Carceri, 11 anni trascorsi invano di Valter Vecellio L’Opinione, 10 marzo 2025 Se c’è una cosa detestabile, lessicalmente, è il gerundio: quando si dice: “Sto arrivando”, buona regola sarebbe correggere: “No, o arrivi o non arrivi”. Da sempre, per quel che riguarda il carcere, dicono: “Stiamo lavorando”. Come testimonia l’articolo del 2014 di Fiorenza Sarzanini quel gerundio si traduce in un nulla di fatto. La questione sembra essere scomparsa dai radar della politica, sia di chi governa che di chi si colloca all’opposizione. Alle spalle un 2024 dove ci sono stati una novantina di suicidi ufficiali di detenuti; più altri sette di appartenenti alla polizia penitenziaria. Non parliamo dei suicidi sventati e altre manifestazioni di autolesionismo. E ora? Siamo già a quota 14 detenuti (più un assistente), dall’inizio dell’anno. Richiamo l’attenzione su un articolo di Fiorenza Sarzanini, vice-direttrice del Corriere della Sera. “È un viaggio nell’orrore l’ultimo bollettino reso noto dal Sappe, il sindacato di Polizia penitenziaria”, scrive Fiorenza. “Perché meglio di ogni petizione o appello racconta che cosa succede nelle carceri e soprattutto quanto è urgente intervenire. Meglio di ogni dibattito parlamentare evidenzia che cosa avviene ogni giorno nelle celle, quanto basso sia ormai il livello di vivibilità”. Segue un lungo elenco di cifre, relative agli atti di autolesionismo, i suicidi, i tentati suicidi, i ferimenti, le colluttazioni, le manifestazioni di protesta contro il sovraffollamento per chiedere provvedimenti come amnistia e indulto, in ogni caso provvedimenti che servano davvero a migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri. Scrive Sarzanini: “Secondo il sindacato è necessario e urgente, oltre alla firma di accordi tra Stati per far scontare nel proprio Paese la pena agli stranieri, una riforma strutturale della pena detentiva che ponga al centro l’obbligatorietà del lavoro dei detenuti perché questo alleggerisce certamente la tensione nelle celle e fornisce una concreta possibilità di recupero sociale. Servono soldi, ma serve soprattutto un impegno serio del governo perché è inaccettabile che nelle carceri si viva come bestie in un macello”. Questo articolo sembra scritto oggi per l’oggi. Invece no: la data è quella del 29 marzo 2014, ben undici anni fa, pubblicato su Io donna, settimanale del Corriere della Sera, dove Fiorenza era titolare della rubrica “Fuori verbale”. Da allora, come si è visto, la situazione è perfino peggiorata. Basti dire che quando l’articolo è stato scritto i suicidi ufficiali dei detenuti erano 42. “Suicidi annunciati nelle carceri. Servirebbe un’amnistia, ma neanche la sinistra la voterebbe più” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 10 marzo 2025 Intervista con il giornalista e scrittore Alessandro Trocino, autore del libro “Morire di pena” (Laterza): “Sono storie di morti che si potevano evitare. La popolazione carceraria è cambiata: ci sono più migranti, più tossicodipendenti e, dopo il decreto Caivano, più minori. Il Governo ha un atteggiamento sprezzante”. Già solo il termine “carcere” risulta respingente agli occhi dell’opinione pubblica. Come un altrove indigesto che non la riguarda. I morti in carcere, e di carcere, poi, sono destinati all’oblio. O essere numeri in sterili contatori usati dall’opposizione per attaccare il Governo di turno. Le loro storie restano solo nella memoria delle persone a loro vicine. Alessandro Trocino, giornalista del Corriere della Sera, ha deciso di entrare in quelle storie. Nei loro dettagli più profondi, nei punti interrogativi rimasti sospesi, nelle pieghe in cui si annidano le sliding door di una vita che, se solo qualcosa avesse funzionato in maniera diversa, avrebbe preso un’altra direzione. Lo ha fatto attraverso un libro - “Morire di pena”, editore Laterza, con prefazione di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi - in cui racconta dodici storie di suicidi in carcere, o di morti in circostanze ancora da chiarire. Nei penitenziari, o a causa di questi. Di carcere non si occupa più nessuno. Di morti in carcere ancor meno. Perché hai scelto di raccontare queste storie? Si tratta di un tema che mi interessa da sempre. Dai tempi dell’Università, delle lezioni di diritto penitenziario. È un tema che appassiona poco la società. Perché, come mi ha detto un editor una volta, ‘se non ti identifichi non leggi e non compri’. Ho scelto, quindi, di raccontare il carcere in modo diverso, fuori dalla logica della statistica. Di raccontarlo entrandoci dentro. Scrivi dodici storie, a volte simili, altre volte molto diverse tra loro. Hanno un minimo comune denominatore? Parlano tutte di morti che, probabilmente, si potevano evitare. In tutte le storie, poi, si intravede una responsabilità di parti dello Stato. Ogni suicidio è un atto personale, che può avere vari fattori scatenanti. Ma la restrizione dettata dal carcere, le condizioni di detenzione, con la carenza di personale come gli psicologi e figure simili, fanno perdere ulteriormente perdere la speranza. Sono fattori che contribuiscono ad alimentare i suicidi. Proprio per questo spesso si parla di suicidi annunciati. E alcuni di quelli di cui scrivo sono tali. I protagonisti di molte delle storie che racconti avevano problemi psichiatrici, o una tossicodipendenza. Perché nei penitenziari c’è questa così alta concentrazione di persone con questo tipo di difficoltà? La popolazione carceraria è cambiata negli anni. Se negli anni 70 la maggior parte dei reclusi erano delinquenti professionali, oggi una quantità consistente di detenuti ha commesso reati minori. E li ha commessi per problemi psichiatrici o a causa della tossicodipendenza, o perché viene dai margini della società, come nel caso dei migranti. Il carcere è ormai una discarica sociale in cui si vuole recludere la devianza. Succede con questo governo, ma succedeva anche con i precedenti. La popolazione carceraria è cambiata molto, sono entrati i migranti dopo la legge Bossi-Fini, le persone con problemi di tossicodipendenza, con la Fini-Giovanardi. E ora, con il decreto Caivano, entrano più minori. Non sono, però, cambiati i servizi offerti nei penitenziari, le figure professionali che li popolano. Se a ciò si aggiunge il sovraffollamento, si capisce che il carcere è ormai una polveriera. La tendenza, lo evidenziavi, arriva da lontano. Eppure forse in questi ultimi anni ha preso una piega ancora peggiore. Può essere dovuto anche alle politiche del governo Meloni? Le responsabilità ci sono a destra come a sinistra. La destra ha una spinta in più nella logica di “lasciar marcire in carcere” e “buttare la chiave”. Il governo, peraltro, si mostra sprezzante. Pensiamo alla frase del sottosegretario Andrea Delmastro, che dice di andare in visita dei soli agenti perché “non mi inchino alla Mecca dei detenuti”. Una frase inaccettabile, che nega anche l’umanità. Quando si fa notare al governo che ci sono dei problemi strutturali, come il sovraffollamento, risponde: ‘Costruiremo nuove carceri’. Ma avrebbe un senso procedere in questo modo? Nessun senso. Lo dicono le statistiche. Costruire nuove carceri è tecnicamente impossibile: tutti i piani realizzati sono sempre stati fallimentari. Ma creare più spazio è anche un finto rimedio. Nel libro racconti anche delle rivolte del 2020. Quando, nel momento più difficile della pandemia, le carceri si infiammarono e ci furono 13 morti. Il governo sostiene di aver creato il reparto speciale contro le rivolte, il Gio, proprio perché non si ripetano quei disordini... È il tipico atteggiamento di chi non aspetta altro che reprimere le rivolte, senza pensare che queste si scatenano per le condizioni di vita inaccettabili. Nel 2020, poi, il tutto era aggravato dalla paura del Covid, dai primi contagi in cella. Persino in Iran, in quel periodo, hanno fatto uscire migliaia di persone dal carcere. È chiaro che, se si verifica una protesta violenta si deve trovare il modo di ripristinare l’ordine, ma bisognerebbe intervenire prima. E fare in modo che ciò non accada. Non è un caso se negli istituti definiti modello, come Bollate, rivolte e suicidi tendenzialmente non si verificano. Colpisce che, nel libro, di ogni storia racconti tutti i dettagli: le relazioni dei medici, le cartelle cliniche, le ricostruzioni dei testimoni, gli ultimi messaggi. Perché questa ricostruzione così minuziosa? È stata una scelta precisa. Scendere così nel dettaglio mi ha consentito di evitare di trasformare ogni storia in un piccolo romanzo. Non volevo entrare in finzioni letterarie che avrebbero tolto forza al racconto. Era un modo, inoltre, per entrare dentro a quel che era successo, per far vedere l’inefficienza dello Stato, della burocrazia. Dopo che hai lavorato così a fondo sul tema, pensi che quale sarebbe la prima cosa da fare per porre un freno ai suicidi in carcere, soprattutto dopo il drammatico record del 2024? La soluzione più immediata sarebbe un macro intervento, come l’amnistia. Non è un caso se il numero minore di suicidi si è verificato proprio a ridosso dei provvedimenti di amnistia e indulto. Il Parlamento, però, ha da un po’ di anni cambiato il quorum che serve per l’approvazione di questi provvedimenti, rendendone così quasi impossibile il via libera. Ciò è anche dovuto al fatto che si tratta di misure che quasi nessuno vede più di buon occhio tra i partiti. Forse neanche un partito di sinistra oggi voterebbe l’amnistia, che poi da sola non sarebbe risolutiva, ma sarebbe la strada principale per iniziare. E poi come bisognerebbe proseguire? Tenendo a mente che il carcere ormai è diventato il perno del sistema penale, nonostante la pena possa essere applicata in mille modi. Nonostante la parola carcere non sia neanche in Costituzione. Servirebbe un cambiamento culturale, la presa di coscienza del fatto che il carcere è criminogeno. E poi bisogna pensare a provvedimenti deflattivi: la proposta di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale (che avrebbe consentito ai detenuti che avevano una buona condotta degli sconti di pena maggiori rispetto a quelli attuali, ndr) sarebbe stata una buona strada. Carceri, in arrivo le stanze dell’affettività: polemiche sulla spesa pubblica ternitomorrow.it, 10 marzo 2025 Il Commissario per l’edilizia penitenziaria starebbe acquistando prefabbricati per creare stanze destinate agli incontri affettivi tra detenuti e familiari. A Terni è già in fase di realizzazione una di queste strutture, scatenando critiche da parte del sindacato di Polizia penitenziaria Osapp. L’amministrazione penitenziaria avrebbe avviato l’acquisto di prefabbricati da destinare alla creazione di stanze dell’affettività all’interno delle carceri italiane. Questi spazi, noti anche come “camere dell’amore”, permetterebbero ai detenuti di incontrare i propri familiari in un ambiente più riservato e accogliente. Secondo fonti interne all’Osapp, il sindacato di Polizia penitenziaria, uno di questi moduli sarebbe già in fase di predisposizione nel carcere di Terni. L’iniziativa, però, ha suscitato forti polemiche. Il segretario dell’Osapp, Leo Beneduci, ha espresso dure critiche nei confronti del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap), accusandolo di gestire in modo inadeguato le risorse pubbliche destinate all’edilizia penitenziaria. “Si tratta dell’ennesimo spreco di fondi e di una scelta calata dall’alto con superficialità”, ha dichiarato Beneduci, sottolineando come le priorità dovrebbero essere altre, come il miglioramento delle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria. L’implementazione delle stanze dell’affettività nelle carceri è un tema dibattuto. Da un lato, si sostiene che possano favorire il mantenimento dei legami familiari e il reinserimento sociale dei detenuti. Dall’altro, c’è chi vede in questa misura una gestione inadeguata delle risorse, soprattutto in un contesto di emergenza per la sicurezza e il sovraffollamento carcerario. Resta da vedere quali saranno le prossime mosse del Governo e se il progetto verrà esteso ad altri istituti penitenziari. Nel frattempo, il dibattito rimane acceso tra chi considera queste stanze un diritto per i detenuti e chi le ritiene un’ulteriore criticità nella gestione del sistema carcerario. “Ho imparato a fare il prete in prigione”. Testimonianza di un Cappellano dopo 23 anni di servizio vativision.com, 10 marzo 2025 Papa Francesco ha deciso di aprire, per la prima volta nella storia, una Porta Santa nella prigione italiana di Rebibbia durante il Giubileo della Speranza, un gesto che i prigionieri hanno accolto come segno di clemenza, vicinanza e speranza. La sua visita a Rebibbia ha risposto alle linee guida della bolla Spes non confusit, in cui il Pontefice esorta ad essere “segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di miseria”. Padre Grimaldi lasciò la cappellania nella prigione Secondigliano di Napoli, dove servì i prigionieri per 23 anni, per coordinare i 230 sacerdoti che assistono i circa 62.000 detenuti di tutta Italia, di cui 20.000 stranieri. Dei suoi anni come cappellano sottolinea che non c’erano solo i detenuti comuni, “ma anche quelli di massima sicurezza, persone con una storia criminale molto forte”. Sottolinea che il suo servizio “era per tutti” e che “non importa quale crimine avesse commesso la persona, perché non dobbiamo identificare l’uomo che è in prigione con i suoi errori”. “La mia esperienza nella prigione di Secondigliano è stata molto intensa, mi ha formato sia umanamente che spiritualmente. Dico sempre che facendo il cappellano, ho imparato ad essere sacerdote, perché ho incontrato i più deboli, gli esclusi, e soprattutto, ho affrontato la misericordia e il perdono”. Il sacerdote ha anche osservato che questa è stata l’esperienza “più bella che abbia mai vissuto: stare con loro per 23 anni, con le loro famiglie, cercando di essere un segno di speranza per loro”. “Noi cappellani siamo davvero convinti che, se aiutiamo i detenuti, possono ritrovare la fiducia in se stessi”, ha affermato. Ha anche indicato che i prigionieri pregano ogni giorno per la pronta guarigione di Papa Francesco e che hanno potuto ascoltare il messaggio audio che ha inviato giovedì dall’ospedale Gemelli, che hanno accolto con speranza. Una nuova cultura di accoglienza - Sull’appello del Santo Padre a compiere durante l’Anno Santo atti di clemenza verso i detenuti, come è avvenuto a Cuba lo scorso gennaio con il rilascio di 553 prigionieri dopo la mediazione del Vaticano, P. Grimaldi ha sottolineato che, quando il Pontefice lancia una petizione, “lascia la libertà alle persone”. “L’appello del Papa è evangelico, un appello alla coscienza e alla responsabilità degli altri. L’indulto e l’atto di clemenza che il Papa chiede è una chiamata alla misericordia. Sappiamo bene che i detenuti sono lì per motivi di giustizia, ma non dobbiamo mai separare la misericordia dalla giustizia. Altrimenti, la giustizia si trasforma in vendetta”, ha aggiunto. Padre Grimaldi ha sottolineato che Rebibbia è diventato un “simbolo di tutte le prigioni del mondo”, un luogo che il Santo Padre ha scelto “per dire al mondo intero: proviamo a