I Garanti territoriali incontrano Nordio: “Serve un sistema penitenziario più umano” di Davide Varì Il Dubbio, 11 marzo 2025 Oggi pomeriggio, alle ore 17.30, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, incontrerà la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà in via Arenula. “Ringrazio il ministro Nordio che riceverà me e una delegazione di Garanti - dichiara Samuele Ciambriello, portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti - consegneremo a lui il nostro documento- appello con le richieste che riteniamo debbano essere urgentemente messe in atto. Lo sguardo sul mondo penitenziario di noi Garanti è una fotografia in bianco e nero. Chiediamo che vengano introdotte buone prassi, miglioramenti che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria può attuare sin da subito”. Ciambriello ribadisce che “l’emergenza carcere merita un’attenzione costante e concreta da parte della politica e delle istituzioni: il carcere è una polveriera. Per noi è chiaro - conclude - che serve costruire un sistema penitenziario che sia nuovo nel trattamento, nell’affettività, nella concessione delle misure alternative, nella depenalizzazione dei reati minori, nell’umanizzazione della pena”. L’incontro di oggi pomeriggio è stato sollecitato proprio dai Garanti territoriali lunedì 3 marzo, in occasione della giornata di protesta nazionale. Quando i Garanti territoriali, magistrati, avvocati e realtà associative sono scesi in piazza per rompere il “silenzio assordante” su carceri sovraffollati e diritti calpestati. I numeri del sistema penitenziario sono drammatici: 61.852 detenuti stipati in 192 istituti, con un surplus di 15mila persone rispetto alla capienza regolamentare. Celle progettate per ospitare due individui ne accolgono quattro, in spazi dove l’aria è satura di tensione, violenza e disperazione. L’Appello della Conferenza nazionale dei garanti territoriali contiene l’elenco degli interventi urgenti per evitare che le carceri italiane sprofondino in una crisi umanitaria senza ritorno. Il manifesto, articolato in cinque punti cardine, chiede al governo e alle istituzioni di agire subito, a partire dalla riduzione del sovraffollamento attraverso misure deflattive per i detenuti con pene inferiori a un anno - 8mila persone - molte delle quali senza reati considerati “ostativi” alla liberazione. A questi si aggiunge la proposta di introdurre uno sconto di pena supplementare di 15 giorni ogni semestre per accelerare le liberazioni anticipate e decongestionare gli istituti. Chiedono di ampliare l’accesso alle misure alternative, come l’affidamento in prova o i lavori socialmente utili, per i 19mila detenuti che stanno scontando pene residue sotto i tre anni. I garanti sollecitano anche una riorganizzazione del circuito della media sicurezza. Tra le priorità c’è il diritto all’affettività, un tema su cui la politica stenta a pronunciarsi nonostante la storica sentenza n. 10 del 2024 della Consulta, che ha sancito il diritto dei detenuti a colloqui intimi e riservati, senza controllo visivo. Oltre all’eliminazione di circolari che limitano l’acquisto di generi alimentari e oggetti personali, spesso disponibili solo a prezzi esorbitanti nel sopravvitto. Zuppi (Cei): “Forme di amnistia o di condono della pena, per restituire speranza ai detenuti” di Giacomo Gambassi Avvenire, 11 marzo 2025 Il cardinale presidente apre i lavori del Consiglio permanente della Cei: “Rinnoviamo la richiesta di iniziative che restituiscano speranza” ai detenuti. Come nuove “forme di amnistia o di condono della pena”, ma anche come “percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un reale impegno nell’osservanza delle leggi”. Il cardinale Matteo Zuppi si rivolge a chi ha ruoli di responsabilità. E, parlando dei gesti del Giubileo perché “questa opportunità non si riduca a una successione di celebrazioni esteriori”, riprende l’invito di papa Francesco nella bolla di indizione dell’Anno Santo a compiere azioni politiche e sociali a favore di chi vive dietro le sbarre, soprattutto in penitenziari come quelli italiani segnati dal sovraffollamento e diventati teatri di suicidi. Un appello che Zuppi lancia nella sua introduzione ai lavori del Consiglio permanente della Cei che si tiene da oggi a mercoledì a Roma. Nel suo intervento il cardinale presidente si sofferma sul “cantiere dell’Europa”, come lo definisce, sull’impegno per la pace, sul Cammino sinodale della Chiesa italiana, ma anche sul “male dei nazionalismi”, sulla crisi degli organismi internazionali, sul “linguaggio aggressivo” della politica, sull’urgenza di avere “uomini saggi”. Ma il primo pensiero, in apertura dell’incontro, va a papa Francesco ricoverato dal 14 febbraio al Policlinico Gemelli. “Vogliamo far arrivare al Papa l’attaccamento e la preghiera dell’intera Chiesa in Italia, perché senta forte la nostra vicinanza filiale insieme con la consolazione del Padre buono, che sempre si prende cura dei suoi figli, soprattutto nei momenti più difficili della vita”, dice Zuppi. E aggiunge: “In questa condizione di fragilità la sua figura diventa ancor di più motivo di comunione”. Poi sottolinea: “Il popolo cristiano lo ama e siamo colpiti dal fatto che pure non credenti e fedeli di altre religioni si uniscano all’invocazione per la sua salute, considerandolo un apostolo di pace e di spiritualità”. Tema a cui Zuppi dedica ampio spazio nell’introduzione ai lavori è quello della pace. Il cardinale arcivescovo di Bologna ribadisce che c’è “un popolo” che “non solo prega per la pace e la chiede con forza, ma anche pensa al post-guerra: se vuoi la pace, prepara la pace! È questo il vero investimento di cui oggi abbiamo bisogno”. Il tutto mentre “il mondo si trova immerso nella tragedia della guerra”. E spiega: “Trepidiamo per la situazione in Medio Oriente e temiamo per la fragile tregua su Gaza. Bisogna che tutti rispettino gli accordi”. Inoltre, “ci sono guerre all’interno di un popolo, come in Sudan, nel nord del Congo e, nelle ultime ore, in Siria, paesi - tra l’altro - in cui l’impegno ecclesiale italiano è importante”. Poi c’è il fronte dell’Ucraina, conflitto che vede Zuppi inviato del Papa cui ha affidato la sua missione di pace. “Guardiamo con attenzione e speranza al possibile dialogo tra Ucraina e Russia, mentre auspichiamo che questo possa segnare una nuova stagione per tutti quei Paesi - tra cui Stati Uniti, Europa e Cina - che, a vario titolo, sono coinvolti nella ricerca della pace. Finalmente si muovono passi per la pace”. Quella del presidente della Cei è un’apertura di credito. Anche se aggiunge: “Il linguaggio, quello internazionale e quello della comunicazione, è divenuto molto duro, mirando a colpire o screditare più che a creare le basi del dialogo. Parole come armi e parole senza o con poca verità”. Per questo, afferma Zuppi, “la via della pace è sempre quella del dialogo, che oggi assume anche i connotati del multilateralismo”. Come a dire: non può essere solo un’intesa fra Stati Uniti e Russia a determinare le sorti di un Paese aggredito o, addirittura, quelle di gran parte del mondo. E il cardinale dice di apprezzare “lo sforzo del Governo italiano nel suo intento di connettere la crescita di responsabilità europea al dialogo intra-occidentale per la ricerca di una pace giusta e duratura e l’indispensabile visione multilaterale nella soluzione dei conflitti”. Compito della comunità ecclesiale, chiarisce il cardinale, è promuovere una cultura di fraternità. “La Chiesa, tra la preghiera, la vita comunitaria e la solidarietà” intende formare “uomini e donne di pace” che rappresentano “vere risorse per la società, segnata da solitudine, competizione, conflittualità”. ?Altro capitolo che sta a cuore a Zuppi è l’Europa. “Dobbiamo investire nel cantiere dell’Europa che non sia un insieme di istituzioni lontane”, ma una “madre della speranza di un futuro umano” che “non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra, per aiutare i cristiani e i non-cristiani a mantenere vivo il desiderio di una convivenza pacifica, per offrire spazi di dialogo nella verità e nella carità”. Insomma, un’Europa che non punta soltanto sul riarmo, come invece viene dichiarato in questi giorni. E il presidente della Cei rilancia una “Camaldoli europea” come risposta ai nazionalismi che sono “in contraddizione con il Vangelo”, che vestono “nuovi panni”, che soffiano “in tante regioni”, che dettano “politiche”, che indicano “nemici”. Un “demone” che “non è amore per la patria, ma chiusura miope ed egoistica”. In quest’ottica il cardinale valuta positivamente il nuovo protagonismo laicale scaturito dalla Settimana Sociale di Trieste dello scorso luglio: “Mi pare che, nei nostri ambienti, specie tra i giovani, ci sia voglia di dare un contributo in linea con il Vangelo, la nostra storia, il pensiero sociale della Chiesa. È il momento”. C’è, poi, il Cammino sinodale in Italia che sta compiendo i passi conclusivi. I prossimi sono la seconda Assemblea sinodale dal 31 marzo al 3 aprile a Roma; e l’Assemblea generale dei vescovi italiani a maggio, dal 26 al 29 maggio, dove sarà presentato il Documento finale. È “un lavoro corale” che “ci sta insegnando anzitutto un metodo ecclesiale, fatto di condivisione, partecipazione, pazienza e visione profetica”, afferma Zuppi. Ed è anche una via nuova rispetto a “un mondo che cerca facili e rapide soluzioni e che tende a delegare ad un singolo le scelte che ricadono su tutti”, un mondo “che ha come registro l’ignorante e rozza polarizzazione, l’esibizione della forza come metodo per risolvere i problemi”. Invece, avverte il cardinale presidente, “il Cammino sinodale sta raccontando una possibilità diversa: quella di leggere e capire la realtà e di decidere insieme, nelle varie ma complementari responsabilità, ciò che è meglio per il futuro di tutti e che è chiesto a tutti”. E intanto qui la gente continua a uccidersi di Alex Frongia bandieragialla.it, 11 marzo 2025 Dopo gli 89 suicidi dell’anno passato, il Governo risponde con l’aumento delle unità di Polizia penitenziaria: sicuramente si avrà una maggiore presenza del personale nelle sezioni detentive, ma senza provare a incidere efficacemente su tutte le problematiche strutturali che portano a un numero di suicidi sempre più alto ogni anno nelle galere italiane. Se ci fossero 89 suicidi all’anno in una cittadina di 60.000 persone, la risposta del governo sarebbe aumentare il numero delle forze dell’ordine oppure cercare di capire le motivazioni che portano le persone a compiere questo gesto estremo? Lo stesso Governo invece risponde con un taglio, questa volta al cuore della sempre più piccola speranza di noi detenuti di uscire indenni psicologicamente dalla detenzione, con tutte le problematiche ci coinvolgono pesantemente nella vita ristretta. Il taglio colpisce quasi la totalità delle figure professionali previste dall’art. 80 dell’Ordinamento Penitenziario, ovvero psicologi, criminologi ed esperti nella cura della psiche della persona. Qui alla Dozza queste figure erano un fiore all’occhiello, molto presenti grazie ai colloqui con i detenuti, sempre a cadenza mensile. Anche in orari prolungati, non era strano vederli sui piani alle ore 19 (orario in cui, nella maggior parte delle altre carceri, “la galera è bella che finita”). La loro figura era ed è molto importante per la prevenzione, per il messaggio che trasmettevano: ti facevano capire che a qualcuno interessa davvero la tua condizione di salute mentale, che non sei recluso solamente per scontare la tua pena. Inoltre, la loro figura cercava di mettere al centro del percorso intrapreso l’introspezione, il guardarti dentro davvero, cosa che può aiutare a capire il perché nella vita tu abbia commesso degli errori, e come potresti evitare di ricaderci di nuovo. A mio avviso in Italia, in questo dato momento storico, si parla di tutto e anche di cose molto importanti, vedi le varie guerre in corso. Ma si parla dei vari argomenti solamente per poche settimane, poi pronti-partenza-via a cavalcare una nuova onda, forse più alta, forse più bella. Si sentono spesso notizie di un nuovo suicidio, dell’ennesimo suicidio nelle carceri. Ma nemmeno l’ennesimo suicidio ha fatto sì che un direttore qualsiasi aumentasse nel proprio istituto il numero di chiamate e di colloqui con i familiari o che mantenesse figure importanti come quelle degli esperti sopracitati. La triste realtà dei fatti è che, analizzando a fondo, probabilmente, a chi di dovere, di noi detenuti in realtà non importa niente. Nelle Regioni più ricche ci sono più stranieri in prigione di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 11 marzo 2025 A un alto reddito pro-capite sul territorio corrisponde un alto tasso di popolazione detenuta non italiana. L’analisi dei dati sulla distribuzione regionale dei detenuti stranieri sul totale della popolazione reclusa conferma e consolida la corrispondenza pressoché univoca e lineare tra il livello di reddito pro capite dei territori considerati e il tasso di detenzione degli stranieri. È quanto emerge incrociando gli ultimi dati sui redditi Istat (2023) e i dati del ministero della Giustizia. Tale conferma risulta immediatamente evidente dal confronto delle due mappe tematiche realizzate in base alla distribuzione del reddito pro capite e alla percentuale di detenuti stranieri per regione che mostrano come in tutti i territori con un redito pro capite superiore alla media nazionale (di circa 30 mila euro l’anno nel 2023) vi sia anche un tasso di detenuti stranieri superiore alla media nazionale del 31,6%. Bisogna inoltre sottolineare che la corrispondenza tra redito pro capite e detenuti stranieri risulta particolarmente più intensa rispetto a quella che sarebbe logica e scontata tra incidenza di stranieri sulla popolazione residente e percentuali di detenuti stranieri. In sostanza, se è vero che gli istituti di pena sono sempre più uno strumento di separazione tra fasce deboli e marginali della popolazione e il resto del corpo sociale, sembra che lo sia in maniera decisamente più evidente per gli stranieri presenti sul territorio. Questo fenomeno e questa corrispondenza assumono, in alcuni casi, una conformazione piuttosto significativa. In questo senso l’esempio più evidente è quello del Trentino alto Adige che, pur presentando un’incidenza di stranieri inferiore a Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Lazio, è la prima invece sia per redito medio pro capite sia per tasso di detenzione di stranieri. D’altro canto il Lazio, che si posiziona al terzo posto tra le regioni con incidenze elevate di stranieri residenti sulla popolazione, si colloca nella decima posizione sia per reddito pro capite che per percentuale di stranieri detenuti. Passando oltre e nelle valutazioni più specifiche su dimensioni e caratteristiche della popolazione straniera detenuta, alla data del 28 febbraio 2025 le presenze negli istituti di pena in Italia hanno raggiunto la cifra di 19.647 unità, 608 in più rispetto alla stessa data dello scorso anno per un incremento del 3,2% che risulta superiore alla variazione del 2,0% di tutta la popolazione detenuta; la loro incidenza sull’intero insieme delle persone detenute è del 31,6%. La situazione nel Lazio - Nel Lazio i detenuti stranieri presenti sono 2.431 corrispondenti al 36,3% della intera popolazione detenuta. Risultano in diminuzione di poco più di cento unità rispetto a fine febbraio 2023. Nella nostra regione l’incidenza dei detenuti stranieri si conferma stabilmente superiore alla media nazionale. Il Lazio, comunque, non figura tra le regioni con le maggiori incidenze di detenuti stranieri. Le concentrazioni più elevate si riscontrano in tutte le regioni nel Nord Italia e in particolare in Trentino Alto Adige (59,6%), Valle d’Aosta (58,9%) Liguria (52,7%) Veneto (51,8%), Emilia Romagna (51,0%) che sono anche le regioni in cui gli stranieri sono la maggioranza della popolazione detenuta. Per quanto riguarda in particolare la nostra Regione sono piuttosto importanti i dati e le differenze che si verificano nei singoli istituti di pena. Infatti le percentuali sono decisamente diverse e le situazioni di Rieti, Regina Coeli e Civitavecchia dove i detenuti stranieri sono poco più o poco meno della metà di tutti i presenti. Un altro importante e aspetto riguarda la posizione giuridica e le pene da scontare dei stranieri in carcere. Attualmente nel Lazio i detenuti stranieri in attesa di giudizio sul totale sono circa uno su tre (33,2%)% a fronte di un’incidenza di italiani, che si trovano nella stessa condizione, del 28,3%. In tutta Italia le incidenze delle persone in attesa di giudizio sono rispettivamente del 28,0% per gli stranieri e del 22,8% per gli italiani. Oltre a presentare percentuali maggiori di detenuti in attesa di giudizio, sono in proporzione superiori agli italiani i detenuti stranieri che devono scontare pene inferiori ai cinque anni: nel Lazio 38% e in tutta Italia 40%. Gli italiani in tali condizioni sono il 32% nel Lazio 32% e il 29% in tutta Italia. Si confermano anche le differenze di età: l’età media dei detenuti stranieri è significativamente inferiore rispetto a quella degli italiani (37,2 vs. 45,2 in tutta Italia, 38,7 vs. 45,3 nel Lazio). Bisogna anche sottolineare che i detenuti stranieri presenti con meno di 35 anni sono il 45% in Italia e il 38% nel Lazio. Si conferma, quindi, quel quadro che avevamo già delineato in passato di una popolazione straniera ristretta composta soprattutto da giovani in attesa di giudizio o con condanne relativamente lievi. 