compromesse. Infiltrazioni, muffa diffusa e ambienti insalubri caratterizzano sia le celle che le postazioni del personale di polizia. Numerosi spazi risultano privi di mobilio adeguato, con arredi fatiscenti e impianti di illuminazione non funzionanti. La seconda sezione, ad esempio, resta priva di luce nel corridoio, costringendo il personale a muoversi con torce dopo il tramonto. Tali condizioni pongono interrogativi sulla valutazione dell’idoneità della struttura da parte delle autorità sanitarie e amministrative locali. Nonostante queste difficoltà, il personale penitenziario tenta di contenere le tensioni e di mantenere un regime a custodia aperta per gran parte dei detenuti, consentendo loro di effettuare chiamate giornaliere. Tuttavia, questi aspetti non modificano la gravità della situazione complessiva. Secondo Antigone Toscana, il carcere di Sollicciano rappresenta un luogo in cui le condizioni di detenzione risultano in contrasto con i principi di dignità e legalità, sia per i detenuti che per il personale che vi opera. L’Osservatorio ribadisce la necessità di interventi urgenti per risanare una situazione ormai insostenibile. Ferrara. La Garante: “Il carcere scoppia, serve lavoro per i detenuti e meno burocrazia” di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 12 marzo 2025 Il bilancio dei primi quattro mesi di Manuela Macario: “I problemi sono tanti, a partire dalla vecchia struttura”. I detenuti sono arrivati a 399. “Il ritardo nei pacchi? Vanno controllati ma chi verifica sulle tempistiche?”. L’ultimo dato, relativo all’1 marzo, parlava di 399 detenuti presenti a fronte di una capienza massima di 277. Il record si toccò nel 2009 con addirittura 540 persone. “Ma il problema del sovraffollamento - spiega Manuela Macario, garante dei detenuti - è solo uno dei tanti”. In carica da fine ottobre, “la prima volta che sono entrata in carcere è stato il 6 novembre”, la nuova garante è una forza di idee e proposte. Molto spesso però bloccate nel pantano della burocrazia, delle dimenticanze, delle ridottissime forze in campo. Macario, in questi quattro mesi, cosa ha trovato? “Partiamo dai problemi strutturali. L’Arginone è vecchio, alcuni spazi sono indecorosi, grigi, incrostati, nelle celle c’è solo un piccolo lavandino e le docce sono in comune. Ciò incide molto su chi vive e lavora all’interno. La direttrice, Maria Martone, sta lavorando molto su questo”. Su 399 detenuti, solo un centinaio lavora, giusto? “Sì. Parliamo di nemmeno un terzo della popolazione totale. Sono addetti alle pulizie, alle aree esterne e cucine, i piantoni, ovvero chi assiste i detenuti in difficoltà. Il lavoro, uno degli elementi del trattamento rieducativo, è un diritto, sancito dall’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario. Ci sono persone che passano l’intera giornata in cella a non fare niente. Senza parlare poi di quello che un detenuto ha definito la stratificazione dei problemi”. Si spieghi... “Un detenuto pone un problema da risolvere a un agente penitenziario il quale lo rimbalza o lo delega ad altri. Ciò fa diventare la risoluzione lunga e fa sommare i problemi che si stratificano. Pochi giorni fa, ad esempio, solo grazie a un mio interessamento, siamo riusciti ad ottenere un documento atteso un mese e mezzo per una pratica. Serviva solo un timbro”. La responsabilità di chi è secondo lei? “Non del direttore o degli agenti, pochi e costretti a lavorare in condizioni difficilissime. Ma della burocrazia, queste richieste spesso si perdono”. E questo non fa che esacerbare il clima, non è vero? “Esattamente”. Pochi giorni fa si è aperta una grossa polemica relativa alle lungaggini dei pacchi da consegnare. Vuole replicare ai sindacati? “Il mio discorso era molto più lungo e articolato di quello che apparso sui media. Evidente che i pacchi dall’esterno necessitano di una dettagliata supervisione, la procedura è delicata e richiede tempo. Ma non può succedere che un pacco arrivi al detenuto dopo 2/3 settimane dalla consegna. Perché all’interno, spesso, c’è del cibo. Ho assistito a durissime proteste e rappresaglie per questi ritardi. Mi chiedo, chi verifica le tempistiche? Un carcere, quando ha 400 persone, è come un’azienda e questa la devi sapere organizzare altrimenti non funziona”. Come farla funzionare, quindi? “Ridurre la capienza, creare lavoro, parlare con le aziende, trovare sempre nuove attività da proporre. Mi interfaccio costantemente con la direttrice, le aree pedagogiche e al bisogno con il comandante. Cerco di ascoltare i detenuti, di inserire nuovi gruppi di volontariato, sto lavorando ad un’attività di doposcuola. Non è facile, ma questa situazione va sbloccata per il bene di tutti”. Bergamo. Il triste primato del carcere di via Gleno: raggiunta quota 600 detenuti di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 12 marzo 2025 Mai così tanti. Sono 55 i “giovani adulti” tra i 18 e i 24 anni. I cappellani: “In queste condizioni è difficile il percorso rieducativo”. Gli avvocati: “Servono misure d’emergenza”. Come in una escalation continua, i numeri sono giunti a toccare una soglia che non è solo simbolica. È concreta, perché rappresenta plasticamente le difficoltà che vivono tutti coloro che si trovano oltre quelle mura, oltre quelle sbarre. Il carcere di Bergamo è arrivato - tra lunedì e ieri, secondo i dati ufficiali del ministero della Giustizia - a quota 600 detenuti. Mai così tanti da quando ci sono dati puntuali e anche stando alla memoria di chi da lungo tempo opera in via Gleno. Un record negativo che è andato a peggiorare negli ultimi giorni, ma sull’onda lunga di mesi di costante innalzamento della “pressione”: sabato 8 marzo la casa circondariale ospitava 596 detenuti e aveva già superato il precedente primato di 595 presenze rilevato il 16 dicembre. Solo durante le feste le cifre si erano lievemente attenuate, anche per via dei permessi premio più frequentemente utilizzati a ridosso di Natale; si era scesi attorno ai 560 reclusi, ma ben presto la corsa era ripresa. In sostanza, il penitenziario s’avvicina ormai a ospitare il doppio dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare: i posti fissati dal ministero sono infatti 319, ora il tasso di affollamento è balzato al 188,1%. “Così è tutto più difficile” - Tra chi vive quotidianamente via Gleno, portando una vicinanza preziosa ai detenuti ma anche al personale, ricorre una parola: “Difficoltà”. È ciò che il sovraffollamento crea e amplifica, rendendo più complicata la convivenza, le attività, la missione del recupero. Una situazione condivisa con gran parte delle carceri italiane: “Così diventa tutto più difficile - riflette don Dario Acquaroli, uno dei due cappellani di via Gleno -. Questi numeri lasciano una perplessità di fondo: in queste condizioni, le carceri come possono offrire l’opportunità di quel percorso rieducativo che è necessario compiere. Un sovraffollamento simile non è indice di più sicurezza, ma genera meno sicurezza, perché complica il reinserimento”. I “giovani adulti” - Un fenomeno in crescita, a Bergamo come nel resto d’Italia, in particolare dopo il Decreto Caivano, è la crescita dei “giovani adulti”, cioè quei detenuti dai 18 ai 24 anni d’età: in precedenza venivano accolti prevalentemente dagli istituti penali per minorenni, ma la recente stretta normativa ha innescato un “travaso” verso le carceri per adulti. A Bergamo sono circa 55 i “giovani adulti” presenti. “Molti