guardare le nostre prigioni”. Tuttavia, ha precisato che Papa Francesco ha espresso la sua vicinanza ai detenuti da quando ha iniziato il suo pontificato, con il lavaggio dei piedi e i suoi continui appelli alla misericordia. Parlando ad ACI Prensa, ha sottolineato che “il ruolo dei laici è fondamentale” poiché è necessario “trasmettere un messaggio di benvenuto”. “La porta della prigione è stata aperta in modo da poter attraversare ed entrare nella prigione. Ma non dobbiamo dimenticare che quella porta è aperta anche perché altri escano. Non è solo un’entrata, ma anche un’uscita”, ha insistito. Ha sottolineato che la sua più grande preoccupazione è che, “quando questi detenuti escono, non trovano accoglienza o disponibilità. Ci sono ancora molti pregiudizi e, ad essere sinceri, la società ha paura di accogliere coloro che escono di prigione”. Ha insistito sulla necessità di “educare la comunità e la società a renderle più accoglienti e non indifferenti di fronte a tanti problemi”, creando una nuova cultura e ponendo fine all’indifferenza. Ha inoltre sottolineato che il prossimo 9 aprile, i membri della Conferenza Episcopale Italiana, guidati dal Cardinale Matteo Maria Zuppi, attraverseranno la Porta Santa della prigione di Rebibbia per celebrare il Giubileo. Lo scontro sulla giustizia. Gli avvocati con i giudici: “Stop alle aggressioni” di Elena G. Polidori Il Giorno, 10 marzo 2025 Le Camere penali sugli attacchi del Governo: “Toni pesanti, mantenere il rispetto”. La maggioranza insiste: “Alcuni esponenti della Cassazione fanno comizi”. Sotto traccia, lo scontro è sempre rovente. Dopo le parole del procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, che è tornato a lanciare l’allarme sulla legge sulla separazione delle carriere (“si rischia un pm al di fuori della giurisdizione che non lavora più per cercare la verità, ma una condanna a tutti i costi”, ha commentato), ieri al fianco dei magistrati, dopo il riacutizzarsi della polemica seguita alla sentenza della Cassazione sul caso Diciotti, sono scesi in campo i penalisti. “L’autonomia e l’indipendenza della funzione giudiziaria vanno garantite, tutelate e difese non solo in quanto principi costituzionali, ma anche nell’esercizio quotidiano della giurisdizione” ha sottolineato l’Unione delle camere penali, aggiungendo: “La critica e il dissenso rappresentano il fondamento di ogni confronto democratico, ma incontinenti aggressioni verbali che esulano del tutto dal merito tecnico delle decisioni giudiziarie, costituiscono una grave lesione all’immagine stessa della giurisdizione”. Per i penalisti, “gli attacchi hanno assunto toni pesanti”, ha precisato il segretario dell’Ucpi Rinaldo Romanelli, che ha affermato con forza: “La funzione del giudice è un cardine del nostro sistema democratico. Anche a noi capita di criticare da un punto di vista tecnico-giuridico dei provvedimenti, questo è espressione della libertà di pensiero, ma bisogna mantenere equilibrio e rispetto altrimenti diventa un attacco alla funzione in sé che è fondamentale per l’esercizio della democrazia”. Per il segretario dell’Unione delle camere penali, “nessuno vince nello scontro tra poteri, perdiamo tutti”. Eppure anche ieri sono arrivate critiche alla pronuncia della Cassazione sulla Diciotti. “È inaccettabile che lo Stato italiano debba risarcire chi ha tentato di entrare clandestinamente nel nostro Paese - ha tuonato Simona Petrucci, senatrice di Fratelli d’Italia - un principio che rischia di trasformarsi in un incentivo alle partenze e un regalo a chi sfrutta il traffico di esseri umani”. Per la senatrice di FdI, “l’Italia ha il diritto e il dovere di difendere i propri confini e di garantire la sicurezza dei cittadini, evitando ogni misura che possa favorire l’immigrazione illegale e alimentare il business criminale degli scafisti”. Affondo anche di Maurizio Gasparri, presidente dei senatori azzurri: “Ha ragione l’Unione delle camere penali. Per le cui parole vale l’eterogenesi dei fini. Nel confronto sulla giustizia bisogna evitare incontinenze verbali e affermazioni improprie. Ci auguriamo che gli esponenti della Cassazione la smettano di andare in giro facendo comizi contro il governo. Che la Presidente della Corte suprema di cassazione, Cassano, eviti di fare intimidazioni al Parlamento, che sta facendo delle riforme che l’avvocatura attende da decenni. Quando ho letto alcune parole di Cassano pensavo fosse l’ex calciatore, noto per le sue bizzarrie”. Intanto proseguono gli sbarchi sulle coste italiane: 283 migranti hanno raggiunto Lampedusa dove ieri c’erano stati altri tre approdi con 191 persone. A bloccare le imbarcazioni sono state le motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. Il Governo contro la Cassazione, nuovo fronte del conflitto di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 10 marzo 2025 La decisione delle Sezioni unite sul risarcimento ai migranti ha innescato nuove reazioni scomposte della politica. Incurante del merito. Perché tutto si gioca sulla natura del prossimo Csm. Solo pochi giorni addietro nell’ incontro con l’Anm il governo, pur con tono garbato, aveva chiuso a ogni ipotesi di modifica della riforma sulla separazione delle carriere. Gli “insulti” (tali definiti dalla presidente Cassano) da parte di esponenti di massimo livello del governo a fronte della decisione sui migranti della Corte di Cassazione, nella sua massima espressione a sezioni unite, ci propongono una conferma e una novità. La conferma: non di separazione di carriere si discute, ma di “riequilibrio” tra i poteri dello stato. Non nel senso di assunzione di responsabilità da parte della politica o di intervento del legislatore per colmare dei vuoti (vedi fine vita), ma di attacco alla indipendenza della magistratura. L’obbiettivo è l’organo che la Costituzione ha posto a presidio della indipendenza della magistratura tutta, giudici e pm. Il Csm, “pietra angolare” del nuovo ordinamento giudiziario, come ebbe a definirlo in una sentenza del 1986 la Corte costituzionale, viene ridotto alla quasi irrilevanza. È spezzettato in due organi non comunicanti, gli si sottrae la competenza disciplinare e, soprattutto, attraverso il sorteggio dei componenti togati (secco o temperato che sia) se ne affida il funzionamento, appunto, al caso. Questione che non dovrebbe essere elusa dai sostenitori della separazione: per avere questa siete disposti a “ingoiare” tutti gli altri danni collaterali? La novità è una nota di colore. Non si parla di toghe rosse, non si sa se per consiglio di un armocromista o per omaggio al sense of humor: tutti hanno visto in tv le sfilate dei magistrati di Cassazione che indossano una toga rossa. L’argomento: magistrato che emette provvedimento sgradito al governo= toga rossa è fallace. I magistrati sono cittadini, donne e uomini che votano, un campione dell’elettorato generale. È presumibile che il voto politico recente abbia visto le toghe azzurro-nero-verdi in maggioranza su quelle giallo-rosso-viola. È altrettanto presumibile che decisioni sgradite al governo siano state adottate da toghe azzurre o nere o verdi: toghe che, come tutte le altre, nel decidere sulla singola questione, al di là delle loro opinioni di politica generale, hanno applicato la legge. Una questione, infine, che non si può eludere. È in gioco l’indipendenza della magistratura, non in un prossimo eventuale futuro, ma qui e ora, non solo dei pm, ma anche dei giudici. Le decisioni di una magistratura indipendente devono essere ancorate alla legge, rispettose dei limiti della funzione giurisdizionale, ma possono, devono, quando ne ricorrano le condizioni, “disturbare il manovratore”. Il governo, sulla fiducia del Parlamento, è espressione della volontà popolare espressa con il voto, ma la magistratura è soggetta “soltanto” alla legge, alla Costituzione, alle convenzioni internazionali, al diritto europeo, non ai progetti di legge e tanto meno al “programma di governo”. Sono princìpi fondamentali dello stato di diritto. La “invasione di campo” di cui parla il vice premier Salvini vi è, ma non da parte della magistratura. Lo dice in termini inequivocabili l’ordinanza della Cassazione: “L’azione del governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”. Se gli “insulti” qualificano solo chi li lancia, più preoccupanti sono dichiarazioni apparentemente moderate nei toni, ma non nel contenuto. E anche silenzi come di fronte alle dichiarazioni dell’”amico” Elon Musk che invitata a licenziare i giudici dei casi sui migranti e plaudiva alla riforma sulla separazione delle carriere. Abbiamo poi un ministro della Giustizia che definisce “abnorme” il provvedimento di un giudice, dimenticando che sarebbe un illecito disciplinare che il ministro della Giustizia dovrebbe perseguire, che si propone come giudice di appello per la decisione del Tribunale di Roma sul sottosegretario Delmastro e inaugura, per la decisione del terzo grado di giudizio, le sezioni unite della Cassazione, un suo personale quarto grado. L’indipendenza della magistratura è garanzia per tutti, anche per la politica, al di là delle contingenti maggioranze. Garanzia fragile, messa a rischio senza un “forte” organismo di tutela come il Csm della Costituzione del 1948, pur con le sue luci e le sue ombre. Cassazione contro Nordio sull’abuso d’ufficio: “Decida la Consulta” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2025 Per i giudici il Parlamento ha violato la Convezione di Merida anche perché non ha “compensato” l’eliminazione della norma penale con “altri meccanismi repressivi”. La cancellazione del reato di abuso d’ufficio crea una sacca di impunità e indebolisce, di conseguenza, la lotta alla corruzione, violando norme internazionali a cui l’Italia è vincolata. Ne è convinta la Cassazione, che ha presentato ricorso alla Corte costituzionale. L’abrogazione del reato, voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, d’intesa con l’intero governo, ha lasciato, secondo la Cassazione, un vuoto che non è stato colmato da alcun provvedimento per tutelare i cittadini dagli abusi di potere di pubblici ufficiali, in violazione degli articoli 11 e 117 della Costituzione, con riferimento al mancato rispetto della convenzione Onu anti-corruzione, di Merida, dell’agosto 2003, firmata dall’Italia a dicembre di quell’anno. Per queste ragioni la Suprema Corte si è rivolta alla Consulta prima di decidere su un ricorso di un condannato, un ex segretario comunale, che, per il principio del favor rei, ha chiesto l’annullamento della pena per abuso d’ufficio, anche se il reato fu commesso quando ancora era in vigore. Sulla scia di questo principio la procura generale aveva chiesto l’annullamento della condanna “perché il fatto non è più previsto dalla legge”, ma secondo i giudici l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è incostituzionale e, dunque, prima di entrare nel merito del ricorso, chiedono la pronuncia della Consulta. Secondo la Cassazione c’è un contrasto dell’articolo 1 della legge Nordio con l’articolo 19 della Convenzione di Merida “rubricato in ‘abuso d’ufficio’”. Prevede l’adozione da parte degli Stati firmatari di “misure legislative necessarie” affinché sia punito “il pubblico ufficiale quando ha commesso intenzionalmente un atto abusando delle proprie funzioni” o è accusato “di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi, al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità”. Questa “disposizione” della Convenzione di Merida, spiega la Cassazione, “delinea una nozione di abuso d’ufficio omologa” al reato di abuso d’ufficio previsto dal codice penale italiano (articolo 323) e abrogato dalla riforma Nordio. La stessa Cassazione ricorda che secondo la Convenzione “l’obbligo di considerare l’introduzione del reato di abuso d’ufficio costituisce il livello minimale vincolante per ogni Stato contraente”. E anche se l’obbligo è riferito solo alla valutazione dell’introduzione dell’abuso d’ufficio, c’è, però, secondo la Cassazione, un obbligo dettato dalla Convenzione di “compensare” l’abrogazione di una norma come l’abuso d’ufficio con altri “meccanismi” a tutela dei cittadini vittime di pubblici ufficiali infedeli. Scrive la Cassazione: “Utilizzando il verbo ‘mantain’”, la Convenzione, “obbliga gli Stati contraenti… dall’astenersi dall’adottare misure legislative o amministrative che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto dagli scopi” di Merida. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio “ha violato questo specifico obbligo in quanto non è stata ‘compensata’ dall’adozione di meccanismi preventivi e repressivi, penali o amministrativi” contro gli abusi “degli agenti pubblici ai danni dei cittadini”. Per i giudici non può essere considerata una “compensazione” il sistema disciplinare interno alla pubblica amministrazione. Il reato di abuso d’ufficio, invece, “aveva una portata generale estremamente efficace anche sul piano preventivo” della lotta alla corruzione, “in ragione della previsione della minaccia della sanzione penale”. La Cassazione ha potuto ricorrere alla Corte costituzionale perché, sostiene, non mette in discussione la scelta del legislatore di cancellare un reato, dato che spetta al potere politico stabilire la sfera penale, ma perché nel caso della cancellazione dell’abuso di ufficio si violano, a suo avviso, norme internazionali che l’Italia ha l’obbligo di rispettare. Prima della Cassazione, 13 tribunali avevano presentato ricorso alla Corte costituzionale contro l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il primo è stato quello di Firenze. L’udienza è fissata per il 7 maggio, ma è possibile che ci sia una riunificazione dei vari ricorsi. Femminicidio, o il diritto penale della propaganda di Francesco Compagna Il Foglio, 10 marzo 2025 Perché l’ultimo intervento del governo, che vuole mandare all’opinione pubblica un messaggio che va ben oltre il processo, iscrive anche la destra al campo del progressismo penale. Alla fine ci siamo arrivati. Troppo forte era stata in questi anni la rappresentazione mediatica della violenza sulle donne perché chi vive di consenso potesse astenersi dal proporre un intervento di carattere simbolico. Solo pochi mesi fa, del resto, Filippo Turetta era stato condannato all’ergastolo a furor di popolo, mentre il suo avvocato diveniva contestualmente oggetto di minacce di vario genere, e già allora si era chiaramente avvertito che un altro argine era destinato a essere piegato: per l’opinione pubblica era ormai necessario che in simili casi la comminatoria dell’ergastolo divenisse automatica, che qualsiasi spazio di valutazione per altri profili del fatto fosse definitivamente soppresso. Se verrà approvato il disegno di legge sull’aggravante dell’odio di genere, varato venerdì dal Consiglio dei ministri e probabilmente apprezzato anche dall’opposizione, questo risultato potrà dirsi raggiunto: la parola femminicidio farà definitivamente rima con ergastolo. Lascio volentieri ad altri (sociologi, psicologi o opinionisti televisivi) l’interpretazione dell’odio di genere, perché sinceramente non saprei dare alcun contributo. Sarebbe stato forse più semplice