“I reati calano ma non i reclusi. Costituzione e senso di umanità si sono persi” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 9 gennaio 2025 Mazzacuva: “Indulto unica misura immediata”. Mentre il numero dei suicidi in carcere, sul finire dell’anno appena trascorso, stava per toccare il tragico record di 91 (mai così tanti), la Camera penale di Bologna da tempo aveva sollevato il tema della necessità di misure clemenziali, come l’indulto. Parola spesso invisa all’opinione pubblica ma che a Bologna, ad esempio, il 30 novembre, proprio in una mobilitazione pubblica indetta dalla Camera penale in piazza Lucio Dalla, ha raccolto l’adesione del Comune e di più di 30 associazioni. Professor Mazzacuva, presidente della Camera penale bolognese, pensa che i tempi siano maturi per un nuovo indulto? “È da tempo che nella società diverse realtà chiedono provvedimenti clemenziali. Già nel 2016, come Unione Camere penali abbiamo partecipato alla marcia per l’amnistia a Roma, che arrivò in Vaticano. L’unico presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ad aver chiesto formalmente alle Camere un provvedimento di indulto è rimasto inascoltato. L’ultimo risale al 2006, ma gli istituti previsti dal codice Rocco hanno sempre avuto un ruolo nella politica di gestione criminale, anche se sono percepiti come negletti, controproducenti rispetto al populismo penale. Eppure le statistiche ci dicono da tempo che si sono ridotti notevolmente gli omicidi ma anche i reati in genere, mentre cresce sempre di più il numero di detenuti: sono 6.000, una cifra intollerabile in rapporto ai posti disponibili, meno di 48.000. I più autorevoli commentatori ci dicono che questa situazione che non dà speranze, prospettive di rieducazione, contrasta con i nostri principi costituzionali sull’ umanizzazione della pena e la finalità rieducativa”. Il governo Meloni è concentrato su altre riforme in tema di giustizia. Pensa che questo Parlamento potrebbe mai approvare un provvedimento di clemenza come l’indulto? “È una misura che viene sollecitata da più parti. Il ministro Nordio sa bene che l’indulto è una misura di facile attuazione, i testi sono composti solitamente da un massimo di due articoli, uno sull’entità del condono della pena, dai 6 mesi ai 3 anni, uno sull’esclusione dei reati da selezionare, come è giusto che sia. L’indulto non è una clemenza cieca. Nel 2006 prevedeva il condono di tre anni di pena residua, a dispetto di quanto si dice non ha prodotto recidiva. La percentuale di recidivi che ha beneficiato dell’indulto è inferiore alla percentuale di recidivi che aveva espiato interamente la pena in questa situazione carceraria. Persino nel fascismo c’erano provvedimenti di amnistia. I numeri dei suicidi in carcere ci dicono che per la maggior parte erano detenuti giovani che avevano da scontare residui brevi di pena”. I numeri sono drammatici... “L’Unione delle Camere penali ha fatto affiggere negli uffici giudiziari, anche in quelli di Bologna, una locandina che riporta il “tragico contatore” dei suicidi in cella nel 2024: 91, un numero record, a cui vanno aggiunti sette agenti di polizia penitenziaria. E poi ci sono le altre morti in carcere: perché si deve morire in cella se fuori le malattie, magari anche gravi, si possono curare? Sono numeri che testimoniano un contrasto con quella che è considerata la Costituzione più bella del mondo, ma che rischia di rimanere solo sulla carta. Mi piace ricordare il primo articolo del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, che osserva come “in materia penale principi e limiti implicano sempre dei costi di fronte alle manifestazioni del crimine”. In caso contrario sono inutili declamazioni astratte”“. L’indulto comunque resterebbe una soluzione emergenziale che non risolverebbe gli altri problemi legati al mondo del carcere... “Ma è quella più immediata. Le altre prospettive di rieducazione, lavoro esterno al carcere, organico sottodimensionati sono più problematiche e non compatibili con tempi brevi”. Erri De Luca: “I suicidi in carcere? Omicidi in luogo pubblico” di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 gennaio 2025 Già sono state quattro le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre nel 2025. Il sovraffollamento, che ha raggiunto il 132,6% alla fine del 2024, “è una pena aggiuntiva inflitta abusivamente”, dice lo scrittore. “Nel generale restringimento dei diritti civili, dalla salute allo studio, l’amministrazione della giustizia è l’avamposto per misurare lo scarto”. Nelle carceri italiane, nel 2024, i suicidi sono stati 83, secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà personale (dati al 20 dicembre 2024). Altri quattro detenuti, a otto giorni dall’inizio dell’anno, si sono tolti la vita. “I suicidi di persone in carcere sono derubricati a casi clinici”, dice lo scrittore Erri De Luca. “Da parte mia uso diversamente il vocabolario: i suicidi di persone detenute sono omicidi in luogo pubblico aggravati dall’omissione di soccorso”. Dopo un anno dalla sentenza della Corte costituzionale (la numero 10 del 26 gennaio 2024) che ha aperto all’affettività delle persone detenute, non è stato fatto nessun passo in avanti per permettere i colloqui in intimità dei detenuti con i propri partner. Una sentenza dello scorso 2 gennaio della prima sezione penale della Cassazione ha ripreso la motivazione di quella storica sentenza, ha stabilito che il ricorso di un detenuto del carcere di Asti, per poter svolgere colloqui con la moglie in intimità, non può essere dichiarato inammissibile dall’ufficio di Sorveglianza di Torino: l’istituto di pena aveva rifiutato la richiesta dell’uomo poiché “la struttura non lo consente”. De Luca, nella sentenza di pochi giorni fa della Corte costituzionale si afferma che la richiesta “di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità” è un diritto e non “una mera aspettativa” da parte del detenuto. Cosa vuole dirci riguardo al diritto, in carcere, ad avere colloqui in intimità con il proprio partner? Nel generale restringimento dei diritti civili, dalla salute allo studio, l’amministrazione della giustizia è l’avamposto per misurare lo scarto. Il sovraffollamento è una pena aggiuntiva inflitta abusivamente. La Cassazione pronuncia la sua sentenza già sapendo che la mancanza di spazi sarà l’obiezione per non applicarla. Se in qualche istituto si potrà ottenere, sarà l’eccezione, l’esempio che brillerà per la sua rarità. L’anno scorso nelle carceri i suicidi sono stati 83, secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà personale (fino al 20 dicembre 2024). Secondo il dossier Morire di carcere di Ristretti Orizzonti le persone che si sono tolte la vita, nel 2024, negli istituti di pena sono state 90 (dati al 31 dicembre 2024). Il sovraffollamento ha raggiunto, lo scorso dicembre, il 132,6%. Nelle carceri l’emergenza è da tempo strutturale… I suicidi di persone detenute sono derubricati a casi clinici, come la morte violenta di operai sul posto di lavoro è ridotta a incidente. Da parte mia uso diversamente il vocabolario: i suicidi di persone detenute sono omicidi in luogo pubblico aggravati dall’omissione di soccorso. Mattarella, nel discorso di fine anno, ha toccato il tema: “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”. E ancora: “I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”. L’apertura della Porta santa a Rebibbia è stato un gesto simbolico voluto dal Pontefice per coinvolgere la popolazione carceraria del mondo nel Giubileo della speranza. Mattarella invoca un’”aria diversa”, il Papa invita i detenuti “ad aprire i cuori alla speranza”. Per cambiare veramente gli istituti di pena, secondo lei su cosa bisognerebbe in primis lavorare? Il Presidente sfiora temi dolenti senza pronunciarsi su responsabilità e proposte di interventi. Agisce da pontefice laico privo di poteri operativi, sottostimando il suo compito. L’altro Pontefice, quello eletto da conclave, inaugura il Giubileo nel padiglione di un istituto di pena. Ricordo un suo predecessore, Giovanni Paolo II, che per il Giubileo dell’anno 2000 chiese alle Camere riunite dei parlamentari, invano, un atto di amnistia. Il peggio non è parlare al vento ma alle orecchie chiuse. Quanto a rimedi urgenti, eccoli conosciuti e disattesi: investimenti in spazi, opportunità lavorative, aumento del personale di custodia. Sono misure che non portano voti né appetitosi appalti. L’altro fronte dell’emergenza: dietro le sbarre mancano agenti di Luca Bonzanni Avvenire, 9 gennaio 2025 L’incremento degli organici di Polizia penitenziaria è previsto entro febbraio e non tiene conto dei pensionamenti. La carenza attuale, di oltre 5.200 uomini, è destinata a non cambiare. Nero su bianco c’è un piano di incremento degli organici. Ma anche la fotografia plastica delle carenze attuali sono ancora troppo ampie per essere risolte: al 17 dicembre, la polizia penitenziaria era in “deficit” di 5.323 agenti uomini, mentre tra le donne se ne contavano 1.433 in più. Il rendiconto è allegato a una circolare del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, inviata poco prima delle feste ai sindacati di polizia penitenziaria in vista di successivi incontri. Nell’incipit si parte da una buona notizia, in realtà: entro fine febbraio, indicativamente, prenderanno servizio i 1.340 nuovi agenti (913 uomini e 427 donne) “usciti” dal 184° corso di formazione del corpo. C’è però una forbice molto più larga da colmare, soprattutto tra gli uomini, e la ripartizione di genere è rilevante perché le carceri sono divise tra sezioni maschili, presidiate da agenti uomini, e sezioni femminili, affidate ad agenti donne. Stando agli organici previsti dalle tabelle ministeriali, infatti, i provveditorati regionali - le articolazioni locali del Dap - e il Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, che si occupa appunto di minorenni, ma non solo, dovrebbero poter contare su 27.694 uomini; nella realtà, invece, la “forza operativa” maschile in servizio - cioè gli effettivi al 17 dicembre 2024, escludendo dal conto anche il personale in distacco - era rappresentata da 22.371 operatori, dunque all’appello ne mancano 5.232. La situazione è a macchia di leopardo, con le carenze maggiori nel provveditorato di Lazio, Abruzzo e Molise (-1.030 uomini), in quello della Sicilia (-612) e in quello della Lombardia (-535); va appunto meglio tra le donne, che sono in numero maggiore rispetto alla copertura teorica. Da qui nasce l’intenzione di provare a tamponare i numeri. “Avendo riguardo della prossima conclusione del 184° corso di formazione”, si legge nella circolare del Dap, è stato “elaborato un piano di incremento relativo agli organici degli undici provveditorati regionali e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità”, e per realizzarlo “si è tenuto conto non già della forza amministrata (cioè di quella prevista dalle piante organiche, ndr), bensì della forza operativa: ciò ha consentito un focus più dettagliato sulle effettive carenze organiche”. “Si è inoltre tenuto fede - prosegue il testo - all’impegno di dar vita a un piano di incremento che non rischi di essere vanificato, in sede di applicazione, dalla destinazione di consistenti aliquote di personale amministrato ad impieghi diversi da quelli propri della gestione interna degli istituti”. In sintesi, prosegue il documento, “si punta a ridurre proporzionalmente le percentuali di carenza nel ruolo di agenti e assistenti. Da ultimo, non per importanza, si è tenuto conto di peculiari criticità gestionali o di aumentati carichi di lavoro, emersi in alcuni ambiti territoriali negli ultimi mesi”. Quanto alle assegnazioni previste con i neoagenti, il provveditorato di Lazio, Abruzzo e Molise dovrebbe beneficiare di 175 uomini (e 92 donne), quello della Sicilia di 103 uomini (e 37 donne), la Lombardia di 87 uomini (e 65 donne). “I tempi di attuazione del piano di mobilità ordinaria - specifica la circolare - si ipotizzano successivi alla conclusione del 184° corso, e dunque con decorrenza fine febbraio 2025”. Nel frattempo, è verosimile stimare ulteriori uscite per i ciclici pensionamenti: anche al termine di queste nuove assegnazioni, tra gli uomini dovrebbero mancare circa 4.400 effettivi. Il reinserimento sociale dei detenuti? Impossibile se il sistema non lascia spazio alla speranza di Fabrizio Miracolo facebook.com/fabrizio.miracolo, 9 gennaio 2025 Questa mattina, percorrendo tanti chilometri per incontrare un detenuto ormai anziano, ho avuto modo di riflettere sulla drammatica situazione delle carceri italiane. Quel colloquio, con una persona che quasi si considera un “figlio del governo”, mi ha mostrato con chiarezza quanto sia pesante il fardello del sovraffollamento. La sua voglia di dialogo, il bisogno di raccontarsi, mi hanno fatto toccare con mano la difficoltà di chi, pur consapevole dell’errore commesso, desidera reintegrarsi nella società. Ma come può farlo in un sistema che non lascia spazio alla speranza? Dove il sovraffollamento annulla ogni possibilità di percorsi rieducativi, di formazione, di apprendimento di un mestiere? Quelle belle parole che anche noi abbiamo studiato, che parlano di reinserimento sociale e di recupero, sembrano svanire di fronte a una realtà che soffoca ogni tentativo di dignità. Il rientro, devo ammetterlo, è stato tristissimo. Non solo per ciò che ho visto, ma per ciò che non ho visto: una prospettiva, una via d’uscita, una possibilità per chi, come quell’uomo, vorrebbe riprendersi una vita diversa. Questo non è solo un problema di carceri, ma un fallimento collettivo. Un sistema che non riesce a guardare oltre la punizione e che non si interroga sulle condizioni di vita dei detenuti, perde di vista la sua funzione educativa e umana. E così, chi potrebbe essere restituito alla società con nuove prospettive, viene lasciato in balia di un circolo vizioso, senza strumenti per ricominciare. Dal codice rosso all’immigrazione: quando il populismo penale fa disastri di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 gennaio 2025 Nonostante il calo delle violenze domestiche e di genere, il Parlamento ha riformato la materia con adempimenti che stanno intasando il lavoro delle procure. Stesso copione populista in tema di migranti, con le Corti d’appello che rischiano la paralisi. Nel primo semestre del 2024, rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente, si è registrata una diminuzione del numero di omicidi con vittime di genere femminile (da 62 a 49, -21 per cento), del numero di donne uccise in ambito famigliare-affettivo (da 53 a 44, -17 per cento), e del numero di donne uccise da partner