100 nazionalità diverse nella nostra regione - Infine, guardando alle nazionalità, complessivamente nel Lazio sono presenti detenuti appartenenti a 100 nazionalità diverse, ma gli appartenenti alle prime dieci più numerose costituiscono il quasi due terzi: il 65,3%. In tutta Italia le nazionalità presenti sono 145 e i detenuti delle prime dieci sono il 72,4%. Nel Lazio i detenuti di nazionalità rumena costituiscono il 18,8% della popolazione detenuta sono invece il 10,8% a livello nazionale. Al secondo posto per numerosità i cittadini marocchini (sono il 9,9% sul totale nel Lazio e ma il 21,7% in tutta Italia e costituiscono la prima nazionalità per numero di presenti sull’intero insieme degli istituti penitenziari italiani) al terzo posto i cittadini albanesi che fanno registrare una percentuale dell’8,4% nel Lazio mentre in Italia costituiscono il 9,8%. Donne in carcere, la minoranza invisibile. Bernardini: “Anche 14 bambini tra i detenuti” di Valentina Marsella ilgiornalepopolare.it, 11 marzo 2025 La presidente di “Nessuno tocchi Caino” parla delle madri recluse e della chiusura dell’Icam di Lauro, l’unico istituto del Mezzogiorno. “In questo momento abbiamo 14 donne detenute con 14 bambini e io dico sempre che bisognerebbe contare, nel numero totale delle persone in carcere anche questi 14 piccoli che non hanno alcuna colpa”: lo ha detto la presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” Rita Bernardini, parlando con i giornalisti a margine di un incontro a Perugia. Sono considerate la “minoranza invisibile del sistema penitenziario, con il rischio di diritti negati e percorsi di reinserimento inadeguati” le 2.729 detenute nelle carceri italiani, 14 delle quali madri con altrettanti figli al seguito. Recluse in istituti dove la detenzione “è concepita al maschile, in strutture maschili con sezione poi a parte per le donne”. Un quadro delineato a Perugia dove in occasione della Giornata internazionale della donna si è svolto l’incontro “Il carcere al femminile” promosso dal Consiglio nazionale forense, con la sua Fondazione dell’avvocatura italiana e con il quotidiano Il Dubbio. “Un’altra cosa grave che è successa, e che ho potuto verificare alla Giudecca - ha proseguito Bernardini - è che a Lauro è stato chiuso un Icam, un istituto a custodia attenuata per detenute madri e, li a Venezia, abbiamo trovato una donna nigeriana con la sua bambina di cinque anni e mezzo che ha vissuto tutta la sua vita in carcere. Però la mamma affermava che a Lauro la figlia aveva molte possibilità perché le facevano frequentare i bambini delle altre scuole, andava all’asilo, alle feste con i suoi coetanei, addirittura poteva frequentare la piscina, la danza che a lei piaceva tantissimo e invece arrivata a Venezia queste possibilità non ci sono più”. Una storia raccontata da Bernardini che si ricollega alla recente scelta di chiudere l’Icam di Lauro, l’unico Istituto a custodia attenuata per madri detenute del Mezzogiorno aperto nel 2016, tra l’altro, con un grosso finanziamento di circa un milione di euro. Era stato realizzato per ristrutturare quello che in precedenza era l’Icatt (Istituto a custodia attenuta per il trattamento delle tossicodipendenze). “Una chiusura che appare assolutamente dannosa”, aveva tuonato Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, dopo la riunione con la provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria campana, Lucia Castellano. Riunione in cui aveva sollevato alcune criticità delle carceri regionali, e soprattutto perplessità sulla chiusura dell’Icam di Lauro. Il rischio è, che d’ora in poi, “da Roma in giù alle detenute madri sarà precluso il rispetto del principio della territorialità della pena - aveva fatto notare il garante dei detenuti della Campania - non potendo godere del loro diritto alla difesa, al reinserimento nel territorio, nonché il diritto a conservare relazioni dirette con i propri familiari. I tre bambini oggi presenti in Istituto interromperanno il loro percorso scolastico in corso. Ma allora perché non aprire una sezione loro dedicata nella C.C. di Avellino, anziché destinarle negli Istituti di Milano e Venezia? Oppure, perché non chiudere uno dei tre piccoli Istituti per detenuti madri presenti nel nord Italia?”. È giusto ricordare che le detenute madri in Italia attualmente sono 10 di cui 3 ancora a Lauro, 3 in Veneto, 1 in Piemonte e 2 in Lombardia. La via per trasformare l’edilizia penitenziaria in architettura di Francesca Spasiano Il Dubbio, 11 marzo 2025 Dismettere la parola “edilizia” per parlare di “architettura penitenziaria” in una chiave costituzionalmente orientata. È la prima proposta emersa al termine dell’evento “Carcere al femminile” che si è tenuto sabato scorso a Perugia in occasione dell’8 marzo. L’iniziativa, promossa dal Consiglio nazionale forense (Cnf) e dalla sua Fondazione dell’Avvocatura italiana (Fai) con il quotidiano Il Dubbio, ha posto l’attenzione sui diritti delle donne detenute e sulla necessità di recuperare una prospettiva di genere anche nella dimensione penitenziaria, a partire da una architettura volta al recupero e al reinserimento sociale delle persone ristrette. In quest’ottica, il ciclo di dibattiti tra esponenti dell’avvocatura e della politica si è concluso con una “provocazione culturale” promossa dall’istituzione forense per ripensare i luoghi di detenzione a partire dalla loro definizione, soprattutto in vista dei lavori avviati dal governo per far fronte al sovraffollamento nelle carceri. Come è noto, infatti, è stato recentemente nominato un nuovo commissario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, che resterà in carica per un anno e avrà a disposizione i 250 milioni di investimento stanziati dall’esecutivo per la creazione di nuovi posti. “L’invito è che il nuovo commissario possa essere indirizzato dal governo a una visione non più di mera “edilizia” ma di architettura, come punto centrale dal quale partire per una vera riforma del sistema carcerario”, ha spiegato Vittorio Minervini, consigliere Cnf e vicepresidente Fai. “Bisogna ripensare l’architettura sia in chiave maschile che femminile, con l’obiettivo di accogliere e considerare le differenze di genere - ha aggiunto Minervini -. Più in generale, si tratta di ripartire dagli edifici, che sono costruiti in maniera del tutto inadeguata per contenere le persone che devono espiare una pena, in modo da garantire quella funzione rieducativa prevista dalla Costituzione per riconciliare l’autore del reato con se stesso e con la società”. Ad aprire i lavori della giornata, a nome del presidente del Cnf Francesco Greco, il vicepresidente Francesco Napoli, che ha dedicato un ricordo commosso a Guido Alpa, scomparso venerdì scorso. A seguire gli interventi del presidente dell’Ordine degli avvocati di Perugia, Carlo Orlando, e della sindaca Vittoria Ferdinandi, che ha ringraziato l’avvocatura per aver acceso i riflettori “sui margini dei margini” della società, ovvero le donne in carcere. Dopo il primo tavolo “tecnico”, al quale hanno preso parte Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, l’avvocata Elisabetta Brusa, componente della Commissione Carcere Ocf e l’architetta Federica Sanchez, esperta in neuroscienze applicate, la parola è passata alle rappresentanti del Cnf e dell’avvocatura locale: Francesca Palma, coordinatrice della Commissione per le persone private della libertà del Cnf, Lucia Secchi Tarugi, coordinatrice della Commissione Pari Opportunità del Cnf, Francesca Brutti, presidente del Cpo del Coa di Perugia e Francesca Pieri, coordinatrice della Commissione Progetto Donna dello stesso Ordine. Ad aprire il dibattito l’intervento di Giovanna Ollà, consigliere segretario del Cnf, che ha posto l’attenzione sul ruolo attivo dell’avvocatura istituzionale nell’interlocuzione privilegiata con la politica. Tante le testimonianze, i progetti e le proposte raccolte nel corso dei dibattiti, che sono confluiti nel panel conclusivo al quale hanno preso parte le parlamentari Susanna Donatella Campione (Fdi), Mariastella Gelmini (Noi moderati - Centro popolare), Maria Elena Boschi (Iv) e Debora Serracchiani (Pd). Il confronto politico si è focalizzato sulla norma del Ddl Sicurezza, attualmente in discussione al Senato, che prevede l’eliminazione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno. Una norma di “inciviltà”, secondo Serracchiani e Boschi, la quale ha sottolineato che a farne le spese sono soprattutto i minori. Per Gelmini non bisogna dimenticare i motivi che hanno spinto il governo a ripensare la norme, “ovvero l’evidenza di casi in cui questa misura” ha condotto “alla reiterazione di alcune fattispecie di reati”. Mentre la senatrice Campione ha sottolineato come “il dibattito sulle donne in carcere si sia incentrato in maniera sbilanciata sulle detenute madri”, trascurando il resto della popolazione carceraria femminile. Giustizia, ricomporre i conflitti di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 11 marzo 2025 Un punto di incontro è difficile ma necessario e possibile solo a condizione che si rispettino i ruoli istituzionali delle parti, evitando strumentalizzazioni volte unicamente ad ingenerare confusione. Non è certamente una buona notizia il naufragato recente incontro tra i rappresentanti della magistratura e il governo posto che le parti sono rimaste ferme sulle loro posizioni. L’auspicio, ma diciamo pure la speranza, è che quanto prima possano esservi altri confronti che abbiano la primaria finalità di rafforzare o quantomeno preservare i traguardi raggiunti dal nostro Paese in lunghi anni di impegno e battaglie sociali e giuridiche che hanno consentito di superare il retaggio culturale di una amministrazione autoritaria basata sul comando e sull’assoluta mancanza di partecipazione dei consociati ai processi della vita pubblica. E quindi giungere ad un patto per una gestione più condivisa degli interessi comuni attraverso il potenziamento degli istituti giuridici che consentono ai cittadini di avere sempre maggiore accesso alla “cosa” pubblica e alla sua gestione. La sempre maggiore tendenza a sovrapporre questioni tecnico-giuridiche a quelle politiche, espone al rischio di escludere i cittadini dal dibattito pubblico e conseguentemente alle amministrazioni statali di utilizzare lo strumento più efficace che consente agli ordinamenti democratici di sviluppare processi decisionali utili a rispondere ai bisogni della collettività. La partecipazione, d’altronde, per essere propositiva deve puntare a risultati condivisi che possono essere raggiunti soltanto con un confronto aperto piuttosto che con la mera difesa di posizioni predefinite. È evidente quindi che dibattiti come quello cui stiamo assistendo in merito al semplicisticamente declinato conflitto tra magistratura e politica non suscitano alcun interesse tra i cittadini e l’unico risultato che potrebbe conseguire è quello di minare ulteriormente il rapporto di fiducia tra gli stessi e le istituzioni. D’altra parte è piuttosto difficile per il cittadino comune comprendere problematiche che non sono chiare neanche agli esperti della materia. Nell’emblematico caso Almasri, ad esempio, vi sono opinioni contrastanti sull’operato del Ministro della giustizia che per alcuni non ha facoltà di sindacare il contenuto dei mandati di arresto della Corte penale internazionale, mentre per altri interpreti della legge di riferimento (l. 237 del 2012) è esattamente l’opposto. Ma lo stesso si potrebbe dire per la Corte d’appello di Roma criticata per aver applicato in modo restrittivo lo statuto della Corte dell’Aia e, al contempo, difesa da chi ritiene ineccepibile il provvedimento. Così è avvenuto anche per il Procuratore della Repubblica di Roma che dopo aver ricevuto la denuncia di un ex onorevole ha ritenuto di non poter fare altro che iscrivere nel registro degli indagati il Presidente del Consiglio ed importanti esponenti del suo governo. Una modalità operativa contestata da autorevoli avvocati e giuristi. E cosa pensare, infine, dell’ancora più complesso dibattito scaturito da tali contrapposizioni e cioè se il comportamento assunto dal Governo in questo caso, possa essere considerato una prova chiara della volontà di ampliare la discrezionalità del Pubblico Ministero ridimensionando, al contempo, l’intervento del giudice. Una finalità quest’ultima ben diversa da quella pubblicamente dichiarata con la riforma della separazione delle carriere. Si potrebbe continuare con altri numerosi noti casi anche del passato, ma non giungeremmo a risultati utili. Sia chiaro, non è un obiettivo facile e pur tuttavia è possibile a condizione che si rispettino i ruoli istituzionali delle parti, evitando strumentalizzazioni volte unicamente ad ingenerare confusione riconoscendo, senza ipocrisia, che un provvedimento dell’Autorità giudiziaria ha un impatto sociale del quale bisogna tener conto. E, al contempo, accettare la possibilità che si possa ricorrere alla “ragion di Stato”, sia pure nella rinnovata accezione ben diversa da quella machiavellica cinquecentesca, quando è necessaria per tutelare la integrità dello Stato e dei suoi cittadini. La “rissa” contro le toghe ricompatta gli avversari della riforma di Davide Vari Il Dubbio, 11 marzo 2025 L’attacco contro la Cassazione dopo la pronuncia sulla nave Diciotti è l’ennesimo segnale di un esecutivo che, preso dal furore iconoclasta, si scaglia contro il totem della giurisdizione. Il Governo è sull’orlo di una crisi di nervi: l’attacco contro la Cassazione dopo la pronuncia sulla nave Diciotti è l’ennesimo segnale di un esecutivo che, preso dal furore iconoclasta, si scaglia contro il totem della giurisdizione. Un nervosismo che rischia di travolgere persino la riforma della giustizia, quella chimera che (quasi) ogni governo accarezza e poi sacrifica sull’altare della propria incompetenza. Ma l’idea che la separazione delle carriere debba passare attraverso una guerra senza quartiere contro la magistratura è non solo ridicola, ma pericolosa e controproducente visto che ha un unico effetto: da un lato compattare una magistratura ben più balcanizzata di quanto voglia far apparire, e dall’altro risvegliare e rimobilitare un elettorato pro magistrati che era finito “in sonno” dopo gli scandali dell’hotel champagne. Ma al di là delle considerazioni politiciste, la giurisdizione, checché ne pensino certi amanuensi del populismo istituzionale, non è un ring in cui si misurano i muscoli, né un pollaio in cui ci si azzuffa per una manciata di grani di sovranismo. È un meccanismo di ingranaggi delicati, un gioco di equilibri, una liturgia che vive di buon senso, di limiti e di quel rispetto delle regole che ogni tanto bisognerebbe sfogliare, magari su qualche manuale giuridico invece che su un tweet infuocato. E invece no. Un’hubrys trumpiana sembra essersi impossessata del governo, un’ebbrezza da reality show in cui il popolo è chiamato ad applaudire le bordate contro il “palazzaccio” di piazza Cavour. “Giudici contro il popolo!”, “Sentenze politiche!”, “Burocrati in toga!”: il repertorio è noto, un juke-box da bar sport. Peccato che la realtà sia ben altra e che tra i compliti della Cassazione non c’è quello di assecondare le aspettative del “popolo”. Ma attenzione: se la destra si ostina a giocare la partita della riforma della giustizia alzando sempre il livello dello scontro, la sinistra non è da meno nel suo immobile compiacimento. Da anni, ormai, si pone come braccio politico della magistratura scambiando la divisione dei poteri per un abbraccio esiziale col “partito dei giudici”. E ci tocca ricordare, a maggioranza e opposizione, che la separazione delle carriere altro non è che l’esito finale e inevitabile del processo accusatorio immaginato da Giuliano Vassalli, un ministro della Giustizia che ha passato l’inferno di via Tasso, ha conosciuto la tortura nazista e che (stiano tranquilli i magistrati che hanno sfilato con la Carta alla mano), aveva un legame profondo con la nostra Costituzione. Questa riforma, insomma, non è un tecnicismo da salotto ma una necessità di sistema che ha un solo obiettivo: rafforzare i diritti dei cittadini. Come ha scritto qualche giorno fa Angelo Panebianco, per decenni la magistratura ha potuto bloccare le iniziative sgradite facendo la voce grossa, ma oggi potrebbe scoprire che questa strategia non funziona più. La compattezza della maggioranza sulla separazione delle carriere la rende la riforma più solida tra quelle proposte dal governo Meloni, ben più del premierato o dell’autonomia differenziata. Non ci sono divisioni interne, né timori elettorali a frenarla. E la sua natura rende difficile costruire un’opposizione credibile: in quasi tutta Europa è la norma, non l’eccezione. Gridare all’autoritarismo non è un’opzione praticabile. Per questo il governo deve evitare la tentazione di ridurre tutto a una lotta tra poteri, a resa dei conti. La riforma della giustizia ha bisogno di lucidità, non di guerre. Separare le carriere ma frenare sul resto: Nordio dà la linea di Errico Novi Il Dubbio, 11 marzo 2025 Oggi vertice di maggioranza a via Arenula: il ministro vuol mettere al sicuro il referendum sulla legge-chiave. Sarà una riunione difficile. Non tutti saranno d’accordo con la linea di Carlo Nordio. Ma la tensione coi magistrati non è mai stata così alta, ed è proprio per spegnere l’incendio che il guardasigilli ha convocato il vertice “informale” di oggi. Vi parteciperanno i presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, insieme con i capigruppo di tutti i partiti del centrodestra. E sarà l’occasione per chiarire che la separazione delle carriere è così importante da imporre anche qualche rinuncia, temporanea almeno, ad altri dossier. Mai l’attrito col potere giudiziario aveva raggiunto il picco di venerdì scorso, registrato con le reazioni furibonde del governo, Giorgia Meloni e Matteo Salvini in testa, alla sentenza della Cassazione sul caso Diciotti. Certo, c’era già stato, una settimana prima, lo sciopero dell’Anm. Ma a dare il senso di una tensione schizzata oltre i limiti è stata Margherita Cassano, che della Suprema corte è la presidente e che è una figura di assoluto equilibrio, non assimilabile al sindacalismo corporativo dell’Anm. Ebbene, la più alta giudice di Piazza Cavour, nel rispedire al mittente gli “insulti”, ha fatto capire, indirettamente, che l’Esecutivo, con certi attacchi alle toghe, rischia un clamoroso autogol. Nordio lo sa. Come lo ha ben compreso chi, a Palazzo Chigi, governa le sorti della giustizia: la premier Meloni, ovviamente, e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano. Tutti e tre hanno chiara la necessità di raffreddare i toni, legata non solo all’impegno assunto, a riguardo, con Cesare Parodi, presidente dell’Anm, ma anche a un rischio concreto: spingere troppo il piede sull’acceleratore della giustizia, aggiungere altri carichi da novanta alla già incandescente separazione delle carriere, può far perdere al centrodestra il referendum, inevitabile, sulla riforma costituzionale. Ecco il motivo per cui oggi Nordio, nell’incontro inizialmente in programma per la mattina e posticipato alle 18.30, chiederà un disarmo generale. Uno stop, per esempio, ai progetti come le modifiche sul trojan, la Giornata per le vittime degli errori giudiziari, l’indagine parlamentare sulla magistratura. Sarà un risultato, per Forza Italia, già portare a casa la “legge Zanettin” che limita a 45 giorni la durata ordinaria delle intercettazioni (sulla quale domani l’Aula di Montecitorio dovrebbe votare le questioni pregiudiziali). Il resto va messo un attimo da parte, per non complicare il destino delle carriere separate. Perché se, per esempio, Nordio presentasse orea un disegno di legge per vietare ai pm l’uso dei trojan nelle indagini di corruzione, si otterrebbero due effetti devastanti, per il referendum sulla riforma costituzionale. Innanzitutto, si offrirebbe all’Anm un assist per sostenere che l’Esecutivo, con il “divorzio” tra giudici e pm come con le altre riforme, vuole indebolire la pubblica accusa. E soprattutto, si insinuerebbe nell’elettorato il sospetto che l’intera azione del centrodestra sulla giustizia sia concepita per “favorire l’impunità”, e che dunque la stessa separazione delle carriere abbia questo obiettivo. Proprio come sostengono gli avversari della riforma. Nella riunione di oggi con i parlamentari della maggioranza, Nordio dovrebbe far presente che una lettura simile sarebbe immediatamente proposta dalle “controparti”: l’Anm e le sue correnti, ma anche le forze d’opposizione contrarie alle carriere separate, cioè Pd, M5S e Avs. Se si va avanti con proposte “pesanti” sulla giustizia, si rischia di non portare a casa il