parlare dell’omicidio di una donna da parte del marito, del fidanzato o dell’amante, evitando di ricorrere a criteri psicologici che presentano evidenti profili di indeterminatezza. Ma sul piano politico non sarebbe stato probabilmente lo stesso, perché lo scopo di un simile intervento normativo non è quello di parametrare la sanzione a una maggior gravità del fatto, quanto piuttosto di stigmatizzare - con un simile giudizio - alcuni dei tratti negativi ritenuti caratteristici dell’attuale società, spesso definiti attraverso la suggestiva evocazione del “patriarcato”. La vita e la libertà delle persone sono beni da tutelare sempre, a prescindere dalle stagioni politiche, dalle caratteristiche della vittima o dall’interpretazione psico-sociale dell’agire dell’assassino. Fra tutte le norme incriminatrici, quella che riguarda l’omicidio volontario è per questo la più semplice in assoluto, mentre le numerose aggravanti esistenti già conducono comunemente, nei casi più gravi, alla comminatoria dell’ergastolo. Se si ritiene di introdurre un simile richiamo all’odio di genere è proprio perché si vuole mandare all’opinione pubblica un messaggio che va ben oltre il processo penale. Il problema è che quando il diritto penale diventa strumento di consenso, come avviene da troppo tempo in Italia, la sua funzione viene inevitabilmente snaturata per ridar vita all’immarcescibile figura del capro espiatorio. Lo ha fatto in talune occasioni la magistratura, forzando i presupposti della responsabilità penale o valorizzando con condanne esemplari determinate istanze politiche, ma ha poi iniziato a farlo sempre più spesso il legislatore, senza distinzione di colori politici, non appena si è reso conto di poter utilizzare lui stesso una così straordinaria leva di consenso a costo zero. Fra politici corrotti, imprenditori spregiudicati e uomini violenti ciascuno può scegliere il capro espiatorio che più gli aggrada, ma lo spirito del populismo penale rimane sempre lo stesso. Comminare un ergastolo a un giovane assassino, irrogare una pena detentiva elevata per una accusa di corruzione o condannare un imprenditore per un disastro per lui imprevedibile sono tutte scelte che vogliono porre la sanzione penale a servizio di un ideale di progresso, trasformando la condanna dell’imputato in un giudizio di valore etico-sociale. È questo il grande inganno dei nostri tempi, l’idea che le battaglie politiche non debbano passare attraverso la faticosa ricerca degli interventi riformatori ritenuti di volta in volta più adeguati, tenendo conto delle diverse posizioni in campo, ma da una ferma condanna morale di chi viene di volta in volta individuato (a torto o a ragione) come possibile capro espiatorio. E talvolta, anche solo di chi si permette di avanzare dei dubbi sull’idea di progresso posta a fondamento di quella battaglia. Da qualche giorno anche la destra italiana è salita definitivamente a bordo del progressismo penale, lasciando per una volta in pace i manifestanti, i detenuti e gli immigrati clandestini. Vassalli aveva capito tutto: un processo accusatorio senza separazione resta inefficace di Oliviero Mazza Il Dubbio, 10 marzo 2025 Nel 1989 si cercò di attuare una separazione funzionale interna al processo, ma senza la separazione tra giudice e pm, questa soluzione non ha avuto successo. Senza una riforma non si realizzerà mai un processo accusatorio garantista. Per un accidente tanto fortuito quanto fortunato, abbiamo oggi la possibilità, sarebbe meglio dire il privilegio, di apprendere dalla voce di uno dei padri del processo accusatorio quanto la separazione delle carriere sia consustanziale al modello che ha ispirato la riforma del 1989. L’intervista ritrovata a Giuliano Vassalli è di un’attualità sorprendente, sebbene raccolta dal Financial Times nel lontano 1987, alla vigilia dell’entrata in vigore di quella epocale riforma del processo accusatorio intestata, oltre che allo stesso Guardasigilli del tempo, al presidente della Commissione ministeriale Gian Domenico Pisapia. In Vassalli è saldissima la convinzione che non si possa ritenere nemmeno tendenzialmente accusatorio un sistema processuale che prescinda dalla separazione ordinamentale del giudice dal pubblico ministero. Stimolato dalle intelligenti domande di un giornalista anglosassone intriso della cultura processuale adversary, Vassalli ricorda che “parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice… che continuerà a far parte della stessa carriera, degli stessi ruoli… essere colleghi eccetera, è uno dei tanti elementi che non rendono molto leale parlare di sistema accusatorio”. Il ministro firmatario del primo codice di rito penale repubblicano ammette che, per onestà, si sarebbe dovuta addirittura togliere la qualifica di (tendenzialmente) accusatorio al suo progetto onde evitare una truffa delle etichette determinata proprio dalla mancata contestuale riforma dell’ordinamento giudiziario. Qualifica che è rimasta “per ragioni di opportunità”, al fine di scongiurare “una ulteriore spinta per la magistratura italiana per lasciare le cose più o meno come sono”. Meglio, dunque, un’etichetta ottimistica piuttosto che un segnale gattopardesco tanto atteso dal potere della conservazione. A distanza di 35 anni dall’entrata in vigore del codice che avrebbe voluto essere accusatorio, ma che non poteva esserlo fino in fondo a causa del difetto ordinamentale, e a 25 anni dalla riforma costituzionale del giusto processo triadico, in cui il giudice è terzo rispetto alle parti poste su un piede di parità, la denuncia di Vassalli si colloca in una singolare dimensione sospesa nel tempo, tra il profetico e l’attuale. Separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e separazione ordinamentale sono vasi comunicanti nella lezione di Vassalli: la prima non può essere effettiva senza la seconda e quanto più si edulcora la distinzione delle funzioni processuali tanto meno si sente la necessità di intervenire sulle carriere. Vassalli è comunque un giurista pragmatico, consapevole delle resistenze della magistratura, da sempre marcatamente conservatrice sul punto (“quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più”), e ritiene di poter compensare, almeno in parte, il difetto della struttura ordinamentale con una più netta distinzione dei ruoli processuali. Realista o forse rassegnato, Vassalli avverte che “la magistratura ha un potere enorme… lo ha sul potere legislativo… è il più grande gruppo di pressione, è il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia… in quarant’anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la quale è diventata sempre più un corpo veramente corporativo”. Il j’accuse di Vassalli si completa con la descrizione “in linea pratica” di un ministro “circondato esclusivamente da magistrati” distaccati al ministero, una fotografia che non sembra ingiallire nel tempo e che rispecchia la realtà di un dicastero ancor oggi presidiato dai “fuori ruolo”. La lobby dei magistrati è il cuore politico dell’intervista. Vassalli non ne parla in modo generico, porta esempi concreti di condizionamenti che vanno dal veto alla elezione dei giudici costituzionali fino alle logiche del Csm per tornare al procedimento legislativo influenzato direttamente dal volere della magistratura. In particolare, la legge di ordinamento giudiziario, la legge dei magistrati, appare a Vassalli “intoccabile” proprio per l’opposizione dei suoi destinatari naturali. Un vero e proprio corto circuito costituzionale, in cui i “giudici soggetti alla legge” impongono le loro scelte al legislatore, soprattutto quando in gioco c’è lo stato giuridico della magistratura. L’Italia è un Paese a “sovranità limitata dalla magistratura, nelle questioni di giustizia”: questa è la perentoria e amara conclusione di uno dei più grandi giuristi del ‘900, politico eminente e prima ancora partigiano. Un epilogo di attualità disarmante. Ma torniamo alla cristallina lezione processuale di Vassalli. Nel 1989 si è tentata la strada della separazione funzionale interna al processo, non avendo allora, il potere politico, la forza di imporre la separazione ordinamentale fra giudice e pubblico ministero. A distanza di 35 anni, possiamo dire che l’escamotage non ha purtroppo funzionato e che, senza la base ordinamentale separata, le funzioni non saranno mai veramente distinte, come invece postula un processo schiettamente accusatorio- garantista. Il contesto politico attuale appare, tuttavia, ben diverso da quello descritto nell’intervista, e lascia intravedere qualche spiraglio per il superamento delle profetiche conclusioni tratte da Vassalli. La maggioranza parlamentare è stata eletta sulla base di programmi che riportano in epigrafe la proposta della separazione delle carriere, mentre la Costituzione, a partire dalla riforma del 1999, impone la terzietà del giudice quale carattere ordinamentale indefettibile, concettualmente ben distinto tanto dall’imparzialità quanto dall’indipendenza. Democrazia, rispetto della volontà popolare e della Costituzione sono argomenti difficili da superare persino per la magistratura associata, il “più grande potere di pressione” del nostro Paese. Modena. Rose per i morti in carcere: “Non vengano dimenticati” di Emanuela Zanasi Il Resto del Carlino, 10 marzo 2025 Nove rose incastrate nel cancello, i nomi scanditi con il megafono. “L’indagine è stata archiviata, ma questa strage non deve essere archiviata nelle coscienze dei cittadini, questo è il nostro auspicio”. Sono le voci del “comitato verità e giustizia per i morti di Sant’Anna” che ieri mattina, a cinque anni da quella tragedia, hanno dato vita ad un presidio davanti al carcere modenese. Musica, parole, striscioni e rose per ricordare chi non c’è più ma soprattutto per non calare il sipario su quella drammatica giornata dell’8 marzo 2020 quando nella casa circondariale modenese, come in altri penitenziari italiani, esplose una rivolta; il bilancio fu pesantissimo; nove detenuti persero la vita. Vi fu un’indagine della procura e 121 poliziotti penitenziari vennero iscritti nel registro con accuse di tortura e lesioni aggravate. L’inchiesta venne archiviata, secondo l’indagine i detenuti erano morti di overdose da metadone dopo avere preso d’assalto l’infermeria. Il Comitato che ha supportato i famigliari delle vittime, quasi tutte straniere, continua nella sua battaglia. “La cosa sconvolgente - ha detto una delle portavoce Elena Valentini - è che in questi giorni quando chiediamo alla gente cosa successe cinque anni fa al Sant’Anna nessuno sa rispondere! Nove persone hanno perso la vita, erano nelle mani dello Stato e delle istituzioni che avevano la responsabilità su di loro; non abbiamo ancora uno stralcio di verità, siamo ancora nel silenzio”. Bari. Disordini nel carcere minorile, 3 agenti feriti di Marco Birolini Avvenire, 10 marzo 2025 Disordini nel pomeriggio di domenica, poi torna la calma. I sindacati: “La tensione si taglia a fette”. Ad Avellino 11 arresti per il tentato omicidio di un detenuto. Ancora brutte notizie dalle carceri italiane, scandite in un bollettino che ormai è quotidiano. Domenica è scoppiata una rivolta nell’istituto minorile “Fornelli” di Bari. Poi la situazione è tornata sotto controllo “ma la tensione si taglia a fette poiché la profonda spaccatura tra italiani e stranieri si potrà ricomporre con il trasferimento urgente di almeno 10 unità” riferisce Federico Pilagatti, segretario regionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziari. L’aggressione sarebbe partita da una decina di detenuti che si era impossessata delle chiavi delle celle della sezione tre. I disordini hanno provocato anche il ferimento di tre agenti di custodia, intervenuti per riportare la calma. “I danni provocati sono di migliaia di euro che nessuno pagherà - aggiunge Pilagatti - il Sappe da mesi denuncia le criticità presenti presso il Fornelli dove, ad una carenza di poliziotti, si contrappone un sovraffollamento di 40 detenuti, che è ben oltre il numero massimo previsto”. “La situazione degli istituti minorili è fuori controllo - sottolinea Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani -: gli atti di autolesionismo aumentano ogni giorno, il disagio psichico cresce in modo preoccupante e si registra una grave carenza di mediatori culturali, educatori e personale specializzato. Le carceri minorili rappresentano il totale fallimento dello Stato. Per questo, in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino, abbiamo avviato un tour in tutti gli istituti penali minorili italiani: la situazione è allarmante, e ancor più inquietante è il totale silenzio del Governo”. Una rivolta è alla base anche dell’indagine della procura di Avellino che nella mattinata di lunedì ha portato all’arresto di 11 persone accusate di “tentato omicidio aggravato” di un detenuto, che si era verificato presso la Casa Circondariale. L’episodio era avvenuto nell’ambito di uno scontro tra due distinti gruppi criminali all’interno del penitenziario irpino. A Genova, un detenuto 27enne ha aggredito un sovrintendente della polizia penitenziaria nel carcere di Marassi colpendolo alle spalle con un violento pugno alla testa: l’agente è stato trasferito d’urgenza al pronto soccorso riportando una prognosi di 20 giorni con lesioni ai denti e al rachide. “L’aggressore avrebbe dovuto iniziare a lavorare al mattino come addetto alle pulizie del piano terra dell’istituto penitenziario, - spiega il sindacato Uilpa - ma non ne ha voluto sapere di alzarsi dal letto e intorno alle 10 chiamato dal sovrintendente di polizia penitenziaria, irritato, lo ha aggredito alle spalle”. Roma. Polveriera Casal del Marmo: nel carcere minorile di rivolte, incendi e disordini di Flaminia Savelli Il Messaggero, 10 marzo 2025 Un’escalation di rivolte e aggressioni contro gli agenti penitenziari. Personale insufficiente, spazi ridotti, sovraffollamento, e nessun percorso formativo: il carcere minorile di Casal del Marmo è, ancora, una polveriera pronta a esplodere. Intanto i numeri: sono 624 i minori detenuti nei 17 Istituti penali per minori italiani, di questi sono 61 i detenuti nella struttura di via Giuseppe Barellai. Il doppio rispetto a quanti potrebbero essere ospitati. Quindi le unità disposte per la sicurezza: sono 55 gli agenti penitenziari coordinate dai due ispettori e i due sovrintendenti. “L’emergenza è proprio nei numeri” segnala Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria): “Sia per quanto riguarda i giovani che per gli agenti della struttura e nello specifico, gli ispettori che dovrebbero essere almeno il doppio per assicurare il controllo dell’istituto. Quello che preoccupa - prosegue Capece - è che i ragazzi si ritrovano in spazi ridotti, chiusi e senza percorsi formativi. Una situazione che ha generato disordini negli ultimi mesi. Ad aggravare il quadro generale, è anche la presenza di giovani adulti che oggi rappresentano circa il 60% dei ragazzi dell’istituto e sono loro ad alimentare le tensioni”. L’ultima rivolta è dello scorso 21 febbraio quando proprio i detenuti della sezione dei giovani adulti, si sono barricati all’interno della struttura