di loro si portano dietro reati da minorenni e ci si sta interrogando molto su questo passaggio - riflette don Acquaroli - in particolare per far sì che l’esperienza del carcere non diventi una sentenza definitiva per tutta la loro vita, ma possa essere il momento di rilettura del percorso rieducativo”. Di “momento difficile” parla anche don Luciano Tengattini, l’altro cappellano del carcere di Bergamo: “Non so come sia possibile gestire situazioni come questa, legata al sovraffollamento, dove la vita diventa invivibile per tutti, anche perché l’organico rimane lo stesso - rileva il sacerdote -. Chiediamo giustamente ai detenuti di rispettare norme e leggi, ma lo Stato dimostra di non farlo”. “La pena diventa castigo e non recupero” - “Il problema del sovraffollamento oramai non è più sostenibile - commenta Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo - e crea problemi, oltre che ai detenuti, a tutti i dipendenti, partendo dalla polizia penitenziaria. In queste condizioni è difficile applicare il principio dell’articolo 27 della nostra Costituzione che indica trattamenti che non siano contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato. Così, la pena diventa solo castigo e non recupero”. La Chiesa continua a coltivare l’attenzione per il mondo della giustizia: proprio giovedì 13 marzo, in occasione della sessione primaverile della Conferenza episcopale lombarda, i Vescovi della Lombardia visiteranno la Rems di Castiglione delle Stiviere (Mantova), l’unica struttura sanitaria di questo tipo in regione, dedicata ad accogliere gli autori di reato affetti da disturbi mentali, incontrando il personale e gli ospiti, nell’ambito del Giubileo della Speranza. Il tema del disagio mentale - Perché anche questo, il disagio mentale, è un elemento critico del sistema carcerario: “I detenuti con problemi psichici e di tossicodipendenza, e molti li hanno entrambi, non devono stare in carcere - commenta l’avvocato Enrico Pelillo, presidente della Camera penale di Bergamo -: servono strutture diverse e idonee dove scontare la pena. Facciamo i conti con un sistema carcere-centrico a cui non si trova soluzione, con un forte ricorso alla custodia cautelare e una forte polarizzazione nell’opinione pubblica”. “In emergenza servono misure di emergenza” - Non è solo questione di diritto, ma anche di razionalità: “Il sovraffollamento è un trattamento inumano, nemmeno il più accanito giustizialista può negarlo - riflette Giulio Marchesi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Bergamo, e proprio ieri il Consiglio ha discusso l’avvio di una raccolta fondi per l’acquisto di beni di prima necessità per il carcere -. Le soluzioni sono due: o si aumentano i posti nelle carceri, ma con costi e tempi del tutto incompatibili con una soluzione rapida, oppure serve dare attuazione in maniera importante a provvedimenti legislativi che utilizzino pene di carattere alternativo al carcere, e questa è l’unica soluzione adottabile nell’immediato. Sono problemi che si trascinano da tempo, non è questione solo dell’ultimo governo: siamo in una situazione di emergenza e servono misure di emergenza, benché impopolari”. Perché la situazione è drammatica ovunque: a fine febbraio in Italia i detenuti erano 62.165 a fronte di 51.323 posti (tasso di affollamento del 121,1%); la Lombardia contava 8.890 reclusi per 6.148 posti (affollamento del 144,8%). Roma. I Radicali visitano l’Ipm di Casal Marmo: “Il 60% dei detenuti è in attesa di giudizio” romadailynews.it, 12 marzo 2025 Il segretario di Radicali italiani, Filippo Blengino, insieme all’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ha visitato ieri il carcere minorile di Casal del Marmo a Roma. Lo riporta una nota ufficiale. Nella struttura, il 60% dei detenuti è in attesa di giudizio, la sezione maschile è sovraffollata, con 61 ragazzi in 52 posti disponibili, e si nota un evidente disagio psichico. “Dopo la visita all’istituto penale per minorenni, esco profondamente angosciato e commosso, e con la convinzione che lo Stato sia assente anche qui”, dichiara Blengino. Molti ragazzi mostrano segni evidenti di autolesionismo, in particolare tagli sulle braccia. Il personale è costretto a sopperire alle mancanze gravissime e alle negligenze. Il decreto Caivano ha peggiorato la situazione, mancano agenti di polizia penitenziaria, sebbene ci sia un aumento degli educatori. Alcune sezioni sono in condizioni degradate, specialmente nel padiglione dei minori, dove igiene e strutture sono inadeguate. “Continueremo a denunciare queste condizioni, quando visiteremo gli istituti penali minorili in tutto il Paese”, conclude Blengino, sottolineando che incrementare i reati senza investire seriamente nel reinserimento sociale e nelle misure alternative è irresponsabile e frutto di un governo e di un ministro che sfruttano il disagio per fini elettorali. Casal del Marmo è un esempio lampante di questa situazione. Cesena. Misure alternative al carcere, l’apre l’ufficio di prossimità Il Resto del Carlino, 12 marzo 2025 Un servizio che assicura una conoscenza reciproca e che rappresenta un nuovo inizio per le persone, minorenni e in età adulta, sottoposte a misure esterne all’Istituto penale. Sulla base di uno specifico accordo tra Comune di Cesena, Unione Valle del Savio e Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, sarà attivato negli spazi dell’hub di comunità di Sant’Egidio un Ufficio di prossimità Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna). Nel dettaglio, questo sportello ha lo scopo di garantire di individuare i fabbisogni e formulare proposte di intervento per le politiche di esecuzione penale esterna, proposte di programmazione e ripartizione delle risorse umane e finanziarie e progetti riguardanti la formazione e l’informazione. Quotidianamente dunque gli operatori ricevono l’utenza predisponendo programmi di trattamento delle misure di comunità. Questo Ufficio inoltre fornisce informazioni e consulenza sulle misure penali di comunità e/o percorsi di giustizia ripartiva e consente l’avvio e la gestione di tali misure. Tra le azioni più specifiche troviamo poi il reinserimento dei soggetti sottoposti al controllo dell’Autorità Giudiziaria anche tramite un efficace coordinamento e raccordo con i Servizi specialistici del territorio con cui è già attiva una piena collaborazione. “L’attivazione di questo nuovo servizio sul nostro territorio - commenta l’assessora ai servizi per le famiglie e le persone Carmelina Labruzzo - è tesa ad ottimizzare i processi di lavoro dei Servizi a favore della collettività, rendendone più agevole il funzionamento e migliorandone l’efficienza organizzativa”. Napoli. L’incontro in cella con la figlia di Borsellino di Antonio Mattone Il Mattino, 12 marzo 2025 È stato un incontro intenso e schietto quello di Fiammetta Borsellino con cento detenuti del carcere di Secondigliano. La figlia del giudice ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, è stata invitata dalla Comunità di Sant’Egidio, ed è stata per due ore a tu per tu con i reclusi schierati in prima fila, per una volta protagonisti e non relegati nelle retrovie come invece avviene in tante manifestazioni che si svolgono dentro le mura dei penitenziari. Fiammetta subito rompe il ghiaccio e previene una delle domande più scontate: “Io sono qui perché credo nel cambiamento. Alimentare la rabbia è un atteggiamento sterile e non fa resuscitare