risultato più importante: separare i giudici dai magistrati dell’accusa, introdurre il sorteggio per i togati Csm e infliggere così il colpo definitivo al correntismo. Sarà una riunione difficile, si diceva. Perché per esempio il capogruppo di FI al Senato Maurizio Gasparri insisterà con la tesi secondo cui debbano andare avanti anche le proposte di legge ordinarie, a cominciare dalle modifiche sulle intercettazioni, come le nuove regole sui trojan e quelle sul sequestro degli smartphone. Ma se Nordio metterà sul tavolo l’analisi di cui sopra, della quale è convinto, sarà difficile, per gli interlocutori, dargli torto. Ieri a dire che “con i magistrati noi siamo sempre disponibili al dialogo” è stato Andrea Ostellari, il sottosegretario che a via Arenula rappresenta la Lega, vale a dire il partito che ha più ferocemente apostrofato i giudici della sentenza Diciotti. Non è un caso. È il segno che ai vertici dell’Esecutivo, dopo la sfuriata di venerdì scorso, si è ragionato con un attimo di calma. E si è compreso come, da una guerra senza quartiere sulla giustizia, si rischierebbe di uscire con le ossa rotte. Il ddl femminicidio? Illeggibile, e con un posto prenotato davanti alla Consulta di Michele Passione Il Dubbio, 11 marzo 2025 L’impietosa analisi dell’avvocato Michele Passione sul testo presentato dal Governo venerdì scorso, portatore di una cultura vendicativa del diritto penale. “Sono contro l’ergastolo, innanzitutto perché non riesco a immaginarlo”. Mi è tornata in mente questa frase di Pietro Ingrao (di cui quest’anno ricorre il decennale dalla morte), un politico (e tante altre cose) capace di riflettere sui temi grandi con un pensiero che scavava la superficie delle cose e andava in profondità. Forse per questo, non certo perché non cogliesse l’abominio della pena perpetua, e nemmeno perché ne ignorasse i numeri che la connotano (circa 1.900 sono gli ergastolani, cresciuti quasi del 50% dal 2006 al 2024, e soprattutto quintuplicati dal 1992, sebbene il numero annuo di omicidi sia rimasto costante), si diceva incapace di immaginare la ragione per la quale ancora valga, e sempre più, l’indecenza del raddoppio del male, e incapace di arrendersi all’idea che lo Stato si prenda la vita di un altro, replicando al male con la morte per pena. Basterebbe questo, a marcare a fuoco di ignominia la bozza del ddl governativo circolata a seguito del Consiglio dei ministri della scorsa settimana, con la quale alla vigilia dell’8 marzo, ça va sans dire, la ministra Roccella (accompagnata da tre sue colleghe e dai ministri dell’Interno e della Giustizia) ha presentato il testo che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento il reato di femminicidio. Si comincia con un’eresia: l’importante è l’ergastolo, perché “a questo non si arriva quasi mai”, mentre le tricoteuse presenti annuiscono senza ritegno, con la classica postura del modello machista che vorrebbero avversare. Allora vediamola, questa “rivoluzione culturale”: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna, o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. Seguono altre amenità (aumenti di pena per una serie di reati da codice rosso, irrigidimenti cautelari e penitenziari, audizione di vittime e parenti in caso di richieste difensive), con l’annuncio (una minaccia) di varare un Testo unico che contenga “i diritti delle donne e loro forme di negazione e tutela”. Il Codice di Hammurabi. Immancabile la chiosa del ministro Nordio, secondo cui “la figura della vittima o dei parenti viene valorizzata perché diventa a tutti gli effetti protagonista della dialettica processuale”. La Repubblica del dolore e del rancore, della vendetta. Altro che Giustizia riparativa! In disparte il ricorso ad una grammatica normativa che fa strame della indispensabile tassatività del testo (odio o discriminazione in quanto donna, repressione di diritti o libertà, o l’espressione della sua personalità), esposto alla più personale lettura del giudicante (che naturalmente verrebbe immediatamente criticato), con inevitabile rischio di eterogenesi dei fini (a voler credere alle intenzioni del Governo), il neo delitto di femminicidio prenota prima di nascere un posto nell’aula della Consulta, oggi finalmente tornata a ranghi ordinari. Non ci stanchiamo di dirlo, e i numeri lo confermano; non è la minaccia che ferma la mano dell’uomo (e della donna), ma un’educazione e un investimento in strumenti inclusivi e capaci di dare un senso all’articolo 3, comma 2, della Costituzione. Altrimenti c’è il circo, con gli animali in gabbia, e i bravi cittadini che la domenica li vanno a guardare, buttando noccioline. Perché il reato di femminicidio non sta in piedi. Parla il prof. Vittorio Manes di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 marzo 2025 “La proposta di introdurre il reato di femminicidio, certamente comprensibile nell’intento di contrastare un fenomeno odioso, suscita perplessità, non solo per come viene formulata la nuova fattispecie penale, ma perché sembra collocarsi nell’ambito del crescente utilizzo del diritto penale in chiave simbolica e quasi consumistica che va avanti da troppi anni. Da molti anni siamo di fronte a vere e proprie operazioni di marketing, spesso tese a ottenere ricadute in termini di consenso elettorale. Ci sono tutti gli elementi per definire anche il femminicidio un reato spot, non a caso è stato proposto in coincidenza con una data particolare”. Così, intervistato dal Foglio, il professore Vittorio Manes, docente di Diritto penale all’Università di Bologna, commenta il ddl varato dal Consiglio dei ministri venerdì scorso (alla vigilia della Giornata internazionale della donna), che introduce nella legislazione italiana il reato di femminicidio. Il testo recita: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. Attualmente il codice penale prevede una pena non inferiore a 21 anni per l’omicidio, che però raggiunge l’ergastolo se commesso nei confronti del coniuge, del convivente o della persona con cui si ha una relazione affettiva. La novità del ddl proposto dal governo, dunque, è soprattutto l’istituzione di un reato autonomo di femminicidio. “Siamo tutti dalla parte delle vittime, soprattutto quando parliamo di fenomeni così gravi e drammatici, sui quali tutti condividono l’esigenza di giustizia e di risposta concreta che l’ordinamento deve assicurare”, spiega Manes. “Ciò premesso, però, il problema riguarda l’efficacia e la razionalità della risposta apprestata per contrastare queste fenomenologie criminose”. “La formulazione del nuovo reato sembra allontanarsi dai postulati del diritto penale del fatto, della materialità, e avvicinarsi a quelli del diritto penale soggettivo - prosegue il giurista - La commissione di un femminicidio come atto di discriminazione è insuscettibile di una verifica empirica. L’unica via per l’interprete sarebbe quella di ricorrere a un’opera di introspezione nell’autore del reato. Lo stesso discorso vale per l’uccisione ‘come atto di odio’. Ma in ogni omicidio volontario, non solo nel femminicidio, è sempre presente un elemento di odio verso la persona offesa. La nuova fattispecie di reato raggiunge quasi il paradosso quando fa riferimento alla ‘repressione dell’esercizio dei diritti, delle liberte o dell’espressione della personalità della persona offesa’: più che un omicidio quale può essere la condotta che reprime l’espressione della personalità? Insomma, la fattispecie di reato risulta composta di elementi che non specificano la materialità e l’offensività della condotta, ma si affida a ricognizioni interiori, e come tali molto arbitrarie”, evidenza Manes. Per quanto riguarda la pena prevista, prosegue Manes, “si ricorre ancora una volta all’ergastolo, cioè alla pena perpetua, nonostante le critiche costituzionali che da sempre coinvolgono questa tipologia di pena”. Nel presentare il ddl, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato di “svolta epocale”: “L’aver costituito una fattispecie autonoma, da un lato ci esime da una serie di problematiche tecniche che riguardano i bilanciamenti tra circostanze attenuanti e aggravanti, ma soprattutto è una forma di attenzione a questa problematica emersa in modo così dolorosa negli ultimi anni”. “Questo ricorso ossessivo al diritto penale come strumento di risoluzione di problemi sociali anche molto gravi si basa sull’illusione che basti introdurre un reato per ottenere una risposta in termini di diminuzione dei tassi di criminalità, cosa che invece non accade”, commenta Manes. “Siamo di fronte all’ennesimo atto di fede nelle capacità di risposta del diritto penale nei confronti di fenomeni complessi che a me sembra ben poco ragionevole, e che finisce per declinare nel nome delle vittime una risposta legislativa meramente simbolica. Se si volesse davvero proteggere le vittime si dovrebbe intervenire attraverso altri strumenti, quelli delle politiche di prevenzione, sociali e soprattutto culturali”, conclude Manes. Nordio era contro il reato di femminicidio, ora lo difende di Carlo Canepa pagellapolitica.it, 11 marzo 2025 Prima di diventare ministro della Giustizia, era contrario a “leggine ad hoc” che allungassero il codice penale. Ora sembra aver cambiato idea. “Un risultato epocale, una grande svolta”. Così il 7 marzo, durante una conferenza stampa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito il disegno di legge approvato dal governo che vuole introdurre il reato di “femminicidio” nel codice penale. Secondo Nordio, questa proposta “costituisce una manifestazione potente di un’attenzione a questa problematica, che è emersa in questi ultimi anni in maniera così dolorosa, e che deve, doveva, avrebbe dovuto e ha avuto una sanzione, un riconoscimento penale di prima levatura”. Il ministro ha aggiunto che il disegno di legge approvato dal governo “inasprisce le pene, che peraltro erano già molto elevate,” sulla violenza contro le donne, e manda “un segnale di attenzione particolare da parte dello Stato a questo fenomeno pernicioso e odioso del femminicidio”. Le parole pronunciate da Nordio in conferenza stampa contraddicono quanto scritto e dichiarato in passato da lui stesso, sia sul femminicidio sia più in generale sull’allungamento del codice penale con l’introduzione di nuovi reati. Che cosa scriveva Nordio - In un articolo del 2016, scritto per Il Messaggero, Nordio aveva criticato l’allora governo Renzi per essersi dimenticato della riforma della giustizia. “Malgrado la quasi totalità degli operatori - magistrati, docenti universitari, avvocati - siano concordi nella necessità di una semplificazione e di un’armonizzazione sistematica [del codice penale, ndr], si continua a intervenire con leggine ad hoc, generalmente ispirate dall’emotività di eventi contingenti, come il femminicidio, l’omicidio stradale o i vari reati economici”, aveva scritto Nordio, all’epoca pubblico ministero. Un riferimento al femminicidio compare in un altro articolo dell’attuale ministro della Giustizia, pubblicato sul Messaggero nel 2017. In quell’articolo, Nordio criticava l’introduzione del reato di tortura, appena approvata dal Parlamento. Secondo lui, questa misura si inseriva “in quel filone di velleitario attivismo con cui il legislatore tende ad affrontare vecchi problemi con provvedimenti ispirati dalla convenienza contingente”. “Questa deplorevole attitudine, peraltro comune ai governi degli ultimi trent’anni, sta assumendo ora dimensioni quasi grottesche, con una proliferazione normativa caotica e scoordinata, che moltiplicando le incertezze interpretative ne consolida le difficoltà di applicazione”, proseguiva il futuro ministro. Tra gli esempi di interventi che, a detta di Nordio, andavano in questa direzione, c’erano anche quelli per contrastare gli omicidi di donne. “Numerosi esempi di riforme fallite - fallite nel senso che alla fine non hanno minimamente raggiunto gli obiettivi solennemente celebrati - non hanno insegnato nulla. Nuovi reati sono stati introdotti, con la previsione di ulteriori aumenti di pene; le garanzie costituzionali sono state vieppiù avvilite, e siamo sempre lì. Dopo il giro di vite sulla corruzione, l’omicidio stradale, il femminicidio, le misure antimafia, eccetera eccetera, i delitti non diminuiscono, e l’insicurezza aumenta”, scriveva Nordio. Le critiche alle pene più severe - Più in generale, negli ultimi anni della sua carriera di magistrato Nordio ha criticato spesso chi proponeva di risolvere la diffusione di alcuni tipi di reati con un aumento delle pene. L’aggravamento delle pene è “inutile e irrazionale”, si legge in un articolo scritto da Nordio, pubblicato nel 2018 sul sito della Fondazione Luigi Einaudi. “Le nostre pene sono già esageratamente alte, mentre l’esperienza e la statistica ci dimostrano che ai loro aumenti non corrispondono affatto le diminuzioni dei reati: l’omicidio stradale è l’ultimo di questi prevedibili fallimenti”, aveva scritto il futuro ministro, criticando il Contratto di governo firmato dal Movimento 5 Stelle e della Lega. Queste parole sembrano andare nella direzione opposta rispetto a quanto fatto da Nordio e dal suo governo con il nuovo disegno di legge, approvato il 7 marzo. L’articolo 575 del codice penale, infatti, punisce con almeno 21 anni di carcere chi commette il reato di omicidio, mentre il nuovo reato di femminicidio punisce chi lo commette con l’ergastolo. Lo stesso disegno di legge inasprisce le pene per altri reati legati alla violenza contro le donne. Come abbiamo spiegato in altri approfondimenti, il governo Meloni ha intensificato una tendenza avviata dai governi precedenti, con la creazione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti, spesso dettati dalla volontà di inseguire i casi di cronaca del momento. E dire che durante il suo insediamento come ministro della Giustizia Nordio aveva proposto di sfoltire il numero di reati per velocizzare i processi. “La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati. Bisogna eliminare questo pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali: questo non è vero”, aveva detto il 22 ottobre 2022 Nordio. Nei mesi successivi lo stesso ministro ha ribadito che in passato, quando lui stesso ha guidato una commissione per riformare il codice penale, ha proposto senza successo la via della depenalizzazione per contrastare il fenomeno opposto, quello della “panpenalizzazione”. Nonostante le parole del ministro, la direzione intrapresa dal suo governo è stata un’altra. La replica di Nordio - In un’intervista pubblicata l’8 marzo dal Giornale, Nordio ha comunque difeso la linea tenuta finora dal governo, e più nello specifico la proposta di introdurre il reato di femminicidio. “È un segnale di attenzione verso un soggetto debole che negli ultimi anni, aimè, ha avuto una serie di aggressioni che va al di là della statistica ordinaria degli omicidi”, ha detto il ministro della Giustizia. Alla domanda: “La moltiplicazione di reati porterà più giustizia?”, Nordio ha risposto: “I reati si possono anche sottrarre. Una volta era reato l’adulterio, poi è stato tolto. Lo stesso vale per la bestemmia. E comunque mi lasci dire che al di là dell’effetto giuridico c’è un segnale culturale e un effetto dissuasivo, deterrente. Prenda il caso del cosiddetto reato rave party che abbiamo introdotto all’inizio del nostro mandato e che tante polemiche ha sollevato. Da allora non c’è stato bisogno di applicarlo perché i fenomeni illegali di quei raduni non si sono più verificati”. Al di là delle legittime opinioni sui nuovi reati introdotti dal governo Meloni, tra cui quello contro il femminicidio, non è vero che da quando è stato approvato il nuovo reato non ci sono stati più rave party. Da ultimo, ne è stato organizzato uno pochi giorni fa, il 9 marzo, in provincia di Firenze, sgomberato dalle forze dell’ordine. Se le necessità della Giustizia nascono dalle pagine della cronaca, spesso influenzate dalla politica, e il loro soddisfacimento viene valutato sempre sulla base delle pagine della cronaca, diventa possibile sostenere che un certo fenomeno di cui prima si parlava molto ora sia stato eliminato solo perché adesso non se ne parla più. Fa più paura la stampa della mafia? d Paolo Comi L’Unità, 11 marzo 2025 Le pratiche a “tutela” si aprono solo contro i giornalisti che scrivono articoli non graditi e non invece se un magistrato viene minacciato di morte dai mafiosi o dagli ‘ndranghetisti. Pare essere questa la linea di condotta del Consiglio superiore della magistratura che ha deciso di archiviare la richiesta di aprire una pratica a tutela nei confronti di Marcello Viola, procuratore di Milano, e Alessandra Cerretti, pm della locale Direzione distrettuale antimafia. I due magistrati nelle scorse settimane sono stati minacciati da esponenti dei clan coinvolti nella maxi inchiesta “Hydra” sull’alleanza delle tre mafie. I carabinieri hanno anche rinvenuto un arsenale che, secondo i primi accertamenti, doveva essere utilizzato proprio per far saltare in aria Viola e Cerretti. La richiesta di apertura pratica, presentata dai laici di centrodestra e dai togati di Magistratura indipendente, oltre al pm Roberto Fontana, è stata ritenuta insussistente in quanto la possibilità di essere ucciso per un magistrato è insita nel ruolo. Di diverso avviso, come detto, il Csm nei confronti dei magistrati il cui operato è stato criticato sui giornali. Fra i casi più noti quello del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, che ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città contro il quotidiano Il Riformista che all’epoca ha raccontato le “stranezze” del Palamaragate. Ad esempio, il funzionamento a singhiozzo del trojan nel cellulare di Luca Palamara in occasione della cena che ebbe con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed altri alti magistrati. Cena il cui piatto forte, molto probabilmente, fu la nomina del nuovo procuratore della Capitale. Anche il procuratore di Firenze, Filippo Spiezia, per un articolo questa volta del Foglio che definiva il suo ufficio la “trottola impazzita della giustizia italiana” per “le sue inchieste show”, ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela del proprio ufficio. L’articolo, scrisse Spiezia, “ha arrecato grave lesione al prestigio della Procura di Firenze”. Il Foglio, va detto, ha fatto anche il bis. Sotto la lente del Csm è finito infatti un altro articolo dal titolo “La procura di Firenze perde i suoi pm d’assalto. Grazie anche al Csm”. Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa si riferiva al procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, promosso alla guida della Procura di Prato. Con lui, si poteva leggere nel pezzo, “se ne va un pezzo di storia della giustizia fiorentina, quella più recente e complottista”. L’articolo citava quindi le indagini (definite “più surreali degli ultimi decenni”) nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, accusati di essere i mandanti esterni delle stragi di Cosa nostra del 1993. Se il Csm è restio nel dare “tutela” ai magistrati minacciati dalla mafia, lo stesso si può dire per l’Anm. Tornando a Viola e Cerretti sono trascorsi diversi giorni prima che il potente sindacato togato si decidesse a spendere una parola di vicinanza. Tutto un altro scenario, ovviamente, nel caso degli articoli in questione. “Viva preoccupazione” per “l’escalation di violenti attacchi di cui è fatto quotidianamente oggetto l’ordine giudiziario da parte di certi mezzi di informazione”, erano state le parole della giunta esecutiva toscana dell’Anm a proposito dei pezzi del Foglio. Da Palazzo Bachelet fanno sapere comunque che il Csm può intervenire a tutela di magistrati solo nel caso in cui abbiano subito “comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. L’apertura di una pratica, dunque, serve a tutelare il magistrato che si sente leso o inibito nello svolgimento delle sue funzioni da parte della politica o dei media. Della serie, fa più paura la penna o un post su tik tok di Matteo Salvini che il tritolo. Lombardia. Inclusione socio lavorativa dei detenuti, stanziati 10,8 milioni ansa.it, 11 marzo 2025 Lucchini e Tironi: percorsi professionalizzanti e competenze per ritorno a legalità. Promuovere l’inclusione socio lavorativa dei detenuti e delle persone sottoposte a misure di esecuzione penale esterna investendo su progetti professionalizzanti che consentano loro, una volta scontata la pena, di inserirsi nel mondo del lavoro e di prevenire la recidiva. Questo l’intento delle proposte progettuali approvate dalla Giunta regionale lombarda su proposta dell’assessore alla Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità, Elena Lucchini, di concerto con l’assessore all’Istruzione, Formazione, Lavoro, Simona Tironi. Le risorse messe a disposizione saranno pari a 10,8 milioni di euro e si riferiscono all’Avviso del ministero della Giustizia “Una Giustizia più Inclusiva” del PN Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027. I percorsi saranno condivisi con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Milano (PRAP) e gli Istituti penitenziari della Lombardia. “Imparare un mestiere può essere l’elemento che consente alle persone detenute di rompere con il proprio passato criminale e consentire un abbattimento della recidiva - ha dichiarato l’assessore Lucchini. Procederemo come sempre - ha spiegato la responsabile alla Famiglia - con un metodo che ci consenta di operare in rete offrendo servizi integrati grazie alla collaborazione tra privati, Terzo Settore e gli Enti di formazione rapportandoci alle concrete esigenze occupazionali, artigianali e industriali del territorio”. “La formazione e il lavoro - ha evidenziato l’assessore Tironi - sono strumenti fondamentali per offrire una seconda possibilità a chi ha commesso errori, contribuendo concretamente al loro reinserimento nella società. Grazie a questi percorsi professionalizzanti, vogliamo fornire competenze reali e spendibili nel mercato del lavoro, favorendo così un ritorno alla legalità e una riduzione della recidiva. Investire sulla formazione delle persone detenute - ha aggiunto - significa investire sulla sicurezza e sul futuro della nostra comunità. Offrire percorsi qualificanti in linea con le esigenze delle imprese è il modo più efficace per garantire un reinserimento sociale e lavorativo duraturo”. Vercelli. In carcere l’esercito delle invisibili, più progetti di recupero per uomini di Maria Francesca Rivano La Stampa, 11 marzo 2025 Nella sezione femminile solo pochi corsi, sono il mondo del volontariato e il Soroptimist i sostenitori più attivi. Sono una realtà per molti versi invisibile. Scontano la pena per i reati commessi, cercando di ricostruirsi una vita. E sebbene tra il carcere e la città di Vercelli si stiano costruendo spazi di incontro sempre più significativi, il mondo femminile è quello che arranca maggiormente. Minoranza nella minoranza, le donne detenute in città sono un piccolo gruppo eterogeneo per provenienza, età e retroterra culturale. Anche per questo, risulta più complesso offrire loro opportunità di formazione e recupero. Secondo i dati diffusi dall’Osservatorio Antigone dopo la visita del maggio 2024, nessuna delle 24 detenute all’epoca presenti era coinvolta in corsi di formazione professionale né in esperienze con datori di lavoro esterni. Dodici di loro, però, erano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impiegate in attività di spesa, cucina e altro. A farsi carico delle esperienze formative più significative è il mondo del volontariato attraverso il Tavolo Carcere e, attualmente, il Soroptimist Club Vercelli, che concentra sulla sezione femminile di Billiemme i progetti del quadrante costituito con Biella, Novara e Verbania. Sono nati così i corsi di sartoria e l’“Oasi delle Api” mentre, poche settimane fa, alle detenute è stato dedicato uno degli incontri con l’autore, organizzato con la Biblioteca Civica. Progetti che si muovono nella direzione di una maggior attenzione verso le detenute, per le quali la fatica di reinserirsi è spesso doppia. Proprio ieri è partito anche il corso di gelateria artigianale, un progetto nazionale di Soroptimist che tocca più realtà. Viaggiano invece su binari consolidati i programmi che coinvolgono la sezione maschile che, a fine febbraio, contava 301 detenuti. Affidati a una squadra di detenuti inseriti nella “Manutenzione ordinaria fabbricati” sono in via di ultimazione i lavori di riqualificazione di un’intera sezione. Una sfida vinta, come pure l’allestimento di due corsi di “tecniche di cucina” nei quali si lavora in “brigata”. “Diamo un senso alle giornate imparando un mestiere nuovo”, dicono alcuni dei corsisti, indaffarati tra mestoli, pentole e piatti da comporre. Il “dietro le quinte” della prima cena in carcere aperta alla cittadinanza offre la stessa concitata agitazione che si respirerebbe nella cucina di un ristorante. Fida, Winer, David, Damiano, Hassan, Sidoli, Xhendi, Emanuele, Christian, Alì, Luca, Yossine, Emanuele, Luigi e Otman detto Ciccio sono i protagonisti della serata: nessuno di loro ha mai lavorato stabilmente nella ristorazione, ma non si direbbe vista la perizia con la quale compongono ventagli di tonno e pasta fillo, servono il risotto agli scampi o rabboccano i bicchieri. A coordinarli, con piglio deciso e consigli preziosi, ci sono Flora Buonocore e Marco Cappello della Casa di Carità Arti e Mestieri di Santhià, con Marta Ferraro, responsabile del corso, ad accogliere una quarantina di commensali nella sala della cucina didattica. “Flora ci insegna a lavorare insieme, concentrandoci sul risultato: per noi questa serata è stata importante”, dirà a fine serata il portavoce del gruppo. Molti sono giovani, qualcuno sta contando i giorni che lo separano dal ritorno alla vita quotidiana; altri pensano a cosa li attenda a fine detenzione: compagne, figli, un lavoro che, forse, non ci sarà più. Intanto restano concentrati per superare qualche imprevisto e portare a termine il servizio: “È la prima volta che cuciniamo per un numero così elevato di persone” spiegano, ricordando i pranzi di Natale e quello con i magistrati. Un battesimo del fuoco superato a pieni voti, con professionalità, intraprendenza e spirito di collaborazione. Il 20 marzo si replica: e anche questa volta la “cena in carcere” va verso il tutto esaurito. Bologna. Giovani adulti verso la Dozza, ma la Sezione Penale è ancora “occupata” di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 11 marzo 2025 Sono stati trasferiti i detenuti dell’Alta sicurezza, ma non i definitivi. E resta l’incertezza sui tempi. Dal Pratello resta aperta l’ipotesi di spostare una quindicina di ragazzi, “senza contatti col territorio”. Passano i giorni. Ma alla Dozza i passaggi necessari all’approdo di una cinquantina di giovani adulti, provenienti dai minorili, in una sezione dedicata - sulla carta solo temporaneamente - a ospitarli sono in alto mare. Tra le date ipotetiche per il trasferimento dei ragazzini, è infatti trapelata la possibilità del 17 marzo. Ossia, lunedì prossimo. Pare inverosimile, però, che in appena una settimana si riesca a organizzare tutto, considerando che la sezione Penale, che verrà riconvertita allo scopo, ancora non è stata toccata: i detenuti, che dovrebbero andare a occupare le celle lasciate libere dell’Alta sicurezza (settanta As sono stati già trasferiti a Fossombrone), sono ancora tutti nelle loro stanze. Stanze che, come ricorda la Cisl, “a differenza che nel minorile non sono dotate di docce e l’acqua calda manca”. Condizioni logistiche ben diverse, insomma, da quelle degli istituti minorili da cui provengono. E se la logistica è carente, i sindacati lamentano che tutta l’organizzazione di questo trasferimento passi sopra le loro teste, compreso il ruolo stesso della penitenziaria in questa partita. Perché, se a parole la gestione di giovani adulti e grandi dovrà essere “rigidamente separata”, nella realtà, “quando ci saranno emergenze - dice ancora la Cisl - saranno gli agenti della Dozza a dover intervenire in supporto ai colleghi distaccati al minorile”. E le emergenze, sono sicuri i poliziotti, non mancheranno. Intanto, malgrado le rassicurazioni, ci sarebbe ancora in atto una ‘trattativa’ per spostare una quindicina dei 24 giovani adulti del Pratello (“dove adesso i ragazzi ospitati sono complessivamente 57, un numero altissimo”, come ricorda la Cgil), alla casa circondariale Rocco D’Amato. Gli altri arriveranno da strutture del resto d’Italia. E, è la voce che circola tra la penitenziaria, la ratio per sceglierli sarebbe legata all’assenza di contatti con il territorio: tradotto in soldoni, la maggior parte di loro sarebbe composta di stranieri non accompagnati, i più problematici tra gli ospiti dei minorili. Non solo. In questo caos in cui le voci si rincorrono e di certo, a parte l’apertura - prima o poi - di questa sezione non c’è nulla, arriva anche la notizia che il Cpa del Pratello - l’area dove sono ospitati i ragazzini in attesa di convalida - potrebbe andare presto ad accogliere anche i giovanissimi arrestati in arrivo da Firenze. Insomma, una pressione ulteriore sulla struttura, dove dovrebbero partire i lavori di restauro. Quale sarà il destino dei ragazzi ospitati quando gli interventi inizieranno, al momento, non è dato saperlo. In tutto questo caos, il comandante facente funzione da gennaio al Pratello, un ispettore, ha rinunciato all’incarico e se ne è andato. Insomma: grande è la confusione sotto il cielo. Ma la situazione non si può dire eccellente. Firenze. Garante dei detenuti, via libera al nuovo bando di Niccolò Gramigni La Nazione, 11 marzo 2025 Garante fiorentino dei detenuti, forse siamo alla svolta. Nella riunione flash dei capigruppo di ieri, convocata con urgenza dal presidente del Consiglio comunale Cosimo Guccione, è stato deciso che la modifica del regolamento dell’assemblea cittadina, propedeutica alla riapertura del bando per l’individuazione del garante, sarà discussa giovedì prossimo nella commissione Affari istituzionali. Poi andrà rapidamente al voto in Consiglio, già il lunedì 17. Una volta che il regolamento sarà approvato potrà riaprire il bando e la lacuna del garante sarà colmata. La discussione si era accesa dopo che l’associazione ‘Altro diritto’ aveva posto un problema sul precedente bando che prevedeva l’accesso alla selezione solo se in possesso di cittadinanza italiana. Con il nuovo bando, potranno quindi presentare domanda persone con cittadinanza italiana, europea o di paesi terzi con regolare permesso di soggiorno. “Voglio ringraziare gli uffici e tutti i capigruppo perché si sono impegnati per la modifica del regolamento in tempi rapidi”, ha dichiarato Guccione. L’avviso resterà aperto circa due settimane. Cosa accadrà con le domande presentate nel precedente bando? L’obiettivo è far in modo che non si debba ripresentare le domande e che siano considerate valide quelle già inviate. Nel frattempo si segnalano importanti novità sugli istituti a custodia attenuata per madri (Icam) in via Fanfani: in risposta a un’interrogazione l’assessore al welfare, Nicola Paulesu, ha spiegato che il Comune ha rilasciato il permesso di costruire lo scorso 5 febbraio. Con tempistiche molto chiare: la progettazione esecutiva per questo mese, l’indizione della gara di appalto e l’aggiudicazione per maggio e l’inizio dei lavori per giugno. La fine dei lavori è prevista nel giugno 2026. “Abbiamo finalmente un nuovo cronoprogramma - ha detto Dmitrij Palagi, capogruppo Spc. Difficile commentare il ritardo con cui arriviamo a una struttura che è forse da considerarsi superata. Tutto ciò che è alternativo al carcere è però da salutare con favore”. Roma. Al via gli incontri sull’esecuzione della pena e la tutela dei diritti garantedetenutilazio.it, 11 marzo 2025 La presidente della Corte d’Appello di Roma, Roberta Palmisano, ha illustrato il programma. Ieri, lunedì 10 marzo 2025, ha preso avvio un ciclo di incontri organizzati dall’Osservatorio per la Giustizia di Comunità della Corte d’Appello di Roma, focalizzato sull’esecuzione della pena e la tutela dei diritti. Nel corso della presentazione del programma, la presidente della Corte d’Appello di Roma, Roberta Palmisano, ha messo in luce la grave situazione del sovraffollamento carcerario in Italia, con 62.165 detenuti a fronte di soli 51.323 posti disponibili. Nel Lazio, il tasso di sovraffollamento raggiunge un preoccupante 146,7%, con un impatto diretto sulle condizioni di vita all’interno delle carceri, sulla dignità dei detenuti e sulla loro possibilità di reintegrazione sociale. Palmisano ha evidenziato l’aumento dei suicidi tra i detenuti, 88 nel 2024 e già 12 dall’inizio del 2025, ponendo l’accento sull’importanza di attuare misure alternative alla detenzione, che attualmente mostrano un utilizzo insufficiente. La presidente ha inoltre sottolineato la necessità di una riforma culturale che favorisca la giustizia di comunità, mirata non solo alla punizione, ma alla rieducazione e al reinserimento sociale dei detenuti. “I dati, molto bassi - ha dichiarato Palmisano - relativi alle pene sostitutive e quelli, ancora alti, relativi al numero delle persone ristrette con condanne a pena detentive entro i tre/quattro anni (non ristretti per reati ostativi), sono quelli sui quali possiamo maggiormente incidere. Per una parte di questi detenuti (si è parlato di “detenzione sociale”), il problema è la marginalità sociale, la dipendenza da droghe o alcol, il disagio mentale, ancora prima della pericolosità, e la brevità stessa della pena è incompatibile con la predisposizione di un progetto rieducativo fondato su un tempo di conoscenza e valutazione iniziale, tenuto conto che il carcere è una struttura molto complessa”. “Attuare strategie preventive di protezione sociale (negli ambiti dell’assistenza sociale e della tutela della salute) è fondamentale - ha proseguito Palmisano - perché la libertà dal bisogno non è solo un’esigenza personale ma è anche il presupposto necessario per un valido inserimento dell’individuo nella collettività, affinché chi è entrato nel circuito penale sviluppi una prospettiva di vita in armonia con i diritti degli altri all’interno della società in cui vive”. L’Osservatorio per la Giustizia di Comunità composto da rappresentanti di magistratura, avvocatura, enti locali, ASL e volontariato, si propone di affrontare le criticità attuali attraverso una serie di incontri mensili, ognuno dedicato a un tema specifico, come salute mentale e dipendenze, il ruolo del Terzo Settore, e la giustizia riparativa. “La giustizia di comunità - ha spiegato Palmisano -può sintetizzarsi infatti nella presa in carico dell’autore di reato e della vittima e nella organizzazione dei relativi servizi, per valorizzare i percorsi che consentono all’autore di reato di assumere consapevolezza rispetto al fatto-reato, proporre opportunità di cura e sostegno, ma anche occasioni di riparazione. Si presuppone un cambio culturale e una diversa prospettiva che riguarda soprattutto noi magistrati perché è a seguito delle nostre decisioni (misure cautelari e condanne) che un cittadino finisce in carcere”. Palmisano ha concluso il suo intervento invitando tutti gli attori coinvolti a partecipare attivamente agli incontri, per contribuire a una riflessione collettiva e a un cambiamento reale nel sistema penale, con l’obiettivo di garantire il rispetto dei diritti e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Il programma degli incontri - Il prossimo incontro, previsto per il 15 aprile, si concentrerà sul disagio mentale e sulle dipendenze, coinvolgendo esperti del settore per delineare strategie efficaci di intervento. A giugno si discuterà di Vittime e Autori nei reati di violenza di genere con la partecipazione dell’avv. Teresa Manente e della dr.ssa Carla Maria Xella. La collega Marisa Mosetti aiuterà a definire linee guida per un’azione tempestiva e il flusso di informazioni tra uffici giudiziari e professionisti. Sarà affrontata anche l’importanza di studiare e misurare il fenomeno con Giuseppina Muratore dell’ISTAT e Pietro Demurtas del CNR. A settembre si parlerà del Lavoro come elemento fondamentale per la dignità dei cittadini, con interventi di Stefano Anastasia, Giacinto Siciliano, David Di Meo e Gherardo Colombo. Si discuterà di strumenti per il reinserimento lavorativo degli imputati non condannati, con la dr.ssa Maria Vittoria Menenti, Luciano Pantarotto e Filippo Giordano. A ottobre si affronterà il tema della giustizia riparativa, auspicando che le conferenze locali abbiano concluso il loro lavoro e che sia applicabile la normativa Cartabia. Sarà richiesto un aggiornamento al prof. Pasquale Bronzo e alla dr.ssa Carla Ciavarella, mentre l’avv. Emma Tosi porterà il punto di vista dell’Avvocatura. A novembre si parlerà dei diritti dei minori, in particolare del rispetto per i minori vittime di reato. Interverranno esperti come Pisani, Claudia Terracina, Carla Maria Xella e Susanna Murru, trattando anche il disagio giovanile e il tema dei minori autori di reato con Paola Manfredonia. Infine, a dicembre si discuterà delle violenze e dello sfruttamento dei migranti, con un intervento di Maria Grazia Giammarinaro e le testimonianze di associazioni attive nel settore. Luca Perilli parlerà di un protocollo per la protezione e il prof. Emilio Santoro del dovere di proteggere. L’Osservatorio si propone di elaborare protocolli operativi per definire procedure di intervento efficace e monitorarle nel tempo. Questa iniziativa rappresenta un passo importante verso la promozione di una giustizia più umana e inclusiva, in linea con i principi della Costituzione e delle normative internazionali. Padova. Giotto, una coop dalla “normalità eccezionale” di Francesco Iori Il Mattino di Padova, 11 marzo 2025 Il libro di Vera Zamagni fa un focus su una realtà quarantennale che dà lavoro a quasi 600 persone con 12 milioni fatturato guidata da Boscoletto. All’inizio, una quarantina di anni fa, erano i classici quattro amici al bar. Oggi, la loro è diventata una realtà di punta nel campo della cooperazione sociale, che dà lavoro a poco meno di 600 persone, con un fatturato di oltre 12 milioni di euro, che opera in quattro macro- settori: parchi e giardini, ambiente, contact