appiccando fuoco agli arredi e alle lenzuola. Lo stesso copione si era ripetuto il 12 gennaio quando due agenti sono rimasti feriti nel tentativo di sedare le proteste e poi ancora, nei mesi di settembre e ottobre. Un clima teso che si allarga a tutti gli istituti minorili che Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani, insieme all’associazione “Nessuno Tocchi Caino” stanno visitando. L’incontro a Casal del Marmo è per questo pomeriggio. “Per arginare questa situazione è necessario agire su più fronti. A partire dai giovani adulti su cui abbiamo chiesto controlli e accertamenti. Si tratta di ragazzi stranieri, spesso privi di documenti, che per aggirare il sistema si dichiarano minorenni” aggiunge il segretario Capece: “Allo stesso tempo è necessario offrire a questi giovani un’alternativa, un percorso di crescita perché sono costretti in spazi ristretti senza alcuna attività. Siamo in attesa che vengano riaperte e attivate le comunità di recupero che potranno offrire questo tipo di percorso. Infine - conclude il segretario- per quanto riguarda i numeri e il sovraffollamento, sono in programma le aperture di altri tre istituti: all’Aquila, a Lecce e a Rovigo. Con le nuove aperture l’obiettivo e diminuire la pressione nei centri attualmente operativi. Ma è necessario soprattutto intervenire sulle unità degli agenti di polizia penitenziaria che devono essere aumentate per limitare e arginare rivolte e aggressioni”. Cuneo. Azione e i sopralluoghi nelle carceri: “Tante situazioni critiche, serve intervento urgente” lavocedialba.it, 10 marzo 2025 Il neo segretario provinciale Prandi non ha dubbi: “È necessario investire in modo significativo nelle infrastrutture carcerarie, con un programma di ristrutturazione che garantisca ambienti dignitosi e sicuri”. Con diverse delegazioni che comprendevano l’Onorevole Ruffino, Nessuno Tocchi Caino e Radicali Italiani-Possibile, Azione ha visitato le Carceri di Cuneo, Fossano, Saluzzo ed Alba Questa settimana Azione, rappresentata dal suo Segretario Provinciale Giacomo Prandi, ha visitato tutti e quattro i diversi istituti penitenziari della Granda insieme all’Associazione Nessuno Tocchi Caino e l’Unione delle Camere Penali per le carceri di Cuneo, Fossano ed Alba e insieme all’Onorevole Daniela Ruffino di Azione e Radicali Italiani per il carcere di Saluzzo. “Lo stato delle carceri italiane, dei diritti dei detenuti e del lavoro del personale penitenziario sono per Azione un tema di primaria importanza - dichiara Prandi - come neo Segretario Provinciale ci ho tenuto subito a visitare tutti e quattro i penitenziari cuneesi per verificarne la situazione. In generale tutte le carceri cuneesi condividono due principali problematiche: carenze infrastrutturali dovute alla scarsa qualità dell’edilizia e della manutenzione degli istituti penitenziari e mancanza di personale per soddisfare generalmente i diversi organici che compongono la struttura del personale che in un carcere può riguardare l’area sanitaria, di competenza dell’ASL, o in un altro l’area educativa, cosi come in un altro ancora l’area amministrativa o della polizia penitenziaria. Queste due problematicità in tutta Italia unite al sovraffollamento, non particolarmente presente in questo momento nelle carceri cuneesi, generano enormi problematicità dal punto di vista della qualità della vita, sia dei detenuti che dei così detti detenenti, esasperando ed inasprendo le già precaria situazione delle carceri italiane. Tutto questo impatta enormemente sulla salute fisica e mentale di chi vive e lavora in carcere, come tristemente ogni settimana ci ricordano gli episodi di suicidio o tentato tale che avvengono tra le mura circondariali di tutta Italia.” “Alla luce di quanto emerso dalle visite - continua Prandi - Azione ritiene fondamentale un intervento urgente e strutturale per risolvere le gravi problematiche che affliggono gli istituti penitenziari. È necessario investire in modo significativo nelle infrastrutture carcerarie, con un programma di ristrutturazione che garantisca ambienti di lavoro e di detenzione dignitosi e sicuri. Allo stesso tempo, bisogna potenziare l’organico del personale penitenziario, sia sotto il profilo educativo che sanitario, per migliorare la qualità dei servizi offerti e per dare una risposta adeguata alle necessità di chi vive e lavora all’interno delle strutture carcerarie. Il nostro impegno è quello di continuare a batterci per una riforma sostanziale del sistema penitenziario italiano, che metta al centro i diritti umani, la riabilitazione dei detenuti e la sicurezza delle strutture, in un’ottica di giustizia sociale e rispetto della dignità e dei diritti umani, superando anche l’arcaica ed incostituzionale struttura delle case lavoro come quella di Alba. In questo processo, Azione non mancherà di fare la sua parte - conclude Prandi - portando avanti proposte concrete in Parlamento, grazie alla nostra Deputata Daniela Ruffino, e nelle amministrazioni locali per garantire che ogni detenuto abbia la possibilità di un percorso di recupero e di reinserimento nella società, e che chi lavora nelle carceri possa farlo in condizioni di sicurezza e dignità.” Brescia. “Via dei Bucaneve, 25: la libertà trova casa” di Elisa Garatti lavocedelpopolo.it, 10 marzo 2025 Cosa rimane, dopo il carcere? In un mondo che vive nella paura e nel pregiudizio, che è punitivo e mai comprensivo, che condanna chi ha sbagliato all’ergastolo “a vita” negandogli una seconda opportunità, questa domanda risuona come un tuono in una notte buia e fredda. Quando un detenuto, che ha scontato regolarmente la sua pena, torna alla realtà, deve fare i conti con la solitudine, l’isolamento, lo stereotipo e, soprattutto, le difficoltà a trovare un lavoro e una casa. La strada per il riscatto, per la conquista dell’autonomia e dell’indipendenza, è un purgatorio, o forse un secondo inferno. Opera segno. Proprio partendo da questa triste consapevolezza, la Diocesi di Brescia ha individuato in questa fragilità un’opera segno per l’Anno Giubilare. “Via dei Bucaneve, 25: la libertà trova casa” è un progetto dedicato al reinserimento nella comunità di persone che hanno terminato di scontare la loro pena. “Spesso, con le numerose opportunità legate alle misure alternative esterne, gli strumenti vengono offerti più a chi sta ancora scontando la pena rispetto a chi è uscito - spiega Isabella Belliboni, della Fraternità Tenda di Dio e vice presidente del Vol.Ca. (Volontariato Carcere) di Brescia -. Chi esce dal carcere rimane in balia della solitudine, della paura e delle difficoltà”. A partire dalla fase di ascolto delle priorità di chi vive e lavora in carcere, è stato individuato un bisogno: il binomio casa-lavoro per le persone a fine pena. Ecco perché la diocesi ha deciso di coinvolgere le parrocchie nella candidatura di spazi abitativi (il cui affitto viene pagato dai fine pena/ex detenuti in virtù del lavoro che, nel contempo, viene trovato loro, ndr). Non solo: “La diocesi ha deciso di investire su una figura responsabile di mediazione tra carcere e ricerca di una casa e un lavoro, che opererà in maniera integrata con Vol.Ca e Caritas Diocesana di Brescia, valorizzando le connessioni e le sinergie con il sistema produttivo - sono sempre le parole di Belliboni -. È una sperimentazione, è solo il primo di tre anni (durante questo periodo, la Fondazione Opera Caritas San Martino si impegnerà a garantire la copertura dei costi relativi all’assunzione della professionalità indicata, ndr). La comunità diventa così protagonista di un’accoglienza importante, riuscendo al contempo a responsabilizzare la persona che ha compiuto un errore e ora ha bisogno di rimettersi in campo, dandogli fiducia e accompagnandolo passo passo per la sua piena autonomia. Non solo: non tralascerei nemmeno il tema della famiglia, visto che, spesso, il carcere allontana dagli affetti. C’è tutto un percorso di ricostruzione e di riconciliazione da considerare. Ecco perché un passaggio necessario è aiutare le persone, laddove è possibile, a rientrare nel proprio contesto familiare e comunitario, per poter ripartire con fiducia. Il reinserimento della persona nella società potrebbe diventare anche una ricchezza e una testimonianza per la comunità”. Scoprire il mondo del carcere. Ma questo progetto non è solo un aiuto al detenuto: con questa iniziativa vengono offerti degli strumenti alla comunità per comprendere e avvicinarsi ad un mondo, quello del carcere, che spesso fa paura. “Credo sia importante, soprattutto in questo anno Giubilare, accompagnare le comunità in questa ‘scoperta’, per ridurre la paura e dare le chiavi di lettura adeguate per capire il carcere - continua la vice presidente del Vol.Ca -. Non lasciamo solo nessuno, nemmeno le comunità: che sia il parroco, le associazioni o la comunità stessa, ognuno di loro ha bisogno di essere accompagnato”. Consapevolezze che derivano dalla sua ormai ventennale esperienza in carcere, come volontaria del Vol.Ca e come consacrata della Fraternità Tenda di Dio. “Con la Tenda di Dio, fin dall’inizio, è stato un servizio pastorale, legato all’animazione liturgica, per la catechesi e per la messa. Dopo poco, ho iniziato con l’attività dei colloqui personali. Sicuramente, è formativo. L’esercizio dell’ascolto è tutt’ora un’esperienza che mi mette continuamente in discussione: la persona mi consegna una parte della sua vita ed è molto bello. Quello che chiedono maggiormente i detenuti è essere visti, ascoltati, riconosciuti, ma anche responsabilizzati - conclude Belliboni. Le tante situazioni vissute, il rapporto con i miei limiti e le mie fragilità di fronte ad altre storie di fragilità mi fanno sentire cambiata. Avere una capacità di accogliere è una ricchezza. Anche nei fallimenti, dentro ci si trova cambiati: si è un po’ più pazienti, un po’ più tolleranti e consapevoli che non si può risolvere i problemi di tutti. E poi ovviamente questa esperienza consente di avere uno sguardo più aperto e non settoriale”. Bisceglie (Bat). “Articolo 27: Sergio Cosmai, il carcere e le pene alternative” bisceglielive.it, 10 marzo 2025 Ne parleranno il professor Franco Papagni e don Riccardo Agresti, fondatore del progetto “Senza sbarre”. Martedì 11 marzo, alle 18:30, avrò luogo nella Sala degli specchi di Palazzo Tupputi il secondo appuntamento del ciclo di eventi promosso dal Comune di Bisceglie nel 40° anniversario dell’uccisione di Sergio Cosmai. L’incontro, dal titolo “Articolo 27: Sergio Cosmai, il carcere e le pene alternative”, sarà guidato dal professor Franco Papagni e da don Riccardo Agresti, fondatore del progetto “Senza sbarre”. Ospiti due detenuti impegnati nel progetto. L’evento sarà un’occasione per riflettere sul valore della rieducazione nel sistema carcerario, un tema centrale nell’operato di Sergio Cosmai, che da direttore di carcere si batté per il rispetto della dignità dei detenuti e per un approccio più umano e giusto alla pena. Don Riccardo Agresti, promotore di “Senza Sbarre”, racconterà l’esperienza di questo progetto innovativo, nato nel 2018 grazie alla Diocesi di Andria e a Caritas Italiana, per offrire ai detenuti ammessi a misure alternative alla detenzione una concreta opportunità di reinserimento sociale. Nella masseria San Vittore di Andria, circondata da dieci ettari di terreno, i beneficiari del progetto trovano un luogo in cui ricostruire la propria vita attraverso il lavoro agricolo e artigianale, riscoprendo il valore della comunità e della responsabilità. L’incontro si inserisce nel calendario delle iniziative che il Comune di Bisceglie ha organizzato per onorare la memoria di Sergio Cosmai, affinché il suo esempio e il suo sacrificio restino vivi nella coscienza collettiva e possano ispirare nuove azioni di giustizia sociale e legalità. Giovedì 13, con raduno alle 9 in piazza Vittorio Emanuele II, si terrà la manifestazione “La scuola in marcia contro le mafie” con la partecipazione di tutte le scolaresche della città. Milano. Dal carcere al palco. I ragazzi del Beccaria ripartono dal teatro Puntozero di Eleonora Bufoli La Stampa, 10 marzo 2025 “A questi ragazzi bisogna dare strumenti perché imparino ad andare avanti” afferma don Gino Rigoldi “Sono le uniche occasioni per crescere che gli restano”. “Ne vale la pena, i ragazzi sono capaci di cambiare”. Don Gino Rigoldi, storico educatore e cappellano del carcere minorile Beccaria, da 50 anni mette in pratica questa convinzione. Conosce i ragazzi detenuti nell’istituto e sa che occorre dare loro delle occasioni per ripartire. Una di queste è Puntozero, il primo teatro dentro il carcere con due ingressi, uno verso il microcosmo del Beccaria, l’altro aperto a tutti. Il palcoscenico diventa il punto di incontro tra queste due realtà, un’occasione per scoprire sé stessi e gli altri. Sono trent’anni che l’associazione fa teatro con i ragazzi dell’istituto penitenziario milanese, emblema del malfunzionamento delle carceri italiane, con un sovraffollamento di 69 detenuti - 60 per cento stranieri - per 48 posti disponibili e carenza di personale. Al laboratorio teatrale partecipano i ragazzi detenuti al fianco di attori professionisti e studenti dell’università Statale. L’ultimo risultato è la messa in scena di “Alice nel paese delle meraviglie” che incontra la realtà aumentata. Grazie agli effetti speciali e alle nuove tecnologie, Alice diventa minuscola e cresce a dismisura, entra nelle botole, in mondi che continuano a cambiare, in un turbinio di effetti e sensazioni. La stessa che prova sul palco Fouad, nome di fantasia, 17 anni. Un paese, la Tunisia, lasciato alle spalle, la ricerca di una vita migliore a Milano, tramutata come avviene ad Alice in incontri sbagliati, fino a all’abisso del carcere. Fouad ha partecipato a una delle tante fughe organizzate al Beccaria, a Natale, era riuscito a scappare ma è stato riportato dentro. “Sono cresciuto in una panetteria. Da piccolo mio padre ha smesso di portarmi a scuola perché era lontana. A sei anni mi ha fatto vedere come si lavora il pane, e mi diceva ‘Devi imparare e a dodici anni devi scappare via’. E io lì pensavo ‘A dodici anni? Sono piccolo’. Ho iniziato a lavorare e l’ho fatto dai sei fino agli undici anni. Nel 2019 sono arrivato qui, ero un bravo ragazzo, abitavo in una zona tranquilla. Poi mi hanno spostato a San Siro e lì ho conosciuto certe persone. Ho iniziato a spacciare e sono finito qui dentro per un anno e quattro mesi”. L’incontro con il regista Giuseppe Scutellà gli apre una botola inaspettata, come quelle che sul palco portano Alice in mondi inaspettati. Fouad nel carcere ha ripreso gli studi, fino alla terza media, e a febbraio 2024 ha iniziato a partecipare al laboratorio teatrale. “Non sapevo cosa vuol dire teatro, non parlavo l’italiano, non riuscivo a leggere, non riuscivo a scrivere. Beppe mi ha dato la possibilità di provare. Le prime volte ero un po’ timidino”. Da quel momento scopre una passione che non immaginava di avere. “Mi sono innamorato di tutto il gruppo. Sono uscito da quel posto, dietro questo vetro, grazie a loro”. Nel cassetto c’è ancora il sogno di diventare un rapper, insieme alla consapevolezza di aver