i morti”. Fin dalle prime battute emerge il clima che si respirava a casa Borsellino, una famiglia unita che ha condiviso la scelta di vita del giudice con tutte le complicazioni di una esistenza blindata. Poi comincia a raccontare del padre, cresciuto nel quartiere popolare della Kalsa, con il desiderio di liberare la sua terra dall’oppressione della criminalità mafiosa, il dolore di vedere la “Sicilia bedda” diventare la più grande raffineria di droga dell’Italia, e l’ossessione per la marea di giovani uccisi dalla mafia ma anche dall’eroina. Spesso si recava nelle scuole assieme a Rocco Chinnici per spiegare ai ragazzi come la cultura intesa come passione e competenza potesse contrapporsi alla mentalità mafiosa, la bellezza opposta alla morte. Quando si passa alle domande il discorso si fa più intimo. Qualcuno le chiede come abbia vissuto da adolescente la condizione di una vita blindata, un altro detenuto vuol sapere di quando in Indonesia apprese la morte del padre. Claudio, invece, fa una profonda riflessione e dice che a volte si diventa involontariamente parte dalla storia. Poi chiede quanto sia stato pesante per lei far parte in questo modo così doloroso della storia. Fiammetta Borsellino non si sottrae e risponde a tutte le domande lasciando intravedere anche qualche vena di commozione. Racconta che quando andava a scuola aveva vergogna di essere accompagnata dalla scorta e per non farsi vedere scendeva dalla macchina blindata qualche isolato prima di arrivare all’ingresso dell’edificio scolastico. Poi quando seppe della morte del padre ricorda che stava su di un’isola sconosciuta, con persone che non erano familiari e non poté esprimere il suo dolore. Ha parole di grande affetto per la sorella: “Non ho vissuto quello che ha vissuto Lucia, la forza che lei ha avuto probabilmente io non l’avrei avuta”. Quando qualcuno chiede delle figure femminili della sua famiglia con la madre chiusa in un silenzio assordante e la zia Rita che ha sempre testimoniato con forza la vicenda del fratello, Fiammetta inaspettatamente parla della nonna che ebbe il coraggio di attraversare le fiamme in via D’Amelio e fece piantare un ulivo, segno di vita, nel posto dove era stata collocata la bomba. Un albero forte, con radici robuste che oggi è cresciuto ed è ammirato da tutti quelli che vengono in pellegrinaggio sul luogo della strage. Uno scroscio di applausi si leva spontaneo tra il pubblico dei detenuti che si avvicinano numerosi al microfono per fare altre domande, mentre qualcuno consegna timidamente delle lettere. Francesco, il più giovane degli ospiti di Secondigliano, con la voce rotta dall’emozione, legge la sua: “questa per me è la prima volta che provo tanta difficoltà a scrivere ed esprimere quello che provo pur sapendo cosa è successo a suo padre…. Vederla sorridere dopo tutto quello che ha passato insieme alla sua famiglia riempie il cuore di gioia. Sono davvero felice di averla conosciuta, porterò per sempre con me questo bellissimo giorno e la ringrazio per aver scelto di stare con noi”. A chi gli chiede se Paolo Borsellino avesse mai pensato di lasciare il lavoro per proteggere i suoi cari, lei risponde che la sua famiglia era più larga, era tutta una società che aspettava anche da lui una risposta di salvezza. Sono state davvero tante e profonde le domande che hanno posto i detenuti. Forse quello che emerge è che far incontrare con il mondo esterno, con il dolore di chi ha sofferto tanto male, può essere una strada per indurre a revisioni radicali, ed incidere anche sui cuori più induriti. L’incontro di Fiammetta Borsellino con i detenuti è stato un gesto di riconciliazione e di umanizzazione molto importante non solo per chi vive recluso in carcere, ma anche per noi che ne siamo fuori e che tanto spesso restiamo prigionieri della logica del rancore e della vendetta. Ferrara. “La Passione”, musica e pensieri dal carcere in tempo di Quaresima lavocediferrara.it, 12 marzo 2025 Appuntamento speciale nella chiesa di San Paolo a Ferrara sabato 22 marzo alle ore 20.30. La voce degli ex detenuti del carcere milanese di San Vittore unita a quelle dell’Accademia Corale Vittore Veneziani e de I Cantori del Vòlto. Gli archi e i fiati dell’Orchestra Antiqua Estensis, con cantanti e musicisti solisti d’eccezione come Paolo Ghidoni. E le voci recitanti del Macró Maudit Teáter di Milano. Insieme per interpretare a Ferrara, in questo tempo di Quaresima, i temi de La Passione evangelica nella sua attualità: alle 20.30 di sabato 22 marzo, nella chiesa della Conversione di San Paolo. È l’evento promosso dall’associazione milanese Amici della Nave OdV, in collaborazione con Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e parrocchia della Conversione di San Paolo, con l’aiuto di Amf - Scuola di Musica Moderna di Ferrara. Ingresso libero. I volontari e le volontarie dell’Associazione svolgono la loro attività nell’ambito del recupero di persone detenute o ex detenute con problemi di dipendenza. Tali attività si svolgono a Milano sia all’interno della Casa Circondariale di San Vittore, presso il reparto di trattamento avanzato La Nave gestito da Asst Santi Paolo e Carlo, sia all’esterno in collaborazione con i Servizi Dipendenze del territorio. Tra le esperienze dell’Associazione vi è quella del canto corale cui partecipano volontari, detenuti, ex detenuti e pazienti dei SerD, in due formazioni denominate Coro La Nave di San Vittore con le persone detenute e Coro Amici della Nave di San Vittore con quelle già uscite dal carcere. Il momento del coro, diretto da Paolo Foschini, rappresenta per i ragazzi e i volontari coinvolti un’esperienza inclusiva e umana di rara intensità. È questo il percorso, in carcere e fuori, da cui è nato il progetto dedicato alla Passione. Rappresentata la prima volta a Milano nella Basilica di Sant’Ambrogio con la partecipazione di artisti dei Teatri alla Scala e La Fenice, rinnovata nel convento di Santa Maria dell’Olivo a Maciano di Romagna, La Passione approda ora a Ferrara con collaborazioni nuove. È concepita come un “oratorio laico-spirituale” sui temi della Passione calati nel nostro tempo. Sia musicalmente, in un percorso che spazia dai corali di Bach al repertorio più contemporaneo; sia nei contenuti, con il filo conduttore dei testi evangelici intrecciato alle riflessioni che persone detenute hanno scritto in relazione alle proprie storie personali e al tempo storico che stiamo vivendo. Una “meditazione musicale spirituale” proveniente da un mondo come quello del carcere che proprio nel testo della Passione trova più di una risonanza: il processo, il tradimento, l’opinione pubblica del “crucifige”, ma anche il ladrone buono, la pietà, il perdono; e in ultima analisi il riscatto, il senso del “dare la vita per”, il grande bisogno di speranza e di Resurrezione che tutti ci portiamo dentro. Più che mai in questo anno in cui proprio la Speranza è il tema conduttore del Giubileo. A realizzare il programma de La Passione a Ferrara saranno, insieme con il Coro Amici della Nave di San Vittore e in uno spirito di coinvolgimento delle realtà musicali ferraresi, l’Accademia Corale Vittore Veneziani diretta da Teresa Auletta e i Cantori del Vòlto diretti da Raffaele Giordani oltre all’Orchestra Antiqua Estensis, con la partecipazione dei solisti Francesca Collini, Viviana Corrieri, Paolo Ghidoni, Roberto Formignani, Roberto Manuzzi, p. Raffaele Talmelli, Roberto Valeriani, e il contributo delle attrici del Macrò Maudit Teàter di Milano per la lettura dei testi. La Passione sarà diretta a Ferrara da Giorgio Fabbri e Paolo Foschini. Poterla rappresentare in un contesto di straordinaria bellezza e suggestività come la Chiesa di San Paolo sarà un grande privilegio per chi la eseguirà e una grande emozione per chi vi assisterà. S.E. mons. Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, dichiara: “La Passione rappresentata a Ferrara in questo anno giubilare, tanto più con protagonisti ex detenuti di San Vittore, ci richiama alcuni dei temi fondamentali di questo anno di grazia, cioè il perdono e il condono, che portano con sé la consapevolezza del valore di pene alternative, ma anche dell’amnistia, come segni per ricominciare una vita diversa. Il canto e la musica che accompagnano le parole della Passione, nel magnifico teatro che diventa la chiesa di S. Paolo, sono un inno alla libertà, ma anche al perdono e al condono”. Mons. Massimo Manservigi, Vicario generale dell’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e parroco della chiesa della Conversione di San Paolo, aggiunge: “Le parole con cui Gesù si presenta nella Sinagoga di Nazareth (Lc 4,1819) sono anche l’essenza della sua missione. È venuto a inaugurare un Giubileo, un anno di grazia del Signore; per “proclamare ai prigionieri la liberazione” e “rimettere in libertà gli oppressi”. Per ben due volte la parola “libertà” ritorna con forza. Sono convinto che in questa “Passione” ci venga offerta una meravigliosa opportunità per comprendere autenticamente la libertà, la compassione, la presenza del male in noi e la lotta per combatterlo, le opportunità di riscatto e l’amore necessario perché ciò avvenga”. Eliana Onofrio, presidente Associazione Amici della Nave OdV, spiega invece: “L’esperienza della musica e del canto rappresenta per noi da molti anni uno strumento di inclusione caratterizzato da due parole-chiave: bellezza e insieme. Questo infatti significa cantare in coro, non semplice aggregazione di singole voci ma occasione di ascolto e conoscenza reciproca tra persone. In carcere e fuori, nel nostro caso. Per questo siamo riconoscenti all’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, alla Parrocchia della Conversione di San Paolo, all’Accademia Corale Vittore Veneziani, ai Cantori del Vòlto, all’Orchestra Antiqua Estensis, alla Scuola di Musica Moderna e alla città di Ferrara per la grande generosità e la disponibilità fraterna, prima ancora che musicale, che hanno reso possibile questo incontro prezioso con noi e con le amiche del Macrò Maudit Teàter”. Dario Laquintana, direttore sociosanitario di Asst Santi Paolo e Carlo: “Testimonianza del valore e dell’impegno profuso dai volontari e dalle volontarie dell’Associazione Amici della Nave OdV, assieme ai nostri operatori accanto ai pazienti del Servizio Dipendenze, il progetto musicale dedicato a La Passione ha il grande merito di coinvolgere ogni volta realtà nuove. Come Asst Santi Paolo e Carlo siamo felici che anche questa rappresentazione accolta a Ferrara grazie alla Diocesi, con la partecipazione di tanti artisti di questa città, sia una occasione di incontro tra esperienze e persone di Regioni diverse”. Un ringraziamento speciale da parte dell’Associazione Amici della Nave OdV a Bcc Emilbanca per lo slancio con cui ha voluto sostenere l’iniziativa e alla cooperativa sociale Il Germoglio, a sua volta impegnata nel reinserimento di persone detenute con percorsi di formazione e attività lavorative, per la grande disponibilità e la preziosa collaborazione nella riuscita organizzativa dell’evento. Per contatti e informazioni: Paolo Foschini - 335 7350960 - amicidellanave@gmail.com La povertà educativa (anche al Nord) e l’emergenza dimenticata di Ferruccio de Bortoli Corriere della sera, 12 marzo 2025 Dovremmo chiederci perché la qualità del capitale umano non è mai un’emergenza nazionale. Non è mai ai primi posti delle agende politiche. Certo, direte, ci sono altre priorità in questo momento. Si parla di investimenti nella Difesa, di riarmo. Non è il momento. Non è mai il momento. Alcuni interessanti dati sul nostro sistema educativo emergono da una ricerca Teha, a cura di Paolo Borzatta e Jonathan Donadonibus. L’Italia spende più per pagare gli interessi sul proprio debito che per gli investimenti nell’istruzione. Già questo dice tutto. Per fortuna il Pnrr, il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, destina circa 30 miliardi all’Istruzione e alla Ricerca. Speriamo vengano impiegati bene. La spesa privata delle famiglie è pari alla media europea, circa 30 miliardi. Ma largamente inferiore a quella tedesca o francese. La Finlandia, che ha un invidiabile sistema pubblico (investe quasi il doppio, rispetto al Pil, dell’Italia) ed è in vetta alle classifiche sui rendimenti degli studenti, quasi zero. Le statistiche che riguardano i tassi di iscrizione della scuola primaria e secondaria ci vedono in buona posizione. Il numero degli studenti universitari cresce, ma grazie alle università telematiche (tutto bene?). La percentuale di laureati resta tra le più basse d’Europa. E ogni anno lo Stato subisce un danno economico stimato in 4,2 miliardi per la fuga di diplomati e laureati. La povertà educativa è un problema serio e sottovalutato anche in ricche aree del Nord. E in Europa il rischio è stimato toccare il 25 per cento dei minori. In Italia il 70,5 per cento dei bambini e dei ragazzi tra 3 e 19 anni non è mai entrato in una biblioteca. E se andiamo a vedere la percentuale di italiani che, negli ultimi dodici mesi, hanno letto almeno un libro (fonte Eurostat 2022) ci troviamo al penultimo posto. La Finlandia legge il doppio. La Grecia ci ha superato da tempo. Negare la genitorialità alle single è una discriminazione di genere di Valentina Petrini La Stampa, 12 marzo 2025 Ma chi è benestante in Italia può aggirare i divieti andando all’estero. Alla Consulta l’eccezione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Firenze. “Che colpa ho se le mie relazioni non sono andate bene? Se gli uomini di cui mi sono innamorata non volevano figli? Nel frattempo sono arrivata a quarantatré anni e il mio tempo per diventare madre, genitore, sta scadendo. Perché non posso autodeterminarmi e accedere da sola, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (ndr Pma)?”