center, servizi vari a partire dalla gestione museale; e rappresenta una realtà di riferimento a livello nazionale per il supporto lavorativo ai carcerati. Si chiama Giotto, e ad essa ha dedicato un ampio saggio Vera Zamagni, docente all’università di Bologna, una delle maggiori studiose del terzo settore (“La cooperativa sociale Giotto, una normalità eccezionale”, edizioni Il Mulino). Una presenza che fa leva su una mission dichiarata: “Creare opportunità di lavoro economicamente sostenibili e apprezzate per la loro qualità, perché più persone possibile, anche in situazioni disagiate, possano essere sostenute e accompagnate nella scoperta della propria dignità”. L’esperienza prende piede nel 1986, su input di un piccolo gruppo di giovani laureandi e laureati dell’ateneo padovano in Scienze agrarie e forestali, che danno vita a una cooperativa centrata sul tema dell’ambiente, in particolare con la manutenzione di parchi e giardini. È una scelta che poco dopo si estende al carcere, partendo in punta di piedi con un corso di giardinaggio per poi estendersi via via ad altri settori grazie anche alla legge Smuraglia del 2000, che disciplina e agevola il lavoro penitenziario. Il primo passo in questo percorso è rappresentato dalla produzione artigianale di manichini in cartapesta; poi ci si allarga alla gestione mensa, alla tenuta di un call center, all’assemblaggio di valigie, alla lavorazione di gioielli, al montaggio di biciclette, e soprattutto alla pasticceria. Una realtà, quest’ultima, che oggi dà lavoro a una cinquantina di detenuti, seguiti da una dozzina di addetti tra cui quattro maestri pasticceri, con un’ampia gamma di prodotti tra cui spiccano i panettoni natalizi e le colombe pasquali; e che ha ottenuto una serie di significativi riconoscimenti di qualità anche fuori d’Italia. Zamagni, nel suo studio, propone Giotto come una delle poche realtà riuscite a offrire un’opportunità d’impiego a un considerevole numero di carcerati, regolarmente remunerati, rispettando le normative in materia di ferie e malattia. Il tutto avviene tramite la regia di un apposito ufficio sociale che mette a punto un progetto specifico di inserimento, e con il supporto di un’attività di formazione continua. In tal senso, l’attività della cooperativa rappresenta per i detenuti un fondamentale strumento sia di autosostentamento che di promozione della persona. E questo, spiega lo studio, nell’ottica del principio che la vera riforma strategica del settore carcerario non fa leva sulla pura riforma legislativa, ma mette al centro le persone chiamate ad applicarla. Un contributo decisamente rilevante, in una realtà italiana in cui neanche il 5 per cento dei quasi 60mila carcerati lavora, e dove permangono ancora troppi steccati ideologici. Non solo carcere, comunque. La ricerca di Zamagni propone una visione d’insieme della cooperativa Giotto, proponendola a modello di capacità di dialogo sul versante pubblico con le istituzioni, e su quello privato con il mondo delle imprese, facendo leva sul principio-chiave di una sussidiarietà circolare, in cui nessuno può sostituirsi agli altri, ma l’apporto di tutti è determinante per il buon esito del progetto. Con un corollario di grande importanza: Giotto riesce a stare sul mercato da protagonista perché garantisce l’assoluta qualità sia dei prodotti che dei servizi offerti. Ed è una sottolineatura significativa, in una stagione come quella attuale segnata dall’emergere di nuove povertà, dall’aumento dell’esclusione di tanti soggetti dalla vita civile, dalla crescita del disagio sociale. Nicola Boscoletto, che presiede la cooperativa dal 1994 e che ne è l’anima, tiene a sottolineare le radici remote di un’esperienza che si muove nell’ambito di Comunione e Liberazione e del suo grande maestro: “Don Luigi Giussani ci ha insegnato che l’altro è sempre un bene, anche quando noi non lo capiamo o l’altro non capisce, e che è essenziale essere inclusivi con tutti”. Trento. Corsi di cucito e moda in carcere, iniziativa di tre realtà del tessile sostenibile di Adele Oriana Orlando iltquotidiano.it, 11 marzo 2025 Atotus, Tabita e l’Ortazzo hanno lanciato “Cuciamo nuove opportunità”. I corsi, della durata di 50 ore, insegnano tecniche utili per le riparazioni degli indumenti, ma anche di come dare vita a un nuovo abito partendo da qualcosa che già posseggono. Stoffe, fili e nuovi progetti sono entrati nella casa circondariale di Trento a inizio mese, nella giornata di lunedì 3 marzo e ci rimarranno per un paio d’anni, il tempo che è stato dato al progetto “Cuciamo nuove opportunità” organizzato da Atotus, Tabita e L’Ortazzo, con la partecipazione della fondazione Cassa Rurale di Trento che ha finanziato questa nuova opportunità a favore di alcune delle persone detenute. Le tre realtà che lavorano concretamente su questo progetto hanno un’anima che guarda alla terra, all’ecologia e al riutilizzo di ciò che è ancora in buono stato, hanno tutte un cuore sostenibile. Atotus, che è una start up trentina nata nel 2021, è un circuito di economia circolare nel mondo della moda e ha il proprio hub tessile che unisce innovazione sociale e ambientale dove nascono costantemente idee e possibilità, in città, in piazza Venezia. L’Ortazzo aps, invece, è un’associazione che promuove l’agricoltura biologica, l’economia solidale e il consumo critico, oltre a gestire un Gruppo d’acquisto solidale (Gas); mentre Tabita, che è molto conosciuta a Trento, è una realtà che si occupa di recuperare capi e oggetti usati per aiutare le persone bisognose. Queste tre realtà si sono unite per riuscire a realizzare un progetto sostenibile che ha bisogno di tutti questi aiuti, oltre a quello finanziario. “Noi di Atotus organizziamo i corsi di cucito all’interno del carcere, Tabita si occupa di mettere a disposizione materiali che i volontari raccolgono, mentre l’Ortazzo, che è capofila del progetto, si occupa della parte di coordinamento, comunicazione e promozione per questa collaborazione - racconta Silvia Atzori, una delle fondatrici di Atotus - Il progetto nasce anche in memoria di Sandra Toro che è stata una figura di riferimento per la moda sostenibile del territorio e che purtroppo è venuta a mancare lo scorso anno”. Toro era una ingegnera nel campo elettronico di origine colombiana, è stata una pioniera della moda sostenibile in Trentino, ha portato la cultura del recuperare e trasformare i capi in qualcosa di nuovo. Faceva inoltre parte del gruppo di docenti Atotus, quindi era collega di moda sostenibile delle designer che terranno i corsi in carcere. Il progetto, che al momento è su base biennale, è diviso in due blocchi, in ognuno di questi ci sono nove donne iscritte e che partecipano a queste lezioni di cucito e moda sostenibile, per una durata di 50 ore, durante le quali potranno imparare diverse tecniche utili soprattutto per le riparazioni degli indumenti, ma anche di come dare vita a un nuovo abito partendo da qualcosa che già posseggono. Quest’ultima possibilità passerà attraverso una tecnica particolare, quella dell’upcycling: il riutilizzo creativo di ciò che si possiede e che magari nella forma attuale lo si considera materiale di scarto. “Entrare in carcere è stata a primo impatto una sensazione forte perché la prima cosa che fai è immedesimarti in loro - racconta Atzori - In realtà, poi si è trasformata in un sentimento positivo per poter coinvolgerle in questi corsi e portare un’occasione di apprendimento e di socialità”. Quello che verrà realizzato sarà visibile alla fine dei corsi. Uno degli obiettivi del progetto, infatti, è quello di realizzare degli shooting fotografici durante il corso per poter allestire una mostra che racconti questa esperienza. Alessandria. Mattarella premia “Idee in fuga”: riconoscimento per chi prova a cambiare vita di Roberta Barbi vaticannews.va.it, 11 marzo 2025 Il 26 febbraio scorso al Quirinale si è svolta la cerimonia di premiazione per 28 cittadini che si sono distinti per meriti, tanto da ricevere le onorificenze dell’Ordine al merito della Repubblica. Tra loro uno storico esponente dell’economia carceraria italiana: Carmine Falanga, fondatore e presidente della cooperativa che lavora con gli istituti di pena di Alessandria. È tutt’altro che un cervello in fuga - anche se nel nome della cooperativa, Idee in fuga, il sostantivo associato al carcere richiama un altro gioco di parole - Carmine Falanga, da pochi giorni insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, che ha ricevuto dal presidente Sergio Mattarella grazie al suo lavoro con i detenuti degli istituti di pena di Alessandria: “Per la sua attività volta a creare una sinergia tra le mura del carcere e le imprese”, si legge nella motivazione. “È stata la giornata della consapevolezza che facciamo qualcosa di buono e significativo per la collettività - commenta con i media vaticani - voglio condividere questo premio soprattutto con i miei ragazzi che ogni giorno s’impegnano fino in fondo per cambiare la propria vita”. La storia di “Idee in fuga” inizia nel 2018 con l’apertura della prima falegnameria in carcere, poi la vocazione per la cucina e l’ideazione del marchio Fuga di sapori dedito alla pasticceria e alla panificazione, fino alla produzione della birra con il Luppoletto galeotto e, ultimo solo in ordine cronologico, l’apertura di un bistrot unico nel suo genere: interno alle mura della casa circondariale di Alessandria, ma accessibile dall’esterno. Una scommessa divenuta realtà che ha da poco compiuto un anno di vita. “Recuperiamo cose, ma soprattutto recuperiamo persone - scherza il neo Cavaliere - come lo spazio: quello in cui nasce il bistrot, ad esempio, era appannaggio della polizia penitenziaria che ce l’ha concesso volentieri, essendo inutilizzato da tempo”. La diversificazione, Falanga l’ha imparata nel suo percorso di laurea in economia e commercio: “Per un’azienda è fondamentale posizionarsi in settori diversi per superare eventuali momenti di difficoltà come è stato il Covid - spiega - per noi, in carcere, è uno strumento efficace grazie al quale possiamo effettuare più reinserimenti lavorativi”. E infatti finora sono stati circa 60 i detenuti reintrodotti nel mondo del lavoro dalle varie attività di Idee in fuga, oltre ai 15 tra ristretti ed ex ristretti che la cooperativa ha assunto direttamente. Fiore all’occhiello di Idee in fuga è certamente il bistrot Fuga di sapori, che ha avuto il pregio di far conoscere alla città un po’ di più il mondo del carcere: “Avevamo voglia di aprire le porte dell’istituto, proprio come Papa Francesco ha fatto all’inizio di questo Giubileo aprendo una Porta Santa a Rebibbia, è un sentimento che ci accomuna - dice Falanga - grazie a questo varco sulle mura penitenziarie ora nessuno può più ignorare l’esistenza del carcere, anzi, può toccarlo con mano e, nel nostro caso, può assaggiare ciò che il lavoro può fare per queste persone”. La prossima fuga di idee? “Ci piacerebbe allargare il bistrot, ma anche aprire un laboratorio di pasticceria esterno, per ora ne abbiamo solo uno interno, ma soprattutto l’obiettivo è sempre quello di dare lavoro a più persone possibile”. Napoli. E i giovani detenuti del carcere minorile di Nisida ora lavorano nelle cucine del Quirinale di Lara De Luna La Repubblica, 11 marzo 2025 Quattro tirocinanti in permesso premio dall’istituto di pena avranno la possibilità di seguire, anche grazie a questa esperienza, un percorso formativo per il diploma dell’Alberghiero. Non è solo Mare Fuori. Nei giorni della messa in onda della nuova stagione della fortunata serie targata Rai 1, importanti notizie arrivano dal mondo reale che gravita attorno ai penitenziari minorili. Notizie belle e buone, almeno così è nel caso che vede insieme il carcere minorile di Nisida (isolotto vulcanico in area flegrea) e la Presidenza della Repubblica. Alcuni degli ospiti dell’Istituto partenopeo, infatti, studieranno e lavoreranno all’interno delle cucine del Quirinale fino al 13 marzo. I ragazzi che vivranno questa importante opportunità formativa sono 4 e tutti hanno scelto di affrontare il percorso di studi che prevede come obiettivo il diploma di scuola secondaria di istituto alberghiero. Nello specifico, tutti i ragazzi hanno scelto l’indirizzo cucina. I giovani selezionati hanno partecipato lo scorso anno al tirocinio di formazione culinaria nell’ambito del catering, e con l’esperienza presso la Struttura ricevimenti e ristorazione del Servizio intendenza del Palazzo del Quirinale avranno la possibilità di affrontare una full immersion nel mondo del lavoro. In un luogo decisamente prestigioso, dove ad affiancarli troveranno lo chef Luca Pipolo dell’Associazione “Monelli tra i fornelli”, che ha già seguito questi - e altri - ragazzi in veste di coordinatore del percorso formativo. Un’esperienza che, nei fatti, non è solo un’opportunità di studio ma un passo concreto verso il futuro. Grazie al sostegno del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica - Servizio rapporti con la società civile, questo progetto mira nella pratica a favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei ragazzi attraverso strumenti concreti. Fatti e non parole. Un progetto fortunato questo, che ha già dato prova di funzionare, tanto che questo è il secondo anno della messa in atto. Nel 2024 erano stati due i ragazzi a cui si erano aperte le porte della medesima opportunità. La speranza, aveva spiegato Pipolo in un’intervista a Repubblica in occasione della prima edizione del tirocinio “è che attraverso la cucina, possano imparare a collaborare tra loro per creare e non distruggere”. Tutti i ragazzi, allora come oggi, sono appena maggiorenni “e hanno meritato questa occasione. È stato un onore per noi tutti essere accolti da una brigata di tale prestigio, che ci ha subito messo a nostro agio”. Il rapporto tra il Penitenziario minorile di Nisida e il Quirinale, d’altronde, non è nuovo e non si esaurisce qui. Era appena il maggio del 2024 quando una delegazione di ragazzi aveva presentato al Presidente Mattarella il progetto di un programma radiofonico-recitativo che verteva sul riadattamento del testo “Le Voci di Dentro” di Eduardo De Filippo in occasione del centenario della sua nascita. Il grande drammaturgo e attore partenopeo d’altronde è storicamente legato a Nisida e ai suoi ragazzi, tanto da essersi speso più volte durante la sua vita per la comunità e aver donato al penitenziario il teatro interno alla struttura. Piccoli segni di vita e libertà, che ben si adattano al mare. Soprattutto quando non è fiction, ma vita vera. Roma. L’abbraccio che ripara: la storia di perdono di Lucia Di Mauro Montanino di Giulia Rocchi romasette.it, 11 marzo 2025 Lucia Di Mauro, che perse il marito ucciso nel 2009 dalla camorra, racconta la sua storia legata a un percorso di giustizia riparativa, dando il via alla Settimana diocesana per la pastorale dei detenuti. Lucia Di Mauro rimane vedova nel 2009. Suo marito Gaetano Montanino, guardia giurata, viene ucciso a Napoli dalla camorra. Tra i suoi assassini c’è Antonio, all’epoca diciassettenne. La sua riabilitazione passa soprattutto attraverso di lei, Lucia, assistente sociale abituata a occuparsi di ragazzi in contesti difficili. Insieme iniziano un percorso di giustizia riparativa, grazie anche a Libera di don Luigi Ciotti. Antonio oggi lavora ed è sposato, mentre Lucia racconta la sua storia - sulla quale sono stati realizzati, tra l’altro, anche un libro e un podcast - in incontri in giro per l’Italia. Questo pomeriggio, 10 marzo, alle 18 è al Pontificio Seminario Maggiore, protagonista de “L’abbraccio che ripara. Perdonare un delitto”, promosso dal Servizio diocesano per la pastorale carceraria. Si darà il via così alla Settimana di animazione per la pastorale delle persone detenute, organizzata per la prima volta nella diocesi di Roma. “Lucia Di Mauro racconterà la sua esperienza nella quale il male non ha prevalso, è anzi stato occasione per creare del bene”, riflette il vescovo Benoni Ambarus, responsabile diocesano dell’Ambito della diaconia della carità. “Negli ultimi anni sta aumentando la sensibilità verso i carcerati - prosegue - e il magistero di Papa Francesco è stato di ulteriore stimolo. In Cei è maturata l’idea di lasciare alle diocesi la libertà di scegliere quale giornata dedicata alla sensibilizzazione su questo tema, ma noi abbiamo scelto di fare un’intera settimana”. La Quaresima è il momento migliore, “perché si parla di perdono, riconciliazione, misericordia”. Dal 10 al 16 marzo, dunque, tutte le parrocchie romane potranno organizzare una Via Crucis o una veglia o un ritiro durante il quale pregare in modo particolare per chi si trova in carcere, seguendo gli schemi messi a punto dal Servizio diocesano. Mentre domenica prossima, 16 marzo, Giornata diocesana per le persone detenute, speciali intenzioni di preghiera verranno lette durante le celebrazioni. Tutti sono invitati anche a compiere un segno concreto di carità verso i reclusi, tramite la donazione di colombe pasquali (entro il 10 aprile) o di offerte per spese mirate (per informazioni pastoralecarceraria@diocesidiroma.it). “La cosa importante è che ci sia almeno un momento durante il quale le comunità parrocchiali mettano al centro questi nostri fratelli e sorelle”, è l’esortazione del vescovo Ambarus. Di carcere, infatti, si parla sempre troppo poco. “La popolazione detenuta continua a crescere - si legge nel Rapporto Antigone 2024 -. Al 16 dicembre 2024, in Italia erano 62.153 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 51.320 posti. Di questi posti, però, 4.462 in effetti non erano disponibili, per inagibilità o manutenzioni, e dunque la capienza effettiva scende a circa 47.000 posti, ed il tasso di affollamento effettivo arriva al 132,6%”. Le carceri sono sempre più fatiscenti e cresce il numero dei suicidi: secondo Ristretti Orizzonti, nel 2024 si sono tolte la vita 88 persone detenute. “Nel frattempo nel corso del 2024, negli istituti visitati da Antigone - informa ancora il Rapporto Antigone -, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 20,3 atti di autolesionismo (erano 16,3 nel 2023), 2,5 tentati suicidi (2,3 nel 2023), 2,6 aggressioni ai danni del personale (erano 2,3) e 7,7 aggressioni ai danni di altre persone detenute (erano 4,6)”. Dati che conosce bene il vescovo Ambarus: “Sulla situazione dei detenuti pesano molti pregiudizi, ma in realtà si sa poco o niente del carcere. La media di spazio di ogni detenuto sono 3 metri quadri, pochissimo. Ce ne sono alcuni molto anziani e di fatto nelle infermerie ci sono molti malati psichiatrici. Anche le condizioni di lavoro degli agenti sono difficili, spesso costretti a fare turni massacranti. Il carcere non è un mondo facile ma noi cerchiamo di esserci”. Firenze. “Giustizia riparativa”, incontro della Fondazione Ernesto Balducci a Villa Ruspoli portalegiovani.comune.fi.it, 11 marzo 2025 Rieducazione, umanizzazione e riparazione: per Ernesto Balducci il carcere non doveva essere luogo di punizione fine a se stessa, ma un’opportunità per la riabilitazione del detenuto e il suo reinserimento nella società. Criticava le condizioni disumane