imparato il mestiere di tecnico delle luci e di attore. “Ho qualche pezzo, però non li sto ancora registrando” racconta con gli occhi ancora emozionati per gli applausi appena ricevuti per la prima. In platea c’era anche don Gino Rigoldi. “Quando arriva il teatro, anche i ragazzi più analfabeti iniziano a tirare fuori qualche parola. In carcere c’è chi ci arriva con le storie le più complicate, anche poverissime. Abbiamo l’80 per cento di ragazzi colpevoli di reati della sopravvivenza, senza casa, senza lavoro, senza niente. A questi ragazzi bisogna dare strumenti perché imparino a valere qualche cosa e ad andare avanti. Sono le uniche occasioni per crescere che gli restano” spiega don Gino nella consapevolezza dei problemi del Beccaria, che non ha un direttore stabile, ha “il doppio dei detenuti e tanti agenti molto giovani, bravissimi, simpatici, che però hanno bisogno di formarsi”. Anche per il regista gli effetti speciali “più sorprendenti sono i ragazzi. Sono stati meravigliosi perché molti effetti che sono di pura tecnica digitale non funzionerebbero se loro non avessero un rigore nel fare le cose” spiega Scutellà. “L’idea è farli innamorare di un lavoro inerente alle competenze digitali, per un lavoro futuro fuori dal carcere” - aggiunge la presidente Lisa Mazoni -. Alcuni hanno finito il loro percorso nell’istituto e sono assunti da Puntozero”. Verona. Mobilio dismesso da un’azienda donato al carcere di Montorio veronasera.it, 10 marzo 2025 Iniziativa promossa da Axians, brand di Vinci Energies Italia, realizzata in collaborazione con la cooperativa sociale Universo Onlus. Iniziativa di solidarietà a favore del carcere di Verona da parte dell’azienda Vinci Energies Italia. Grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale Universo Onlus, il mobilio dismesso dagli uffici di Vinci Energies Italia, ancora in ottime condizioni, è stato donato all’istituto penitenziario per allestire nuovi spazi a supporto delle attività interne. L’operazione si inserisce nel più ampio progetto “Noc in carcere” promosso da Axians, brand di Vinci Energies specializzato in soluzioni Ict. L’iniziativa mira a creare nuovi spazi dedicati alle attività professionali dei detenuti, offrendo loro opportunità di formazione e reinserimento sociale. Il modello “Noc in carcere” si amplia quindi anche all’istituto penitenziario di Montorio, contribuendo alla riqualificazione degli ambienti e al miglioramento delle condizioni di lavoro all’interno della struttura. “Da tempo la nostra missione non si limita alla crescita aziendale, ma si estende anche alla responsabilità sociale. Questa iniziativa rappresenta un passo concreto verso il sostegno di progetti con un impatto positivo sulla comunità - ha dichiarato Thomas Panozzo, country managing director di Vinci Energies Italia - Siamo orgogliosi di poter contribuire alla creazione di spazi più funzionali e accoglienti per il carcere di Verona, rafforzando il nostro impegno nella promozione di percorsi di inclusione sociale”. A rafforzare l’importanza del progetto, anche il commento di Roberto Corraro, managing director di Axians Italia: “Il progetto “Noc in carcere” ha già dimostrato il suo valore nel carcere di Milano-Bollate, offrendo ai detenuti opportunità di formazione e crescita professionale. Estendere questa esperienza a Verona è un traguardo significativo e testimonia il nostro contributo nel creare sinergie tra il mondo del lavoro e il percorso di reinserimento sociale”. L’iniziativa si è resa possibile grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale Universo Onlus, che ha facilitato il contatto con il carcere di Verona e la gestione della donazione. Il trasferimento degli arredi è stato accompagnato da una fattura simbolica di pochi euro, consentendo a Vinci Energies Italia di procedere con la regolare cessione del materiale. Napoli. Scampia, studenti e detenuti in campo per il gol del riscatto Il Mattino, 10 marzo 2025 La classe del Liceo Flacco di Portici ha vissuto un’esperienza davvero speciale a Scampia. L’iniziativa nasce dalla collaborazione tra l’istituzione scolastica e l’amministrazione del carcere minorile di Nisida, con l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e stimolare riflessioni sui temi della responsabilità e della crescita personale, molto rilevanti per noi studenti delle scienze umane. Come è avvenuta l’esperienza? “Siamo partiti con l’autobus, carichi di entusiasmo, diretti al campo dell’Arci Scampia. Questo luogo è molto più di un semplice campo da calcio; è un punto di incontro per i giovani del quartiere, un posto dove si respira energia e voglia di fare. Una volta arrivati, ci siamo sistemati insieme alle altre classi, pronti a tifare per i ragazzi che avrebbero giocato. I partecipanti studenti e giovani detenuti hanno formato squadre miste: una squadra con i ragazzi del carcere di Nisida, l’altra con i ragazzi del campo Arci Scampia e i studenti del Flacco. La partita è stata avvincente. Abbiamo fatto il tifo con tutto il cuore, creando un’atmosfera di festa e amicizia. È stato bello vedere come il calcio possa unire persone con storie diverse, tutti uniti dalla passione per questo sport. Dopo la partita, ci siamo diretti verso un luogo chiuso dove ci siamo riuniti per un momento di convivialità. Mentre mangiavamo, abbiamo avuto l’opportunità di dialogare e conoscerci meglio. Le risate e le conversazioni si mescolavano, creando un ambiente caloroso e amichevole. È stato interessante ascoltare le esperienze dei ragazzi di Scampia e di Nisida, scoprendo che, nonostante le differenze, abbiamo tanto in comune”. L’iniziativa è stata fortemente sostenuta e garantita da Samuele Ciambriello, Garante regionale dei diritti dei detenuti, che si distingue per il suo costante impegno nel promuovere percorsi di inclusione e riconciliazione tra i giovani detenuti e la società civile, con l’obiettivo di fornire loro opportunità concrete di riscatto. Durante la partita, la sua presenza è stata un simbolo importante. “Ogni ragazzo è una storia che non è ancora finita”,ha dichiarato il Garante a margine dell’evento. La partita si è conclusa con strette di mano e abbracci tra tutti i partecipanti, testimoniando il successo dell’iniziativa. Per molti dei ragazzi detenuti, è stata un’occasione preziosa per vivere un momento di normalità e per proiettarsi, anche solo per qualche ora, in una dimensione diversa da quella quotidiana. In conclusione, la mattinata a Scampia è stata un’esperienza che ci ha arricchiti, sia dal punto di vista umano che sociale. Siamo tornati a casa con una maggiore consapevolezza delle realtà che ci circondano. Questa uscita ci ha insegnato che, attraverso il gioco e il dialogo, possiamo abbattere barriere e costruire ponti. Non vediamo l’ora di ripetere questa esperienza. Gli studenti del Liceo Flacco di Portici Classi 4L, 3L,4M, 4N Roma. “Libri Liberi”, l’iniziativa che porta la letteratura nelle carceri italiane globalist.it, 10 marzo 2025 A Rebibbia il primo appuntamento con Edoardo Albinati e Stefano Fresi. Il 6 marzo lo scrittore Edoardo Albinati e l’attore Stefano Fresi hanno preso parte al primo appuntamento dell’iniziativa Libri Liberi, una rassegna che ha lo scopo di portare all’interno dei penitenziari - in questo caso quello di Rebibbia - i grandi classici della letteratura. Il progetto è promosso dalla Fondazione De Sanctis con il patrocinio del ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - e in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del ministero della Cultura. Albinati a Fresi hanno proposto la lettura dei passi più importanti dell’Odissea, come gli incontri con Polifemo e le Sirene, la vendetta sugli uomini che desideravano Penelope e l’abbraccio di Ulisse con quest’ultima. Non è mancata la condivisione di ricordi e pareri; Fresi ha, infatti, ricordato la scena della fuga da Rebibbia presente nel film Smetto quando voglio e ha affermato che: “l’iniziativa è importante per ribadire che il carcere non allontana dalla società ma promuove il reinserimento”. Albinati ha, invece, specificato che: “l’Odissea, con il suo schema classico dell’avventura, è una metafora della detenzione”. Oltre a Teresa Mascolo, direttrice della Casa Circondariale di Rebibbia, ha partecipato all’incontro anche Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, il quale ha dichiarato: “Penso alla figura di Penelope che rappresenta la speranza e assieme la perseveranza. Due sentimenti centrali per chi è in carcere. Quello che porta alla libertà è un percorso difficile e capita che si cada o ricada in qualcosa di sbagliato”. “Bisogna perseverare - ha continuato Ostellari- e non perdere mai la speranza di un futuro migliore. Il governo fa e continuerà a fare la sua parte. Sappiamo che il 98% di chi impara a fare qualcosa in carcere poi una volta uscito non delinque più. Dobbiamo investire in questo e sul personale da incrementare. Importanti anche le strutture esterne previste dal decreto ministeriale di prossima pubblicazione. Aiuteranno i detenuti che seppur hanno completato il percorso di pena non possono uscire dal carcere per mancanza di un idoneo domicilio”. L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo dai detenuti che hanno condiviso toccanti testimonianze durante l’incontro, uno di loro ha riferito: “Siamo pezzi di carta, non siamo accolti come Ulisse, ci portiamo sempre dietro il pregiudizio e viviamo la nostra Odissea”, un altro detenuto ha invece ringraziato lo scrittore e l’attore: “Ognuno di noi ha fatto una scelta, non ci nascondiamo dietro a un dito e vi siamo grati per questo momento che ci avete dedicato”. E ancora: “Sono in carcere da vent’anni, la cultura mi ha dato la forza e come Ulisse che sperava che la moglie lo aspettasse, anche noi non dobbiamo perdere la speranza”. La rassegna proseguirà il 12 marzo nel carcere di Secondigliano con lo scrittore Maurizio De Giovanni e l’attore Fabrizio Bentivoglio che leggeranno e racconteranno ai detenuti Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Televisione. “KeStorie rap”, don Burgio racconta il mondo delle carceri ansa.it, 10 marzo 2025 Cappellano del Beccaria in tv con storie di minori in cella. “Entreremo nel mondo delle carceri, capiremo davvero perché i giovani detenuti scrivono e cantano le loro canzoni e cosa desiderano esprimere. Per molti sarà difficile ma è fondamentale”. Così don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayros, annuncia il ritorno del suo programma KeStorie rap, a 11 anni dal debutto, che andrà in onda da domani su Telenova. Ad accompagnarlo in studio ci sarà Daniel Zaccaro, ex bullo e rapinatore di banche più volte in carcere e oggi laureato ed educatore di Kayros. Tra storie di vita, canzoni e dibattiti, si legge in una nota, KeStorie rap vuole mostrare la realtà delle carceri minorili italiane e di chi le vive: in studio saranno presenti alcuni degli adolescenti maggiorenni che frequentano la comunità Kayros e racconteranno la loro esperienza e, soprattutto, cosa li ha portarti a delinquere e commettere reati: “I ragazzi è giusto che paghino per quello che hanno fatto, ma devono pagare nelle condizioni in cui versano le carceri?”, si domanda uno dei ragazzi. Kestorie rap andrà in onda su Telenova ogni lunedì alle 22.30 e in replica il martedì alle 14 e il sabato alle 13. Libri. “Lontano dalla vita degli altri”, i racconti di un’insegnante che aprono una breccia di Gaia Scacciavillani Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2025 Una serie di affreschi dove le parole dell’autrice dialogano con le illustrazioni di Gabriella Giandelli, in un quadro della vita in galera. Giovanna Canzi, umanista, giornalista, ma soprattutto persona curiosa e aperta, si è spinta un giorno a indossare i panni dell’insegnante e a entrare in un mondo a parte, “lontano dalla vita degli altri”: la Casa Circondariale della sua città, Monza. Invece di scappare, come l’istinto le suggeriva, è rimasta. E per quattro anni ha insegnato con passione a degli alunni fuori dall’ordinario che si trovavano dietro le sbarre a condividere i loro pesanti vissuti. Quando l’esperienza si è suo malgrado conclusa, Giovanna ha deciso di travasarne l’essenza in un libro. Fresco di pubblicazione, “Lontano dalla vita degli altri” (Marinoni Books) è una serie di racconti a due voci dove le parole dell’autrice dialogano con le illustrazioni di Gabriella Giandelli, per restituire al lettore un affresco sincero e autentico di cosa sia la vita in galera. Eccone un estratto. “Nella vita non ci sono che inizi”. Mi preparo a entrare per la prima volta in un istituto di pena e il cuore recupera questa frase di Madame de Staël che mia madre mi ripeteva da viva. Un inizio che intimorisce e attrae, atterrisce ed entusiasma, alimenta pensieri contrastanti. Conteniamo moltitudini - “Mi contraddico? Certo che mi contraddico!” - mi ripeto, perché siamo esseri umani. Il carcere della mia città si trova in un quartiere fuori mano, marginale, lontano. Lontano dalla vita degli altri, lontano da chi è privo di smagliature. A pochi passi dall’edificio vi è una discarica. Ad attendermi all’ingresso c’è una collega che mi accompagnerà dai miei primi studenti. In borsa, alcuni libri scelti per affrontare questo strano inizio. Il percorso per arrivare in aula si snoda fra controlli, clangori, sguardi curiosi. Il metallo delle porte sbattute con furia cade pesante sull’anima. Cammino e osservo. I lunghi corridoi in penombra, gli arredi essenziali, le sbarre che separano i diversi ambienti. E poi loro: grandi orologi da muro appesi alle pareti. Sono tutti fermi a ore diverse. Le ore non hanno importanza per chi entra in questo edificio: “Se tutto il tempo è eternamente presente / tutto il tempo non è riscattabile” ci ricorda Eliot. Sto attraversando uno strano labirinto senza la certezza di avere il gomitolo di lana che mi farà trovare l’uscita. La collega mi informa che la mia prima lezione avverrà in una sezione particolare. La Settima. Nella sua voce colgo una traccia di apprensione. Come il Gurdulù di Calvino - “A seconda dei paesi che attraversa […] i nomi gli scorrono addosso, senza mai riuscire ad appiccicarglisi” - mi sento confusa, alle prese con una realtà sfuggente. Cos’è la sezione Settima? Perché devo preoccuparmi? Ci vorrà un lungo apprendistato per conoscere la geografia di un istituto di pena e impararne il linguaggio. Capirò con il tempo che qui - come nell’Inferno dantesco - tutto ha un ordine preciso. Esistono diverse sezioni che corrispondono a diversi tipi di reato e ogni detenuto si sente meno colpevole degli altri: chi spaccia è meno colpevole di chi uccide; chi ruba è meno colpevole di chi collabora con la giustizia. Ma nessuno è più colpevole dei protetti, ossia chi ha abusato di una donna o di un bambino. Sono loro, i Sex Offender, gli abitanti della Settima. Mentre apprendo questa informazione, la mia mente prende la forma di una nuvola carica di pensieri, paure, domande. Dopo un viaggio che pare infinito, la collega e io saliamo le tre rampe di scale che ci conducono a destinazione. Entro in un’aula angusta con sbarre alla finestra, quattro poveri banchi, e una lavagna