. Katia Bianco è di Bari, davanti al portone d’ingresso della Corte Costituzionale è visibilmente emozionata. Si stringe alle altre donne che ieri sono arrivate a Roma da diverse parti d’Italia per partecipare all’udienza in cui verrà discusso proprio il divieto previsto dalla legge n.40 di accesso alle procedure di salute riproduttiva per le donne single, non sposate e non conviventi. La legge 40 ha compiuto 21 anni e in questi due decenni è stata smontata pezzo dopo pezzo. La Corte Costituzionale è dovuta intervenire più volte per rimuovere gli ostacoli che di fatto negavano l’accesso alle tecniche di procreazione assistita a tutte coloro che consapevolmente e responsabilmente volevano scegliere la genitorialità. Non tutti i divieti però sono stati rimossi. Sopravvivono ancora: il divieto di accesso alle tecniche di fecondazione assistita per i single come Katia e per le coppie dello stesso sesso. Rimane inoltre il divieto di gestazione per altri (ndr oggi reato universale) e quello di donare embrioni alla ricerca. “Gli effetti delle sentenze della Corte sono tangibili, reali: sono circa 14mila i bambini che ogni anno nascono grazie alle tecniche di fecondazione assistita”. L’avvocata, costituzionalista, nonché segretaria nazionale dell’associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, martedì è stata la prima a prendere la parola davanti ai giudici della suprema Corte. La questione di legittimità è stata sollevata dal Tribunale di Firenze nell’ambito di un procedimento legale avviato da Evita, una donna di 40 anni di Torino, che si è vista negare il diritto di accesso alla Pma in un centro di fecondazione assistita in Toscana proprio perché sola, non coniugata. Katia e le altre sono sedute vicino, visibilmente emozionate. A difendere i loro diritti, ci sono oltre a Filomena Gallo, altre sei donne, avvocate, costituzionaliste, professoresse, tutte schierate a difesa del diritto alla libera scelta come fossero un unico corpo. Un corpo di donna appunto. È un’immagine imponente. Anche l’avvocatura dello Stato, che invece rappresenta le ragioni del Legislatore e quindi del governo Meloni, è una donna. Lei però prende la parola e difende, in linea con le norme del governo in carica, il diritto del nascituro ad avere un padre e una madre. Insomma una famiglia tradizionale. Eppure nel 2024 in Italia si è registrato un aumento del 35% delle famiglie monogenitoriali. “L’esclusione delle donne singole dall’accesso alle leggi di fecondazione medicalmente assistita costituisce una violazione dei principi di uguaglianza, di non discriminazione e autodeterminazione sanciti dalla Costituzione italiana”. Insomma le donne saranno anche per la premier Giorgia Meloni “coraggiose, instancabili, determinate”, ma non abbastanza per essere in grado da sole di fare un figlio e crescerlo al meglio. Katia Bianco esce dall’aula appena Filomena Gallo finisce di parlare e scoppia a piangere. “Ho speso 15mila euro per tentare la procreazione prima omologa e poi eterologa all’estero. Ora ho finito i risparmi. Se i giudici accogliessero l’istanza di incostituzionalità del divieto della legge 40 verso noi single, avrei un’altra possibilità”. L’ultima relazione al Parlamento sulla Pma evidenzia un aumento del 30,24% dei nati attraverso le tecniche di salute riproduttiva. In questi 21 anni in totale sono nati 209.706 bambini con la Pma. È l’articolo 5 della legge 40 che oggi vieta ancora l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle persone singole e alle coppie dello stesso sesso, quello che Katia e le avvocatesse, con una voce sola, ieri hanno chiesto ai giudici della Corte di giudicare incostituzionale. “Solo chi ha la possibilità economica e può sostenere le spese per andare in un Paese straniero riesce a superare il divieto e questo rappresenta un’ulteriore discriminazione”. È una prassi che si ripete: se sei benestante puoi comprare i tuoi diritti altrove. Se sei un poveraccio soccombi. Ad essere minata sempre è proprio la libertà personale, la libera scelta, il principio di autodeterminazione, dalla nascita alla morte. Nei prossimi giorni i giudici decideranno. Intanto però a livello europeo è stato affermato che le scelte in materia di riproduzione sono diritti fondamentali, strettamente connessi alla sfera intangibile della persona e dell’autodeterminazione. La risoluzione del Parlamento europeo del 24 giugno del 2021 esorta gli Stati membri a rimuovere ogni discriminazione nell’accesso alle tecniche di fecondazione assistita nei confronti tra l’altro delle donne single. Anche il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’Onu nel 2019 è intervenuto perché non è garantito il diritto alla salute riproduttiva della donna e ogni anno evidenzia che non è garantito l’accesso a tecniche di riproduzione per tutti coloro che ne hanno bisogno. In ultimo, nel quadro della conferenza sul futuro dell’Europa del 2022, cittadini e cittadine europei che hanno partecipato, hanno votato una raccomandazione, la numero 45, in cui chiedono all’Unione europea di incoraggiare l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia d’accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita per tutte le donne indipendentemente dallo stato civile. Per l’Europa dunque, quello di Katia è un diritto fondamentale, per l’Italia no. È molto più semplice trattare il tema del calo delle nascite puntando il dito solo sull’aumento dell’età media in cui si inizia a cercare un figlio. Nascono meno bambini perché le donne lavorano e non c’è un welfare adeguato a sostenerle. Vero, ma non solo. Le donne incontrate ieri in aula, protagoniste dell’ennesima battaglia di disobbedienza civile, hanno affermato una cosa chiara: nascono meno bambini anche perché molti uomini non li vogliono o si decidono a farli dopo i cinquant’anni, cioè quanto per una donna è finito il tempo riproduttivo. Se la loro libertà di scelta è garantita, perché quella delle donne no? Droghe. “War on drugs”, l’Italia in prima linea di Leonardo Fiorentini e Antonella Soldo Il Manifesto, 12 marzo 2025 Tutti i Paesi hanno normative che regolano la guida sotto l’influenza di sostanze psicoattive, siano esse legali o illegali. Le legislazioni sull’alcol hanno una lunga tradizione e generalmente seguono un approccio repressivo progressivo, infatti la maggior parte degli Stati fissano limiti, superati i quali vengono applicate sanzioni, incluse quelle penali, in relazione alla quantità consumata. Invece per le sostanze soggette a controllo internazionale, inserite nelle tabelle delle convenzioni sulle droghe, prevale spesso un approccio di tolleranza zero. In Italia, come ben sappiamo, grazie alle modifiche volute da Matteo Salvini, è stato addirittura eliminato il requisito di dimostrare un’effettiva alterazione alla guida, rendendo punibili le persone anche sulla base di test rudimentali, spesso caratterizzati da alte percentuali di falsi positivi, come quelli salivari. Queste differenze di approccio saranno al centro dell’analisi e della discussione a Vienna, durante un side event in occasione della 68ª Commission on Narcotic Drugs dell’Onu (Cnd). L’evento, dal titolo Driving and Substances: A New Approach to Regulation, è promosso da Forum Droghe e Meglio Legale, insieme a La Società della Ragione, Euronpud, Associazione Luca Coscioni, NORML, Releaf Malta e Deutsche Hanfverband. Due questioni verranno approfondite dal panel. La prima riguarda la cannabis e la guida nei Paesi che ne hanno legalizzato l’uso. Quindi le possibili soluzioni per garantire sia la sicurezza stradale sia il diritto delle persone a non essere punite, in assenza di comportamenti realmente dannosi per sé o per gli altri. Verranno presentate le esperienze di Paesi che hanno già legalizzato: dagli Stati Uniti fino ai più recenti casi di Malta e Germania. Si terrà conto anche delle soluzioni alternative ai test di laboratorio, come l’uso di app che verificano l’effettiva alterazione del guidatore al momento del controllo. La seconda questione concerne i rischi dell’approccio di tolleranza zero sulle droghe che - laddove il conducente non guidi in uno stato effettivamente compromesso - potrebbe di fatto reintrodurre la criminalizzazione delle persone che fanno uso di droghe attraverso le leggi sulla circolazione stradale. Punire i conducenti per la sola positività a un test (che sia salivare, urinario o ematico), capace di rilevare l’uso di sostanze psicoattive ore, giorni o addirittura settimane prima, significa perpetuare