di molte carceri, sostenendo la necessità di garantire ai detenuti il rispetto dei diritti umani fondamentali; promuoveva una giustizia che non si limitasse a punire, ma che si concentrasse sulla riparazione del danno causato dal reato, coinvolgendo sia la vittima che il reo. Fedelmente al pensiero di padre Ernesto, del quale detiene l’eredità intellettuale, la Fondazione Ernesto Balducci da ormai 30 anni porta avanti il dibattito e la ricerca sulle condizioni carcerarie e pene costruttive. Su questo tema si concentra anche il convegno in programma giovedì 13 marzo 2025 a Villa Ruspoli a Firenze (piazza Indipendenza, 9) dal titolo “Giustizia riparativa”. Dalle ore 16.00 alle 19.00, esperti e docenti si confronteranno sui vari aspetti di questo argomento per poi fare il punto sullo stato attuale nel nostro territorio. “Nella complessità dell’azione del percorso della giustizia - sottolinea la presidente della Fondazione Ernesto Balducci Grazia Bellini - appare fondamentale l’attenzione, la cura, del passo successivo al giudizio e alla pena. È l’attenzione a “riparare”, appunto, il tessuto sociale e interpersonale, non per compensare ciò che non è compensabile, ma per ricomporre, ricucire, senza nascondere né dimenticare. Tenere insieme la memoria e il percorso che tende a riparare, rispetta le molte sfaccettature che hanno le ferite, rispetta la verità degli accadimenti senza però rinunciare a ricomporre per ognuna delle parti l’ipotesi di convivenza che è stata lacerata”. È questo, continua Bellini, “un percorso fragile e difficile che tende ad accogliere anche le cicatrici, abbandonando l’illusione che l’espulsione, lo scarto, restituiscano la forma intatta della convivenza sociale. È questo un percorso che serve non solo ai protagonisti di questo cammino, ma a tutti, perché è un modo diverso di pensare e di vivere la città, la comunità, che ne comprende anche gli strappi, le cadute e i ricominciamenti”. Con la preziosa collaborazione dell’Università di Firenze, il sostegno della Fondazione CR Firenze e in collaborazione con il Coordinamento Toscano Marginalità, dopo i saluti della presidente della Fondazione Ernesto Balducci Grazia Bellini, sono previsti gli interventi tra gli altri di Grazia Mannozzi, Professore ordinario di diritto penale all’Università Insubria e di Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. Modera Roberto Bartoli, professore ordinario di Diritto penale dell’Università di Firenze. Seguono il dibattito e le conclusioni. L’evento è a ingresso libero fino a esaurimento posti. Per maggiori informazioni: www.fondazionebalducci.it Cure palliative obbligatorie per accedere al fine vita: il nodo nel nuovo testo sul suicidio assistito di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 11 marzo 2025 Dopo anni di silenzio, il Parlamento sembra disponibile a presentare una bozza che possa dare veste giuridica a quanto disposto dalla sentenza della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio medicalizzato. Non è da escludere che la recente normativa toscana o il prossimo regolamento che Luca Zaia prepara in Veneto possano ormai aver fatto capire al Parlamento che ulteriori ritardi non sarebbero stati possibili. Così nasce una bozza preliminare in merito, a firma del senatore Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. Centrale nella bozza è il problema delle cure palliative: per i pazienti che chiedono di porre fine alla loro vita si prevede che questi debbano già essere inseriti in un percorso di cure palliative. Di fatto si prevede che le cure palliative siano un “prerequisito della scelta”: un percorso obbligatorio per i pazienti che chiedono di porre fine alla loro vita. Non siamo ancora pienamente a conoscenza della bozza Zullo, tanto più che questa non è detto che sia pienamente condivisa dalla stessa maggioranza. Diversi parlamentari di questa maggioranza hanno già manifestato diverse perplessità e assicurato che questi primi contributi verranno approfonditi e che il Parlamento si prenderà “tutto il tempo che serve”. Tuttavia, se così dovessero essere pensate e prescritte le cure palliative per coloro che accedono all’aiuto al suicidio medicalizzato, queste diventerebbero un’ulteriore condizione, oltre alle quattro già previste dalla Corte costituzionale, indipendentemente dalla volontà del paziente di accettare o rifiutare un determinato trattamento sanitario. In altri termini si tratterebbe di una profonda modifica alla legge n. 219/ 2017 che nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha tutelato il diritto all’autodeterminazione della persona e stabilito che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. In pratica, una legge tesa a valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico e che si basa sul consenso informato. Il fatto che la Corte costituzionale ricordi che le cure palliative debbano essere assicurate al paziente non significa obbligarlo a un tale percorso. Certo, invece, vale la pena ricordare il documento della SIAARTI (2023) nel quale si legge: “Per quanto le circostanze possano essere difficili e faticose al rifiuto ripetuto e ostinato del paziente non deve fare seguito il suo abbandono, deve piuttosto essere di sempre garantito un adeguato livello di cura e qualora necessario, la loro rimodulazione in chiave palliativa”. Il nodo delle cure palliative implica dunque il problema di quale incidenza queste possono avere nell’ambito di una richiesta di aiuto al suicidio. Per alcuni le cure palliative possono attenuare la sofferenza fisica, ma non quella psicologica, cioè la sofferenza che dipende dal fatto che il soggetto oscilla tra una sedazione quasi continua e una sofferenza fisica, una sofferenza data anche dal fatto che il soggetto può dipendere dagli altri in tutto il suo restante percorso di vita. Per altri la richiesta di aiuto al suicidio medicalizzato può, attraverso il percorso delle cure palliative, mai imposto, essere riformulata insieme al paziente come aiuto a non soffrire e a non essere accompagnati nel processo del morire. Tuttavia, il dramma personale dell’elaborazione della propria morte supera e non evita l’offerta di condizioni migliori per trascorrere con meno dolore e con meno sofferenza il tempo rimanente dell’esistenza. Anche le cure palliative, come del resto la medicina della guarigione, si scontrano qui con un proprio limite intrinseco, perché non sempre possono riuscire a dare risposta alla sofferenza esistenziale del morente. Così il diritto alla vita diventa un dovere. Ma la Consulta tutela la libertà del paziente sul percorso di cura di Chiara Lalli Il Dubbio, 11 marzo 2025 Ho dovuto rileggere due o tre volte le agenzie sulla legge sul suicidio assistito che sta scrivendo il comitato ristretto al Senato. Ci sarebbe molto da dire anche su questa ristrettezza del comitato, sui tempi e sull’incapacità del legislatore di copiare due sentenze della Corte costituzionale, la 242 del 2019 e la 135 del 2024. Ma forse il comitato si è superato - o meglio ha confermato le aspettative più basse. La prima meraviglia si trova già nei titoli. “Fine vita: relatore, ok paletti Consulta e obbligo cure palliative. È lo schema di ddl proposto dal Comitato ristretto al Senato” e “Fine vita: relatore, paletti Consulta e obbligo cure palliative (2). Ecco il testo dello schema di legge, in due articoli” (Ansa, 5 marzo 2025). Obbligo di cure palliative? Le cure palliative sono una risorsa importantissima, così come la legge 38 che nel 2010 ne ha normato l’accesso insieme alla terapia del dolore. Dovrebbero essere garantite a tutti e dovrebbero essere conosciute nella loro attenzione alla persona e alla qualità della sua vita. Però c’è un problema: non possono essere un obbligo, come nessun trattamento sanitario (o di altra natura) può esserlo. A parte alcune condizioni speciali, io posso scegliere se curarmi o non curarmi, se fare un esame oppure no. Non lo dico io, lo dice la Costituzione, in particolare l’articolo 32. A leggerlo bene, quell’articolo, dovremmo smettere di blaterare di inviolabilità della vita. Se una scelta diventa un obbligo, c’è qualcosa che non va. È semplice. Eppure questi difensori di chissà cosa ci tengono moltissimo a richiamare il diritto alla vita indisponibile. E chi può disporre della mia vita? Dio, Alfredo Bazoli, il comitato ristretto? Se lo decido io, va bene che sia anche il primo che passa. Ma nessuno può obbligarmi a rinunciare alla mia libertà. Ogni volta c’è questo gioco: il diritto alla vita che diventa un dovere, un dono di cui non possiamo disfarci in nessuna circostanza. E c’è questo osceno ricatto che se proprio vuoi ammazzarti, devi prima essere passato per quello che qualcun altro ha deciso per te. Mi pare anche che il comitato non sia stato capace di copiare i requisiti stabiliti dalla sentenza 242 perché invece di una “e” c’è una “o” e quindi può chiedere di accedere al suicidio assistito “una persona maggiorenne affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che reputa intollerabili”. Da questa trappola è più facile fuggire, perché sarebbe impossibile dimostrare che non provo dolore fisico - così come ovviamente non è possibile smentire il mio dolore psicologico. Ma questa svista, o questa intenzionale modifica, odora di paternalismo feroce. Sono mesi che si ripetono le stesse sciocchezze. L’unica cosa che possiamo augurarci è che questa legge cambierà e che le agenzie abbiano ripetuto in modo approssimativo. Se la legge mantenesse questa impostazione nascerebbe incostituzionale. Sarebbe una legge inutile, anzi dannosa. Abbiamo già il diritto di chiedere la verifica dei requisiti per accedere al suicidio assistito. Non è più reato agevolare “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” (è la sentenza 242). La sentenza 135 ha poi allargato i confini di quel trattamento vitale, la cui interpretazione restrittiva sarebbe ingiusta e discriminatoria. Perché dovrei avere un diritto con un respiratore e invece no senza un qualche macchinario? Che poi in questa ultima sentenza si ricorda anche che “il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”. L’unica cosa che una buona legge dovrebbe fare è stabilire i tempi entro i quali rispondere alle persone che chiedono la verifica dei requisiti. Una modesta proposta al comitato: leggetevi la Costituzione e le due sentenze. O almeno fatevi fare un riassunto. Migranti. Era in carcere con un tumore al quarto stadio: Riace lo accoglie di Alessia Candito La Repubblica, 11 marzo 2025 Sottoposto a accertamenti medici solo quando il cancro al pancreas che lo divora è diventato incurabile. L’europarlamentare di Avs e sindaco della cittadina calabra: “Gli restituiamo dignità. E poi faremo un esposto”. Un posto per morire. Nella pace che può concedere un tumore al quarto stadio che dal pancreas si è diffuso divorando viscere e midollo. Nel calore di un posto in cui straniero non è nessuno. Habashy Rashed Hassan Arafa alla fine ha chiesto solo questo, perché non gli rimane altro, neanche i giorni necessari per tornare un uomo libero. Condannato a cinque anni come “capitano” di una delle tante carrette che attraversano il Mediterraneo, solo quando il cancro che lo stava divorando è arrivato al quarto stadio ha avuto la grazia di un’ecografia che lo accertasse. Solo adesso che sta per morire ha potuto lasciare il carcere e andare a Riace, che gli ha aperto le porte. “Non abbiamo esitato un secondo. I suoi più elementari diritti umani sono stati violati. Gli restituiamo almeno la dignità”, spiega il sindaco e europarlamentare di Avs Mimmo Lucano. Un esposto per accertare le responsabilità - “Abbiamo raccolto tutta la documentazione medica e legale e presenteremo presto un esposto per accertare quello che è successo”, annuncia. “Il vero killer che si dovrebbe processare è l’articolo 12, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che è diventato l’alibi per sbattere in galera persone e lasciarle lì a marcire, per creare nemici dove non ce ne sono”. La terapia del dolore - Parla da Riace Lucano, ha la valigia pronta per andare a Strasburgo per i lavori parlamentari ma tentenna. Sa che per Habashy sono gli ultimi giorni. A chi si alterna al suo capezzale raccomanda: “Se la situazione precipita, chiamate. Io torno”. A lui ha detto solo “ciao, ci vediamo presto”, ma non è detto che lo abbia sentito. La terapia del dolore, cocktail di oppiodi che permette ai malati terminali quanto meno di non andar via tra tormenti lancinanti, lo precipita in un dormiveglia quasi permanente. Il calvario di Habashy - Egiziano, Habashy ha 52 anni, ma il suo viso e il suo corpo ne mostrano molti di più. Gli ultimi cinque li ha passati in carcere ad Aghillà, periferia nord di Reggio Calabria, con l’accusa di essere un capitano, stigma ormai quasi standard per chi è costretto a attraversare il mare su una bagnarola per salvarsi la vita. E standard è stato il percorso: il fermo dopo lo sbarco, zero mediatori che gli spiegassero la sua situazione e i suoi diritti, tre processi attraversati rapidamente assistito da un avvocato d’ufficio di cui non sa dire neanche il nome. “Ricordo solo che aveva i capelli lunghi”, ha raccontato con voce flebile a Lucano con il supporto degli altri rifugiati e richiedenti asilo che a Riace hanno trovato casa. “Ha detto che per la prima volta in cinque anni è riuscito a esprimersi perché in carcere non c’era nessuno che parlasse la sua lingua a cui spiegare la sua situazione”. La sentenza inappellabile della diagnosi - Stava male da tempo Habashy. E cercava di farlo capire. “Mi ha raccontato che indicava il fianco e la schiena, ma nessuno lo ascoltava”, racconta Lucano. A gennaio, le sue condizioni disperate sono diventate inequivocabili. Con fegato e pancreas mangiati dalle metastasi e la bilirubina alle stelle, “aveva giallo anche il bianco degli occhi”. Il medico del carcere di Arghillà ha ordinato accertamenti medici esterni, ecografia e tac hanno risposto con una sentenza non appellabile: cancro al quarto stadio con metastasi diffuse. Inoperabile. Incurabile. Il Tribunale di sorveglianza dichiara l’assoluta incompatibilità del detenuto con il regime carcerario, ma prima di allora mai il suo caso era stato portato alla loro attenzione. Un posto per morire - Per lui però ormai c’è poco da fare. L’unica strada è permettere al paziente di andare via con dignità e non straziato da dolori lancinanti. Negli ospedali calabresi formalmente dichiarati in stato d’emergenza non è facile. Perché i posti sono pochi, l’utenza enorme, spunta un letto all’ospedale di Locri, dove i medici possono solo allargare le braccia. Un ricovero in hospice potrebbe essere una soluzione dignitosa, ma anche lì non c’è posto. È il primario del reparto di Oncologia a rivolgersi a Mimmo Lucano, chiedendo supporto, tetto e conforto per un uomo che non ha niente, non può contare su nessuno. L’avvocato Andrea Daqua, che ha assistito Lucano nel suo lungo calvario giudiziario, si attiva per carte e permessi, il 2 marzo l’ambulanza si inerpica per le strette curve che portano al borgo antico di Riace. Gli ultimi giorni di Habashy - Habashy non può camminare, riesce a stento a parlare. Si alza dal letto solo per raggomitolarsi quasi a voler comprimere quelle fitte che gli tolgono il respiro. Gli hanno chiesto se volesse contattare la famiglia, i cinque figli che non vede da quattro anni, ma ha detto di no. “Non voglio che mi vedano così, avevo promesso a tutti che dall’Italia li avrei aiutati”. E invece. A Riace non lo lasciano mai solo. È in una casa del “villaggio globale”, il cuore antico del borgo e del progetto di accoglienza che ha trasformato un paese svuotato in un modello studiato in tutto il mondo e finito persino sulla copertina di Forbes prima che tutto venisse cancellato - illegittimamente, ha stabilito il Consiglio di Stato - dal Viminale di Salvini. Lucano: “Giustizia per lui e tutti gli altri come lui” - “Non possiamo fare altro che accompagnarlo in questo ultimo tratto”, dice Mimmo Lucano, “ma anche dopo non ci fermeremo. Tutti gli specialisti con cui ho parlato mi hanno confermato che un tumore non arriva al quarto stadio dalla sera alla mattina, quindi vogliamo capire come sia stato possibile che le condizioni di questa persona siano state ignorate per tutto questo tempo e verificare che non ci siano altri nella stessa situazione. C’è stata un’evidente violazione dei più basilari diritti umani”. Dovesse essere necessario, a Riace, Habeshy troverà casa anche dopo. “Abbiamo contattato l’ambasciata egiziana perché informi la famiglia”, spiega il sindaco di Riace, “saranno loro a decidere cosa fare quando tutto sarà finito. Altrimenti ce ne occuperemo noi. Non è la prima volta, noi non lasciamo indietro nessuno”. Migranti. Bruxelles non salva il Protocollo Albania di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 11 marzo 2025 Ad ogni tappa del fallimento di sistema del governo Meloni in materia di immigrazione e asilo ritorna il richiamo ad appoggi che arriverebbero da Bruxelles sulla esternalizzazione delle procedure in frontiera per i richiedenti asilo e sulla gestione comune dei rimpatri con accompagnamento forzato. Una propaganda ormai dilagante - malgrado solenni smentite che arrivano dai giudici italiani e dalle Corti internazionali - spaccia il numero estremamente ridotto di espulsioni e respingimenti effettivamente eseguiti come se si trattasse di una conseguenza del sostanziale blocco delle procedure accelerate in frontiera e dei centri di accoglienza/detenzione costruiti in Albania, una responsabilità che si attribuisce alla magistratura “ideologica”. Si nasconde all’opinione pubblica che la maggior parte delle persone straniere in condizioni di irregolarità sul territorio nazionale, che dovrebbero essere espulse, non sono richiedenti asilo provenienti da paesi di origine definiti come “sicuri”, e denegati per manifesta infondatezza della domanda, ma immigrati che da anni si trovano e lavorano sul nostro territorio. Il Parlamento europeo in seduta plenaria a Strasburgo esamina oggi una nuova proposta di direttiva sui rimpatri presentata dal Commissario europeo per le migrazioni Magnus Brunner che non comprenderebbe l’introduzione di “hub di rimpatrio” in paesi terzi. L’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha ribadito che costruire questi campi di detenzione al di fuori dell’Unione non esonera dall’osservanza del vigente diritto euro-unionale, poiché gli Stati membri e Frontex rimarrebbero “responsabili delle violazioni dei diritti nei centri e durante qualsiasi trasferimento”. In nessun caso i centri di detenzione in Albania potranno modificarsi in hub per i rimpatri, per stranieri irregolari già presenti in Italia, senza una sostanziale integrazione del Protocollo Italia-Albania che Edi Rama, sotto elezioni, non sembra affatto disposto ad accettare. Ursula von der Leyen insiste su “nuove regole” sui rimpatri, per renderli “più semplici, più rapidi e più efficienti”, e sembra disposta ad accelerare il passo anche sulla creazione di centri hotspot per la esternalizzazione delle procedure di asilo al di fuori dell’Unione europea, proposta da non