di ardesia alla parete. Mi siedo a una cattedra di fortuna e attendo. La collega mi saluta e mi affida al nuovo giorno. Scorrono minuti infiniti prima che entrino sei ragazzi. Spalle grosse, braccia muscolose, qualche tatuaggio e tratti somatici diversi. Li guardo smarrita. Cerco di respirare solo con la bocca perché non sopporto i loro odori, che hanno invaso la stanza. L’odore sgradevole che ricorda la disperazione della povertà, dell’esclusione, della resa. Non posso scappare. Non ora. Affronterò il mio primo giorno; poi ritornerò sui miei passi; dirò che non posso più insegnare qui, che ho cambiato idea. Mi presento e chiedo a ognuno di loro il nome e la provenienza. Grazie a un libro dedicato alle diverse bandiere del mondo iniziamo a giocare. Guardiamo i colori di ogni vessillo, leggiamo la storia di ogni paese, dimentichiamo di essere in un luogo in cui le persone cercano di riannodare i fili della propria vita. Tutto si fa più lieve; quasi senza accorgermene sono tornata a respirare con il naso. Libri. “Gli ultimi giorni di quiete”. Un cortocircuito emotivo tra giustizia e vendetta di Claudio Gavioli Il Resto del carlino, 10 marzo 2025 A Pasquale e Nora è successa la cosa peggiore che possa capitare a un essere umano: sopravvivere a un figlio. Nel loro caso a Corrado, ventitreenne ucciso da un balordo durante una rapina. Rinchiusi dentro a un dolore sordo, da quel giorno la loro esistenza si è trasformata in anni grigi e uguali, poche parole a cena, azioni inerti e senza vita, con “il tempo che scorre senza scalfire il dolore, inutile come acqua su una cerata”. E senza che nessuno dei due abbia il coraggio di vomitare tutta la disperazione che li attanaglia. Fino al giorno in cui Nora, in treno, riconosce l’assassino di suo figlio già in libertà dopo sei anni e il castello di carte dentro a cui lei e Pasquale si sono rifugiati, crolla miseramente. Da quel momento l’unico pensiero ossessivo che oscura i loro cuori e le loro menti sarà la vendetta. La storia raccontata da Antonio Manzini nel bellissimo romanzo “Gli ultimi giorni di quiete” (Sellerio, pagine 230) tratta da un fatto vero, è innanzitutto una solida prova di ottima letteratura. Al di fuori della saga di Rocco Schiavone, Manzini conferma di essere uno scrittore affidabile. Il cortocircuito tra torto e ragione, giustizia e vendetta è descritto con efficacia e incisività. La riposta ai delicati interrogativi proposti dalla storia è che non c’è una riposta davanti a certe contorsioni della vita. Come Vincenzo Cerami con “Un borgese piccolo piccolo” poi ripreso al cinema da Mario Monicelli nel 1977, Manzini riesce a toccare un tema caldo con lo sguardo lucido di un maestro di storie. Libri. “Il reato di ecocidio è un crimine contro l’umanità. La Cpi deve riconoscerlo”. di Nicolas Lozito La Stampa, 10 marzo 2025 Chi ha il coraggio, oggi, di pubblicare un libro sull’ambiente? Trump ha fatto sua la bandiera del negazionismo climatico, in Europa la transizione ecologica è stata messa in dubbio dal nuovo Parlamento europeo e in Italia si litiga sugli attivisti che bloccano le strade e si torna a parlare di energia nucleare. Di fronte a questi scenari servono autori e autrici davvero impavidi per affrontare l’argomento. L’audace Stefania Divertito torna in libreria con “Uccidere la natura” (Il Saggiatore). Un libro che, come si può intuire dal titolo, non parla di sostenibilità spicciola, edulcorata e alla moda, ma si prende la responsabilità di affrontare un tema che molte aziende e molti governi vorrebbero che nessuno nominasse: l’ecocidio. Divertito è giornalista ambientale d’inchiesta, ha seguito per anni i temi dell’inquinamento. È stata premiata nel 2004 come cronista dell’anno per la sua inchiesta quinquennale sull’uranio impoverito, nel 2013 ha ricevuto il Premio Pasolini per la sua inchiesta sull’amianto e nel 2022 ha ricevuto il Premio Eternot di Casale Monferrato per il suo impegno contro l’amianto. Spiega: “Oggi quando parliamo di ambiente dobbiamo anche parlare di giustizia: il termine ecocidio serve a indicare quei reati ambientali così gravi che sono paragonabili ai crimini contro l’umanità”. Oggi l’ecocidio ha una definizione ufficiale, (“atti illegali o sconsiderati compiuti con la consapevolezza di una significativa probabilità che tali atti causino danni all’ambiente gravi e diffusi o di lungo termine”), ma il riconoscimento presso la Corte penale internazionale è ancora lontanissimo. “Il termine ha una sua forza narrativa e comunicativa, lo usiamo spesso in ambito giornalistico. Ma quando si prova a trasformarlo in una norma, si scontra con un pragmatismo feroce”. Qualche esempio di possibili ecocidi: l’uso sfrenato dell’Agente Orange in Vietnam durante gli attacchi americani, un defoliante che ancora oggi causa tumori nella popolazione. Oppure lo sversamento di petrolio della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico del 2010. O ancora i danni causati dalle estrazioni di petrolio nel Delta del Niger negli ultimi quarant’anni. Ma il reato “non dovrebbe essere solo punitivo, ma preventivo. Un deterrente per le azioni future”. Anche in Italia abbiamo i nostri ecocidi: “Ciò che è successo nella Terra dei fuochi è sotto gli occhi di tutti”. Il libro di Divertito è strutturato in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco), ogni capitolo ha storie, idee, voci di chi ha subito le conseguenze dei disastri e chi sta provando a riparare i territori. Non è un semplice libro di analisi, è anche uno strumento di memoria collettiva. Uno degli aspetti più potenti di Uccidere la natura è il suo carico emotivo. “Nel libro c’è tutto: il senso di colpa, la responsabilità, l’ansia. E tanta rabbia”, ammette Divertito. “Ho perso troppe persone care a causa di tumori legati all’inquinamento. E vedere l’apatia di questi ultimi anni, come se fossimo ipnotizzati, è insopportabile”. Tuttavia, non si tratta di una rabbia sterile: “Scrivere questo libro mi ha portato a riscoprire una rabbia attiva. Non quella che ti blocca, ma quella che ti spinge ad agire. Vorrei che il libro fosse uno strumento per le comunità, un focolare attorno a cui discutere e ritrovare un senso di appartenenza”. Il giornalismo e la scrittura possono essere antidoto agli ecocidi. “Sono cresciuta a San Giovanni a Teduccio, una zona di Napoli segnata dall’inquinamento industriale. Quando nel 1985 esplose lo stabilimento dell’Agip, vidi la nube nera coprire la città. Quella fu la mia prima grande presa di coscienza. Da lì ho scelto di indagare, studiare, capire cosa succedeva attorno a me”. I problemi però si risolvono non solo con lo studio, ma anche con la capacità di fare rete. Nel libro emergono molte figure femminili, dalle giuriste che lavorano sul riconoscimento dell’ecocidio alle madri delle comunità inquinate. “Intervistandole ho notato un fattore comune: nessuna mi ha parlato solo di sé. Ognuna era un nodo di una rete più grande, sempre pronta a connettermi con altre persone e a costruire qualcosa insieme”. Anche per questo il ruolo delle politiche ambientali, secondo lei, deve uscire dalla bolla e intrecciarsi con la giustizia sociale ed economica: “Abbiamo trattato l’ambiente come un settore a parte, permettendo che venisse politicizzato in senso ideologico. Ma le questioni ambientali sono dentro l’economia, dentro l’industria, dentro la geopolitica. Ognuno di noi dovrebbe avere una chiara consapevolezza ecologica”. Quando gli uomini non lavorano: scelta consapevole o fallimento? di Laura Zanfrini Avvenire, 10 marzo 2025 In Italia il tasso di inattività è tra i più alti d’Europa, ma se dei “Neet” o delle donne si parla molto, il caso dei maschi adulti è meno indagato. Una ricerca colma questa lacuna. La bassa partecipazione alle forze di lavoro è uno dei principali problemi che affliggono il mercato del lavoro italiano. Il tasso di attività - pari nel 2023 al 66,7%- è infatti il più basso tra i Paesi europei, inferiore alla media dell’Unione di oltre 7 punti percentuali. A differenza della disoccupazione, l’inattività - ossia la condizione di chi non lavora e non cerca un lavoro - è però un fenomeno tradizionalmente trascurato tanto dai media quanto dalla politica: eppure, le difficoltà a reclutare nuovo personale in un Paese che invecchia dovrebbero incoraggiare gli sforzi per (ri)attivare un esercito di 25-64enni inattivi che conta più di 8 milioni di persone, di cui quasi 2 milioni e mezzo maschi. Ma c’è di più. Del problema dei “Neet”, giovani che non studiano né lavorano, si sente spesso parlare. Così come delle donne che rinunciano al lavoro per via delle lacune nei sistemi della conciliazione. Al contrario, il gruppo dei maschi adulti, da sempre considerato “centrale” e avvantaggiato, resta fuori dai riflettori. Sebbene l’Italia registri uno tra i più bassi tassi di attività maschile, oltre 4 punti sotto la media Ue, e sia tra i Paesi maggiormente coinvolti nella “fuga dal lavoro” da parte degli uomini adulti. Quello di questi (im)perfetti sconosciuti - come recita il titolo di uno studio, ancora in corso, promosso dall’Università Cattolica - è un universo complesso. In primo luogo, l’inattività maschile si intreccia con alcune note criticità del nostro mercato del lavoro che concorrono a rendere porosi i confini tra attività, inattività, occupazione e disoccupazione. Tra tutte, il cronico dualismo Nord-Sud che, insieme alla straordinaria diffusione del lavoro irregolare, rende eccezionalmente elevata la presenza di inattivi nelle regioni meridionali e spiega quasi interamente il gap con gli altri Stati europei. Molti sono però i “veri” inattivi e diverse sono le ragioni dell’inattività. Le trasformazioni dei sistemi produttivi e l’innovazione tecnologica hanno determinato l’espulsione dei lavoratori con competenze obsolete o non in grado, anche in ragione di un’età non più giovane, di adattarsi alla nuova struttura di opportunità: un epilogo che potrebbe riproporsi con la digitalizzazione e l’avvento dell’intelligenza artificiale. L’abolizione del collocamento obbligatorio aveva del resto già sancito la condanna all’inattività dei soggetti ritenuti meno occupabili che, in mancanza di un solido sistema di politiche attive del lavoro, vanno fatalmente incontro allo scoraggiamento, anticamera dell’uscita dalle forze di lavoro. A sua volta, la concorrenza di lavoratori particolarmente adattabili e con un basso salario di riserva - come sono, ad es., gli immigrati stranieri giunti in misura copiosa nell’ultimo quarto di secolo - ha favorito la transizione all’inattività di lavoratori poco inclini ad accettare condizioni di lavoro e retributive al di sotto di una certa soglia. Favoriti, in ciò, dai provvedimenti - come la cassa integrazione straordinaria e il moltiplicarsi degli scivoli verso il prepensionamento - in grado di attutire le conseguenze economiche dell’inattività e di renderla una condizione socialmente legittima: presentati come strumenti per fare spazio ai giovani in un Paese malato di gerontocrazia, tali provvedimenti hanno appesantito il fardello che grava sulle nuove generazioni. Infine, vi è il fenomeno del distacco volontario dal lavoro, battezzato con formule come quella della great resignation (le grandi dimissioni). Differenti sono anche le valutazioni dell’inattività maschile. Da un lato, essa è descritta come grave patologia sociale, che segnala il fallimento dei percorsi individuali e delle promesse di inclusività. In uno dei pochi studi dedicati, riferito agli Stati Uniti d’America, l’uomo inattivo è addirittura descritto come colui che viene meno alle responsabilità verso se stesso, la propria famiglia e la nazione, sovvertendo le “basi morali” della società e mettendone a rischio la sopravvivenza. Dall’altro lato, l’inattività è celebrata come scelta consapevole, coerente con la ricerca di una migliore qualità della vita - e dunque con l’attesa di maggiore tempo per sé e per le cose che davvero contano - oppure come denuncia sofferta ma determinata di fronte al generale peggioramento della qualità dell’occupazione e alla diffusione del “cattivo lavoro”: un lavoro non solo così invasivo da comprimere spazi e tempi di riposo e libertà personale, ma spesso anche sottopagato, con pochi diritti e tutele, talvolta addirittura “tossico” al punto da compromettere il benessere psico- fisico, il clima familiare, la vita di relazione. Al di là delle differenti valutazioni, innegabili sono i costi dell’inattività per gli equilibri complessivi del mercato del lavoro e dei sistemi di welfare, a maggiore ragione alla luce degli scenari demografici che attendono l’Italia. Per gli economisti, l’inattività aggrava le difficoltà di reclutamento e di conseguenza scoraggia gli investimenti. Essa è anche una delle principali cause dell’impoverimento delle famiglie e, specie quando riguarda i maschi adulti, può associarsi a problemi di salute fisica, depressione, tensioni familiari, isolamento sociale, alcolismo e rischi di cadere in altre forme di dipendenza. Pur rappresentando una condizione “deviante” rispetto alle aspettative normative della società industriale e moderna, l’inattività maschile è un prodotto di quest’ultima che, affermando uno specifico regime di genere, l’ha resa socialmente accettata per le donne ma non per gli uomini. È soprattutto per questi ultimi che le sue conseguenze non si limitano al piano economico, ma investono quello sociale, familiare, comunitario, sancendo una sorta di condanna per avere disatteso al ruolo “maschile”. E determinando, talvolta, una “disconnessione” non solo dalla sfera economica, ma anche da quella sociale e perfino familiare: a riflesso di una società che ha impedito loro di esibire un ruolo sostitutivo di quello professionale, l’esclusione dal lavoro finisce col decretare un fallimento tout court esistenziale da cui si rischia di venire definitivamente sopraffatti. Vi è dunque da chiedersi: le donne sono più capaci degli uomini di adattarsi alla inattività e reinventarsi o è la società che a loro permette di farlo e agli uomini no? Ma anche se sia oggi possibile cogliere qualcosa di nuovo, proprio attraverso il fenomeno del “non-lavoro” e la sua capacità di filtrare i bisogni, i vincoli, le priorità e le aspettative che definiscono il senso della vita in rapporto al senso del lavoro. L’esperienza dei maschi adulti potrebbe anzi rivelarsi la più feconda per analizzare il rapporto tra l’inattività, le carriere professionali e le “carriere di vita”, l’evoluzione dei regimi di genere, le tensioni che investono i sistemi di accumulazione e riproduzione sociale. Risulta allora come, in un contesto in cui i nuclei familiari sono sempre più piccoli e isolati, anche l’inattività maschile può essere una condizione imposta dalle necessità di cura e assistenza. Mentre per molti il bisogno rende accettabile un lavoro purchessia, altri, semplicemente, non hanno bisogno di lavorare grazie alla ricchezza finanziaria e patrimoniale accumulata dalle famiglie. Dichiararsi inattivo può, infine, essere una strategia per lenire la sofferenza di una ricerca del lavoro lunga e fallimentare; oppure una sorta di contro-narrazione, una postura contestativa che