o ex partner (da 32 a 24, -25 per cento). Nello stesso periodo si è registrato anche un calo degli atti persecutori (-8 per cento) e delle violenze sessuali (-2 per cento). È quanto emerge dagli ultimi dati disponibili sulla violenza domestica e la violenza di genere, elaborati lo scorso luglio dal ministero dell’Interno. Questi numeri rendono ancora più incomprensibile la decisione del Parlamento di approvare, nel novembre 2023, la riforma del cosiddetto “codice rosso”, che ha introdotto una serie di adempimenti procedurali e burocratici così gravosi che, come abbiamo raccontato ieri su queste pagine riportando le parole di diversi procuratori, stanno intasando il lavoro delle procure di tutta Italia. La riforma, come è evidente, è l’ennesimo risultato del dilagante populismo penale, che induce i partiti a reagire a fenomeni criminali che ricevono grande enfasi mediatica con l’approvazione di provvedimenti forcaioli (introduzione di nuovi reati o aumento delle pene) o di leggi che danno all’opinione pubblica l’apparenza di un intervento riformatore, ma che in realtà si rivelano persino dannose per il lavoro degli uffici giudiziari. Soprattutto se adottate a costo zero, cioè senza stanziare maggiori risorse per la magistratura. È questo il caso della riforma del codice rosso, ma non solo. Un’altra riforma che si preannuncia impattante per il lavoro degli uffici giudiziari è quella prevista dal decreto legge n. 145 approvato lo scorso novembre dal governo, che prevede l’attribuzione alle Corti d’appello della competenza per i provvedimenti di convalida in materia di immigrazione e richieste di asilo. La riforma nasce dalle polemiche sorte fra il governo e la magistratura in seguito alla mancata convalida da parte di alcuni tribunali del trattenimento dei migranti nei centri albanesi. Nella prospettiva del governo (e del messaggio che si intende far passare all’opinione pubblica), l’attribuzione di questa materia non a un singolo giudice di tribunale, ma a un collegio di Corte d’appello porterebbe a un maggior numero di sentenze sfavorevoli ai migranti, e dunque più in linea con gli obiettivi governativi. Eppure, come evidenziato in una lettera inviata alle massime istituzioni del paese (ma ignorata) dai presidenti delle 26 Corti d’appello (dunque non dalle pericolose “toghe rosse”), la riforma appare “un disastro annunciato”. L’attribuzione alle Corti d’appello della competenza in materia di immigrazione è stata prevista infatti “in via di urgenza, a organici invariati e senza risorse aggiuntive”, quando soltanto due anni fa proprio il ministero della Giustizia aveva “rafforzato le sezioni specializzate di primo grado, con incremento di organici e risorse, proprio per far fronte alle crescenti difficoltà del contenzioso in materia di asilo e di protezione internazionale”. Una riforma insensata, che “renderà irrealizzabili gli obiettivi del Pnrr e determinerà un’ulteriore recrudescenza dei tempi e dell’arretrato dei processi”. A proposito di Pnrr, un altro intervento in materia di giustizia effettuato sull’onda del populismo, e che si è già dimostrato fallimentare, è quello che ha previsto, a partire dal primo gennaio, l’utilizzo obbligatorio di “App”, l’applicativo del processo penale telematico. Nel nome della “rivoluzione digitale” richiesta dagli obiettivi del Pnrr, il ministero della Giustizia ha stabilito l’obbligo di usare “App” senza neanche svolgere un adeguato periodo di sperimentazione. Risultato: nei primi giorni di applicazione il software ha registrato continui malfunzionamenti e blocchi, tanto da costringere i tribunali a ripristinare la carta per scrivere verbali, assumere le prove e depositare le sentenze. Nelle settimane precedenti, in una lunga relazione tecnica il Csm aveva avvertito sul rischio di “paralisi” del sistema, ma l’allarme è rimasto ignorato. Consulta senza plenum, anatomia di una frode costituzionale di Andrea Pugiotto L’Unità, 9 gennaio 2025 Sono già dodici gli scrutini andati a vuoto in parlamento nel tentativo di ripristinare il plenum della Consulta, oramai ridotto al minimo legale di 11 giudici (su 15). Un ritardo coltivato fino a cumulare il numero di giudici da eleggere simultaneamente, così da preparare una spartizione tra le forze politiche, in spregio ai principi costituzionali. 1. Il contributo delle Corti costituzionali a garanzia delle democrazie era il tema del seminario promosso dalla rivista Quaderni Costituzionali e dal suo editore il Mulino, l’11 dicembre scorso. A livello comparato, è emersa l’irresistibile tentazione del potere politico di “catturare” le Corti supreme nazionali per neutralizzarne la funzione contro-maggioritaria. È una tentazione globale e trasversale. Nell’ultimo biennio, ha interessato non solo democrazie illiberali (Ungheria, Polonia) o incerte (Ecuador, Messico), ma anche stabilizzate (Francia, Regno Unito, Spagna, Israele, USA). E l’elenco può includere altri paesi (Romania, Sud Corea), visti gli eventi delle ultime settimane. È una tentazione tentacolare che procede erodendo progressivamente le forme di tutela dell’autonomia e indipendenza delle Corti. Le modalità sono varie (nomine pilotate, riforme mirate, giudicati disattesi, poteri amputati), accomunate dalla sinistra caratteristica di rivelarsi solo ex post come una complessiva strategia capace di determinare una regressione democratica. Vale anche per l’Italia? 2. La risposta dipenderà dall’esito di una partita parlamentare che si trascina irrisolta dall’11 novembre 2023 (data di fine mandato di Silvana Sciarra). Sono già dodici gli scrutini andati a vuoto nel tentativo di ripristinare il plenum della Corte costituzionale, oramai ridotto al minimo legale di 11 giudici (su 15): se un impedimento qualsiasi colpisse uno di loro, assisteremmo all’inedita paralisi di un organo costituzionale indefettibile. Ha ragione chi, in dottrina, ha parlato di un ritardo “intenzionale” (Ugo Adamo, La composizione ordinaria della Corte costituzionale, Editoriale Scientifica, 2024, 201), coltivato fino a cumulare il numero di giudici da eleggere simultaneamente, diventati nel frattempo 4 al termine dei mandati di Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti, il 21 dicembre scorso. Il succedersi delle ultime tre votazioni, infatti, ha avuto il solo scopo di allineare al ribasso i quorum richiesti in Costituzione per eleggerne i sostituti, come prevede la legge: dai 2/3 ai 3/5 dei membri del Parlamento in seduta comune. Meno voti necessari, più posti disponibili. Questo lo scenario perseguito dai partiti e ottenuto telecomandando deputati e senatori che, proni e zelanti, hanno abdicato a una loro prerogativa costituzionale: concorrere sostanzialmente - e non solo pro forma - alla composizione della più alta istituzione di garanzia dell’ordinamento costituzionale. Racconta molto di sé un Parlamento che, senza reagire, si lascia sfilare l’ennesima competenza, contribuendo così alla propria irrilevanza politica. 3. Questo intenzionale ritardo rappresenta un “vulnus costituzionale”, stigmatizzato come tale dal Quirinale: era il 24 luglio scorso, e allora il giudice mancante era soltanto uno. Sull’altare di esigenze spartitorie, infatti, viene sacrificata la collegialità della Corte costituzionale, amputata quasi integralmente della sua componente di estrazione parlamentare. La si costringe a lavorare a ranghi ora ridottissimi, pericolosamente prossimi allo stallo funzionale. Se ne riduce la capacità di rendere giustizia costituzionale, alimentando il rischio di un rinnovato arretrato di questioni pendenti e ricorsi inevasi. Decisioni indifferibili (come il giudizio sull’ammissibilità dei referendum, in agenda il 13 gennaio) e urgenti (come l’elezione del nuovo Presidente della Consulta, indetta per il 20 gennaio) rischiano di essere prese da un collegio ridotto all’osso. Sono conseguenze tanto gravi quanto prevedibili che, però, non hanno in nulla scalfito la deliberata volontà politica di arrivare al punto in cui siamo. Analogamente, i ripetuti inviti del Presidente uscente della Corte a “fare presto” sono stati trattati con offensiva sufficienza e sostanziale indifferenza: troppo ghiotta la posta in palio per attenersi a una doverosa, leale collaborazione tra poteri. Principio, questo, che il Parlamento non ha esitato a capovolgere, tradendolo. Il riferimento è alla tempestività con cui il Presidente Mattarella, il 6 novembre 2023, ha proceduto alle due nomine di sua competenza (i giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi). Lo scopo era di spronare le Camere a procedere altrettanto speditamente, ma il risultato è stato d’incrementarne l’inerzia, con l’alibi che il collegio costituzionale veniva così messo sufficientemente in sicurezza. Una strumentalizzazione parlamentare indecorosa. 4. E adesso? Come uscirne? La soluzione che va prefigurandosi è riassunta in una formula matematica: 2+1+1. Indica la spartizione, tra gruppi parlamentari, dei giudici da designare: 2 alla maggioranza, 1 alle opposizioni, 1 condiviso per il suo profilo tecnico. Indipendentemente dai nomi che saranno prescelti, si tratterebbe - né più né meno - di una frode costituzionale. La Costituzione rifiuta la necessità di riservare, all’interno della Consulta, una “quota” di giudici espressione della minoranza parlamentare, perché non intende fare altrettanto - e in numero superiore - a favore della maggioranza parlamentare. La ragione è semplice: evitare la politicizzazione della giurisdizione costituzionale, sottraendo il collegio a condizionamenti partitici. A questo servono gli alti quorum elettivi: riconoscere un reciproco diritto di veto a impedire designazioni partigiane, costringendo così i parlamentari a convergere su nomi da tutti condivisi per competenza, autorevolezza, biografia. L’imparzialità della carica di giudice costituzionale, infatti, deve apparire tale fin dalla designazione e non solo dopo, alla luce della successiva condotta del prescelto. È l’antitesi della logica spartitoria che, invece, si intende perseguire. Dove due candidature dichiaratamente di parte diventano votabili se compensate da una candidatura eguale e contraria (e viceversa). Dove, già in partenza, si riconosce in un unico candidato il profilo necessario e sufficiente per una designazione bipartisan, con ciò ammettendo - a contrario - la matrice partigiana degli altri tre. Non basta. Poiché l’accordo è tra forze politiche reciprocamente diffidenti, si procederà secondo modalità di votazione che assicurino l’esito voluto (meglio se con un’unica scheda dove indicare i designati): l’arte combinatoria nell’esprimere le preferenze, concordata preliminarmente, consentirà di verificare se i gruppi parlamentari, obbedienti, si saranno attenuti alle relative consegne. Si aggirerà così la segretezza del voto, mentre la simultaneità dello scrutinio precluderà eventuali veti reciproci: simul stabunt aut simul cadent. La metamorfosi del Parlamento in seduta comune sarà allora completa: da “organo esecutivo della Costituzione” (Gianni Ferrara) a inautonomo collegio chiamato a ratificare quattro nomine decise altrove. 5. Una simile convenzione, proprio perché in frode alla Costituzione, è insuscettibile di trasformarsi in consuetudine giuridicamente vincolante. Ma è in grado, già ora, di alterare il coerente svolgersi della giurisprudenza costituzionale. Nei lavori della Corte - si è detto - decisivo è il metodo della collegialità: il che indurrebbe a non enfatizzare oltremisura le diverse sensibilità politiche e culturali dei candidati all’ufficio di giudice costituzionale. Ma - come ricordava il suo Presidente Giuseppe Branca - “per cambiare un indirizzo giurisprudenziale, in un collegio di quindici persone, basta il mutamento di due o tre giudici, poiché sulle questioni politicamente importanti si decide con una stretta maggioranza” (in Politica del diritto, 1971, 34). Anche per questo, lo scenario che si prefigura allarma. Infatti, “il tendenziale rispetto dei propri precedenti” è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore: il che “vale anche, e forse in speciale misura, per il giudice costituzionale” (sent. n. 203/2024). In Costituzione, condividere non è sinonimo di spartire: è davvero così difficile da capire? Carriere separate, retromarcia di Forza Italia: niente emendamenti di Kaspar Hauser Il Manifesto, 9 gennaio 2025 Avanti con la separazione delle carriere: il partito azzurro schiva il voto sull’elezione dei membri laici del Csm ma resta in agguato. La giornata di ieri ha avuto una dimensione distopica per quel che riguarda la giustizia italiana. La realtà andava da una parte, la narrazione si muoveva in senso inverso. Dai tribunali di tutte le città italiane, da Trento a Catanzaro, da Torino a Pescara, sono giunte notizie del blocco dei processi telematici fino al 31 marzo; il motivo, il black out della App che il ministero ha lanciato ad inizio anno. Alle 15 il ministro Carlo Nordio ha risposto durante il question time ad una interrogazione in merito, ma lasciando tutti a bocca aperta ha affermato: “In questo momento la mia mente è tutta presa dal fatto che la riforma costituzionale vada avanti”. La domanda posta dai cronisti riguardava la vicenda dell’eventuale rilascio dell’iraniano Abedini, ma l’irreale risposta di Nordio ha fatto infuriare l’Anm che ha espresso le proprie critiche. Veniamo dunque alla riforma con la separazione delle carriere dei magistrati, sulla quale l’altro ieri Forza Italia aveva presentato un emendamento non concordato con gli alleati e non condiviso da Fdi. Come questo giornale ha riferito, l’emendamento eliminava dal testo Nordio il sorteggio per i membri laici dei due Csm, mantenendolo solo per i componenti togati. Ebbene dopo un mini-vertici a Palazzo Chigi, con la partecipazione del sottosegretario Mantovano, e dello stesso Guardasigilli (che ha affermato di non esservi recato per la vicenda di Abedini), è emerso che la riforma “è blindata”. Su di essa, ha detto ai cronisti Nordio, “si deve procedere in assoluta armonia”. “Eventuali correzioni - ha aggiunto il ministro della giustizia - porterebbero a uno slittamento di quella che per noi è la madre di tutte le riforme e quindi abbiamo raggiunto un accordo e questi emendamenti saranno gestiti in un altro modo”. Insomma un dietrofront di Forza Italia. Almeno apparente. Tuttavia nel pomeriggio il gruppo di Fi, ha diffuso un comunicato a dir poco oscuro. “Forza Italia, con i suoi emendamenti - si leggeva nella nota - ha inteso sottolineare la funzione centrale del Parlamento nella individuazione dei membri laici del Csm. Ciò nonostante, d’accordo con il ministro Nordio, si