un processo di stigmatizzazione delle persone che usano sostanze. Un approccio che da molti anni anche le agenzie dell’Onu invitano ad abbandonare. Eppure, l’Italia, nel suo continuo e nostalgico legame al passato, sembra ignorarlo. Del resto, il sottosegretario Mantovano, intervenendo lunedì mattina nel dibattito generale della Cnd, ha citato - come di consueto - un caso: l’arresto a Dubai di un potente narcotrafficante italiano, per sottolineare la pervasività e la resilienza del mercato illegale, nonché la sua capacità di sfruttare le opportunità offerte dalle “nuove tecnologie”. Un ennesimo esempio che dimostra l’assoluta inadeguatezza delle politiche repressive nell’affrontare efficacemente il “problema mondiale della droga”. È un modello sbagliato, che provoca danni sociali, ma il sottosegretario Alfredo Mantovano insiste in una crociata senza senso. Dopo aver citato maldestramente Pasolini e suggerito correlazioni tra la legalizzazione della cannabis e l’epidemia di overdose in Nord America - inesistenti secondo la letteratura internazionale - ha concluso il suo intervento con un chiaro ed evocativo “siamo in prima linea”. Che la war on drugs non fosse finita, per l’ispiratore della ultra proibizionista legge Fini-Giovanardi, l’avevamo capito. Il ricorso a un linguaggio bellicista è però eccessivo. Migranti. Il 40% delle persone ospitate nei Centri Sai viene da “paesi Sicuri” di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 marzo 2025 Lo stato dell’accoglienza in Italia. Nuovo rapporto di Action Aid e Open Polis. Nei centri del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) possono essere ospitate persone che hanno ottenuto la protezione oppure sono in situazione di vulnerabilità. Alla fine del 2023, ultimo dato disponibile, su 30mila ben 12 mila erano originarie dei Paesi attualmente considerati “sicuri” dal governo (40% del totale). “Non si tratta quindi di territori sicuri, non ovunque e non per tutti”, denunciano Action Aid e Open Polis, autori di Accoglienza al collasso. Report 2024. Tolte donne e minori restano 5.400 uomini adulti, quelli che rischiano la detenzione durante le procedure accelerate di frontiera. Una prova in più che non basta la presunzione di sicurezza per escludere il diritto d’asilo di queste persone. “Secondo la normativa in vigore potrebbero essere destinati al trattenimento in Italia o addirittura in Albania, dove il rilievo delle vulnerabilità non può che avvenire soltanto in casi eclatanti. Sulla nave possono essere individuate quelle molto evidenti, ma questi numeri dimostrano che serve ben altra condizione che una valutazione sommaria in mare per far emergere vulnerabilità connesse alla storia e alla condizione personale. Elementi che difficilmente emergono anche in centri di accoglienza governativi privati di servizi essenziali”, afferma Fabrizio Coresi, esperto di politiche migratorie di Action Aid. Lo studio, realizzato nonostante la reticenza del ministero dell’Interno a fornire i dati, mostra anche una situazione allarmante relativa ai minori. Tra il 2020 e il 2023 quelli accolti nei Centri di accoglienza straordinaria, dove i servizi sono scarsi e in continua diminuzione, sono passati da 48 a 1.773 (il 26% di quelli accolti complessivamente). “Una cifra impressionante”, soprattutto se accostata ai 740 ragazzi tra 16 e 18 anni finiti in strutture promiscue, ovvero insieme agli adulti. Migranti. La Commissione Ue lancia il nuovo sistema di rimpatri Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2025 Via libera agli hub in Paesi terzi: “Ma non è modello Albania”. Un sistema europeo comune per i rimpatri e la possibilità di creare hub in Paesi terzi sulla base di accordi. Sono queste le due principali novità che la Commissione Europea vuole introdurre, con la proposta di regolamento che ha l’obiettivo di arrivare a procedure di rimpatrio più rapide, semplici ed efficaci in tutta l’Ue. Il commissario Ue alla Migrazione, Magnus Brunner, in conferenza stampa a Strasburgo, ha però tenuto a precisare che gli hub citati nel regolamento sono “completamente diversi” dal “modello Ruanda” e dal “modello italo-albanese”: in questo caso, spiega, riguarderebbero persone che sono “illegalmente sul territorio dell’Ue”, che si sono già viste rifiutare la domanda di asilo e avranno ricevuto un “ordine di rimpatrio”, cosa che presuppone “diversi gradi di giudizio”. In pratica, attualmente il protocollo Italia-Albania prevede il trasferimento al centro di Gjader con migranti appena soccorsi nel Mediterraneo, richiedenti asilo provenienti da Paesi considerati sicuri. Trattenimenti che hanno ricevuto diversi stop da parte della magistratura italiana e sul punto il governo Meloni attende la pronuncia della Corte di giustizia europea sui criteri di definizione dei Paesi sicuri. Ma la proposta della Commissione Ue, invece, riguarda altre categorie di migranti: quelli già presenti sul territorio italiano ed europeo a cui è già stato negato il permesso di soggiorno o l’asilo. La Commissione, infatti, vuole introdurre la possibilità legale di deportare in un Paese terzo le persone che soggiornano illegalmente nell’Ue e che hanno già ricevuto una decisione di rimpatrio definitiva, sulla base di un accordo o di un’intesa conclusi bilateralmente o a livello dell’Ue. L’esecutivo usa la parola “return”, traducibile in italiano con “rimpatrio”, ma non in questo caso (il migrante sarebbe trasferito non nel suo Paese d’origine, ma in un altro Stato). L’accordo, comunque, potrà essere concluso con un Paese terzo che rispetti gli standard e i principi internazionali sui diritti umani, in conformità con il diritto internazionale, incluso il principio di non respingimento (non refoulement). Le famiglie con minori e minori non accompagnati sono esclusi e l’attuazione di questi accordi deve essere “soggetta a monitoraggio”. Pertanto l’eventuale approvazione da parte del Parlamento e del Consiglio europeo del nuovo regolamento non riattiverebbe in automatico i centri italiani in Albania. Servirebbe rivedere il protocollo con il Paese di Edi Rama o una decisione della Corte di giustizia europea a favore del governo sui Paesi sicuri. ?Altra novità nella proposta presentata dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen è l’ordine di rimpatrio europeo. La Commissione europea propone di creare un sistema europeo per rimpatriare i migranti irregolari che non hanno diritto di restare nel territorio dell’Ue, destinato a rimpiazzare i 27 sistemi nazionali attualmente in vigore. L’esecutivo propone un nuovo regolamento, con procedure comuni per l’emissione di decisioni di rimpatrio, e un ordine di rimpatrio europeo, che deve essere emesso dagli Stati membri. Il riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio dovrebbe consentire allo Stato membro di riconoscere e di far rispettare direttamente una decisione di rimpatrio emessa da un altro Stato membro senza dover avviare una nuova procedura. La riforma del sistema di rimpatri “è un tassello mancante fondamentale del Patto di migrazione e asilo. Al momento, la politica di rimpatrio dell’Ue sta fallendo. Il tasso di rimpatrio rimane molto basso, circa il 20%, le persone che hanno un ordine di rimpatrio, spesso sfuggono alle autorità. Molti si trasferiscono in un altro Stato membro e l’attuale lavoro di gruppo con 27 diversi sistemi nazionali mina anche l’efficacia dei rimpatri a livello di Unione. Quando le