potrebbe diventare stimolo a costruire nuovi modelli sociali, economici e organizzativi. In definitiva, la condizione dei maschi adulti inattivi è emblematica nel far emergere l’intricato groviglio di variabili che influenzano le condizioni di vita e le opportunità, così come la varietà delle risposte individuali, ribadendo per converso la centralità del lavoro - anche quando, o perfino soprattutto, quando il lavoro non c’è - nella definizione dell’identità individuale e nella costruzione (ovvero nella lacerazione) del legame sociale. Lotta al caporalato, l’arma del sequestro alle multinazionali scardina il sistema di Gianni Armand-Pilon La Stampa, 10 marzo 2025 Dalla logistica alla grande distribuzione, fino alla moda di lusso migliaia di cooperative forniscono lavoro a basso costo. Stipendi da fame e zero diritti, ora nel mirino dei pm di Milano. Chi accetterebbe di consegnare pacchi con la propria auto per 12 ore al giorno in cambio di 700 euro al mese? Chi andrebbe a confezionare borse per l’industria del lusso lavorando in nero, di notte, all’interno di un capannone con i pit bull tenuti alla catena? Nessuno. E invece, succede. E non a Rosarno o a Castel Volturno, e neanche in quei campi dove un esercito di disperati raccoglie sotto un sole assassino i pomodori che troviamo al mercato a 0,99 al chilo. No, succede nelle principali città italiane, Milano, Roma, Firenze, Torino, Padova. Il fenomeno è alimentato da migliaia di piccole cooperative che forniscono la forza lavoro che muove l’economia, i cosiddetti “serbatoi di manodopera”. E ha finito per travolgere chi se ne serve, ovvero le più grandi aziende della logistica, della grande distribuzione, della sicurezza, della moda. Da quando qualche anno fa la procura di Milano ha cominciato a incrociare le informazioni delle banche dati di fisco e previdenza, nessuno dorme più sonni tranquilli. Il pm che se ne occupa si chiama Paolo Storari, ed è in forza alla dda. L’ultima multinazionale finita nei guai è la Dhl Express Italy srl. Ogni giorno provvede al recapito dei pacchi e alle spedizioni in ogni angolo del mondo; i suoi furgoni gialli con il logo rosso stampato sulle fiancate li conosciamo tutti. Alla fine di febbraio, al termine di un’inchiesta sulle cooperative che somministrano personale a Dhl, Storari e la sua collega Valentina Mondovì hanno scoperto una gigantesca frode fiscale sull’Iva, con fatture inesistenti sugli appalti per la fornitura di manodopera, e sfruttamento dei lavoratori. Nei confronti di Dhl è stato disposto il sequestro preventivo d’urgenza di una somma di 46,8 milioni di euro. Nel provvedimento dell’autorità giudiziaria, si ravvisano “rilevantissime perdite per l’erario”, oltre a un lungo elenco di reati di natura penale. Le carte sono state trasmesse all’ufficio del giudice per le indagini preliminari. E qualche giorno dopo il gip, Luca Milani, ha convalidato il sequestro della somma milionaria, riconoscendo due dati di fatto. Primo: le cooperative che lavoravano in appalto per la società facevano dei loro uomini ciò che volevano, letteralmente. Secondo: i committenti ne erano a conoscenza, e devono essere considerati “i veri datori di lavoro”. Ci sono stati controlli sulle condizioni di lavoro di 918 autisti e 538 mezzi. La polizia giudiziaria ha bussato ai magazzini e agli hub Dhl disseminati in 30 province italiane. E ha interrogato 676 lavoratori: contratti, incarichi, orari, riposi, retribuzioni. Bilancio? Su 51 società appaltatrici, quasi una su tre (15 aziende) è risultata del tutto irregolare: le violazioni non riguardano solo salari da fame e condizioni di lavoro umilianti, contributi non versati e ritorsioni, ma investono anche la formazione, la sicurezza, l’omessa sorveglianza sanitaria. Undici titolari e legali rappresentanti delle ditte ispezionate sono stati denunciati. In un hub in provincia di Milano sono stati scovati sette lavoratori in una condizione tale di sfruttamento che ha spinto la procura a formulare anche l’accusa di caporalato. Altro che diritti, altro che pane e rose. Un caso isolato? Macché. Se invece di concentrarci sulla singola inchiesta proviamo a unire i puntini e a osservare il fenomeno nel suo insieme, la fotografia del mondo del lavoro in queste città d’Italia è sconfortante. E ha davvero ragione Manfredo Alberti quando, nel suo libro Il lavoro in Italia (Carocci editore), a proposito della vita di queste persone, in maggioranza extracomunitarie, osserva: “Le modalità rievocano l’alienazione e le forme di sorveglianza del Novecento”. I fascicoli che si accumulano al sesto piano del palazzo di giustizia di Milano raccontano queste modalità meglio di qualunque saggio. Sul frontespizio ci sono i nomi delle aziende che negli anni si sono trovate a fare i conti con le leggi dello Stato e non con quelle del mercato selvaggio di uomini e merci. Eccone alcune: Gls, Geodis, consorzio Metra, Brt, Esselunga, Uber eats, fratelli Beretta, Carrefour, Schenker, SicurItalia, Mondialpol, Cegalin-Hotelvolver, Chiapparolo, Gxo, Fema, All System, Battistolli, Lidl, Italtrans, Amazon, Fed Ex, Armani, Dior, Alviero Martini. Tutte sono state accusate di schiacciare i costi facendo ricorso al fragile schermo dell’esternalizzazione dei servizi, pratica che favorisce l’elusione delle imposte e lo sfruttamento dei lavoratori. Tutte si sono viste recapitare provvedimenti di sequestro per milioni di euro. Alcune sono state poste in amministrazione giudiziaria, e sono ripartite solo dopo avere ripulito le loro filiere. Ma nessuna, fino a oggi, ha fatto ricorso. Nessun procedimento è arrivato a processo. Basta aprire una pagina di questi faldoni, una sola, a caso, per capire come funzionano le cose. Formalmente, c’è la cooperativa con il suo organigramma e l’immancabile codice etico: “L’azienda intende trasformare in un vantaggio competitivo la conoscenza e l’apprezzamento dei valori etici che le animano diffusamente…”. Ma sotto la patina della buona amministrazione e della rispettabilità, ci sono telefonate come quella che segue. Il titolare di un’azienda di autotrasporto parla con la moglie, e sembra di ascoltare un dialogo tratto dal Capitale umano di Paolo Virzì (ricordate Fabrizio Gifuni? “Abbiamo scommesso sulla rovina di questo Paese, e abbiamo vinto!”). Dice l’autotrasportatore: “Prendendola tutta in leggerezza come ho fatto io, abbiamo vissuto come si deve e abbiamo un milione sul conto! E abbiamo una barca che vale mezzo milione!”. Ma per un imprenditore che si vanta del suo tesoretto criminale, ci sono le deposizioni di migliaia di lavoratori dei più svariati ambiti professionali raccolte dalla Procura. Come quella di E.F, professione rider. Racconta: “Mi hanno offerto una collaborazione pagata 3 euro a consegna. Ma alla fine di ogni settimana, quando ricevo i soldi, mi contestano in modo arbitrario comportamenti non corretti o prestazioni non in linea con i loro standard. E lo stipendio cala anche del 30 per cento”. O come Maria Cristina M., assunta da una ditta che fornisce personale per la sorveglianza non armata di farmacie e supermercati. Interrogata dalla polizia giudiziaria della Procura, ha fatto mettere a verbale: “L’azienda, pur avendo piena conoscenza del mio stato di malata oncologica, con patologia riconosciuta mediante attribuzione di invalidità civile, non mi ha concesso di fruire dei permessi che la legge concede…”. Domanda dell’agente: “Perché ha accettato quel lavoro?”. Risposta: “Anche se lo stipendio era molto basso, mi serviva. Come faccio a mantenere la mia famiglia?”. Visto dalla Procura, attraverso la lente degli accertamenti e delle intercettazioni, il sistema che si regge sullo sfruttamento di lavoratori italiani e immigrati - tantissimi immigrati: regolari, irregolari, richiedenti asilo - va bene a tutti: il committente risparmia sui costi, l’intermediario guadagna sull’appalto e sull’evasione fiscale e contributiva, il cliente finale non si fa troppe domande. Certo, c’è anche chi ci perde, ma a chi importa? A chi interessano quegli enormi serbatoi di manodopera a prezzi stracciati che alimentano un’economia malata? Con le sue inchieste, il pm Storari, qualche risultato lo ha raggiunto: nel corso degli anni, 33 mila persone sono state stabilizzate e la riscrittura di alcuni contratti collettivi di lavoro (fiduciari, portieri) che pure erano stati sottoscritti dai datori di lavoro e da tutti (tutti!) i sindacati ha portato ad aumenti in busta paga fino al 40 per cento. A perderci, ovviamente, è anche lo Stato. Milioni su milioni di tasse evase. Ma l’erario qualcosa sta recuperando: ha già incassato 600 milioni degli 800 sequestrati, perché davanti alle contestazioni della Procura le aziende preferiscono pagare piuttosto che affrontare un processo. La stessa Dhl oggi fa sapere, attraverso il proprio ufficio stampa, che preferisce non commentare “per una forma di rispetto nei confronti degli organi inquirenti”. Come in tutti gli uffici di tutte le procure italiane, anche in quello del dottor Storari c’è sicuramente una copia della nostra Costituzione. L’articolo 36 recita: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Referendum sulla cittadinanza, via alla campagna per il “Sì”: obiettivo quorum per i promotori di Angela Stella L’Unità, 10 marzo 2025 Si è tenuta a Roma l’assemblea dei soggetti che fanno parte del comitato promotore del Referendum cittadinanza. Tra gli interventi quella della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein. Venerdì pomeriggio si è tenuta a Roma l’assemblea dei soggetti che fanno parte del comitato promotore del Referendum cittadinanza. Tra gli interventi quello della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein: “Sosterremo con grande convinzione i referendum e il referendum sulla Cittadinanza. Siamo molto impegnati a far sì che tutte le cittadine e i cittadini siano informati sull’importanza di andare a votare e di sostenere questo referendum. La nostra battaglia è per garantire a tutte e tutti uguali basi di partenza. Questo partito non ha sempre avuto tutta questa forza, ma vi dico con umiltà che oggi il Pd dice che chi nasce e cresce in Italia deve essere italiano o italiana”. Ha preso la parola da remoto anche la leader radicale Emma Bonino che non ha nascosto un certo pessimismo: “Il punto cardine è il quorum: viene dato per scontato e invece non sarà così, il problema è l’informazione che per ora non c’è né, per esperienza, ci sarà. Ce la dovremo conquistare e non sarà facile. Sarà veramente dura rimbalzare nella testa di molte persone, ci sono degli stereotipi. Quindi raggiungere il quorum sarà una battaglia in salita”. Tra i promotori il segretario di +Europa Riccardo Magi: “Oggi (ieri, ndr) parte la campagna per il Sì ai referendum sulla cittadinanza. Non è solo una riforma che il Paese attende da decenni perché è uno scandalo che ragazze e ragazzi nati e cresciuti in Italia non siano pienamente cittadini, ma è anche un appuntamento fondamentale per la democrazia, per la partecipazione, in un momento in cui nel mondo ci dicono che la democrazia non serve, che la democrazia è inutile”. Durante l’incontro Angelo Bonelli di Avs ha annunciato: “Come alleanza Verdi e sinistra stiamo pianificando una serie di iniziative pubbliche in varie città per sensibilizzare l’opinione pubblica sui referendum. E faremo una iniziativa alla Rai contro la narrazione tossica che sta passando nel servizio pubblico. Dobbiamo essere pronti a iniziative dure nei confronti del servizio pubblico affinché l’informazione sui referendum sia data in maniera forte”. Sono intervenuti, tra gli altri, Deepika Salhan, Sonny Olumati, Francesca Druetti, Antonella Soldo, Katia Scannavini, Pippo Civati, Paolo Bonetti, Natale Di Cola, Ileana Bello, Walter Massa. Insieme a quello sulla cittadinanza, probabilmente in primavera, si andrà a votare pure su altri quattro referendum: contratto di lavoro a tutele crescenti, licenziamenti nelle piccole imprese, abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice. Migranti. Caso Diciotti: sentenza politica? Ragioni e motivazioni della Cassazione di Giuseppe Maria Berruti La Stampa, 10 marzo 2025 La Corte rammenta che ai fini della cosiddetta giustiziabilità dell’atto occorre guardare alla dimensione sostanziale della legalità nella vicenda. Non accade tutti i giorni che la Corte suprema di cassazione, peraltro a sezioni unite, ovverosia nella composizione che rappresenta la più maggiore autorevolezza giudiziaria che l’ordinamento italiano conosca, venga accusata di aver fatto politica. Io credo si tratti di una sciocchezza. Ma credo che essa debba essere discussa seriamente. Le sezioni unite si sono occupate di una vicenda nata dalla protesta di un rifugiato in Italia, dopo che era stato trattenuto un certo tempo sulla nave che lo aveva soccorso. Lamentava l’illegittimità di questo trattamento, e, per conseguenza la violazione di leggi e principi accettati in Italia come gran parte del mondo. La difesa del Governo ha sostanzialmente sostenuto, la natura di atto di governo, rivestita dal provvedimento che ha vietato lo sbarco. Dunque la sua natura non sindacabile dal giudice in quanto per l’appunto espressione di una volontà politica, soggetta alla sovranità del Parlamento e del Governo. Pertanto il trattenimento a bordo della nave non avrebbe rappresentato una violazione dei diritti del rifugiato perché nella specie non sarebbero configurabili posizioni protette della persona, ma invece la pura esplicazione del potere politico di governare. Il tema comporta la valutazione del limite alla sovranità politica. Un limite alla stessa sovranità democratica, che non può travolgere i diritti fondamentali della persona. La Corte di cassazione ha chiarito anzitutto che l’atto con il quale si è rifiutato lo sbarco al soggetto salvato dall’annegamento, seppur proviene da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica in quanto componente del governo, non è, come dicono i giuristi, un atto libero nel fine. Esso insomma non richiama la propria legittimità a scelte supreme politiche, legittimate, in democrazia, dall’elezione. Né riguarda la salvaguardia oppure il funzionamento dei poteri pubblici. È evidente, osserva la corte, che l’identificazione caso per caso dell’atto amministrativo come tale sindacabile ovvero dell’atto politico di governo, come tale esente da ogni valutazione che non sia quella del potere legislativo o comunque, attraverso di esso, del popolo, lascia il posto, nel caso in cui questo carattere manchi, alla libera giustiziabilità dell’atto stesso. Gli atti del pubblico potere in una democrazia parlamentare sono per loro natura ordinariamente giustiziabili, ricorda la Cassazione, e l’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata dentro limiti rigorosi. Tuttavia gli atti che non sono soggetti a controllo giurisdizionale, e quindi non possono essere oggetto della doglianza del cittadino, sono un numero rigorosamente ristretto di atti perché realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico. Questo rilievo, con la conseguente intoccabilità dell’atto, la Corte non ha ravvisato nella ingiunzione con la quale un ministro della Repubblica