confondere con gli “hub per i rimpatri”, che si rivolgerebbero a persone già destinatarie di un provvedimento di allontanamento forzato ricevuto in un paese europeo. Entrambe le ipotesi sono attualmente in contrasto con la vigente Direttiva rimpatri 2008/115/CE, che non si era riusciti a modificare lo scorso anno per divergenze tra i paesi membri, divergenze che non sembrano affatto superate neppure oggi. Per esigenze di “difesa dei confini europei” si cerca adesso di adottare con un Regolamento europeo nuove regole che possano facilitare i rimpatri forzati anche a scapito dei diritti di difesa e dei principi in materia di libertà personale sanciti dalle Costituzioni nazionali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma l’Italia non si presenta al tavolo del negoziato con le carte in regola. Sono queste le vere ragioni che hanno scatenato una rabbiosa reazione del governo italiano di fronte alla esemplare decisione della Cassazione sul caso Diciotti. Un precedente che potrebbe assumere rilievo anche a livello europeo. Una politica comune dei rimpatri non è neppure ipotizzabile se l’Unione europea non avrà una politica estera comune nei confronti dei paesi di origine, in alcuni dei quali sta crescendo in modo esponenziale l’influenza di altri paesi terzi, come la Turchia, la Russia, la Cina e persino degli Stati Uniti, che ne possono condizionare le scelte di governo, all’insegna di una feroce spartizione delle risorse naturali, che conta molto più dei propositi europei di rimpatri di massa. Una politica estera verso i paesi dai quali i migranti sono costretti a partire si costruisce soltanto con garanzie effettive di rispetto dei diritti umani, con la cooperazione economica in materia di migrazioni legali e di sviluppo sostenibile, non con i voli di rimpatrio, con le forniture di armi e con la militarizzazione delle frontiere. Migranti. Il nodo “Paesi sicuri” e i diritti in gioco di Graziella Romeo* Avvenire, 11 marzo 2025 La designazione dei “Paesi sicuri” è un nodo centrale nel dibattito italiano ed europeo sull’immigrazione, soprattutto ora che la Corte di giustizia dell’Unione Europea è chiamata a rispondere ai quesiti posti dai Tribunali di Roma, Bologna, Firenze e Palermo su un punto fondamentale: l’Italia può dichiarare un Paese sicuro escludendo alcune categorie di persone per le quali la presunzione di sicurezza non si applica? Oppure, se esistono eccezioni rilevanti e di difficile accertamento, il Paese nel suo complesso non dovrebbe essere considerato sicuro? La questione è complicata dalle strategie adottate dal governo italiano, come il protocollo con l’Albania, che prevede il trasferimento di migranti in centri fuori dai confini nazionali per la gestione delle richieste di protezione. Questo modello, simile a quello immaginato dal Regno Unito in Ruanda e poi naufragato in Parlamento, porta con sé una serie di interrogativi, primo fra tutti il rispetto del diritto di difesa e, in fin dei conti, del diritto di asilo. Un primo chiarimento è arrivato dalla Corte di cassazione che ha stabilito che, se la gestione del fenomeno migratorio è di competenza del governo, al giudice ordinario spetta comunque la verifica in concreto dell’esistenza delle condizioni di sicurezza rispetto al caso specifico della persona che chiede protezione. Al contempo, la Suprema Corte ha precisato che la valutazione di sicurezza di un Paese non ha carattere assoluto, non implica, cioè, che ogni porzione di territorio sia generalmente sicura per qualsiasi gruppo di persone. Si tratta, piuttosto, di un giudizio basato sulla prevalenza delle condizioni di sicurezza rispetto a quelle di insicurezza. Di conseguenza, un Paese può essere considerato sicuro in generale, ma non lo è necessariamente in situazioni eccezionali che riguardano specifici individui o categorie di persone. In questi casi, spetta alla persona dimostrare che la sua condizione rientra in un’eccezione alla presunzione di sicurezza. Con il criterio della prevalenza, la Cassazione non ha chiuso la partita in quanto l’ultima parola rispetto alla conformità al diritto europeo della designazione del paese sicuro spetta alla Corte di giustizia. Non è improbabile che il giudice europeo condivida la posizione della Cassazione italiana. Tuttavia, ciò che emerge sinora, sia dal dibattito che dal confronto giudiziale, è l’esistenza di una spiccata sensibilità dei giudici italiani ordinari verso la posizione del migrante in cerca di protezione. Non sono poche le voci che riconducono questa sensibilità a un atteggiamento polemico nei confronti della politica dell’immigrazione dell’attuale governo. Ma è davvero così? Ebbene, la sensibilità verso il migrante ha una motivazione ben radicata nel diritto dell’immigrazione che, da ormai diversi anni, interpreta il diritto di asilo non solo come garanzia costituzionale che esprime l’identità italiana, ma soprattutto come un diritto la cui tutela effettiva comporta assicurare al migrante la chance di avere la propria condizione particolare esaminata dalle autorità del Paese al quale si chiede protezione. Questo diritto è nei fatti negato tutte le volte in cui il caso concreto non riesce a raggiungere, in tempo congruo, una fase di effettiva valutazione individuale del merito della protezione richiesta. Così assegnare un migrante a un Paese terzo e trattenerlo viola nell’immediato il suo diritto alla libertà e alla difesa e, nel tempo, offre minori garanzie per il diritto di asilo. Senza considerare che uno degli obiettivi del sistema europeo comune di asilo è proprio evitare i movimenti secondari e, dunque, creare condizioni equivalenti per la tutela dei diritti dei migranti. Se letto da questo punto di vista, l’orientamento dei giudici italiani appare in linea con una visione costituzionale del diritto d’asilo. Esistono, certo, interpretazioni più restrittive, secondo cui il luogo in cui viene esaminata la domanda (Italia o Albania) non influenzerebbe i diritti in gioco. Ma queste visioni si basano su un’interpretazione puramente giuridica, senza considerare il contesto concreto. Anche se la decisione finale sulla compatibilità della designazione dei Paesi sicuri con il diritto europeo spetta alla Corte di giustizia, non bisogna dimenticare che il contributo dei giudici italiani è fondamentale nella costruzione di un diritto europeo della migrazione. Sostenere che questo contributo è motivato dalla volontà di ostacolare le scelte del governo significa ignorare il ruolo che la giurisprudenza (non solo italiana) ha avuto negli anni nel plasmare il diritto europeo dell’immigrazione in tutti i momenti in cui attori politici di orientamento molto diverso hanno insistito su un’ossessiva tutela dei confini. *Professoressa Associata di Diritto costituzionale comparato - Università Bocconi Migranti. Andranno a processo gli ex gestori del Cpr di Milano di Roberto Maggioni Il Manifesto, 11 marzo 2025 Il gup Mattia Fiorentini ha rinviato a giudizio gli amministratori della Martinina srl, la società che gestiva il Centro di permanenza per il rimpatrio dei migranti di Via Corelli a Milano. Le accuse sono di frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta, l’inchiesta è dei pm Paolo Storari e Giovanna Cavalleri insieme alla Guardia di finanza. Gli investigatori hanno documentato le condizioni di vita disumane all’interno del centro: trattamenti disumani, cibo scadente, abuso di farmaci, impossibilità di comunicare con gli avvocati, assistenza sanitaria negata. Una normalizzazione della violenza venuta allo scoperto grazie alle denunce delle associazioni come il Naga e la rete Mai Più Lager - No ai Cpr e poi alle indagini accurate dei magistrati della procura milanese. Il gup ha deciso che il processo si aprirà il 23 maggio. Nel procedimento sono parti civili il Viminale, quattro migranti, le associazioni Naga e BeFree, l’Asgi e l’Arci. Tra i legali di parte civile gli avvocati Eugenio Losco, Maria Pia Cecere, Carla Quinto, Enrico Belloli e Francesco Romeo. “Siamo soddisfatti di questo rinvio a giudizio che conferma la solidità delle accuse” dice l’avvocata Cecere. “Questo rinvio a giudizio conferma quanto il sistema dei Cpr e della detenzione amministrativa abbia problemi intrinseci”. I legali di parte civile hanno chiesto anche la citazione del ministero dell’Interno come responsabile civile, ma il gup l’ha respinta. “Abbiamo chiesto di citare il Viminale come responsabile civile perché riteniamo vi siano responsabilità per l’omissione dei controlli nei confronti dell’ente gestore. Dubbi espressi anche in una relazione dell’Anac” spiega ancora l’avvocata Cecere. Il giudice ha però respinto la richiesta, i legali la riproporranno nel dibattimento. Per il giudice l’omessa vigilanza ipotizzata dai legali non può comportare una posizione di responsabilità civile. Nella precedente udienza, a dicembre, il giudice aveva respinto le richieste di patteggiamento per gli amministratori a un anno e 8 mesi, e per la Martinina spa a 15mila euro di sanzione pecuniaria con interdizione dal contrattare con la pubblica amministrazione per 20 mesi. Pene troppo basse, secondo il gup, data la gravità dei fatti contestati. Il giudice aveva messo in evidenza “il pericolo” in cui avevano vissuto i migranti e “la gravità della condotta” del gestore. Le indagini hanno fatto emergere una situazione terribile nel Cpr. La società vincitrice del bando aveva promesso di tutto per aggiudicarsi l’appalto: dal cibo biologico ai mediatori culturali, dall’assistenza sanitaria di qualità alle attività religiose, sociali e ricreative. E invece nulla è stato fatto. La Martinina avrebbe in sostanza incassato soldi pubblici non solo senza offrire i servizi promessi nel bando, ma gestendo la struttura al di sotto di qualsiasi soglia minima di decenza. “Il Cpr non è vita, vieni maltrattato e dimenticato. Devi urlare per chiedere ogni cosa. Preferisco morire che tornare lì dentro” aveva raccontato a questo giornale uno dei migranti rilasciato dopo aver ingoiato delle lamette. La guerra mondiale spaventa 4 italiani su 10 di Alessandra Ghisleri La Stampa, 11 marzo 2025 Le ambiguità dei partiti politici contribuiscono ad alimentare il senso di insicurezza. L’instabilità internazionale fa paura all’85% dei più giovani. Oggi l’intensità e la frequenza delle crisi internazionali fanno percepire agli italiani una minaccia più vicina e concreta di un conflitto su larga scala in grado di evolvere e ampliarsi fino a coinvolgere l’Europa intera compreso il nostro Paese. Il 42,2% degli italiani, infatti, sente vivo il pericolo di giungere a una possibile terza guerra mondiale. Questo è quanto emerge da un sondaggio di Euromedia Research presentato giovedì scorso nella trasmissione Porta a Porta di RaiUno, dove il 47,5% della gente ritiene che siano minacciati i confini dell’intera Europa. La paura di una guerra “globale” è alimentata da diversi fattori che si intrecciano in un particolare contesto storico, con nuovi assetti geopolitici e importanti dinamiche mediatiche internazionali che ripropongono in loop le varie dichiarazioni, spesso provocatorie e allarmistiche, dei leader dei diversi Paesi di tutto il mondo. C’è da dire che anche le posizioni dei partiti italiani e dei loro leader, spesso in conflitto e in contraddizione, portano a cambiamenti di posizione o a dichiarazioni ambigue che non aiutano a sedare i dubbi e i timori degli elettori. Tutti questi elementi contribuiscono a creare un senso diffuso di insicurezza e confusione tra la gente, amplificato da crisi internazionali e dalla percezione di un mondo sempre più instabile. Tra i più giovani questa paura coinvolge l’85,4% del target. Il popolo italiano percepisce come minacciosi i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, perché, pur non coinvolgendo direttamente l’Italia, si sviluppano in aree relativamente vicine. L’instabilità nel Mediterraneo, soprattutto con le tensioni tra Israele e Palestina e le crisi migratorie che coinvolgono fortemente il Nord Africa, rafforzano questa sensazione di insicurezza. L’opinione pubblica nazionale boccia in toto la diplomazia europea con il 60,8% dei giudizi negativi - e il 95,1% nel target tra i 18-24 anni - ; solo gli elettori di Forza Italia si dimostrano i più indulgenti nei confronti della Ue promuovendola con il 59,2% dei consensi. Questa situazione di sfiducia sembra trovare le sue ragioni anche nel parere diffuso che l’attuale istituzione europea non sia in grado di creare e gestire un grande esercito di interforze per una difesa comune e autonoma dalla Nato (55,7%), dato che trova conferma e si rafforza in un mese crescendo di quasi 6 punti percentuali. Eppure il 53,2% dei cittadini desidererebbe un esercito europeo - forse senza i nostri soldati -; anche se inviare contingenti militari italiani in Ucraina non piace alla maggioranza della gente (59,8%). Emerge un timido 9,7% che sarebbe favorevole in ogni caso all’invio di nostre truppe; e un 20,8% che sarebbe disponibile solo se l’intervento fosse gestito sotto l’egida dell’Onu e quindi come forze di pace o Un Peacekeeping. In questo stato vacillante delle cose, la figura di Donald Trump al posto di sedare le paure e i timori, sembra minare la stabilità globale. Il suo approccio unilaterale alle relazioni internazionali, il disinteresse per le istituzioni intergovernative, la sua visione isolazionista e imperialista sta portando alla luce più l’uomo di affari che lo statista, dimostrando che gli Usa non desiderano alleati, ma sviluppare i propri - legittimi? - interessi. La comunicazione compulsiva del presidente americano punta più sulle emozioni facendo leva principalmente sulla paura, sulla rabbia e sull’orgoglio nazionale. Nei suoi primi 50 giorni di mandato ha già minato la stabilità globale offrendo segnali spesso discordanti. La sua retorica divisiva delle sue politiche nazionaliste sono percepite dalla maggioranza degli italiani come segni di un’America che si allontana dal suo ruolo guida che aveva storicamente ricoperto nel mondo. Il 58,4% degli italiani non si fida di Donald Trump. I giudizi pienamente positivi arrivano dagli elettori dei partiti di centro destra, mentre la stragrande maggioranza dei partiti delle opposizioni si schiera sulle valutazioni negative. In tutto questo i media giocano un ruolo chiave nel diffondere e talvolta amplificare la confusione e la paura della guerra. Titoli allarmistici sulle parole dei capi di Stato, scenari apocalittici e l’ampia copertura di eventi bellici hanno creato nella gente la percezione di un costante senso di emergenza. I social media, poi, con tutti gli artifici del caso e i fake, contribuiscono a diffondere rapidamente notizie e speculazioni, spesso senza un adeguato filtro critico. La visione di Donald Trump rispetto ai pesi politici di Paesi come ad esempio la Russia di Putin, confonde gli italiani, che sicuramente gradiscono la spinta per creare il più rapidamente possibile un accordo definitivo di pace tra Russia e Ucraina (42,3%), tuttavia non ne apprezzano a pieno le modalità e le richieste messe in campo. Il suo approccio comunicativo ha trovato terreno fertile per consolidare il consenso e mantenere alta l’attenzione del suo elettorato, ma nel lungo periodo The Donald rischia di generare disorientamento e sfiducia soprattutto tra i suoi elettori più moderati, anche perché l’uso continuo di annunci esplosivi e dichiarazioni forti può diventare ripetitivo e meno efficace nel tempo. La sua vera sfida sarà capire fino a che punto questa strategia possa essere sostenibile senza compromettere la credibilità e la stabilità delle istituzioni e della forza economica made in Usa. Perché manifestare per l’Europa con le bandiere della pace di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 11 marzo 2025 Verso il 15 marzo. L’Ue da molti anni rinnega se stessa, violando valori costitutivi: il no alla guerra con l’insensato bellicismo e l’uguaglianza, con politiche disumane e razziste contro i migranti. Si possono condividere gli argomenti critici proposti da questo giornale a riguardo della manifestazione per l’Europa promossa dall’appello di Michele Serra, eppure decidere di partecipare ugualmente. Perché farlo? Per impedire all’Europa delle armi, voluta dalle von der Leyen e dai Macron, di proporsi come la sola Europa esistente. Per manifestare l’esistenza di un’altra idea dell’Europa: quella, sicuramente maggioritaria, che vede nell’Europa il luogo delle democrazie costituzionali, delle separazioni dei poteri, dell’”unità nelle diversità” secondo la massima adottata nel 2000 dall’Unione, cioè dell’uguaglianza e, soprattutto, della pacifica convivenza. È giusto partecipare anche per molte altre, importanti ragioni: perché l’Europa, non solo la nostra ma anche quella delle von der Leyen e dei Macron, è oggi aggredita da tutti i reazionari e i fascisti dell’Occidente, che vogliono distruggere la sua residua identità democratica; perché contro i fascisti, in crescita in tutto il mondo, qualunque alleanza è doverosa; perché manifestare in difesa dell’Unione europea, pur con tutti i suoi limiti gravissimi, vuol dire oggi manifestare contro Trump, contro Musk, contro Milei, contro Meloni e contro tutti i sovranismi e le derive autocratiche e parafasciste in atto in tutto l’Occidente; perché l’Europa, grazie alla straordinaria convivenza pacifica che ha realizzato tra 27 paesi con 23 lingue diverse e un passato di guerre e di contrapposti imperialismi, ha mostrato che un’integrazione tra diversi è possibile, anche per l’intera umanità; perché quindi, nell’Unione europea, vediamo una tappa esemplare del processo di unificazione del genere umano perseguito da Costituente Terra, sulla base dei due valori che essa - come l’Onu, parimenti sotto attacco - pose alla base della sua fondazione: la pace e l’uguaglianza. Sappiamo bene che ormai da molti anni l’Europa ha rinnegato se stessa, negando e violando questi due valori costitutivi: la pace, con l’insensata politica bellicista e l’assurda corsa a nuovi armamenti, e l’uguaglianza, con le sue politiche disumane contro i migranti e il razzismo alimentato dalla riapparizione in Europa della figura della persona illegale e clandestina per la sola colpa di esistere. Ma proprio per questo, per difendere questi due valori e, insieme, i valori della legalità, delle separazioni dei poteri, dei limiti e dei vincoli ai poteri selvaggi dei nuovi padroni del mondo, è oggi necessario manifestare in difesa dell’Europa, che su quei valori è nata e a quei valori vogliamo che torni ad ancorarsi. Solo quest’altra Europa, opposta a quella espressa dall’opzione dissennata per sempre nuovi armamenti, può oggi emanciparsi dalla subalternità agli Stati Uniti e promuovere un’autonoma iniziativa di pace nei confronti della Russia, basata non già sul riarmo ma sul disarmo e su reciproche garanzie di sicurezza, in vista di un progressivo ritorno della Russia nella sua casa europea. È stato l’osceno ricatto di Trump che ha mostrato, insieme al fallimento di tre anni di politiche europee, quella che è un’assoluta ovvietà: che la garanzia della sicurezza proviene non già dal riarmo, che