persone senza diritto di soggiorno rimangono nell’Ue, la credibilità dell’intera politica migratoria è compromessa”, ha detto la vicepresidente esecutiva della Commissione europea, Henna Virkkunen, nella conferenza stampa di presentazione delle nuove norme sui rimpatri. Nonostante gli hub di rimpatrio siano differenti dal “modello Albania”, come specificato dal Commissario Brunner, i parti di governo italiani esultano: “La bozza di regolamento della Commissione Europea apre alla possibilità di istituire hub per i rimpatri nei Paesi terzi con cui esistano accordi specifici. Un principio di buon senso, che rafforza la nostra strategia e dimostra che la strada tracciata dall’Italia è quella giusta. Con il Governo Meloni, l’Italia non subisce più, ma guida il cambiamento”, ha dichiarato Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario alla Giustizia. Ma sul fronte europeo non tutta la maggioranza Ursula appare totalmente d’accordo. Il gruppo dei Socialisti europei si dice “pronto a lavorare di nuovo in modo costruttivo sul ‘Nuovo approccio comune sui rimpatri” ma S&D spiega in una nota che gli hub di rimpatrio non possono far parte della visione Ue sui rimpatri. “Le cosiddette soluzioni innovative che sono state respinte in passato non sono la soluzione. Sarebbe un errore per l’Ue guardare al piano Regno Unito-Ruanda, o all’accordo Italia-Albania per trovare ispirazione. Sono legalmente discutibili e sprecano enormi quantità di denaro dei contribuenti”, sottolineano i socialisti. E già c’è chi pensa ad alleanze alternative con i Patrioti e i sovranisti per arrivare all’approvazione del regolamento: “Questo è un tema su cui non ci possono essere divisioni ideologiche. Se non dovesse reggere la maggioranza che ha portato all’elezione della von der Leyen vuol dire che su questo tema potranno unirsi tranquillamente chi ritiene che la salvaguarda dei confini e la sicurezza delle nostre città venga prima di qualsiasi battaglia ideologica”, ha dichiarato il capodelegazione di Forza Italia al Parlamento europeo, Fulvio Martusciello. Migranti. “Più detenzione e meno diritti. La Commissione ha tradito ogni promessa” di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 marzo 2025 L’esperta Silvia Carta, advocacy officer della rete europea Picum, analizza la proposta di regolamento sui rimpatri: “Aumenta i tempi di detenzione nei Cpr e istituisce nuove misure restrittive contro persone che non hanno modo di regolarizzarsi”. Silvia Carta è esperta di politiche europee su migrazione e asilo. È responsabile dell’advocacy per Picum, rete di organizzazioni “che lavorano per garantire giustizia sociale e diritti umani ai migranti privi di documenti” basata a Bruxelles. Cosa colpisce della proposta di regolamento sui rimpatri? In primis che la Commissione ha fatto il contrario di quello che ha aveva promesso annunciando questa revisione, ovvero uno strumento legislativo bilanciato. Per anni ha detto che i rimpatri volontari, cioè le partenze volontarie di persone che hanno ricevuto un ordine di espulsione, andavano preferiti a quelli forzati per ragioni umanitarie e di efficacia. Ora invece questa relazione viene ribaltata e le deportazioni coatte diventano la regola. Poi c’è il tema della detenzione amministrativa, che non viene più concepita come ultima ipotesi. I tempi massimi sono prolungati da 18 a 24 mesi. Quando scadono la persona, evidentemente non rimpatriabile, non può contare su misure di assistenza sociale o per la regolarizzazione. Al contrario sarà colpita da nuove misure restrittive: braccialetto elettronico, obbligo di residenza o di presentazione alle autorità. Terzo punto: la Commissione impone agli Stati membri di limitare, attraverso vari strumenti, la libertà di movimento degli “irregolari” e a questi di collaborare al rimpatrio. In caso contrario sono previste misure punitive. Nell’introduzione al testo la Commissione scrive che non espellere i migranti irregolari mina il sistema d’asilo ed è ingiusto verso gli stranieri che rispettano le regole. È così? Per nulla. Questo modo di presentare la questione nega la realtà. Forse un simile discorso potrebbe essere valido in un mondo parallelo in cui esistono possibilità effettive di accedere a visti per cercare lavoro, permessi per ricongiungimento familiare e strumenti di regolarizzazione. Non è quello che accade oggi in Europa, dove le persone restano senza documenti per anni, nonostante magari abbiano una famiglia e un lavoro. Questi cittadini stranieri non andrebbero deportati ma regolarizzati. Una norma apre ai “centri di rimpatrio” in paesi terzi. Permetterebbe di usare i centri in Albania come Cpr? Sì, anche se bisognerebbe prima modificarne la destinazione d’uso perché al momento è riservata alle procedure di asilo accelerate che non sono toccate da questo strumento legislativo. Nei “return hub” fuori dai confini europei che prevede il nuovo regolamento potranno finire tutte le persone in situazione di irregolarità amministrativa. Unica eccezione sono i minori, accompagnati o meno. L’esclusione non riguarda nessuna altra categoria, neanche i soggetti con vulnerabilità. Almeno nella proposta attuale. In Italia la detenzione dei minori è vietata dalla legge Zampa. La previsione del regolamento è una novità a livello europeo? No, non c’è mai stato un divieto delle istituzioni comunitarie alla detenzione amministrativa dei minori. È già possibile con le attuali normative. Infatti alcuni Stati la praticano, mentre quelli che hanno standard più alti potranno mantenerli, se vogliono. Per gli under 18 l’unico obbligo previsto dalle normative Ue, che dipende anche dalle convenzioni internazionali sottoscritte dai paesi membri, è un maggiore livello di garanzie. Ma spesso queste valgono sul piano teorico che concreto. Quali passaggi deve affrontare la proposta prima di entrare in vigore? C’è tutta la procedura legislativa da seguire. Il consiglio degli Stati membri e il parlamento europeo devono adottare una loro posizione e un mandato negoziale. Servirà tempo. Anche se il parlamento si è spostato a destra, in questi casi richiede sempre degli studi alternativi sugli impatti delle modifiche legislative. A maggior ragione stavolta, visto che la Commissione non ne ha realizzato nessuno. Le tempistiche sono abbastanza lunghe. Rispetto al Patto immigrazione e asilo ci sono voluti quattro anni per concludere una discussione che comunque è stata molto sommaria. Quello era un pacchetto di norme, questo è un solo regolamento ma è lungo e ha molte implicazioni. Per gli Stati ci sono diversi elementi problematici, come l’ordine di rimpatrio europeo o l’armonizzazione e il riconoscimento reciproco delle decisioni nazionali. Migranti. L’Europa e l’ossessione dei rimpatri di Maurizio Ambrosini Avvenire, 12 marzo 2025 Un’Europa frastornata e impaurita, stretta tra l’aggressione militare di Putin e l’aggressione economica di Trump, tenta di ritrovare compattezza identificando un nemico comune da contrastare: gli immigrati irregolari. Anche a costo di arretrare nella garanzia dei diritti umani fondamentali, di cui rappresentava nel mondo la paladina più impegnata. Quella dei rimpatri è una vera ossessione per Ursula von der Leyen e per la Commissione europea. Nella versione inglese del Nuovo Patto su Immigrazione e Asilo il termine “ritorni” già ricorreva più di 90 volte, e l’incremento dei rimpatri, volontari o forzati, era presentato come una