è deciso di ribadire tali principi nella successiva, necessaria legge ordinaria”. Come potrà avvenire che la legge ordinaria di attuazione della futura nuova Costituzione possa contraddirla, prevedendo l’elezione dei membri laici mentre nella Carta si parlerà di sorteggio, è oscuro. O distopico. Il comunicato dei forzisti spiegava comunque che “pur di evitare il rischio di qualsiasi rallentamento nella definizione dell’iter della riforma costituzionale, riguardante la giustizia, Dna del partito, Fi non sottoporrà al voto gli emendamenti in questione”. Il partito di Tajani, quindi, evita di usare il termine “ritiro degli emendamenti”, per chiarire che non si ritira in buon ordine. Questo sul piano semantico. Sul piano politico, evitare il voto e la bocciatura significa che la proposta rimane sul tavolo della coalizione. Ieri l’aula della Camera ha votato la pregiudiziale, respinta dal centrodestra, che ha invece aperto il capitolo riguardante le opposizioni, presentatesi in ordine sparso. Innanzi tutto il documento è stato presentato dal solo M5S, benché Pd e Avs lo abbiano votato. Italia Viva e Azione si sono invece espressi contro la pregiudiziale che chiedeva il non passaggio all’esame del provvedimento. Tuttavia sia il renziano Roberto Giachetti che il calendiano Antonio D’Alessio hanno lamentato la chiusura della maggioranza in Commissione. Il voto di questi due partiti consentirebbe alla maggioranza di affermare che la riforma ha un consenso che va oltre i propri confini. Ma è da vedere se le destre saranno in grado di portare a casa tali voti, che cominceranno stamani alle 9,30. Non a caso Enrico Borghi, di Iv, ha detto che la separazione delle carriere si avvia sullo stesso binario del premierato. “Un rischio”. “No, è il modello accusatorio”: al Csm scontro sulle carriere separate di Simona Musco Il Dubbio, 9 gennaio 2025 Il laico Giuffrè (FdI): “Parere non richiesto, è un caso emblematico dell’espansione del ruolo del Csm”. I togati: “Così indeboliamo la cultura della giurisdizione”. Ma passa la proposta anti-riforma. “Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico di quella espansione del ruolo del Consiglio superiore della magistratura secondo la prassi e oltre la lettera della Costituzione e della legge. Come Consiglio superiore interloquiamo con il Parlamento in una materia nella quale il Parlamento ha la più ampia discrezionalità contemplata dal nostro ordinamento costituzionale e limitata solo dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Anche perché, aggiungo, la contemporaneità del dibattito in questo Consiglio che abbiamo voluto e ricercato con il dibattito che si sta svolgendo in Parlamento rischia di far apparire quest’organo come un organo di rappresentanza corporativa”. È questa la premessa della relazione di Felice Giuffrè, laico del Csm sostenitore della proposta B, ovvero il parere favorevole alla riforma della separazione delle carriere in quelle stesse ore in Aula alla Camera. A Palazzo Bachelet è si è votato oggi sui due pareri contrapposti, non richiesti dal ministro, ma attesi dal Parlamento - “dove la nostra discussione sarà ascoltata e il nostro parere letto” -, aveva chiarito in mattinata il consigliere di Area Marcello Basilico, secondo cui il Csm non poteva esimersi dal fornire il proprio punto di vista su una riforma “che cambia il volto della magistratura”. E per una volta, in Consiglio, le toghe erano tutte d’accordo nel dire no ad una modifica che istituirà due diversi Csm. La votazione si è conclusa con 24 voti a favore della proposta A contro i quattro per la proposta B. In Parlamento, dunque, arriverà il parere che boccia la riforma, ma che sembra già ininfluente, nelle logiche del dibattito parlamentare. E così, a parte qualche spunto per le opposizioni, la riforma dovrebbe passare senza alcuna complicazione. Un rischio per la magistratura, che finirebbe sotto il controllo della politica, secondo i critici, mentre per Giuffrè la proposta non solo è coerente con una visione costituzionale evolutiva, ma risolverebbe le ambiguità lasciate dalla Costituzione del 1948. “La riforma si muove nel solco di una naturale evoluzione dell’ordinamento costituzionale, riallineandolo ai modelli liberal-democratici occidentali”, ha dichiarato Giuffrè, una risposta alla maturazione del modello accusatorio, sancito dall’articolo 111 della Costituzione. “La proposta chiude una parabola storica, sciogliendo le contraddizioni che per troppo tempo hanno segnato la posizione del pubblico ministero sul piano costituzionale e processuale”, ha evidenziato, scontrandosi con una visione totalmente diversa, quella sostenuta dalla mozione A. “Questa relazione - ha commentato Basilico - non spende una parola per spiegare perché questa riforma migliorerebbe la giustizia”. Una riforma, ha evidenziato il togato Eligio Paolini, di Magistratura indipendente, che rischierebbe di indebolire la cultura giurisdizionale unitaria e avvicinare il pubblico ministero agli organi di polizia giudiziaria. Per altri, invece, il rischio è un altro: quello di finire sotto il tacco dell’esecutivo. “La Corte costituzionale - ha sottolineato l’indipendente Roberto Fontana - ha evidenziato come dal nuovo articolo 111 non discenda in alcun modo la necessità di una separazione: l’assetto attuale è compatibile sia con una separazione delle carriere, sia con un regime di unicità”. E i passaggi tra funzioni sono ridotti e irrilevanti: i dati statistici dimostrano infatti che il fenomeno è limitato a una media di 28 all’anno, “un fenomeno statisticamente quasi insignificante”. La separazione, ha aggiunto Fontana, è opposta alle più recenti disposizioni legislative che rafforzano il ruolo del pubblico ministero nella tutela dei diritti dell’imputato. Altre criticità, ha sottolineato il laico del Pd Roberto Romboli, stanno nella scelta del sorteggio dei componenti togati, incompatibile a suo dire, al modello costituzionale del Csm. “Il sorteggio rompe il nesso con il linguaggio della democrazia - ha sottolineato -: il sorteggiato rappresenta solo se stesso, non la pluralità delle sensibilità culturali e professionali della magistratura”. A ciò si aggiunge il rischio di inidoneità dei membri sorteggiati. “La pari dignità di ogni magistrato non significa che tutti siano ugualmente idonei a svolgere il ruolo di consigliere del Csm, come la Costituzione richiede - ha aggiunto Romboli -. Un Csm composto da sorteggiati dovrebbe coerentemente sorteggiare anche il vicepresidente, rendendo l’elezione una pura formalità”. A ciò si aggiunge l’Alta Corte disciplinare che, secondo il togato di Area Antonello Cosentino, sottrae al Csm una funzione essenziale. “Amputare la giurisdizione disciplinare dal sistema dell’autogoverno significa indebolire la capacità del Csm di esprimere un modello di magistrato”. La creazione di un’Alta Corte è invece per Giuffrè coerente con la scelta di un sistema più imparziale e meno condizionato dalle dinamiche interne del Csm. “Il potere di revisione costituzionale rappresenta l’espressione massima della discrezionalità parlamentare - ha concluso il laico -. La proposta non solo rispetta i principi fondamentali dell’ordinamento, ma li rafforza, adeguandoli alle sfide di un sistema giudiziario moderno”. Un’idea non condivisa dalla togata di Mi Bernadette Nicotra: “L’effettiva imparzialità del giudice dipende da dinamiche interne al procedimento, dalle discipline della competenza e delle incompatibilità, dalla effettività del contraddittorio, dalla qualità della motivazione, dai controlli in sede di impugnazione - ha sottolineato -. Solo rafforzando la comune cultura delle garanzie e della legalità si avrà un giudice che è ed appare libero nell’agire”. Per l’indipendente Andrea Mirenda, però, il sorteggio non è un male: “Qui dentro, 18 su 20 appartengono alle correnti. Il sorteggio è una conseguenza della nostra incapacità di essere autoriformisti. E stronca parrocchie, conventicole e camarille. Ce lo chiede l’Europa con il codice etico dei Consigli di giustizia, approvato da tutti noi, ma spesso ignorato”. E stroncare le correnti in seno al Consiglio è conforme a Costituzione: “Non può parlarsi di rappresentanza politica del Consiglio superiore, né rappresentiamo il corpo giudiziario. I padri costituenti hanno chiaramente scartato un modello corporativo, optando per una composizione mista, laica e togata. Guai se fossimo un organo politico: conformeremmo i magistrati a orientamenti consiliari, violando il principio che ogni magistrato è soggetto soltanto alla legge” La riforma che toglie potere alle toghe: per questo le spaventa di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 9 gennaio 2025 La separazione delle carriere mina il cuore del sistema unico italiano, riducendo l’influenza di una corporazione che da decenni esercita un potere parallelo. Ma perché il corpaccione delle toghe mostra tanta paura per una riforma della giustizia? Potere e contropotere paiono incrociare le lame nella stessa giornata in cui l’Italia intera sta festeggiando la liberazione e il ritorno della giornalista Cecilia Sala. Alla Camera va avanti lesto il cronoprogramma voluto dal ministro Carlo Nordio sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. E intanto al Csm i membri magistrati, con la consueta ruota di scorta dei laici di sinistra, prendono a picconate la proposta di riforma, insultandola come svolta “autoritaria” e “illiberale”. Si sa che il parere con cui la stessa norma istitutiva ha investito l’organo sulle riforme non è vincolante e soprattutto rappresenta una delle tante anomalie nel sistema che regola la divisione dei poteri in Italia. Ma la morsa, veri denti infilati nel collo del Parlamento e della funzione legislativa, è forte sul piano politico, in un Paese dove da oltre trent’anni ogni singolo pubblico ministero che abbia tra le mani un fascicolo per fatti rilevanti, soprattutto se politici, è trattato come una star e conteso da telegiornali e talk. È un vero potere parallelo, un contropotere che a ogni singola toga non è per niente sgradito, che fonda le proprie basi su dati storici. Quello fondamentale, il punto di partenza, ha le proprie radici addirittura nell’Assemblea Costituente. Nel cui dibattito, contro i pareri delle menti più liberali e addirittura dello stesso Palmiro Togliatti, prevalse il timore di una contaminazione con gli anni del fascismo, e fu bocciato l’allineamento alle democrazie occidentali che hanno la figura del pm legata alla sovranità del popolo e di conseguenza del governo. Nasce così, su questa paura, la corporazione dei magistrati e la grande anomalia italiana, un sistema unico al mondo. In cui chi accusa e chi giudica sono fratelli siamesi. In un angolino del processo c’è poi il soggetto con la toga sbagliata, l’avvocato, il terzo incomodo. Questo legame tra fratelli, occorre ricordarlo, non si è mai spezzato. E il Consiglio superiore, a lungo definito organo “di autogoverno” della magistratura benché ne siano membri anche i laici, per quanto in minoranza, è stato da subito un luogo della politica, con i partitini-corrente e il linguaggio e le abitudini proprie della politica, i litigi, gli accordi e le spartizioni. Anche la possibilità di dare opinioni e giudizi sulle proposte di legge in discussione alle Camere ha trasformato questo organismo, che dovrebbe essere burocratico-amministrativo, in una sorta di Camera-ombra. I cui pareri, se pure non pongono nessun vincolo all’attività legislativa, nei fatti hanno un grande peso politico, anche perché la corporazione dei magistrati ha due colossali alleati, divenuti sempre più allineati, la gran parte dell’informazione e i partiti della sinistra. Di che cosa hanno dunque paura le toghe? Temono che la separazione delle carriere, che comporterà di conseguenza la divisione in due del Csm, finisca con il ridurre tutto questo potere, con lo spezzettarlo in due diversi palazzi. Perché se i luoghi del potere, o contropotere, diventano più di uno, saranno anche inevitabilmente più deboli. Magari piano piano potrebbe anche cambiare la loro cultura, e avvicinarsi alla “normalità” di Paesi non certo totalitari come la Francia, in cui il pm dipende dal ministro guardasigilli e in cui i Csm sono per l’appunto due. C’è da chiedersi per quale motivo in tutti questi anni dalla riforma del 1989 che ha introdotto anche in Italia il sistema accusatorio, l’anomalia del nostro sistema sia rimasta intatta. E ci tenga separati, oltre che dalla Francia, da Spagna, Portogallo, Germania. Oltre che da Regno Unito, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Canada, Giappone. E qui, dando di nuovo uno sguardo al passato, arriviamo a quel che è successo nei primi anni novanta del secolo scorso e alla storia di Tangentopoli, che sul piano politico somiglia tanto a un colpo di Stato, soprattutto perché è stato un supplemento di presa del potere con la collaborazione dei principali sistemi di informazione. Un mondo politico impoverito e diviso al proprio interno non è stato fino a oggi in grado di fronteggiare una corporazione così compatta, pur nelle diverse correnti politiche, nel difendere con le unghie e con i denti il potere conquistato in quasi un secolo. “Divide et impera”, dicevano i nostri antenati dell’antica Roma. È questo di cui le toghe hanno paura. Per separare i fratelli siamesi occorre un intervento chirurgico. Ma occorre essere consapevoli oggi di quanto questa operazione di bisturi sia oggi indispensabile per la vita del Paese. Separare le carriere e separare i Csm per azzerare le anomalie italiane, liberare il giudice dalla zavorra siamese, ridare la sovranità al Parlamento, ricostruire una vera divisione tra i poteri. Processo penale telematico nel caos. Nordio: “Stiamo aggiornando il sistema” di Elisa Campisi Avvenire, 9 gennaio 2025 Pioggia di sospensioni, da parte di tribunali e procure, del programma che avrebbe dovuto snellire le procedure. L’Associazione magistrati: inascoltato il nostro allarme. Ma il ministro minimizza. L’app che dal primo gennaio avrebbe dovuto garantire processi rapidi e telematici fa flop. Tribunali e procure di tutta Italia corrono ai ripari sospendendola. “Il bilancio del primo giorno dell’app per il processo penale telematico è disastroso. Avevamo lanciato un allarme pochi giorni fa e ora purtroppo vediamo i risultati in praticamente tutti i tribunali italiani: disagi e rinvii che pesano sempre sui cittadini”, sintetizza la vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati, Alessandra Maddalena, facendo un bilancio delle criticità riscontrate. I penalisti parlano di inefficienze di un sistema che “lungi dal semplificare il processo, lo complica allungando i tempi delle procedure”. Il software per il processo penale telematico, App 2.0, è diventato obbligatorio per molti atti a partire dal 2025. Subito si sono susseguite però segnalazioni di errori, veri e propri blocchi e rallentamenti non compatibili con la necessità di svolgere e addirittura velocizzare - come era negli intenti iniziali - le attività giudiziarie. In alcuni casi il sistema non riconosce neppure i magistrati e non permette di visionare gli atti. Lo stallo ha spinto molti tribunali a bloccare il processo penale telematico, aggirando di fatto l’obbligo di caricare sulla piattaforma dei documenti fondamentali, come per esempio quelli dell’udienza preliminare, del dibattimento di primo grado e di alcuni riti speciali. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha provato a difendere il progetto affermando che il problema riguarda l’evoluzione tecnologica che si sta cercando di risolvere e aggiungendo che “le cose non vanno male come sembrerebbe”. Tuttavia, è certo che quando al rientro dalla sosta natalizia le toghe si sono trovate a dover utilizzare per legge il nuovo software, il rallentamento dei lavori è stato tale da non potersi ignorare. Dalle motivazioni dei presidenti dei tribunali che da Nord a a Sud hanno bloccato temporaneamente il sistema telematico emergono problematiche che l’assenza di un’adeguata sperimentazione non avrebbe permesso di rilevarle prima. Hanno optato per la sospensione Milano, Torino, Trento, Bolzano, Roma, Napoli, Bari e Pescara. Il Tribunale di Roma “dopo aver evidenziato numerosi malfunzionamenti” ha autorizzato l’utilizzo del formato analogico. Tali segnalazioni di errori “destano particolare allarme tenuto conto della ripresa delle odierne attività di udienza, evidenziandosi che mediamente sono chiamati in ogni singola udienza venticinque processi monocratici e dieci processi collegiali, numeri che vanno moltiplicati per il numero di udienze che quotidianamente vengono svolte in tribunale, pari a circa quaranta tra udienze dibattimentali e udienze preliminari”, scrive il presidente facente funzioni Lorenzo Pontecorvo. Lo segue anche la Procura capitolina, la più grande d’Italia, disponendo che i magistrati “redigano e depositano” gli atti “in forma di documenti analogici” fino al 31 gennaio. Del resto, come viene spiegato, in molti casi non risultano presenti in app i relativi modelli degli atti. Anche nel decreto di sospensione fino al 31 marzo del presidente del tribunale di Milano, Fabio Roia, viene spiegato che il motivo dello stop risiede proprio nelle criticità della piattaforma. “Ritenuto - si legge nel provvedimento - che sussistano criticità derivanti dall’immediata obbligatorietà del regime del binario unico relativamente a fasi processuali caratterizzate dall’assenza di un’adeguata sperimentazione e dalla mancata segnalazione della verifica della corretta gestione del flusso informatico”. Emerge dunque la necessità di procedere gradualmente all’implementazione dell’app, ritenendo opportuno mantenere il regime del doppio binario (digitale e analogico) “almeno fino al 31 marzo 2025”. Opta per il doppio binario anche Genova, mentre Aosta apre alla possibilità di ricorrere all’analogico in caso di problemi irrisolvibili. Solo Bologna, nonostante le “criticità evidenziate” ha preferito non stoppare l’app, disponendo che nella redazione dei verbali d’udienza si provveda “alla loro stesura in modalità analogica, con successivo scansionamento per il deposito telematico sui registri informatizzati di cancelleria”. In sostanza, chi ha cercato di rispettare l’obbligo si è trovato impantanato in lungaggini. La morte di Rami Elgaml: perché tanto accanimento dietro a quella moto? di Marina Corradi Avvenire, 9 gennaio 2025 A 20 anni si possono fare errori e sciocchezze che non meritano, però, per punizione la morte. Quando un normale inseguimento diventa una caccia all’uomo. Una moto che non si ferma all’alt in zona di movida, dietro a corso Como, la notte del 24 novembre. Sembra una faccenda banale, che si risolve dopo due isolati - guida senza patente, una catenina d’oro e, quei due ventenni, un po’ troppi soldi in tasca. Invece, poco prima delle quattro del mattino, in una Milano che nelle dashcam delle gazzelle dei Carabinieri è tanto deserta quanto livida, si scatena una caccia all’uomo forsennata: otto chilometri, venti minuti, le sirene che urlano nella città che dorme. È normale inseguire chi non si ferma a un alt, ma fino a che punto lo è incalzarlo in una corsa folle, cercando di fare perdere l’equilibrio a una moto? Nelle registrazioni agli atti della Procura l’intento di chi guida è chiaro: un incrocio in via Moscova, “Vaff…non è caduto”, esclama un carabiniere su Volpe 40. Poi: “Stringi, che lo prendiamo...” e infine, 4.03 minuti, periferia sud, via Ripamonti angolo via Quaranta: “È caduto”. E un collega, via radio, in risposta: “Bene”. Non era esattamente caduta la moto su cui viaggiava Rami Elgaml, 19 anni, egiziano, guidata dall’amico 22 enne Fares Bouzidi, senza patente. Una telecamera stradale inquadra la curva ad alta velocità, moto e gazzella attaccate, e infine lo spaventoso schianto dei due ragazzi contro un semaforo, e l’auto che piomba loro addosso. Morto sul colpo per rottura dell’aorta Ramy, egiziano, figlio di immigrati al Corvetto, sopravvissuto l’amico. Il giorno dopo il quartiere è una barricata, la gente scoppia di rabbia. Perché qualcuno ha visto, ha girato un video, e due carabinieri gli hanno intimato di cancellarlo. Ma l’uomo, evidentemente, ha raccontato. Ora l’autista di Volpe Quaranta è accusato, come Fares Bouzidi, di omicidio stradale, e i due che hanno minacciato il teste devono rispondere di frode e favoreggiamento. Molto brutta, la storia. A 20 anni si possono fare errori e sciocchezze, che non meritano però, per punizione, la morte. Ora la domanda è: quando un inseguimento normale - immaginiamo che ne accadano di simili ogni notte - è diventata una caccia all’uomo. Una vera e propria caccia: quei due sciocchi con i loro vent’anni e una catenina d’oro forse loro, forse no, inseguiti come lepri. Cercando di farli cadere, in ogni modo, ad ogni costo. Non erano kamikaze pronti a colpire, né infiltrati dell’Isis. Erano due ragazzi del Corvetto su una moto che andava forte, e il guidatore, senza patente, ha avuto paura. La domanda, torno a dirmi, è quando, e perché quei due scappati a un alt sono diventati prede da stringere a cento all’ora, e infine mosche da schiacciare in una curva mortale. In che momento di quella notte, e perché lo sono diventati. Cosa è accaduto, Volpe 40? Immagino quei due carabinieri probabilmente molto giovani, stressati da un lavoro pericoloso e da una città, sotto alle luci trendy, più incanaglita di quanto sembri. Sono stata recentemente al Corvetto. Tutti i ragazzi erano figli di immigrati, tutti gli italiani erano vecchi, gli ultimi rimasti in case popolari da cui chi ha potuto se ne è andato. C’era un bar, a un angolo: dentro, ai tavoli, una platea di anziani italiani fissava ipnotizzata il tabellone delle estrazioni di quella lotteria che dà i numeri ogni pochi minuti. Quando una lotteria è l’ultima speranza, vuol dire che di speranza ne è rimasta poca. A due chilometri dal centro, la Milano delle badanti, dei facchini, dei fattorini, e dei loro figli, che non vogliamo dire italiani. Un’altra Milano, che mi aveva ammutolito. E i due del 24 novembre, cresciuti lì, oltre l’invisibile muro che divide le periferie dalla metropoli che scintilla. Una moto veloce, una bravata, un’idiozia. Morire a 19 anni con l’aorta spezzata, per una bravata. Contro a un semaforo, con una gazzella dei Cc addosso. “Sono caduti”. “Bene”. Che epitaffio. Quella notte perché tanto accanimento, da vigilantes più che da uomini delle Forze Armate italiane, e le menzogne poi? Che è successo, Volpe 40, nelle vostre teste? Perché? Il padre di Ramy: “In quel video ho visto morire mio figlio, la verità sta venendo fuori” di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 9 gennaio 2025 Yehia Elgaml ha guardato il video dell’inseguimento: “Sono stati gli ultimi trenta secondi quelli che mi hanno fatto male. Ho sentito quelle parole dei carabinieri, quelle brutte parole”. Yehia Elgaml ha la voce sicura, mentre parla nella sua casa al Corvetto, quartiere alla periferia di Milano. E gli occhi gli si inumidiscono solo quando ricorda la prima volta in cui ha visto, nello studio del legale della famiglia del giovane Ramy, il 19enne morto all’alba del 24 novembre al termine di un inseguimento con i carabinieri lungo otto chilometri, quel video sugli ultimi minuti di vita di suo figlio (qui il comandante provinciale dei carabinieri: “Forniti anche i video realizzati con una dashcam privata, piena fiducia nella magistratura”). Cosa ha provato vedendo quegli istanti sul monitor? “Sono stati gli ultimi trenta secondi quelli che mi hanno fatto male. Guardandoli, mi sono molto arrabbiato. Anche di più del giorno della morte di Ramy”. Come mai? Il padre di Ramy, egiziano di 61 anni, da 18 in Italia, Paese d’adozione che considera “il mio primo Paese”, indica con le dita gli occhi. “Perché ho visto mio figlio morire davanti ai miei occhi. Ho visto mio figlio a terra, la macchina così attaccata al motorino. Ero con la mia famiglia a guardarlo. L’avvocato ci ha avvisato: “Volete vederlo”?”. Sì, abbiamo risposto. Mia moglie è scoppiata a piangere. Urlava: “Perché è successo questo a mio figlio? Perché non si sono fermati?”“. Si blocca per un attimo. Quindi aggiunge: “E poi...”. E poi? “E poi ho sentito quelle parole dei carabinieri, quelle brutte parole. “Chiudilo, chiudilo”. È “caduto? Bene”. Ma come, “bene” (i commenti in radio di un altro equipaggio dei militari coinvolto nell’inseguimento, ndr). Come si può dire questo? Ma queste persone non hanno dei figli? Io, il mio, vado tutti i giorni a trovarlo dove è sepolto. Però, lo so bene che i carabinieri non sono tutti così, non sono tutti uguali. Questi che hanno parlato così hanno sbagliato, ma - ripeto - non sono tutti uguali, ci sono tantissimi bravi carabinieri”. Cosa si aspetta adesso? “Ora io sono contento, possiamo dormire, perché la verità sta venendo a galla. Io ho fiducia nella giustizia italiana, nei giudici, anche nei carabinieri”. C’è chi chiede l’accusa di omicidio volontario. Lei cosa ne pensa? “Questo lo decideranno i giudici. Aspettiamo. Io so che il ragazzo che era alla guida ha sbagliato a non fermarsi. Ma Ramy non c’entrava nulla. I carabinieri potevano fare anche altro. Perché seguirli per venti minuti? Potevano prendere la targa e andarli a prendere dopo a casa”. Lei, nei giorni successivi all’incidente s’era speso per placare i disordini che per tre notti avevano incendiato il Corvetto. Teme che questo video possa riaccendere gli animi? “No. E comunque l’ho detto anche questa volta agli amici di Ramy. In molti mi hanno chiamato: erano contenti. “Verità per Ramy”, mi dicevano. Io l’ho ripetuto a tutti: dovete stare calmi e tranquilli, non fate casino. Avete visto: bisogna avere fiducia. Ora dobbiamo aspettare perché sia fatta tutta la verità”. Umbria. Detenuti e malati psichiatrici, l’impegno per costruire una Rems di Egle Priolo Il Messaggero, 9 gennaio 2025 Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza come una “mancanza urgente da colmare in Umbria”. Ma anche i problemi di sovraffollamento, con i quattro carceri umbri che ospitano una “quantità di detenuti doppia rispetto alla media nazionale” e l’idea di un fondo nazionale per la sanità carceraria, considerando che in regione un detenuto su 2 è tossicodipendente o soffre di disagi mentali per cui va curato. Questi i temi affrontati nell’incontro tra la presidente della Regione Umbria Stefania Proietti, il Garante regionale dei detenuti Giuseppe Caforio e il direttore regionale Salute e Welfare Massimo D’Angelo. Un confronto, secondo una nota di palazzo Donini, “fortemente voluto dalla presidente da sempre sensibile al benessere delle persone detenute, alle quali va garantito in primis il diritto alla tutela della salute”. Con una situazione, per cui si batte da tempo anche il procuratore regionale Sergio Sottani, in cui i numeri parlano da soli. A Perugia (in base agli ultimi dati disponibili, di agosto) a fronte di 461 detenuti totali, 215 presentano problemi di dipendenza, di cui 67 anche con patologie psichiche; 22 sono i detenuti con patologie psichiche non tossicodipendenti. Situazione simile a Orvieto, dove dei 119 condannati, 61 sono i detenuti seguiti dal Servizio per le dipendenze e 35 quelli affetti da disturbi di tipo psichiatrico, di cui 2 con disturbo psicotico grave. Va meglio a Terni: su 561 reclusi, i detenuti affetti da problemi psichiatrici sono 95 di cui 30 realmente psichiatrici e 65 con disturbi minori. Trecento i detenuti in terapia psicofarmacologica, 136 tossicodipendenti, di cui 15 con doppia diagnosi. Infine a Spoleto, su 461 reclusi ci sono 40 tossicodipendenti e 5 i detenuti con disturbi psichiatrici. Durante la riunione sono state quindi analizzate le criticità delle quattro strutture detentive presenti in Umbria. “Ognuna con caratteristiche specifiche”, ma con un problema “comune e rilevante”: il sovraffollamento. “I detenuti sono circa 1.600, a fronte di una capienza massima di circa 1.200 posti - ha sottolineato il garante Caforio -. Di questi, il 70 per cento proviene da altre regioni, per reati commessi al di fuori del territorio umbro”. E se in tutta Italia sono circa 64mila i detenuti su circa 60 milioni di cittadini, l’Umbria, in proporzione alla popolazione residente, ospita un numero di detenuti doppio rispetto al dato nazionale. “Questa situazione - si è insistito nel corso dell’incontro - grava fortemente sul sistema sanitario regionale”. È per questo che Proietti ha espresso “la volontà di portare la questione all’attenzione della Conferenza Stato-Regioni, proponendo l’istituzione di un fondo nazionale per la sanità carceraria”, che permetterebbe “una redistribuzione più equa dei costi tra le diverse regioni”. E come già successo nel primo incontro con il procuratore regionale Sottani, ieri si è parlato appunto anche delle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e quindi strutture sanitarie dedicate ai detenuti affetti da patologie psichiatriche. Come ricordato proprio ieri su queste colonne a proposito del caso emblematico dell’uomo affetto da schizofrenia assolto due volte per infermità mentale e attualmente in giro per il centro a vivere di espedienti e piccoli furti, in Umbria non ci sono attualmente Rems. “Una mancanza che la presidente