segnala ostilità, sfiducia e aggressività nei confronti della Russia, concepita aprioristicamente come nemico, bensì dalla disponibilità a un progressivo disarmo, che al contrario attesta la volontà di pace e sollecita l’analoga volontà e l’identico interesse della controparte. È infatti chiaro che l’ulteriore corsa a nuovi armamenti - una corsa ininterrotta da oltre 20 anni - mentre non potrà mai portarsi all’altezza delle 6.000 testate nucleari di cui è in possesso la Russia, avrà il solo effetto di sottrarre alla sanità, all’istruzione e alla sussistenza gli 800 miliardi che si vuole siano ad essa destinati. Manifestare per l’Europa vuol dire anche, perciò, manifestare a sostegno di quello stato sociale che solo in Europa si è realizzato in nome dell’uguaglianza, e che oggi Trump e le destre di tutto il mondo vogliono distruggere. Vuol dire contrapporre, al volto feroce ed ostile delle armi e dell’abbattimento dello stato sociale perseguito dalle politiche liberiste dei nostri governi, il volto benefico e civile dell’Europa della pace, dell’uguaglianza e della garanzia dei diritti e della dignità delle persone. L’Europa con il primo volto è destinata a disgregarsi, non solo perché maggiormente esposta alla minaccia della guerra, ma anche per l’inevitabile conflittualità tra opposti sovranismi e per la perdita del consenso popolare. Solo se assumerà il secondo volto, finanziando istituzioni europee di garanzia dei diritti sociali sussidiarie rispetto a quelle nazionali e promuovendo un disarmo globale e totale che renda impossibili tutte le guerre, l’Europa è destinata non solo a sopravvivere e a diventare popolare tra i cittadini europei, ma anche a proporsi come un modello di civiltà per il resto del mondo e ad attestare che una Federazione della Terra è possibile, oltre che necessaria ed urgente. Ma questo secondo volto non può rimanere nascosto, coperto, assente, inespresso. Va, appunto, manifestato ed esibito con le bandiere della pace. Per mostrare che solo da esso, e non certo da un’illusoria potenza militare, dipendono il prestigio e l’autorevolezza politica dell’Europa. Mentre il mondo trema, l’Europa se la prende con i migranti di Francesca Paci La Stampa, 11 marzo 2025 L’Unione non riesce a immaginare una difesa comune neanche contro l’offensiva di Putin e Trump, ma si compatta contro le “insidie” degli irregolari. Stamattina dunque, mentre la diserzione americana dall’occidente trascina il mondo nelle polveri di una guerra per ora fortunatamente solo commerciale, la presidente Ursula von der Leyen presenta a Strasburgo l’”ambiziosa” proposta di un “sistema veramente europeo per facilitare i rimpatri di cittadini di Paesi Terzi senza diritto di soggiorno”. Quell’Unione cioè, che non riesce a immaginare una difesa comune neanche contro l’offensiva a tenaglia di Vladimir Putin e Donald Trump, si compatta, miracolo, per blindare i propri confini insidiati dai migranti. Dice, la destra. Certo. La retorica dell’invasione finalizzata alla sostituzione etnica è da sempre roba sua, come lo è la politica securitaria con tutte le metafore accessorie, la fortezza, il blocco navale, l’esternalizzazione delle frontiere dal Ruanda all’Albania. Solo che non c’è alcuna destra a governare oggi in Gran Bretagna, dove il premier laburista emula senza imbarazzo il modello Trump e diffonde i video con le espulsioni degli “irregolari”. E neppure nella Danimarca della socialdemocratica Mette Frederiksen, manica larga su welfare e green ma pugno di ferro sugli extracomunitari. Men che mai ce n’è l’ombra nella Spagna di Pedro Sanchez, che pur auspicando un Paese “ricco e prospero” in virtù dei suoi confini aperti cerca l’intesa con partner africani non proprio di specchiate credenziali democratiche per fermare gli sbarchi. Infine, con buona pace dell’attuale maggioranza Meloni, tocca ricordare che nell’Italia del 2017 fu il centro sinistra, all’epoca a Palazzo Chigi, a sdoganare la criminalizzazione delle ong, definite poi “taxi del mare” dal quel pentastellato Luigi Di Maio alleato prima della Lega e a seguire del Pd. Per quanto i socialisti europei abbiano annunciato la loro contrarietà agli angoli più spigolosi alla direttiva sui rimpatri, i migranti restano, a destra come a sinistra, la prima linea delle contraddizioni politiche di un occidente in generale e di un’Ue in particolare sempre più cupi, litigiosi e mai come in queste ore a rischio del suicidio. I migranti rappresentano il capro espiatorio per eccellenza, quel catalizzatore d’odio che emerge in condizioni di incertezza sociale e che - lo fotografava René Girard - deve pagare non perché sia particolarmente colpevole ma perché la comunità non può accordarsi se non unendosi contro qualcuno o qualcosa. A nulla serve ricordare che sì la richiesta di sicurezza è legittima ma che tutto sommato nel 2023 gli extracomunitari erano il 6% dei 450 milioni di abitanti della Ue, che nel 2024 ci sono stati circa 240 mila attraversamenti irregolari delle frontiere e che quando nel 2022 il vecchio continente ha accolto oltre 4 milioni di ucraini in fuga dalla guerra la sua tenuta sociale non ha fatto una piega. Provateci e nella migliore delle ipotesi vi accuseranno di wokismo, snoberia, “ztleismo”. Gli europei avanzano a tentoni su uno scenario apocalittico alla Tarkóvskij intorno cui si addensano sagome minacciose. La Russia? Gli Stati Uniti non più alleati? La Cina? Le tante schegge impazzite del Medioriente scomposto? Macché. I migranti. La deriva del continente europeo. Uniti sì, ma solo per respingere i migranti di Marina Della Croce Il Manifesto, 11 marzo 2025 Nuove norme contro gli irregolari. È scontro sugli hub nei paesi terzi. Previsto un “ordine di rimpatrio europeo” e divieto di ingresso per 10 anni. Era uno dei “pezzi mancanti” del Patto immigrazione e asilo, come lo aveva definito il commissario all’Immigrazione Magnus Brunner, un vuoto che - in linea con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen - l’austriaco aveva promesso di voler colmare quanto prima. Cosa che avverrà oggi a Strasburgo, quando la Commissione presenterà il nuovo regolamento rimpatri dei migranti irregolari e di quanti si sono visti respingere la domanda di asilo (fatta eccezione per minori e famiglie con bambini piccoli), nuove norme utili a mettere ordine tra le varie legislazioni nazionali in materia stabilendo criteri validi per tutti e 27 gli Stati membri. Aprendo allo stesso tempo la strada alla realizzazione di hub per i rimpatri da realizzare in Paesi terzi con i quali esiste un accordo. Un punto, quest’ultimo, che se in Italia viene letto dalla maggioranza come un’apertura verso il “modello Albania” al parlamento europeo ha provocato l’immediata reazione dei socialisti che, pur dicendosi disponibili a lavorare sui rimpatri purché “con un approccio efficace, sostenibile e dignitoso”, hanno sbarrato la strada agli hub per i rimpatri, definiti “altamente controversi” tanto da “non poter far parte di questo approccio”. Al di là delle intenzioni dei vertici europei, le nuove regole difficilmente potranno però essere attuate prima di un anno, un anno e mezzo. E questo nonostante la scelta, fatta per velocizzare i tempi, di presentarle come regolamento e non di una direttiva. La proposta presentata oggi dalla Commissione andrà infatti discussa prima dal parlamento e poi dal consiglio europeo e si dovrà trovare una sintesi tra gli eventuali emendamenti di modifica che verranno presentati. Una volta approvati, i 52 articoli che compongono il regolamento saranno vincolanti per gli Stati. “L’attuale mosaico di 27 diversi sistemi nazionali di rimpatrio, ciascuno con il proprio approccio e le proprie procedure - si legge nell’introduzione del testo - compromette l’efficacia dei rimpatri a livello Ue”. Contrariamente a quanto avviene oggi, la nuova stretta prevede che un “ordine di rimpatrio europeo” possa essere eseguito anche da un paese diverso da quello che ha emesso il provvedimento, se nel frattempo il migrante si è trasferito all’interno dei sui confini. L’articolo 10 stabilisce che in questo caso venga emesso anche un “divieto di ingresso” nel territorio Ue previsto per chiunque non lasci lo Stato membro “entro la data indicata” oppure, come detto, si sposti in un altro Stato “senza autorizzazione”. Il divieto può arrivare a un massimo di 10 anni e scatta anche per chi rappresenta “un rischio alla sicurezza dei Paesi Ue” (articolo 16). L’articolo 11 prevede inoltre il divieto di espellere o estradare “in un paese dove c’è un rischio serio di essere soggetto alla pena di morte, tortura o altri trattamenti degradanti”, una sottolineatura che non potrà non avere un peso anche nella nuova lista europea dei paesi di origine sicuri e dei paesi Terzi sicuri che la commissione Ue ha assicurato di voler presentare entro giugno. Non è la prima volta che la Commissione europea si prone di aumentare il numero di rimpatri, e anche questa volta non è detto che l’annuncio di oggi non sia destinato a restare tale anche in futuro. L’assenza di specifici accordi bilaterali con i paesi di origine ha infatti ostacolato finora il rimpatrio dei migranti (oggi non più del 20%) e nulla lascia pensare che non sarà così anche in futuro. Stesso discorso per gli hub da realizzare nei paesi terzi, sui quali la stessa commissione pone però paletti ben precisi: “Un accordo o un’intesa - è scritto infatti nella bozza di regolamento - può essere concluso solo con un paese terzo dove sono rispettati gli standard e i principi internazionali in materia di diritti umani, in conformità con il diritto internazionale, compreso il principio di non respingimento Siria. Le vittime di Assad ora sono i nuovi carnefici di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 11 marzo 2025 A Damasco le vittime diventano carnefici: gli alawiti costretti a lasciare le loro proprietà mentre i curdi, di fronte alla violenza, firmano un accordo con Al Jolani. Tre mesi, dall’8 dicembre al 10 marzo, tanto è durata la festa post dittatura in Siria. L’idea gioiosa che le cose cambiano, che il governo può essere di tutti e un siriano ha dei diritti davanti al Potere. I tre mesi sono passati e la festa è finita nel sangue della minoranza alawita. Quelli che erano cittadini di serie A solo per appartenere alla setta del dittatore, adesso sono carne da macello. Non importa se hanno commesso dei reati, se sono stati complici della dittatura, se sono vecchi o bambini. Nei tre mesi dalla fine della dittatura di Bashar Assad c’è stato uno scambio: chi era sotto è andato sopra, le vittime sono diventate carnefici. Se sei un sunnita in Siria, questo è il tuo momento. Meglio se hai combattuto contro la dittatura e fai parte del clan di Idlib, ma in fondo basta essere sunnita. Puoi andare dallo sceicco di Idlib che siede dietro ai giudici, dal cambiavalute di Idlib che dirige la Banca Centrale dietro la governatrice, dall’ex guerrigliero che fa da commissario di quartiere e chiedere un favore. Hai buone probabilità di scoprire che ne hai diritto. Troveranno l’auto rubata, salterà fuori un letto in ospedale, lo stipendio ricomincerà ad arrivare. Se sei alawita scordatelo. Se sei cristiano o di qualche altra minoranza puoi sperare, ma senza far rumore. Gli espropri - A Damasco gli alawiti non vengono ammazzati in pieno giorno come avviene da 5 giorni nelle città costiere. Sono chiusi a doppia mandata, in attesa che qualche poliziotto o presunto tale bussi alla porta ed espropri casa loro. È già successo a migliaia e migliaia di alawiti che vivevano e lavoravano nella capitale siriana. Se abitavano nelle case di proprietà dello Stato sono stati sfrattati. Dall’oggi al domani. “Hai ricevuto la casa perché eri soldato, poliziotto, vigile urbano, doganiere, ingegnere, postino, medico, infermiere, insomma, impiegato pubblico. Siccome sei alawita hai ricevuto quel posto e questa casa in quanto fiancheggiatore del regime. La pacchia è finita. Devi andartene”. Il numero esatto è difficile da valutare in assenza di denunce, sentenze, qualsiasi atto legale, ma a guardare le distese di condomini che hanno cambiato inquilino non sono meno di 200mila. Via senza tetto. L’ospedale - Magari il capo famiglia era davvero un ufficiale, ma i figli, la moglie, tutti in strada? E i pensionati? E chi non ha mai indossato una divisa? Il più grande ospedale della Siria, il Tishrin, era militare, ma curava anche i civili. La stragrande maggioranza di medici, infermieri, amministrativi non erano soldati, ma sono stati tutti licenziati e l’ospedale chiuso. Gli alawiti sono tornati sulla costa, nelle case di famiglia, dai nonni, dagli zii. Gli altri, soprattutto se sunniti, sono in attesa di ricollocazione. Stanno cominciando a requisire anche le case di proprietà. “Sei alawita? Hai 24 ore di tempo per andartene e lascia anche l’auto che serve a me”. Non c’è giudice, non c’è appello. I nuovi cittadini di seconda classe abbassino la testa perché se succede come sulla costa e qualcuno reagisce con le armi, la strage su base confessionale è pronta a scattare. Succede, a rate, nella capitale. Di notte bande armate entrano negli appartamenti, sequestrano avvocati, geometri, negozianti, sempre alawiti e i loro cadaveri ricompaiono tra le sterpaglie. La cravatta - E Al Jolani? Che ruolo ha il nuovo uomo forte in tutto questo? Che uno non vada a letto terrorista islamista e si risvegli sincero democratico, è fuor di dubbio. Non basta una cravatta per mettersi alle spalle anni di attentati, violenza, stragi. Però, Al Jolani sa che senza l’aiuto occidentale, senza la rimozione delle sanzioni economiche la gente non lo seguirà a lungo. Quindi sa che le stragi gli creano un danno di immagine. Si parla di mille, forse tremila, si arriva a novemila civili alawiti massacrati. Il pogrom non è ancora finito. Forse Al Jolani che oggi preferisce farsi chiamare Ahmed al Sharaa non ha saputo prevenire la violenza, forse non ha il controllo su tutte le fazioni armate che hanno saccheggiato, ucciso e bruciato le aree alawite come in un “liberi tutti” della barbarie. Ma forse, oltre a tutto questo, ha anche deciso di cavalcare la mattanza. Avrebbe potuto andare sulla costa, mostrarsi a fianco degli alawiti, ma è rimasto a Damasco. Non ha condannato le stragi, non si è opposto. Perché? Perché dopo un dittatore ne arriva un altro che non può essere da meno del primo. Non meno forte, spietato, violento. Altrimenti c’è sempre chi alza la testa, dice la sua. L’accordo - Dalle stragi dell’8, 9, 10 marzo 2025 i siriani hanno capito che la festa post dittatura è finita. E qualche risultato buono per Al Jolani è già arrivato. I curdi, che sono sunniti, ma non arabi come il resto dei siriani, hanno ieri firmato un accordo potenzialmente storico. Due paginette, otto punti, le firme sono di Al Jolani/Al Sharaa e del comandante militare curdo Mazloum Abdi perché la forza, qui e altrove, è quello che conta. Da anni i curdi sono autonomi, con un esercito e un’amministrazione propri, soprattutto con i migliori pozzi petroliferi e il sostegno americano. Le intenzioni - Con la firma di ieri c’è tempo fino a dicembre per integrare l’Est siriano in mano curda con il resto del Paese. Le prime intenzioni sono splendide, paiono “L’anno che verrà” di Lucio Dalla: non dovranno esserci discriminazioni razziali o confessionali, i lavori saranno assegnati per merito, i curdi difesi dalla Costituzione e non ci saranno conflitti armati. Ma poi la poesia finisce: tutti combatteranno i lealisti (alawiti) del vecchio regime e le risorse e l’esercito dei curdi verranno “integrati” nella Siria unita. Tradotto: i curdi hanno visto quel che può scatenare il presidente Al Sharaa quando si ricorda di essere stato il terrorista Al Jolani e hanno preso tempo. Gli hanno dato fino a dicembre per cambiare, smettere di sparare ad altri siriani e costruire un Potere rispettoso. Magari non proprio per tutti, ma insomma bisogna accontentarsi, una dittatura è finita da appena tre mesi. Filippine. Crimini durante la guerra alla droga. L’Aja: arresto per Duterte di Marco Perduca L’Unità, 11 marzo 2025 Mandato internazionale contro l’ex Presidente filippino per le migliaia di esecuzioni di nove anni fa. La Corte penale internazionale ha chiesto l’arresto per l’ex presidente filippino Rodrigo Duterte accusandolo di crimini contro l’umanità. Eletto nel 2016, su una piattaforma “law and order”, in poche settimane aveva lanciato una lotta senza quartiere contro spacciatori e consumatori di droghe ritenendoli causa di tutti i mali che affliggevano le Filippine nel silenzio di Trump e le lamentele europee. Le cifre ufficiali hanno poi ammesso circa 7.000 vittime, le ong locali e internazionali hanno sempre sostenuto che i morti fossero tre volte di più. Contrariamente a quanto accaduto nei confronti di Almasri, l’allerta rossa dell’interpol è stata resa nota pubblicamente in anticipo cogliendo Duterte a Hong Kong. La notizia che 7000 agenti fossero stati sguinzagliati per catturarlo nella sua città natale e nella capitale pare quindi più “utile” agli scontri politici ai vertici delle Filippine, la figlia di Duterte è vice-presidente, che ad assicurare l’ex Presidente alla giustizia internazionale, però è un fatto. Il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dall’Interpol, ma che quando questa arriverà lo Stato farà quanto necessario per collaborare - collaborare con l’Interpol perché Duterte ritirò le Filippine dallo Statuto di Roma della Corte proprio perché ne temeva le accuse. Da Hong Kong, territorio dove la Cpi non ha competenza, Duterte si è detto disponibile all’arresto confermando che quanto aveva ordinato da Presidente fosse per ragion di Stato e non per volontà personale, però “se questo è davvero il destino della mia vita” ha detto alla Reuters “Lo accetterò. Possono arrestarmi e processarmi”. Nell’attesa degli sviluppi, va ricordato che è principalmente grazie alla mobilitazione della società civile filippina e internazionale che si è arrivati a questa decisione della Cpi. Esattamente otto anni fa infatti, l’Associazione Luca Coscioni, insieme alla fondazione DRCnet e Non c’è pace senza giustizia, alla presenza della Commissione per i diritti umani delle Filippine, diretta dal compianto Chito Gascon, organizzavano un incontro in seno alla Commissione sulle droghe dell’Onu di Vienna per denunciare l’operato della polizia e degli squadroni della morte ispirati da Duterte. L’impegno civile per la giustizia, la democrazia e la libertà di stampa nelle Filippine ha fatto sì che nel 2021 Maria Ressa, co-fondatrice di Rappler, il principale sito di notizie digitali del Paese, abbia ricevuto (col giornalista russo Dmitry Muratov) il Premio Nobel per la Pace. Da allora non è passata riunione all’Onu di New York o Vienna che non si sia insistito pubblicamente per chiedere l’incriminazione di Duterte e la liberazione della Senatrice Leila de Lima che fu tra le prime a denunciare coraggiosamente le spedizioni punitive subendo un arresto con accuse oltraggiose. Liberata l’estate scorsa, de Lima sarà a Roma a fine marzo. Ci sarebbe da paragonare questa vicenda con il caso Almasri, ma se ne riparlerà.