ha ordinato ai soccorsi in mare di non mettere piede sul territorio italiano. Afferma la Corte che ci si trova in presenza di un atto che esprime esclusivamente la sua funzione amministrativa, e che se pure contempera gli interessi in gioco non è in grado di escludere determinati atti o comportamenti, come appunto quello lo sbarco nel porto più vicino. La Corte rammenta che ai fini della cosiddetta giustiziabilità dell’atto ovvero della soggezione dell’atto del governo al controllo di legalità del giudice, occorre guardare alla dimensione sostanziale della legalità nella vicenda. Il sindacato del giudice deve arrestarsi laddove l’eventuale decisione giudiziaria costituisca essa scelta politica. Non è scelta politica, ancorché la sua ricaduta possa avere un effetto politico sulla vicenda che riguarda l’atto amministrativo in questione, quella che il giudice deve prendere per ripristinare il diritto del soggetto che la legge difende. La questione non è facilissima per chi non abbia davvero voglia di capire. Tuttavia mi pare esemplare. Il diritto al quale occorre far riferimento, ricorda la Cassazione, è quello di stabilire se all’obbligo del soccorso in mare corrisponda o meno ad una regola vincolante per gli Stati. Se esso è riconosciuto da convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito. Se l’obbligo di soccorso in mare significhi il mero ripescaggio dell’uomo che rischia di annegare, ovvero il suo salvamento e l sua consegna a chi di lui e del suo dolore dovrà occuparsi. La convenzione di Amburgo, ricorda tra l’altro la sentenza, obbliga gli Stati costieri ad assicurare un servizio che definita in italiano significa di salvezza ovvero di salvataggio e di messa in sicurezza. E che tutto debba essere organizzato dagli Stati costieri al fine di garantire che venga prestata ogni assistenza alle persone in pericolo in mare senza distinzione relativa a nazionalità o status. Insomma la vicenda non ha esaminato la sperimentazione da parte del rifugiato di un percorso ignoto, o peggio ancora vietato. Essa invece ha rappresentato il ripetersi del dolore degli abbandonati. Della loro impotenza. E della loro richiesta di aiuto. Per uscire dalla povertà e dall’orrore della guerra. Ecco, su questo si discute. Ma questo è il tessuto giuridico che circonda e costituisce il mondo al quale appartiene l’Italia. Essa può uscire da questo mondo. Ma la Cassazione fa la sua parte, che è quella di dire cosa è il diritto. A quali approdi culturali e sociali ha portato. Questo diritto si può cambiare, abbandonare, ed i popoli possono legittimamente scegliere altre strade. La Corte ha rammentato il diritto che oggi vincola l’Italia. Ha di fatto rammentato i principii che un cammino faticoso ha portato anche l’Italia a riconoscere, distinguendo la forza della civiltà dalla debolezza di girare lo sguardo. Io mi auguro che la saggezza politica, la prudenza, e la consapevolezza della grande conquista fatta dai diritti moderni che è consistita anche nel mettere quote di umanità dentro i ragionamenti giuridici, facciano passare queste ore concitate che, a mio avviso, hanno visto a poca riflessione. L’Europa si riarma, ma rischia la dissoluzione dall’interno di Sergio Labate Il Domani, 10 marzo 2025 Concentrarsi sui confini per Ursula von der Leyen, e per un Ue già in crisi di legittimazione, è una scommessa rischiosa. Perché continua a non riconoscere che i cittadini chiedono anche un altro tipo di tutele e perché potrebbe favorire l’avanzata elettorale delle destre. Chi ha letto quel grande trattato di antropologia politica che è il romanzo di Coetzee Aspettando i barbari, riconosce almeno due verità. La prima è che in situazioni estreme non è ragionevole distinguere con assoluta certezza le azioni corrette da quelle che non lo sono. Invece noi facciamo il contrario: proprio quando le cose si fanno complesse diventiamo ancor più tifosi. Proprio come accade in questi giorni, chi sottolinea le incongruenze del Rearm Europe è subito etichettato come putinista: sostituire la discussione pubblica con la propaganda di guerra mi pare francamente un po’ prematuro. La seconda è che quando gli imperi si dissolvono è difficile distinguere un dentro e un fuori: tutto si confonde e le conseguenze di ciò che facciamo dentro i nostri confini possono essere altrettanto distruttive di ciò che accade fuori. Ora, a me pare che nelle nostre discussioni venga dimenticato un punto di partenza fondamentale: il fatto che l’Ue che si riarma non è in un periodo di luna di miele coi suoi cittadini. Tutt’altro, e la sua crisi di legittimazione è prevalentemente interna, non esterna. Non è difficile individuare i principali motivi per cui le istituzioni europee perdono fiducia e consenso: non hanno saputo mostrarsi sufficientemente democratiche; è a loro che viene imputata la maggiore responsabilità dei tagli allo stato sociale; non hanno rafforzato una razionalità politica comune che presieda le sfere singolari d’intervento. Difendere i confini dai nemici esterni è cosa certamente necessaria, ma non è indifferente che a farlo sia un’istituzione che vive una crisi di legittimazione interna così grave. Non sono certo che spostare completamente l’attenzione su ciò che avviene al di fuori dei nostri confini sospendendo ogni discussione su ciò che sta accadendo al di dentro sia astuto, per tanti motivi. La mancata discussione - Il primo motivo è che il messaggio indiretto di Von der Leyen al riguardo è assai chiaro. Se la crisi di legittimazione interna è legata al deficit democratico e alla crisi dello stato sociale, la scelta di non discutere il piano in parlamento e la proposta di lasciare ai singoli Stati la possibilità di spostare i fondi per la coesione sociale su Rearm Europe sono due segni inequivocabili che aggraveranno la crisi interna. Pur con le dovute differenze, non è inappropriato richiamare le analogie con l’introduzione dell’euro. In quel caso la mancata costruzione di un mercato unico comune all’interno di un’autentica comunità politica ha finito per trasformare quell’evento da occasione di integrazione a competizione spietata tra stati. Quel che allora appariva come una minaccia sembra oggi un principio che orienta il piano Rearm fin da subito. In questo caso non si prova neanche a usare l’occasione per rafforzare la coesione europea e superare gli interessi nazionali. Le vere tutele - Il secondo motivo ha a che fare con quella garanzia della sicurezza che è uno dei doveri principali delle istituzioni sovrane e che giustificherebbe le scelte fatte. Se però proviamo a immedesimarci coi cittadini ai margini dell’Europa, siamo sicuri che la loro esigenza di sicurezza sia molto più sensibile alla minaccia della guerra piuttosto che alla sanità in dissesto o al lavoro non tutelato? Anche in questo caso mi pare che si sia volutamente scelto di ridurre il bisogno di sicurezza alla sua accezione più immediata - la necessità di tutelare la sopravvivenza stessa dei confini - perdendone forse una complessità “biopolitica” che andrebbe tenuta presente, anche per far accettare le scelte di sicurezza esterna: temo infatti che pochi siano disposti ad accettare una guerra se non sanno più per che cosa bisogna andare in guerra. Riarmo e difesa non solo non sono sinonimi, ma spesso possono essere addirittura contrari. Un riarmo che prende letteralmente il posto di quel che resta della protezione sociale non è un rafforzamento della nostra difesa, somiglia molto più a un cavallo di Troia. L’onda dell’estrema destra - Il terzo motivo è quello meno considerato. Sappiamo già quali siano le conseguenze della crisi di legittimazione interna: le destre avanzano ovunque. Decidere di disinteressarsi alla crisi interna dell’Unione vuol dire rischiare che tra non molto tutti i principali paesi europei saranno in mano a destre nazionaliste ed euroscettiche. Col risultato che i fondi che Von der Leyen ha scelto di usare inopinatamente per riarmare gli tati e non per una difesa comune saranno in mano a governi che saranno molto più preoccupati di mostrarsi sensibili agli interessi nazionali che a quelli comuni. Esattamente come nel romanzo di Coetzee: il piano di Von der Leyen vorrebbe evitare che l’Europa si dissolva dall’esterno, ma può essere il colpo di grazia che la farà dissolvere dall’interno. Siria. Migliaia di corpi nelle fosse comuni: è ora di dare un nome agli scomparsi di Tommaso Siviero Il Domani, 10 marzo 2025 Kathryne Bomberger, direttrice generale della Commissione internazionale per le persone scomparse (Icmp), ha lavorato in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Armenia, Iraq, Libia, Ucraina, solo per citare alcuni paesi, aiutando le istituzioni locali e internazionali e la società civile a sviluppare le capacità e gli strumenti per affrontare la questione trasversale delle persone scomparse. Ma ora la sfida è più complessa. A una ventina di chilometri da Damasco una fossa comune, grande come diversi campi da calcio, contiene migliaia di corpi senza nome. Sono le vittime della violenza del regime di Bashar al Assad, ex dittatore siriano rovesciato dal gruppo armato Hayat Tahrir al Sham lo scorso 8 dicembre. “Per oltre un decennio i corpi, compresi quelli di donne e bambini, soprattutto bambini nati da stupri all’interno delle prigioni del regime, venivano scaricati qua due volte a settimana” dice Kathryne Bomberger, appena rientrata da una missione a Damasco. Di esperienze di post guerra Bomberger ne ha un bel po’ alle spalle. Eppure descrive il massacro che ha visto in Siria come “inimmaginabile”. Direttrice generale della Commissione internazionale per le persone scomparse (Icmp), Bomberger ha lavorato in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Armenia, Iraq, Libia, Ucraina, solo per citare alcuni paesi, aiutando le istituzioni locali e internazionali e la società civile a sviluppare le capacità e gli strumenti per affrontare la questione trasversale delle persone scomparse. Un processo complesso - Nonostante tutta questa esperienza, sa che questo processo in Siria sarà estremamente complesso. Il paese è stato per più di cinque decenni sotto la dittatura della famiglia al Assad, dal 2011 in preda a una guerra civile, ha vissuto la violenza dell’Isis e si è poi trasformato in un violento narcostato. Le stime sulle persone scomparse variano tra le 1.500.000 delle Nazioni unite alle più di 200.000 del Network siriano per i diritti umani. Un compito impegnativo per le nuove autorità siriane, che si trovano alla guida di un paese devastato e che alle famiglie degli scomparsi dovranno restituire quando possibile i corpi, la verità su quanto successo e, infine, assicurare i colpevoli alla giustizia. C’è però un grande esempio a cui guardare: quello della Bosnia-Erzegovina. All’indomani della guerra che tra il 1992 e il 1995 ha lacerato il paese, 100.000 erano le vittime e tra queste circa 31.500 persone scomparse. A oggi, circa il 75 per cento di quelle persone sono state identificate, un grande risultato che è stato raggiunto anche grazie agli sforzi dell’Icmp e alla collaborazione con le istituzioni statali. Il precedente della Bosnia-Erzegovina - “Anche se le circostanze sono diverse, il modo in cui si ritrovano le persone scomparse è lo stesso ed è sempre una responsabilità dello stato”, spiega Bomberger, sottolineando che esiste un corpo di leggi internazionali ben definito sul tema. Tra questi la Convenzione internazionale contro le sparizioni forzate, che impone agli stati l’obbligo di prevenire, investigare e punire questi crimini, riconoscendo alle famiglie il diritto alla verità. In Bosnia-Erzegovina, lo stato di diritto è stato il fulcro centrale del processo. Le istituzioni statali hanno creato in primis un corpo di leggi chiaro da cui è nato l’Istituto per le persone scomparse della Bosnia ed Erzegovina con il mandato di ritrovare tutte le persone scomparse, indipendentemente dalla loro origine etnica, religiosa o nazionale e dal loro ruolo durante la guerra. L’Istituto ha provveduto alla creazione di un archivio centrale in cui tutte le informazioni, raccolte grazie alle testimonianze dei parenti delle vittime e accompagnate da analisi del loro patrimonio genetico, sono state catalogate per essere poi confrontate con le informazioni e il Dna estratto dai resti dei corpi che ancora oggi vengono ritrovati sul territorio della Bosnia-Erzegovina. É questo il sistema che ha permesso di identificare una percentuale così alta delle persone scomparse e che ha fornito parte dell’evidenza necessaria ad assicurare tanti dei principali responsabili dei crimini di guerra e del genocidio alla giustizia. Il nuovo governo siriano - Le nuove autorità siriane hanno promesso che verrà fatta luce sulle torture e le uccisioni dei prigionieri del regime e che i responsabili verranno puniti. “Li perseguiremo in Siria e chiediamo ai paesi di consegnare coloro che sono fuggiti in modo che giustizia possa essere fatta”, ??ha dichiarato l’11 dicembre, tre giorni dopo la caduta di Bashar al Assad, il leader di Hayat Tahrir al Sham, Ahmed al Sharaa. Dal 29 gennaio al Shaara ha assunto il ruolo di presidente di transizione della Siria. Prima di diventare il liberatore del paese, al Sharaa è stato il fondatore del fronte di al Nusra, organizzazione jihadista legata ad al Qaeda, a sua volta responsabile della sparizione di un numero imprecisato di persone. Bomberger nel suo viaggio è stata a colloquio con diversi membri della nuova amministrazione. Si dice fiduciosa della volontà del governo di gettare luce sulle sparizioni e di avviare un processo di giustizia e riconciliazione. Le garanzie che questo sarà fatto a prescindere dall’affiliazione etnica e politica delle vittime e dei carnefici, spiega, passeranno principalmente dai meccanismi legali che verranno creati. L’Icmp - Icmp lavora sulle persone scomparse in Siria dal 2016: tutte le informazioni raccolte da allora grazie alle testimonianze di circa 80.000 familiari delle vittime sono state ordinate in un archivio. Una volta ricevute le giuste garanzie e con il permesso dei familiari, l’archivio verrà fornito alle autorità siriane che da qui potranno iniziare il processo. A oggi i dati riguardano circa 30.000 scomparsi e le località di 70 fosse comuni disperse sul territorio siriano. Tra questi 30.000 non ci sono solamente persone scomparse in Siria, ma anche tutti quei siriani di cui si sono perse le tracce nel loro viaggio verso l’Europa. Come Maysoon Karbijha, scomparsa il 24 agosto del 2014 nella traversata dalla Libia all’Italia. La sorella Batoul Karbijha, regista e documentarista, da allora cerca il suo corpo e la verità sulla sua sparizione, scontrandosi con l’indifferenza dello stato italiano. Nel 2024 ha fondato per questo scopo l’Associazione delle famiglie dei richiedenti asilo scomparsi. “Riponiamo molta speranza nel ruolo delle istituzioni internazionali nell’aiuto alla ricerca dei nostri familiari scomparsi” dice. E sottolinea che nella ricerca della verità bisogna partire “da noi, dalle famiglie delle vittime. Siamo noi gli esperti delle nostre sofferenze e qualunque processo di giustizia deve tenerci in considerazione”.