Proietti - dicono da palazzo Donini - ritiene urgente da colmare”. Da qui il suo impegno ad avviare un dialogo con i sindaci per individuare un luogo idoneo alla realizzazione delle strutture, oltre a pianificare le loro fasi di progettazione e gestione. Un aiuto arriva subito dal Comune di Perugia, che proprio ieri ha approvato con 28 voti a favore l’ordine del giorno presentato dalla maggioranza sull’impegno nella risoluzione dell’emergenza carceri. Basta guardare i numeri di Sottani per capire: far curare in queste strutture i detenuti malati, significa di fatto risolvere il problema del sovraffollamento. Così, come illustrato dal consigliere Lorenzo Mazzanti (Pensa Perugia), l’odg ora impegna l’amministrazione a “farsi portavoce della necessità di aprire una Rems all’interno di un approccio in cui sia sempre la dimensione di cura a prevalere sugli aspetti detentivi, e parallelamente chiedere un potenziamento dei servizi sociali e sanitari del territorio, a partire dai dipartimenti di salute mentale (di cui fanno parte le Rems stesse) per attuare, in tutti i casi dove è possibile, forme alternative di riabilitazione sociale all’interno della comunità”. Paola (Cs). Due suicidi in 24 ore nel carcere: morti un detenuto e un operatore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 gennaio 2025 Sono già cinque le persone che si sono tolte la vita nella prima settimana del 2025, dopo il drammatico record del 2024 con 89 detenuti e 7 agenti che si sono tolti la vita. L’anno nuovo è iniziato esattamente come si era chiuso il precedente, con le carceri italiane al centro di una crisi sempre più drammatica. Dopo un 2024 che ha registrato un numero record di suicidi - 89 detenuti e 7 agenti di polizia penitenziaria - il 2025 si è aperto con cinque tragici episodi in pochi giorni: quattro detenuti e un operatore. Gli ultimi due nel carcere calabrese di Paola, dove ieri sera un detenuto di circa 40 anni, e questa mattina un impiegato delle funzioni centrali di 48 anni si sono tolti la vita impiccandosi, il primo nella sua cella, il secondo nella palestra della struttura penitenziaria. La tragica notizia è stata diffusa da Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria, sempre molto attento a tutto quello che accade negli istituti penitenziari italiani. “L’operatore che si è tolto la vita - spiega De Fazio - pare che avesse anche problemi personali e certo non è facile indagare le molteplici cause sicuramente concorrenti che inducono a un gesto così estremo, ma di certo fra quelle cause il carcere con i suoi drammi umani, la violenza ricorrente e le sue innumerevoli disfunzionalità favorisce in talune circostanze un processo di disumanizzazione e, forse, persino di assuefazione tanto da rischiare di allentare nell’individuo l’esatta portata e drammaticità di alcune azioni”. L’analisi della situazione del sistema carcerario italiano è drammatica e come dice il segretario della Uil-pa “i detenuti, 16mila oltre i posti disponibili, sono palesemente sottoposti a una carcerazione non dignitosa e neppure minimamente rispondente alla finalità della pena inframuraria dettata dalla Carta costituzionale; dall’altro lato dei cancelli, gli operatori, sia del Corpo di polizia penitenziaria, mancanti di 18mila unità, sia delle altre figure professionali sono sottoposti a carichi di lavoro e turnazioni insostenibili con sacrificio personale e familiare che viene vanificato dalla pressoché totale inefficienza e inefficacia del sistema sotto ogni profilo”. Sempre De Fazio ha dato notizia del caso che si è verificato martedì scorso, 7 gennaio, presso il carcere di Modena, dove un uomo di 49 anni, italiano, detenuto con l’accusa di presunto femminicidio, è stato trovato senza vita nella sua cella. L’uomo avrebbe inalato gas da un fornello da campeggio, un gesto che lascia dubbi sulla sua natura: un incidente durante una pratica per ottenere effetti allucinogeni o un deliberato suicidio? Tuttavia, l’assenza di tossicodipendenza porta a propendere per la seconda ipotesi. Questo decesso si aggiunge a quello di un altro detenuto dello stesso istituto, morto in ospedale domenica scorsa dopo un tentativo di impiccamento, e a un altro suicidio avvenuto a Firenze Sollicciano nei primi giorni dell’anno. De Fazio ha esortato il governo a intervenire immediatamente con provvedimenti tangibili, avvertendo che il 2025 potrebbe risultare ancora più tragico del 2024. Sul fronte politico, Luca Barbari, consigliere comunale del Partito democratico di Modena, ha espresso profonda preoccupazione per il terzo decesso avvenuto nella casa circondariale Sant’Anna in meno di tre settimane. “Questi eventi evidenziano il fallimento di un sistema detentivo che non solo non rieduca, ma genera recidiva e morti. Come Partito democratico presenteremo un’interrogazione urgente in Consiglio comunale per sollecitare interventi concreti e urgenti. La dignità umana e la sicurezza sociale sono in gioco”. Barbari ha inoltre puntato il dito contro l’assenza di risorse destinate al trattamento dei detenuti, al lavoro penitenziario e al personale. “Queste morti si potevano evitare se le istituzioni avessero ascoltato gli allarmi lanciati dagli avvocati penalisti nella primavera del 2024”, ha aggiunto, chiedendo le dimissioni del sottosegretario Andrea Delmastro, definendolo “inadeguato” alla gestione di questa emergenza. Il ripetersi di tragedie così gravi impone provvedimenti urgenti per mettere fine a questa mattanza, partendo dalla riduzione del sovraffollamento. La situazione è diventata insostenibile, e il rischio che anche il 2025 sia ricordato come l’anno più nero delle carceri italiane comincia a essere non più un’ipotesi remota. Roma. Un detenuto di 23 anni è morto suicida nel carcere di Regina Coeli Il Domani, 9 gennaio 2025 Sono 1.060 i detenuti dentro Regina Coeli a fronte di 566 posti disponibili, vigilati da solo 340 agenti penitenziari quando ne servirebbero almeno 709. “La situazione è da tempo ingovernabile e meriterebbe interventi celeri e concreti da parte dell’esecutivo”, ha detto De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria. Un’altra morte in carcere. Questa volta è un detenuto 23enne di origine romene che si trovava nell’istituto penitenziario romano di Regina Coeli a togliersi la vita. Lo hanno ritrovato impiccato nella serata dell’8 gennaio nel bagno della sua cella. Si tratta del quinto detenuto morto suicida nei soli primi nove giorni dall’inizio dell’anno, a cui si somma anche quello di un operatore. “La carneficina a cui, nostro malgrado, abbiamo assistito nel 2024, anno in cui è stata raggiunta la cifra record di 89 reclusi e 7 agenti suicidatisi, continua irrefrenabile, vista anche la sostanziale inerzia del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e del governo Meloni”, dichiara Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria che pone l’attenzione sul sovraffollamento del carcere romano. Sono infatti 1.060 i detenuti dentro Regina Coeli a fronte di 566 posti disponibili, vigilati da solo 340 agenti penitenziari quando ne servirebbero almeno 709 senza tener conto del sovraffollamento. “Una situazione che è da tempo ingovernabile e che meriterebbe interventi celeri e concreti da parte dell’esecutivo. Del resto, a livello nazionale, con oltre 62.000 detenuti presenti a fronte di 46.679 posti, il sovraffollamento è ormai prossimo a raggiungere, superandola, quota 16mila”, aggiunge De Fazio. A fronte di questi dati “gli organici del corpo di polizia penitenziaria continuano a depauperarsi anno per anno, mancando al fabbisogno più di 18mila agenti”. “È palese che in queste condizioni non si possa neanche pensare a concreti processi organizzativi, ma ci si rabbatti giorno per giorno mirando alla “sopravvivenza”, senza peraltro riuscire sempre a salvaguardala, come in questi casi. Parlare di art. 27 della Costituzione e di rieducazione è esercizio di mera retorica”, prosegue il segretario. “Servono subito misure deflattive della densità detentiva, vanno compiutamente potenziati gli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali, è necessario assicurare l’assistenza sanitaria e vanno avviate riforme complessive dell’esecuzione penale. Il 2025 è cominciato malissimo”, conclude. Modena. Tre suicidi in 20 giorni: “Il sovraffollamento mina la macchina della prevenzione” di Cristina Degli Esposti Il Resto del Carlino, 9 gennaio 2025 Il Garante dei detenuti: “Monitoraggi più complessi con il doppio delle presenze”. Nel mirino i trasferimenti di reclusi da fuori regione: scelta dettata dai servizi offerti. Tre suicidi nel giro di venti giorni nel carcere di Modena. L’ultimo martedì: Andrea Paltrinieri, 49enne uxoricida reo confesso, era in attesa di giudizio (le indagini non sono ancora chiuse) quando si è tolto la vita con il fornelletto a gas acquistabile dai detenuti nel circuito interno del penitenziario, lasciando orfani i due figli minori. A dicembre sono stati cinque i detenuti morti nelle carceri dell’Emilia-Romagna e, proprio nelle scorse ore, la giunta de Pascale ha stanziato oltre 18 milioni di euro per il potenziamento dell’assistenza sanitaria e psichiatrica dei detenuti. Come funziona la prevenzione dei suicidi in carcere? “Ogni persona in ingresso (sia per detenzione preventiva, che per espiazione pena, ndr) viene valutata preliminarmente da un’équipe, formata da personale sanitario e dalla direzione dell’istituto, che stabilisce se sia a rischio suicidario o meno - spiega Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna -. Poi si eseguono monitoraggi periodici, ma ci sono episodi spia che possono comportare una rivalutazione, come gesti autolesionistici o frasi afflittive pronunciate con psicologi o volontari”. Paltrinieri com’era classificato? “Non a rischio suicidario. Il suo è un caso ‘silente’. L’ho conosciuto la vigilia di Natale, un uomo dimesso con una visione della vita molto complicata. Lui, già ingegnere, mi ha raccontato di essersi iscritto a Biologia con il percorso Unimore attivo all’interno del carcere, ma palesava incapacità di vedere un futuro, forse anche per la pena lunga che sapeva lo avrebbe atteso ed era preoccupato per una visita medica per cui era in attesa già prima dell’incarcerazione”. Si è ucciso con un fornello a gas da campeggio: è permesso possederlo in carcere? “Sì, come una lista di altri beni può essere acquistato dai detenuti. Il primo metodo di suicidio nelle carceri italiane resta l’impiccagione, ma per chi non è in una cella singola è praticamente impossibile: i compagni di solito danno l’allarme. Il secondo metodo è proprio quello del fornello a gas per cui basta appartarsi nel bagno della cella, ma è anche uno strumento con cui i detenuti con dipendenze cercano lo sballo con lo sniffing. Paltrinieri, però, non aveva dipendenze. Infine, ma è più raro, l’abuso di psicofarmaci: c’è chi se li fa prescrivere e li accumula prendendoli tutti insieme, e chi li ‘acquista’ da altri detenuti”. Se così diffuso come metodo di suicidio perché non vietare quei fornelletti? “Farsi un caffè, cuocersi del cibo acquistato coi propri soldi da condividere con qualcuno è un modo per rendere più normale un’abitazione coatta. Virare sui fornelli elettrici non è possibile: gli impianti non sono dimensionati per reggere quei sovraccarichi e ci sarebbe un problema di contabilizzazione dell’energia elettrica in carceri sovraffollate come le nostre. I suicidi si combattono con la prevenzione”. Cosa intende, visto che ha detto che i monitoraggi ci sono? Colpa del sovraffollamento? “I detenuti non si suicidano per il sovraffollamento: si suicidano per un complesso di motivi come le persone fuori dal carcere. Ma il sovraffollamento entra in gioco nel momento in cui la rete del monitoraggio si trova a dover gestire il doppio dei detenuti per il quale è stato pensato”. Qual è la parte della popolazione carceraria più “salvabile”? “Chi non ha dipendenze, chi ha una rete parentale e amicale fuori dal carcere, una casa e un lavoro a cui tornare. Non è facile gestire da soli la solitudine del carcere: ultimamente si è tolto il senso alla detenzione che deve essere costruzione di un percorso, non mera attesa del dopo. In regione ci sono 400 detenuti che hanno meno di 4 anni da scontare ma che non possono accedere a misure alternative perché non hanno una casa o un lavoro. A Parma, poi, su 750 detenuti in 238 hanno dipendenze: di questi, solo 20 hanno avuto accesso alle comunità. Praticamente nulla”. Qual è la situazione che la allarma di più? “Il sovraffollamento di carceri come Bologna (oltre 850 detenuti) e Parma (750), ma ultimamente sono cresciute molto anche Piacenza e Modena. Quest’ultima è la quarta in Italia per gesti di autolesionismo in cella. Ma attenzione: sull’Emilia-Romagna grava una presenza di detenuti molto forte da fuori regione, per fatti commessi e giudicati altrove. I detenuti crescono non per un aumento di criminalità in regione, ma perché terminale di trasferimenti per i servizi che offre al sistema carcerario”. Modena. Detenuto morto in carcere: “Non c’erano stati segnali. Aumentare gli operatori” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 9 gennaio 2025 La Garante Laura De Fazio sul suicidio dell’assassino di Anna Sviridenko “Le bombolette a gas? Il problema c’è, ma i fornelli elettrici costano di più. Sovraffollamento, è necessario rendere più umano l’ambiente carcerario”. Segnali pare non ne avesse ‘lanciati’. Eppure, forse schiacciato dal peso del terribile gesto commesso, si è tolto la vita inalando il gas del fornellino. Non vi sono dubbi sulla volontà suicidaria di Andrea Paltrinieri, ingegnere modenese 50enne finito in carcere un anno fa per brutalmente ucciso, soffocandola, la moglie Anna Sviridenko, mamma 40enne originaria della Bielorussia, specializzanda modello di radiologia al Policlinico e medico nucleare all’ospedale di Innsbruck. In meno di un mese e con le stesse modalità nel penitenziario modenese si sono tolti la vita tre detenuti. Sul tema interviene la dottoressa Laura De Fazio la garante cittadina di Modena per i detenuti. C’erano stati segnali? “Come Garante posso dire che, da un certo punto di vista, quanto accaduto a Paltrinieri non è diverso dai precedenti due casi. Si tratta di tragedie che si sono verificate nel carcere ma sono tragedie diverse tra loro. Rispetto a Paltrinieri non risulta vi sia stato alcun fattore di rischio che abbia segnalato l’evento che si è poi verificato. La cosa drammatica è che si tratta di casi che non hanno collegamenti: in uno pare non vi fosse neppure la volontà suicidaria. Nel caso di Paltrinieri non si erano palesati fattori di rischio