priorità irrinunciabile. In effetti nel 2023 nell’Unione Europea su 430.560 decreti di allontanamento nei confronti di immigrati irregolari, soltanto un quarto circa si è tradotto in ritorni. Ancora più magro il bilancio italiano: 4.751 rimpatri, pari al 16,8% dei provvedimenti di espulsione. Ovviamente, gli immigrati sanzionati sono soltanto una frazione del totale degli immigrati irregolari: spesso richiedenti asilo respinti, i più facili da individuare e colpire. Tra i malcapitati, quelli che si riesce a espellere sono poi quelli che si arrendono, che non reggono più una vita di paura e di nascondimento, che vengono da Paesi troppo deboli per rifiutarsi di riammetterli, nonché abbastanza vicini da non comportare troppi costi per rimandarli indietro debitamente scortati dalle forze dell’ordine. Mai giunta notizia, per esempio, di espulsioni riuscite verso la Cina. E a parte i costi umani e sociali di questi allontanamenti, che Trump chiamerebbe senza fronzoli “deportazioni”, non è neppure detto che gli espulsi rinuncino a tornare in Europa, dove hanno vissuto e lavorato magari per anni. Non paga dell’esternalizzazione dei confini, che previene l’arrivo di potenziali migranti e richiedenti asilo scaricando l’onere di fermarli sui Paesi di transito, con l’implicito impegno a evitare di guardare ai mezzi che adottano, la Commissione Ue ha deciso di imprimere una sterzata sovranista anche al dossier rimpatri. Le istanze italiane e l’accordo con l’Albania c’entrano poco. Già il nuovo Patto Ue parlava di armonizzazione delle regole vigenti nei diversi Paesi, di trattenimento alle frontiere (l’Asgi, Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione, aveva parlato di “finzione giuridica di non ingresso”), di procedure accelerate di esame delle domande di asilo per chi proviene da Paesi definiti come “sicuri” (per l’Asgi: discriminazione per nazionalità). Già in quel documento si introduceva la possibilità di inviare gli espulsi in Paesi terzi, con cui avessero però “legami significativi”. Ora si parla di “hub di rimpatrio” extraterritoriali. I centri albanesi, destinati a richiedenti asilo in arrivo la cui domanda deve ancora essere esaminata, sono un’idea deprecabile, costosa e fin qui fallimentare, ma non hanno attinenza con questa ipotesi, che semmai andrebbe paragonata con le deportazioni trumpiane verso la base di Guantanamo. Ora l’Unione Europea si appresta a varare una direttiva per dare attuazione alla volontà di incrementare i rimpatri: un sistema di regole condivise, vincolanti e (forse) operative, per riuscire negli intendimenti a scacciare un po’ di umanità dichiarata in esubero. Nello scenario plumbeo che incombe sul nostro continente, per serrare i ranghi l’Ue ha individuato in chi arriva dal Sud del mondo (non nei rifugiati ucraini, quattro milioni) “quel catalizzatore d’odio che emerge in condizioni di incertezza sociale”, come ha notato Francesca Paci su La Stampa. Sperando di placare l’avanzata sovranista, ne sposa la visione e le ricette. Proprio quando fra l’altro operatori economici e famiglie richiedono più manodopera, e quindi più ingressi. ? il paradosso illiberale che probabilmente accompagnerà negli anni a venire il malinconico tramonto degli ideali europei: vogliamo escludere o cacciare gli immigrati, ma non possiamo evitare di averne bisogno. L’illusione del riarmo Ue di Paolo Lambruschi Avvenire, 12 marzo 2025 L’Unione Europea è nata dalla voglia di pace di un continente che il secolo scorso era stato semidistrutto da due sanguinose guerre mondiali nate dallo scontro dei nazionalismi e delle ideologie totalitarie. È bene ribadirlo oggi che il disegno europeo sta vivendo una crisi forte a causa della risurrezione dei nazionalismi e di movimenti pericolosamente estremisti e del disinteresse palese dell’amministrazione Usa. E ora che si intende rilanciare l’Ue sul riarmo e la crescita dell’industria bellica quali “motore economico”, come affermato dalla presidente della Commissione Von der Leyen, la quale invita al realismo e alla fine delle illusioni, e dai leader francese e tedesco che costituiscono la dorsale dell’Unione. Ed è ancora sul riarmo che si misura il primo riavvicinamento concreto della Gran Bretagna ai 27 dopo la Brexit. Ma questa via principale, con tutta franchezza, non convince. Il disegno rischia anzi di far deragliare definitivamente l’Unione europea perché non affronta i suoi problemi. Il realismo dice altro. Secondo Romano Prodi, che della Commissione è stato presidente, la somma della spesa militare dei 27 singoli Stati nella difesa equivale oggi a quella cinese. L’Unione è, però, un nano politico nello scacchiere mondiale, proprio perché non ha una politica estera comune. Quindi occorre spendere meglio, senza aumentare i singoli budget e procedere verso un disegno europeo comune. Aumentare il bilancio delle spese militari equivarrebbe oggi a consegnare a 27 esecutivi diversi più droni, aerei, carri armati e ordigni. Come li userebbero? Paradossalmente il riarmo Ue, ad oggi, rafforzerebbe la logica trumpiana. L’Ue è infatti il primo importatore al mondo di armi statunitensi, secondo l’ultimo rapporto del Sipri, istituto internazionale indipendente. Quindi gli Usa, che vorrebbero indebolire la Nato rinunciando alla difesa della Ue dopo 80 anni di alleanza, ci guadagnerebbero. Su queste colonne tempo fa Massimo Cacciari (in una serie di interviste sul futuro dell’Europa, ndr) invitava l’Ue a dotarsi di truppe europee con funzione difensiva e non offensiva, ma soprattutto in funzione di peacekeeping, cioè della interposizione tra belligeranti. Ad esempio in Ucraina. L’aumento del budget militare significa poi tagliare la spesa sociale, sanitaria e per l’istruzione. Altro che fine delle illusioni, verrebbe messa in gioco la qualità della vita quotidiana degli europei. Un incremento della spesa militare sarebbe inutile se prima non migliorasse la governance europea eliminando ad esempio il metodo paralizzante delle decisioni all’unanimità, come rilevano tutti i rapporti e le analisi sull’organismo comunitario. La stessa citazione di Von der Leyen, ieri, delle parole di Alcide de Gasperi sulla difesa comune pronunciate nel 1951 assume un senso diverso se letta in chiave europeista. Per De Gasperi se si procede “senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale”. Parole attualissime. Allora si avvii il processo politico, chiedeva il cardinale Zuppi, presidente della Cei, lunedì scorso, proponendo di “investire nel cantiere dell’Europa che non sia un insieme di istituzioni lontane, ma madre della speranza di un futuro umano che non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra”. Non è tardi per invertire la rotta. Un aumento del budget della difesa si finanzierebbe con il taglio alla cooperazione allo sviluppo che i governi stanno già riducendo sull’onda della pesantissima sforbiciata trumpiana ai fondi Usaid. Occorre invece che - come avviene nel Ministero degli Esteri italiano - politica estera e politica di cooperazione europea camminino insieme. Si sta aprendo un grande spazio: con il taglio di Usaid è venuto a mancare il 40% degli aiuti umanitari e per lo sviluppo. Spazio che può essere occupato dall’Unione europea, incentivando le politiche di cooperazione, lo sviluppo, la diplomazia senza agende coperte che miri alla condivisione e non alla predazione delle risorse. Non servono armi per esportare la via europea alla pace.