concreti prima dell’evento drammatico, questo posso dirlo. Sicuramente si tratta di una persona che non avendo avuto precedenti contatti con il sistema penitenziario, non aveva l’esperienza che magari hanno persone tossicodipendenti che ne fanno uso più frequentemente per stordirsi. In questo senso, però, non vi sono dubbi”. Raccomandato da Come pensate si possa arginare il fenomeno? “Il tema del suicidio in carcere affonda le sue radici in altre problematiche, che non si riducono ad affrontare quello del fornellino a gas. I fattori di rischio sono tanti: riguardano il singolo individuo ma anche quelli ambientali legati alla carcerazione. I fattori sono stati individuati da tempo: malattie psichiatriche, abuso di sostanze, atti di autolesionismo prima di arrivare al suicidio ma, comunque, il carcere impatta in termini di rischio suicidario. Aggiungiamo che, sicuramente, il sovraffollamento non è certo l’unico elemento ma ci sono dati statistici che correlano i suicidi con il sovraffollamento, caratteristica ambientale che favorisce questa problematica. In questa ottica diventa difficile individuare eventuali persone a rischio”. Come mai viene concesso l’utilizzo dei fornellini a gas? “Il discorso dei fornellini a gas è già stato oggetto di discussione; soprattutto i detenuti tossicodipendenti lo usano per stordirsi, per provare euforia. Dei tre casi che ci sono stati in questo periodo, il secondo parrebbe non essere legato ad una volontà suicidaria ma ad un ricorso al fornellino che si è concluso tragicamente. Il discorso delle bombolette e del gas è già stato affrontato: i detenuti hanno il diritto di cucinarsi all’interno della cella. Il ricorso al fornellino elettrico è stato proposto ma credo che dal punto di vista economico, sicuramente, non sia possibile conoscendo le condizioni degli istituti. Immagino quindi che il tema sia questo. Il momento del pasto, la possibilità di cucinare è di grande importanza e purtroppo ciò talvolta si traduce nell’utilizzo improprio del fornellino”. Avete formalizzato proposte in qualità di garanti? “L’Amministrazione penitenziaria ha una sua procedura di valutazione del rischio, seguita anche in questi casi come previsto. Come garanti facciamo presente la necessità di rendere più umano l’ambiente detentivo, aumentando anche il numero di operatori”. Napoli. “Febbre alta da diversi giorni”. Detenuto muore dopo il ricovero in ospedale napolitan.it, 9 gennaio 2025 È morto in ospedale, dopo aver combattuto per giorni con la febbre alta, mentre era recluso nel carcere di Secondigliano, Luca La Penna, 42 anni. La notizia del decesso si è rapidamente diffusa nel quartiere e amici e parenti stanno dedicando al 42enne moltissimi post sui social network. Una morte sta facendo discutere e che rilancia l’emergenza che si registra nelle carceri italiane. La Penna, l’ultima volta che era riuscito a comunicare con i parenti, si era lamentato delle scarse cure mediche ricevute, malgrado la febbre alta da svariati giorni. Poi il ricovero in ospedale, ma di lì a poco è sopraggiunto il decesso. Una notizia che ha suscitato forte scalpore nel quartiere. L’ultima ordinanza di custodia cautelare ha raggiunto La Penna all’incirca un mese fa, nell’ambito dell’ennesima operazione che ha concorso ad indebolire la coscienza del Lotto O. Ben 15 i soggetti raggiunti dal provvedimento, tra i quali anche il 42enne morto prematuramente e in circostanze ancora tutte da chiarire. Frosinone. Erano accusati della morte di un detenuto, assolti sette agenti di Polizia penitenziaria tg24.info, 9 gennaio 2025 Sono stati assolti con formula piena i sette agenti di Polizia penitenziaria accusati di concorso in omicidio colposo per la morte di V.G. un ragazzo di 25 anni residente a Ceccano. Dati i suoi problemi psicologici il giovane era stato collocato presso una Rems della città fabraterna. Ma da quella struttura il 25enne era scappato. A quel punto era stato trasportato presso il carcere di Regina Coeli a Roma. Ma il 7 febbraio del 2017 il giovane era stato trovato impiccato nella sua cella. A seguito di tale fatto erano finiti sotto processo per omicidio colposo la dottoressa che teneva in cura il detenuto e sette agenti di polizia penitenziaria tutti ciociari. Secondo la procura che ha seguito le indagini le guardie carcerarie non avrebbero vigilato come dovuto nei confronti del detenuto. Ma gli avvocati difensori Gianmarco De Robertis e Christian Alviani hanno dimostrato l’infondatezza delle accuse dimostrando che i loro assistiti sorvegliavano il 25enne con molta assiduità. Gli elementi portati in aula dai legali hanno indotto il giudice a pronunciarsi per l’assoluzione con formula piena. Ancona. Allarme a Montacuto: “Qui mancano 70 poliziotti. I detenuti sono cambiati” di Giacomo Giampieri Il Resto del Carlino, 9 gennaio 2025 Parla la direttrice del carcere, Manuela Ceresani, dopo gli ultimi episodi “Molti sono tossicodipendenti, c’è meno accettazione della reclusione”. Aggressioni ai poliziotti dentro il carcere purtroppo succedono, non è la prima volta. Questo credo accada da una parte perché i detenuti sono più reattivi, spesso ci vengono mandati da altre carceri dove hanno già dato problemi, e dall’altra anche per il poco personale su cui dobbiamo fare i conti. A Montacuto siamo scoperti di 70 poliziotti”. A parlare è Manuela Ceresani, direttrice delle due carceri anconetane, Montacuto e Barcaglione. Nell’ultima settimana c’è stata una escalation di violenza che ha caratterizzato la Casa circondariale di Montacuto. Martedì un agente di 30 anni è stato picchiato da un detenuto tunisino che gli ha buttato addosso anche del liquido urticante, inizialmente scambiato per un solvente a base di acido ma poi è risultata solo acqua sporca. Era in corso un trasferimento di carcere e il tunisino si è avventato sul poliziotto prendendolo a calci e a pugni. Sabato un altro detenuto ha preso a pugni una guardia durante un controllo ordinario interno e venerdì un altro recluso ha messo le mani al collo ad un poliziotto minacciandolo di morte. Tre episodi gravi che stanno preoccupando i sindacati di polizia, i primi a puntare il dito sulla carenza di organico che da troppo tempo va avanti. “I detenuti hanno maggiore difficoltà di adattamento alla vita penitenziaria rispetto al passato - spiega Ceresani, da cinque anni alla guida del carcere di Montacuto - Cosa si può fare? Intanto adeguare l’organico perché abbiamo una forte carenza di polizia penitenziaria. A febbraio ci saranno nuove assunzioni, speriamo che una parte venga indirizzata anche da noi a Montacuto. Barcaglione ha un’altra situazione, è un carcere di custodia attenuata e non ci sono queste problematiche violente. In pianta organica Montacuto dovrebbe avere 176 poliziotti ma ne conta solo 109. A conti fatti ne mancano quasi 70 (67), il 40% per capirci, un numero notevole. Speriamo che questa integrazione arrivi”. In cinque anni di direzione ad Ancona Ceresani non parla di una situazione in peggioramento ma ciclica purtroppo nel carcere. “La popolazione detenuta è un po’ cambiata - osserva la direttrice - è socialmente più aggressiva già fuori dal carcere e quando arriva qua rispecchia il trend. C’è una minore accettazione dell’adattamento alla vita penitenziaria, prima erano più rassegnati oggi invece reagiscono. Fanno continue richieste di terapie se quelle indicate non li soddisfa. È tutto più amplificato anche perché più della metà dei detenuti è tossicodipendente. Su 320 detenuti di Montacuto ben 188 sono dipendenti da droga, è un dato che abbiamo avuto dal Sert. Molti hanno anche la doppia diagnosi, sono tossicodipendenti e con problemi psichiatrici. Forse dovrebbero stare più in comunità che in carcere, con percorsi terapeutici stabiliti”. In carcere è cambiato anche l’andamento degli arrivi, sono più giovani, tra i 20 e i 25 anni. Prima erano più tra i 30 e i 40 anni. “Agli agenti va tutta la mia vicinanza - sottolinea Ceresani - c’è molta professionalità dietro le divise e lavorano h24. Molte difficoltà nell’arco della giornata si superano grazie alla loro professionalità”. Udine. Scuola Spes, doppio incontro sulla “rinascita”. Si parte dall’esperienza del carcere diocesiudine.it, 9 gennaio 2025 Sarà Silvia Landra, psichiatra in diversi istituti penitenziari del milanese e già collaboratrice della Caritas ambrosiana, l’ospite del primo appuntamento 2025 della Scuola di Politica ed Etica Sociale. L’incontro sarà lunedì 13 gennaio alle 18.15 a Udine. “Cosa c’è oltre le sbarre? Quando “i diversi” ci assomigliano”. Un titolo quanto mai provocatorio per un tema che è sempre di stretta attualità. È il biglietto d’ingresso al primo incontro del 2025 della SPES, la Scuola di Politica ed Etica Sociale dell’Arcidiocesi di Udine, che avrà luogo lunedì 13 gennaio. I partecipanti saranno guidati “oltre le sbarre” da Silvia Landra, presidente dell’Azione Cattolica di Milano, psichiatra con attività in alcuni istituti carcerari lombardi. L’appuntamento, come di consueto, sarà alle 18.15 nel palazzo Garzolini-Di Toppo-Wassermann dell’Università di Udine, nel capoluogo friulano, in via Gemona 92. Quello con Landra è il primo dei due incontri dedicati al tema della “Rinascita”. Il secondo appuntamento sarà lunedì 27 gennaio, nello stesso luogo e al medesimo orario, con lo psichiatra Calogero Anzallo. Si parlerà di “Cambiare è davvero possibile? Lavorare con gli uomini che agiscono violenza”. Entrambi gli incontri sono aperti agli iscritti ordinari della SPES ma, previa richiesta, anche a uditori. Questi ultimi possono richiedere il posto in sala scrivendo a spes@diocesiudine.it. Chi è Silvia Landra - Psichiatra e psicoterapeuta. Dal 2011 al 2014 è stata direttrice della Fondazione “Casa della Carità” di Milano dove, attualmente, è responsabile per le strategie culturali. Per dieci anni è stata consulente dell’Area salute mentale di Caritas Ambrosiana occupandosi di sensibilizzazione della cittadinanza e promozione di progetti sperimentali di “psichiatria di strada”. Nel 2008 ha conseguito un master in criminologia e da undici anni è psichiatra penitenziario (prima nella Casa Circondariale di Busto Arsizio, ora nella Casa Circondariale di Bollate). È stata Direttore sanitario per le comunità terapeutiche delle Cooperative Novo Millennio di Monza e Filo di Arianna di Milano. Attualmente è Presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana. Monza. Il teatro apre le porte del carcere. I detenuti e gli errori allo scoperto di Alessandro Salemi Il Giorno, 9 gennaio 2025 La compagnia Geniattori e dieci reclusi della Casa circondariale monzese protagonisti di “Senza parole”. Sul palco del Binario 7 porteranno in scena lo spettacolo nato dal laboratorio di recitazione oltre le sbarre. La compagnia Geniattori è nata nel 2016 da mamme e papà della materna Sant’Anna per riuscire a divertire i bambini e per raccogliere fondi con cui ristrutturare la scuola. Il teatro esce dal carcere e incontra il grande pubblico al Binario 7. È l’avventura percorsa in questi mesi dal gruppo teatrale Geniattori che per martedì 11 febbraio sta preparando un gruppo di 10 detenuti della casa circondariale di Monza per portare in scena “Senza parole”. I detenuti del laboratorio teatrale, con la loro gestualità, musiche e voce fuori campo, racconteranno la loro quotidianità, fatta di attività, per qualcuno lavoro, momenti comuni, pranzo e cena, esprimendo un’emozione per ogni momento della giornata. Lo spettacolo, presentato in carcere lo scorso maggio, apprezzato da direzione, pubblico e assessori monzesi, ora varcherà le sbarre di via Sanquirico. “Tutto è partito da un nostro spettacolo per i detenuti “Tre sull’altalena” per la regia di Enrico Roveris e Alfredo Colina, a novembre 2023 - racconta Mauro Sironi, direttore artistico della compagnia, attore e regista - la performance è piaciuta alla direttrice che da marzo ci ha proposto di gestire il laboratorio teatrale del reparto “Luce”, quello dedicato alle persone in fase di recupero. Anche quella è stata un’esperienza di successo, da cui ci è stato chiesto di dare forma a uno spettacolo con i detenuti stessi. Ed eccoci qui”. Come racconta Sironi, lavorare con i detenuti è come “toccare i nervi scoperti della società”. “Da fuori hai un’immagine - racconta -, non li conosci. Poi mettono a nudo le loro emozioni, la consapevolezza dei loro errori. Nell’immedesimazione teatrale ti puoi mettere nei panni delle persone che hai offeso e con i loro cari. Questo ti fa capire in profondità il tuo errore”. Nel 2026 Geniattori festeggia i suoi primi dieci anni, da quando è nato come aggregazione di genitori della scuola materna Sant’Anna di Monza, per divertire i bambini e per raccogliere fondi per ristrutturare la scuola. Poi è diventata un laboratorio teatrale per adolescenti e una compagnia con una decina di membri fissi e altri 7 o 8 adolescenti o ex adolescenti che hanno frequentato il laboratorio. Da qualche anno collabora con la compagnia teatrale Il Veliero e il Binario 7 ed è partner della ristrutturazione di Villa Valentina. “Da quest’anno - racconta Sironi - abbiamo una collaborazione strutturata con il Binario 7, per un ciclo di 3 spettacoli “I martedì dei geni”, al martedì sera, alle 20.45. Il primo spettacolo è stato il 10 dicembre con Il Veliero “Una notte nera”. Martedì 14 gennaio la compagnia porta a Monza il coro “Rock live Choir” che proporrà una carrellata di pezzi rock celebri, con intermezzo di letture sceniche dei Geniattori. Il ricavato verrà devoluto alla Croce rossa italiana, comitato di Monza. Ingresso 10 euro. L’11 febbraio si chiuderà con “Senza parole”. I reietti della “Gattabuia”: le voci, i rumori e le storie di chi vive nelle carceri di Isabella De Silvestro Il Domani, 9 gennaio 2025 I detenuti e le detenute come affrontano la vita in cella? E gli agenti cosa pensano? Un viaggio che racconta anche il doppio isolamento delle donne transgender recluse. Questo podcast fa parte delle inchieste sostenute dai lettori. Fin dalla fondazione di Domani, abbiamo messo al centro il giornalismo d’inchiesta e la sua funzione sociale. Fare giornalismo d’inchiesta richiede tempo, risorse e competenze. Negli anni abbiamo coinvolto lettrici e lettori per supportare alcune delle nostre inchieste più importanti. Qui per sostenere questa inchiesta Quando entro al carcere di Como per tenere un laboratorio di scrittura creativa è una giornata soleggiata di dicembre. Ma il cielo limpido e l’aria tersa smettono di significare qualcosa appena varco la soglia del penitenziario. Dopo aver consegnato il documento, il cellulare e lo zaino all’agente nel gabbiotto, mi lascio la prima porta blindata alle spalle e inizio a percorre i lunghi corridoi: l’odore acre dei materassi date alle fiamme durante l’ultima rivolta mi invade le narici. Raggiunta la sezione protetta, mi guardo intorno. Si tratta di uno spazio asfittico e tetro, di dimensioni ridotte, ricavato all’interno della sezione maschile. Qui le detenute transgender scontano la loro pena in un isolamento doppio, imposto per proteggerle dalle violenze che potrebbero subire nelle sezioni comuni. Le guardie non presidiano la sezione da dentro, ma la sorvegliano dal di fuori, elemento che acuisce la sensazione di trovarsi in gabbia, ai margini stessi del carcere, che nella percezione delle protette è quindi esterno, ampio, addirittura promettente. L’unico spazio a disposizione delle detenute oltre alle loro celle è uno stanzino disadorno. Supero la timidezza e annuncio il laboratorio, di cui nessuno le aveva avvisate. Una di loro mi aiuta, chiama le sue compagne, le esorta a partecipare. Ma il loro sguardo è spento e indifferente: rimangono sdraiate sulla branda, con il sottofondo del televisore, il più grande anestetico carcerario insieme alla cosiddetta terapia, gli psicofarmaci somministrati in dosi massicce come strumento di “pacificazione delle sezioni”. Farmaci sedativi, ipnotici, antispastici, stabilizzatori dell’umore che, oltre a essere prescritti per fini terapeutici, vengono utilizzati per calmare l’individuo intemperante, anestetizzare quello disperato e mettere a tacere quello chiassoso, con l’obiettivo di rendere innocua la sofferenza senza interrogarne le cause. Discarica di sogni - La proposta del laboratorio di scrittura non sembra allettarle: richiede fatica mentale, e in un luogo di annientamento della personalità e restringimento al minimo delle attività non solo la concentrazione, ma lo stesso alzarsi dal letto diventa una conquista. Riusciamo a convincere a partecipare tre detenute, che prendono posto intorno al tavolino traballante e mi guardano con aria interrogativa. Estraggo da una cartella le pagine dei libri che ho fotocopiato: si tratta di lettere, la modalità espressiva che tutti i detenuti conoscono e di solito praticano, essendo uno dei pochi mezzi permessi per comunicare con l’esterno. Le ho portate perché le leggessimo insieme, perché le interrogassimo, perché ragionassimo su quali parti di sé vengono chiamate in causa nell’atto dello scrivere, e perché a volte le parole, nei momenti di dolore, possano essere dispositivi di libertà e di autoaffermazione, due delle privazioni più dolorose della vita carceraria. Ma la lingua di queste donne non è l’italiano, bensì il portoghese: sono quasi tutte brasiliane, approdate in una casa circondariale del Nord Italia dopo traiettorie biografiche intricate e tragiche. L’italiano di Gramsci risulta respingente, e allora passiamo alle lettere di Fernando Pessoa, che per fortuna ho stampato anche in lingua originale. Parlano d’amore, e iniziamo a farlo anche noi. Una di loro fagocita la mia attenzione: ha un fare dolente ma partecipe, è intelligente, veloce. Mi racconta l’infanzia di povertà, la famiglia ostile, la prostituzione nelle metropoli del Brasile per pagarsi il corpo femminile che le manca, l’illusione di un italiano in vacanza che si dice innamorato di lei e la porta con sé, a Milano. Lo stesso che dopo qualche mese la abbandona in aeroporto con un biglietto di ritorno che si rivela finto. Allora si ritrova a vivere per strada, senza permesso di soggiorno, in un paese di cui non conosce la lingua, senza denaro, senza una rete a cui chiedere aiuto, con il proprio corpo come ultima risorsa, che è la stessa a cui in carcere ci si appella attraverso atti di autolesionismo quando non c’è altro modo per essere ascoltati dall’amministrazione. Mi dice che in prigione ha imparato l’italiano con i romanzi, che il nome femminile che si è scelta è quello della protagonista della sua telenovela preferita, e che avrebbe voluto fare la psicologa. Usa il condizionale passato. Le chiedo quanti anni ha, risponde ventisei. Assenza - Non serve avere la stessa età per specchiarsi, per chiedersi cosa sia accaduto a una vita perché prendesse una piega tanto amara così presto. È però un facilitatore: rende lo scandalo evidente. Lei, come molte delle altre donne transgender detenute - la popolazione carceraria più isolata e reietta - è in carcere per piccoli reati, frutto dell’emarginazione a cui le condanna un ambiente sociale che non le prevede. Parecchie di loro avrebbero diritto agli arresti domiciliari, ma mancano di domicilio. Mancano di molte altre cose essenziali, com’è comune nelle biografie di chi finisce in carcere in Italia. Le prigioni sono un margine sovraffollato e in buona parte abitato da persone escluse dalla partecipazione attiva alla cittadinanza, al lavoro, al voto, alla cura, alla dignità. Persone respinte alle periferie non contemplate dalla politica: perché troppo povere, perché straniere e senza documenti, perché tossicodipendenti, perché affette da disturbi psichiatrici, perché non scolarizzate. E allora parlare di carcere non significa solo interrogarsi su una realtà che riguarda direttamente 61mila persone in Italia, che ogni anno miete morti, registra pestaggi, torture, violazioni dei diritti. Significa chiedersi che società stiamo costruendo e chi ne rimane escluso. Significa domandarci quali pene ulteriori, non previste dall’ordinamento, lo Stato infligge quando lo sguardo dell’opinione pubblica non può sorvegliare. “Gattabuia” è un podcast che parte da queste domande, e si propone di proseguire un lavoro iniziato nel 2022: l’inchiesta Carcere-inferno quotidiano, finanziata dai lettori di Domani e realizzata insieme al collega Luigi Mastrodonato. Da allora ho continuato a visitare le prigioni italiane, a confrontarmi con i detenuti e le detenute, con insegnanti, educatori, agenti, chiedendo loro cosa significa invecchiare in questo contenitore di cemento fuorilegge, aprire gli occhi tutti i giorni in una cella, per anni. Ne sono uscite sei puntate dense di racconti e testimonianze, accompagnate dalle musiche della sound designer Federica Furlani, che hanno l’obbiettivo di portare il maggior numero di persone nel luogo più ermeticamente chiuso del nostro paese. Qui il podcast “Gattabuia”: https://open.spotify.com/show/1E74k9V6pAQyvH4jLcVffF La “missione” di essere comunità educante digitale di Leonardo Becchetti Avvenire, 9 gennaio 2025 Il sostegno esplicito di Elon Musk al partito di estrema destra tedesco Afd in vista delle prossime elezioni segnala quanto i luoghi del dibattito e della formazione delle preferenze siano profondamente cambiati. La generazione dei nostri padri ha costruito la sua partecipazione politica tra sezioni di partito, parrocchie e tribune elettorali dove lo scambio avveniva in modo trasparente tra gruppi con identità e ruoli ben identificabili. Siamo ancora in quel mondo quando, andando in edicola o navigando nel digitale, scegliamo un quotidiano conoscendone visione e pensiero. L’irruzione dei social media e dell’intelligenza artificiale ha certo reso molto più presente e interattivo quel villaggio globale salutato da McLuhan con l’avvento della televisione e prefigurato da Teihllard de Chardin con l’immagine della Noosfera; ma ha pure aumentato - e di molto - il rischio di “allucinazioni”, fake news e manipolazioni. Sui social media non siamo solo telespettatori passivi: siamo tutti potenzialmente protagonisti, attivisti, editori. Possiamo trasmettere in tempo reale il nostro messaggio come in uno Speaker’s corner globale, reagiamo in tempo reale a quello che gli altri scrivono e dicono, siamo informati immediatamente su quanto accade nel mondo, possiamo commentare e condividere notizie. Ci imbattiamo insomma in una miniera di sollecitazioni. Su queste piattaforme siamo soggetti a due fenomeni opposti: il senso di condivisione e accordo con chi la pensa come noi, ma anche lo scontro con chi ragiona in modo radicalmente diverso e che potrebbe allenare le nostre capacità di comunicazione. Purtroppo, come tutti sappiamo, non si tratta di un mondo ideale: la piattaforma è un’impresa, e l’interesse di chi la gestisce è massimizzare il traffico per aumentare gli introiti pubblicitari. E il traffico aumenta di più con lo scontro. C’è poi la questione fondamentale degli algoritmi che governano i meccanismi di prioritizzazione dei messaggi: quando apriamo l’app, spesso non ci rendiamo conto che c’è qualcuno che fa “la prima pagina” e decide cosa farci vedere subito tra le miriadi di informazioni generate nel mondo in quel momento. É dimostrato da diversi studi scientifici che i social media hanno aumentato per i motivi suddetti la polarizzazione e lo scontro delle idee politiche. Ai social si aggiunge ora il ruolo, anch’esso poco visibile, dell’intelligenza artificiale. Di fronte a questi pericoli per la nostra democrazia, la prima cosa da fare è diffondere consapevolezza su limiti e possibili distorsioni dell’interazione digitale e fare appello a una nuova missione: quella di essere comunità educante digitale. La seconda è aumentare il livello d’istruzione obbligatoria in un Paese in cui gli ultimi dati segnalano che un terzo della popolazione è affetta da analfabetismo di ritorno, e quindi in grado di attivare solo o prevalentemente decisioni emotive e non razionali, come spiegherebbe il Nobel Kahneman. La terza urgenza è combattere i monopoli, soprattutto nel campo dei social, dove è più difficile la concorrenza. Se in un determinato ambito (social media, posta elettronica) la stragrande maggioranza delle persone si abitua a usare un certo spazio per comunicare, si crea di fatto un monopolio. Perché è molto difficile per un potenziale concorrente - anche con un prodotto migliore - competere. Si tratterebbe infatti di convincere i cittadini a trasmigrare nel nuovo spazio col rischio di trovarsi soli, di perdere le proprie abitudini e di non beneficiare di tutte quelle relazioni a disposizione nello spazio originario. Per questi motivi il monopolio di Twitter (ora X) sembrava inattaccabile. In realtà la nascita e la crescita di Thread e di Bluesky dimostra che non è così. Nel primo caso (Thread) a colmare lo vantaggio è stato il creatore di un altro popolarissimo social come Instagram, entrato nella galassia Meta (la società del fondatore di Facebook Zuckenberg) che aveva già un suo network, ma non una piattaforma social tipo X. Nel secondo caso (Bluesky), il concorrente ha creato una piattaforma gemella con caratteristiche del tutto simili - che dunque consentono a chi arriva a trovarsi immediatamente a proprio agio - e gli afflussi sono improvvisamente saliti dopo l’elezione di Trump. La quarta e ultima questione è quella delle proposte di regolamentazione. I singoli Stati procedono in ordine sparso, con iniziative anche drastiche come il divieto dei social per i minori di 16 anni in Australia. Su questo fronte sarebbe forte la tentazione di limitare la partecipazione solo a chi ci mette “la faccia”, con un nome e cognome e un’identità ben precisa. Ma ciò limiterebbe il traffico della piattaforma e impedirebbe l’utilizzo di pseudonimi che per taluni aspetti sono anche uno strumento di libertà. L’agorà in cui si formeranno preferenze e si svolgerà il dibattito politico del futuro presenta dunque enormi potenzialità ma altrettanti rischi. Imparare a conoscerli è il primo passo per realizzare le prime e schivare i secondi. Evitando la tentazione di ritirarsi perché, come detto, il primo passo è diventare una comunità educante digitale e incontrare le persone laddove si trovano. L’epidemia d’ansia dei giovani c’è, ma non è tutta colpa dei social di Andrea Casadio Il Domani, 9 gennaio 2025 Negli ultimi quindici anni tra i ragazzi di tutto il mondo è aumentato il numero dei casi di depressione, di ansia e dei tentativi di suicidio. Ma non è lo screentime e lo smartphone a causare l’epidemia di malessere: sono le peggiorate condizioni economiche e la precarietà. Parola degli scienziati di Lancet Psychiatry. La nostra economia va a rotoli e le nostre città sono insicure? È tutta colpa degli immigrati. I nostri giovani figli si sentono sempre più soli e infelici, soffrono di disturbi mentali quali la depressione e l’ansia, e tentano il suicidio più spesso di prima? È tutta colpa dei social e dei telefonini. Questa è l’epoca in cui va di moda dare risposte semplicistiche a problemi complessi. Questa è l’epoca del populismo, che trova facili capri espiatori a cui attribuire le colpe di quel che non va. Purtroppo, però, le soluzioni facili sono sbagliate e non risolvono i problemi. Pochi scienziati e senza dati - Prendiamo l’epidemia di malessere mentale dei giovani. Tutte le ricerche scientifiche e sociologiche indicano che negli ultimi quindici anni in tutto il mondo tra i giovani è aumentato enormemente il numero dei casi di depressione e di ansia e dei tentativi di suicidio, un fenomeno che è esploso proprio quando hanno cominciato a diffondersi i telefonini e i social. Per questo, taluni scienziati e sociologi - un’esigua minoranza, va detto - sostengono che a causare l’aumento del senso di solitudine, dei casi di depressione e dei comportamenti suicidari tra i giovani siano proprio i telefonini e i social. Questi scienziati lo spiegano così: i giovani passano troppo tempo attaccati allo schermo e così si isolano; sui social gli influencer gli propongono ideali di successo e di bellezza irraggiungibili, così si sentono falliti e si incupiscono; online è più probabile vengano molestati o ricattati; alla fine si deprimono e si tolgono la vita. Peccato che non sia vero nulla. O, per meglio dire, che non esista una sola ricerca scientifica che dimostri in maniera chiara e inequivocabile che i social facciano male alla salute mentale dei giovani. Screentime innocente - Per esempio, negli Usa a partire dall’anno 2000 tra gli adolescenti c’è stato un enorme aumento dei casi di depressione e dei tentativi di suicidio. Le morti provocate da suicidio sono aumentate in ogni gruppo di età, ma tra le giovani di età compresa tra i 10 e i 14 anni sono addirittura triplicate dal 1999 al 2017. Tendenze simili sono in atto in ogni paese del mondo. Il responsabile della Salute Pubblica degli Usa, il Vice Ammiraglio Vivek Murthy, l’ha chiamata “la crisi della salute mentale dei giovani”. È colpa del cosiddetto screentime, cioè del tempo che i giovani passano attaccati allo schermo dei telefonini? Candice Odgers - professoressa di psicologia dell’Università di California a Irvine, una delle massime esperte del settore - ha affermato: “La tesi che le tecnologie digitali stiano provocando una modificazione delle connessioni nervose nel cervello dei nostri bambini e causando un’epidemia di disturbi mentali non è supportata dalla scienza”. E ha proseguito: “Centinaia di ricercatori - me compresa - hanno condotto ricerche per capire se il tempo passato sui social abbia effetti pesanti. I nostri sforzi hanno dimostrato che o non c’è nessun effetto, o l’effetto è minuscolo, o molto dubbio. E quando questi studi si sono protratti nel tempo hanno suggerito non che l’uso dei social media predice o causa la depressione, ma bensì che i giovani che già soffrono di disturbi mentali utilizzano queste piattaforme più spesso o in modi diversi rispetto ai loro pari sani”. Detto in parole più semplici, non è vero che i cellulari causano il malessere psichico dei giovani; invece, quasi tutti gli scienziati e gli studi sostengono che questo nesso di causalità andrebbe rovesciato, cioè se io sono un adolescente infelice allora mi attacco allo schermo del telefonino proprio per fuggire dalle cose della mia vita che mi rendono infelice- come una famiglia disfunzionale con genitori che mi angosciano, o una situazione economica o sociale che mi terrorizza- e non viceversa. La precarietà che pesa - Per sapere chi ha la colpa della crisi della salute mentale dei giovani, basta leggere un articolo fondamentale pubblicato qualche mese fa su Lancet Psychiatry, la più importante rivista scientifica di psichiatria del pianeta. Il comitato editoriale di quella rivista ha riunito un centinaio tra i più importanti esperti di psichiatria delle più prestigiose università del mondo - guidati dal professor Patrick McGorry, dell’Università di Melbourne, in Australia, - per formare la Commissione di Lancet Psychiatry sulla crisi di salute mentale dei giovani. Questi illustri scienziati si sono messi al lavoro e, nel settembre 2024, hanno pubblicato un ponderoso articolo intitolato proprio “Commissione di Lancet Psychiatry sulla crisi di salute mentale dei giovani”, che espone il loro pensiero sul tema. Scrivono: “I giovani sono sensibili in maniera unica alle condizioni e alle forze strutturali prevalenti di natura sociale e politica ed economica, e gli effetti di questi fattori influenzano la salute mentale lungo tutta la vita”. E quali sono queste forze di natura sociale ed economica che provocano la crisi di salute mentale dei giovani? Sentite cosa dicono gli studiosi: “Quattro decenni di neoliberalismo hanno portato a quella che è stata definita precarietà, e alla crescita di quel settore della società definito precariato. Quantomeno nelle nazioni occidentali, questo mega-trend politico ed economico, cominciato nei primi anni 80, ha prodotto una crescente diseguaglianza intergenerazionale, una grave erosione della sicurezza sul lavoro per i giovani, il trasferimento di ricchezza dalle giovani alle vecchie generazioni, ridotte prospettive di possedere una casa, a cui si aggiunge l’insulto della crisi degli affitti, e un aumento del debito studentesco. Le forze economiche risultato del neoliberalismo sono pesantemente implicate nel danno causato alla salute mentale e al benessere dei giovani”. Maledetto 2007 - Sembra più un manifesto politico che un articolo scientifico, ma gli studiosi hanno le idee chiare: la crisi della salute mentale dei giovani è provocata dal peggioramento delle loro condizioni materiali e non dal diffondersi dei social e dei telefonini, come dimostrano decine e decine di ricerche sul campo. D’altronde, era facile confondersi. Negli Usa e nel resto del mondo i casi di ansia e di depressione e i suicidi tra i giovani hanno cominciato ad aumentare a partire dagli anni 2007-2008: ma proprio nel 2007 la Apple lanciò il primo Iphone, che poi diede il via alla diffusione planetaria degli smartphone, e contemporaneamente esplose la catastrofica crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si è propagata in tutto il resto del mondo provocando una recessione e un calo dei salari globale, dai quali non ci siamo ancora ripresi del tutto. “Noi scienziati studiamo le correlazioni, cioè come varia un fenomeno in relazione ad un altro. E abbiamo visto che il peggioramento delle condizioni economiche preoccupa e mette in ansia i genitori e di conseguenza anche i nostri figli. I nostri figli sono la prima generazione che dopo decenni di crescita inarrestabile si aspetta di avere un salario inferiore a quello dei genitori, e questo è fonte di ansia e depressione”, mi spiega Odgers. La pressione accademica - “Invece, i telefonini e i social possono avere effetti variabili. Qualcuno può commentare negativamente una mia foto e io posso convincermi che non sono bella come quella influencer: questo può avere effetti negativi, ma non c’è nessuno studio che dimostri che questo provoca il malessere dei giovani. Invece sui social posso incontrare altri amici e capire che non sono solo, oppure online posso ascoltare i Beatles e leggere tutto Shakespeare, e questi sono effetti positivi”. Tornando all’articolo della Commissione di Lancet Psychiatry, gli scienziati hanno identificato altri due fattori che causano il malessere mentale dei giovani: “Un trend che i giovani frequentemente riferiscono come fonte di disagio psicologico è la pressione accademica”, perché temono che se non ottengono voti alti saranno destinati “a una vita di precarietà e marginalizzazione”. Infine, “il cambiamento climatico è una preoccupazione esistenziale sostanziale per i giovani”. I nostri figli stanno male? No, non è colpa dei social. Iran. Liberazione di Cecilia Sala: i meriti e gli impegni di Antonio Polito Corriere della Sera, 9 gennaio 2025 Questo risultato apra la porta alla liberazione di tutte le donne iraniane discriminate. Anche chi non crede nei miracoli deve ammettere che il governo di Giorgia Meloni, la nostra diplomazia e i nostri apparati di sicurezza ne hanno appena compiuto uno, riportando in Italia sana e salva e così rapidamente Cecilia Sala. È un grande sollievo per tutti. E in particolare per chi sa che il giornalismo non è appiccicare fake news su un social ma impegno e responsabilità, e comporta il rischio di andare in giro per il mondo per poterlo raccontare in prima persona. Un valore prezioso per la democrazia, del quale la nostra giovane collega è un esempio di prim’ordine. Anche per questo, e non solo per motivi umanitari, la sua liberazione è così importante. La premier Meloni ha dimostrato ancora una volta un’abilità nelle relazioni internazionali sorprendente in chi non aveva alcuna esperienza precedente né una tradizione politica cui attingerla. Alla fine i governanti sono giudicati sulla base della loro capacità di risolvere le crisi, di uscire dalle emergenze. E per farlo bisogna saper rischiare, come Giorgia Meloni ha fatto quando è volata in Florida per una cena con Trump senza sapere se una mossa tanto irrituale da essere tenuta quasi segreta fino all’ultimo l’avrebbe premiata con un successo oppure no. Ha messo dunque in gioco la sua credibilità personale, pur di sfruttare la finestra di opportunità che le offriva il passaggio delle consegne alla Casa Bianca: ottenendo un sostanziale silenzio-assenso del presidente eletto al rilascio dell’ingegnere iraniano arrestato su richiesta degli americani, e senza imbarazzare il presidente uscente che un via libera non poteva darlo. Aggiungiamo ai meriti di Giorgia Meloni quelli di un sistema-Paese che ha funzionato come raramente accade qui da noi, mostrando un’unità di intenti che è andata dalla famiglia Sala, affidatasi con fiducia alle istituzioni, fino alle forze di opposizione, che hanno saputo resistere alla tentazione di sfruttare a proprio vantaggio una crisi nazionale, e si sono alzate in piedi in Senato per applaudire il successo del governo. Ma chi non crede ai miracoli sa anche che ci sono state delle condizioni giuridiche, politiche e diplomatiche che hanno consentito un tale successo. La prima delle quali sta nel fatto che la detenzione di Cecilia Sala era arbitraria, che la nostra collega non aveva commesso nessun reato, né aveva violato alcuna legge, ma si trovava in Iran con un regolare visto e stava svolgendo il suo lavoro rispettandolo. La sua liberazione ha avuto naturalmente un prezzo, e vedremo nelle prossime ore quale esso sia e soprattutto in che forma sarà pagato. Intanto è chiaro che il governo italiano si è impegnato con l’Iran a non consegnare agli Usa l’ingegnere dei droni. Non è uno sviluppo di cui si possa essere felici, sappiamo come l’Iran rifornisca di sistemi d’arma i gruppi terroristici che agiscono anche contro i nostri interessi nazionali, oltre che contro i nostri alleati. Ma la ragion di Stato è anche questa, e l’Italia non lascia i suoi cittadini nelle carceri dei regimi. È del resto possibile che la decisione iraniana di liberare Cecilia Sala sia il frutto di una discussione politica interna al regime, gravemente indebolito dalla clamorosa sconfitta subita degli Hezbollah in Libano e dalla dura lezione militare che gli è stata impartita da Israele. Sappiamo che a Teheran c’è un’ala moderata che spinge per evitare un ulteriore isolamento del Paese. Avrà avuto un peso nella decisione di mantenere buone relazioni con l’Italia, nazione tradizionalmente aperta al dialogo in Medio Oriente. Specialmente ora che Roma sembra poter esercitare una qualche influenza sul nuovo inquilino della Casa Bianca (e questo potrebbe essere stato un effetto collaterale della visita-lampo di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago da Trump). Bisogna ricordare infine che Cecilia Sala, purtroppo, non è sola; ma anzi ha condiviso per tre settimane la condizione di vittima della teocrazia iraniana con le tante donne che si sono ribellate in vari modi e forme all’apartheid di genere di quel regime misogino e dei suoi Guardiani della rivoluzione e per questo finite, come il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, nello stesso infernale carcere che la nostra collega ha appena lasciato. Non meriteremmo il premio della libertà della nostra giovane connazionale se smettessimo adesso di batterci con tutte le nostre forze, con tutto il nostro “soft power”, con tutta la nostra energia diplomatica e politica, per liberare quelle donne e tutte le donne iraniane dalla discriminazione medievale cui sono condannate. Siamo sicuri d’altronde che questo sia stato il primo pensiero di Cecilia Sala, non appena finito il suo incubo. Stati Uniti. “Così aiuto gli altri ex detenuti a iniziare una nuova vita” di Elena Molinari Avvenire, 9 gennaio 2025 Sono passati cinque anni da quando John Frederick Nole ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Filadelfia e due da quando ha cominciato a tornarci regolarmente. “Ogni 15 giorni circa - spiega - mi fermo davanti ai cancelli, però”. Nole è rimasto in cella mezzo secolo, da quando era un ragazzino fino a quando, 67enne e fisicamente anziano, ne è emerso con la speranza di trovarsi un impiego. “Ero disposto a fare qualsiasi cosa - dice - lavare bagni, lavorare di notte, fare consegne. Ma non appena scoprivano che ero stato dentro, non avevo più notizie”. Nole è andato avanti grazie al sostegno della famiglia, ma non sopportava di non rendersi utile, né di vedere altri ex carcerati tornare liberi, scontrarsi con la realtà e poco dopo finire di nuovo in prigione. “Il sistema gioca contro chi è stato incarcerato - continua. Facciamo fatica a trovare qualcuno disposto ad affittarci una casa e a sfuggire alla povertà e alla disperazione che ci hanno portati dietro le sbarre”. Ogni anno più di 600.000 persone vengono rilasciate dalle carceri americane. Oltre il 60% finisce ancora in manette nel giro di tre anni. L’80% entro dieci. A fine 2022 Nole ha offerto i suoi servizi a un’organizzazione cristiana, Yokefellowship, che accompagna gli ex detenuti dopo il rilascio. Il suo ruolo è andare a prendere chi emerge dalle porte di metallo del complesso da quattromila posti letto dove ha passato quasi tutta la sua vita. “Li porto dove devono andare, offro loro un pasto caldo e compro qualche vestito, li oriento un po’”, dice Nole, che non è pagato ma riceve un rimborso per le sue spese. In due anni ha dato un passaggio a 44 persone ed è diventato co-direttore del programma per gli ex detenuti. “Avere qualcuno che ti prende per mano quando esci è fondamentale - dice -. So quanto sia duro adattarsi alle regole della società quando non si ha una guida”. Nole è cresciuto in uno dei quartieri più poveri di Philadelphia con 11 fratelli e un padre alcolizzato. A 8 anni ha passato tre mesi in un riformatorio per un piccolo furto, a 10 altri sei. Aveva 17 nel 1969, quando con due amici entrò in un negozio di dolciumi armato di una pistola giocattolo, prese un po’ di moneta e scappò. Più tardi apprese che il proprietario - un immigrato di 81 anni - era morto di un aneurisma addominale. Nole, che è afroamericano, venne processato come un adulto. L’accusa, guidata da una procuratrice che più tardi è diventata famosa per aver richiesto la pena di morte più di qualsiasi altro pubblico ministero, sostenne che Nole aveva spinto la pistola nello stomaco del negoziante, contribuendo alla sua morte. Il ragazzo negò, ma la giuria impiegò solo due ore per condannarlo all’ergastolo. Nole è stato rilasciato nel 2019, dopo che la Corte Suprema ha decretato che le condanne all’ergastolo per i minori sono crudeli e le ha annullate. “Penso di aver subito una punizione ingiusta, ma non sento di aver sprecato la mia vita - dice oggi - in prigione ho capito che quello che ho fatto quando ero giovane era perché non vedevo qual era il mio posto nel mondo. Ora sì, e sono grato a chi mi ha guidato in questo percorso”. Fra le persone che lo hanno aiutato cita i “capi” del suo blocco di celle, che gli hanno insegnato che aveva qualcosa da offrire, e i docenti che gli hanno permesso di ottenere un diploma delle superiori. Anche grazie a loro, dice, ha potuto creare in prigione un centro dove i detenuti potevano giocare con i loro bambini in visita. Ma la cosa più preziosa che il carcere gli ha dato è sua moglie, Susan Beard-Nole, una volontaria di una chiesa locale che ha sposato nel 1984, senza sapere se avrebbero mai vissuto insieme. Nell’ultimo anno Nole ha cominciato a sollecitare donazioni da privati, nella speranza di pagare il primo mese di affitto a chi esce di prigione e non ha un posto per dormire. La donazione che lo ha più toccato è un assegno da 1.000 dollari di un gruppo di ergastolani, che li avevano raccolti con impieghi carcerari da 25 centesimi l’ora. Quando l’ha ricevuto Nole era commosso, ma non sorpreso. “I miei amici dentro sono gli unici a capire davvero tutto quello che ho passato”.