C’è chi vuole un carcere incostituzionale. E gli altri? di Michele Miravalle volerelaluna.it, 8 gennaio 2025 Chi osserva il carcere con occhio non assuefatto, come prova a fare l’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, sa che le visite in carcere più complicate sono quelle di agosto e di dicembre. Sono questi i due momenti in cui è più evidente - e dunque, inaccettabile - la distanza tra il “dentro” e il “fuori” e soprattutto tra la pena idealizzata dalle norme e quella materiale, vivente, di carne e sbarre. Ad agosto, con il Paese in vacanza, l’ammasso di corpi accaldati e madidi langue senza fare nulla per lunghissime settimane, senza scuola, senza formazione, senza lavoro. A dicembre il non-Natale penitenziario crea rabbia e tensione. La spiacevole sensazione è stata confermata ancora poche settimane fa, durante la visita in una casa di reclusione del basso Piemonte. Alle osservatrici e agli osservatori di Antigone si chiede di visitare sempre le sezioni di “media sicurezza” in cui sono reclusi oltre 50mila delle 62mila persone detenute nelle carceri italiane (le altre 10 mila sono divise invece tra sezioni di Alta Sicurezza e sezioni “a custodia attenuata” per detenute madri o per persone tossicodipendenti, 750 sono al 41bis). Ma è la “media sicurezza” la cartina di tornasole di un sistema complesso e frastagliato. É in quelle sezioni, più che in altre, che il significato di sovraffollamento diventa tangibile. Certo si deve ragionare a mente fredda sulle statistiche, su come e perché cambi il tasso di sovraffollamento, sul fatto che il Ministero della Giustizia si ostini a calcolare nella capienza regolamentare di 51 mila posti delle carceri italiane anche 4 mila posti che in realtà sono indisponibili o non agibili. Dopodiché occorre rendersi conto, senza retorica, quali effetti ha il sovraffollamento sulla quotidianità detentiva. Per farlo, in quelle sezioni sovraffollate, bisogna starci. Insomma bisogna avere visto, come ammoniva il padre costituente Piero Calamandrei. Vedere, ad esempio, come nel caso di quest’ultima visita, un unico agente venticinquenne aggirarsi solo e spaesato con il mazzo di chiavi dorate, travolto da ogni genere di richiesta da parte di un’ottantina di persone nello spazio pensato per quaranta. Quello che è chiamato in infermeria per il metadone che altrimenti la crisi è dietro l’angolo, quello all’ufficio matricola, il gruppo che deve scendere al colloquio, quello che si è tagliato per la disperazione e ora gocciola sangue, i due che litigano per il sopravvitto e vengono alle mani, quello che non si capacita di come il suo pacco con i vestiti non sia mai arrivato dal carcere dove era prima e da dieci giorni è costretto a pietire mutande e maglioni ai suoi compagni di cella. Questo è il sovraffollamento. In una qualsiasi sezione di media sicurezza, in un giorno qualsiasi. In quelle condizioni nasce l’infame record dei 90 suicidi nel 2024, con la conta già ripartita nel 2025, il 3 gennaio, a Sollicciano, dove si è ucciso un ragazzo di 25 anni. Basta insomma rimanere nel luogo più ordinario del carcere, tra le persone detenute “comuni”, per capire come sia impossibile intravedere la finalità rieducativa della pena evocata dalla Costituzione e richiamata da chiunque parli o scriva di carcere. Da parte del decisore politico, lasciare le cose come stanno e anzi vederle peggiorare con l’aumento dei numeri del sovraffollamento, può significare due cose, o non sapere oppure sapere, ma accettare. La prima opzione, il non sapere, è, nei fatti, impossibile viste l’enorme mole di studi, pareri, decisioni giurisprudenziali che sul piano nazionale e internazionale affrontano la questione del sovraffollamento e dei suoi effetti. La seconda opzione, l’accettare e dunque volere, è invece l’ipotesi più probabile. È forse arrivato il tempo di ammettere che sul carcere e le pene si è definitivamente persa la condivisione dei valori costituzionali, che univa tradizioni politico-culturali anche molto distanti e che nell’art. 27 trovava una doppia sintesi: il “divieto di trattamenti inumani” e dunque il rispetto della persona, qualsiasi sia il reato commesso e la già richiamata “finalità rieducativa” che renda la pena “utile” non solo a risarcire un danno commesso (a retribuire). All’interno di questi confini costituzionali, le sfumature, gli accenti, le soluzioni normative e gestionali possono essere molto diverse, ma il confine, fino ad oggi, era considerato invalicabile. Lo è ancora? Insomma, quando il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in un’orazione ufficiale dice di provare gioia nel non lasciare respirare una persona detenuta esagera soltanto con l’enfasi retorica oppure esprime una precisa volontà politica? L’idea di una pena che produca sofferenza, di un cattivismo atavico radicato nell’uomo che prova piacere e accetta il dolore altrui, non è certo un fatto nuovo del nostro tempo, abituato alla banalità del male. La novità oggi è piuttosto sapere che questo sentimento collettivo travalica il senso comune, la “pancia” di un popolo e rischia di diventare pianificata ragione politica. È questo l’ultimo stadio di quel populismo penal-penitenziario che aleggia da alcuni decenni nel modo di regolare, gestire e comunicare il carcere e la penalità. Sarebbe davvero complicato spiegare altrimenti la sistematica introduzione di nuovi reati o l’inasprimento di pene previste per reati già esistenti, come avvenuto con il c.d. decreto Caivano (che è tra le concause del sovraffollamento negli Istituti penali per minorenni, unico luogo dell’arcipelago penitenziario rimastone finora immune) o con il disegno di legge Sicurezza (Ddl AC 1660), che conia nuovi reati quali l’”occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, la “rivolta in istituto penitenziario” o il “blocco stradale”. Impossibile spiegare altrimenti l’inadeguatezza delle misure di contrasto al sovraffollamento, introdotte da ultimo nel decreto carceri dell’agosto scorso, laddove l’idea più innovativa è stata l’ennesimo “piano straordinario per l’edilizia penitenziaria” con il suo seguito di consulenti, commissari ad acta, finanziamenti di cui chissà quando si vedranno i risultati. In questo scenario sembra improbabile che il Parlamento possa approvare con la maggioranza qualificata dei due terzi, un provvedimento di clemenza, cioè un’amnistia o un indulto (seppur nelle sue forme più blande, di indulto condizionato e limitato ad alcune categorie di reati). Le 27 amnistie votate nella storia repubblicana (7 quelle concesse nel Ventennio fascista) e i diversi indulti, l’ultimo in ordine di tempo risalente al 2006, sembrano oggi avvenimenti storici non ripetibili. Eppure la Costituzione, all’art. 79, continua a prevederli, seppur con maggioranza aggravata così come stabilito dal 1992, come strumenti “giustificati da situazioni straordinarie o ragioni eccezionali”. Negli anni gli appelli alla clemenza si sono susseguiti e intensificati, “storico” rimase quando di fronte alle camere riunite Papa Wojtyla, il 14 novembre 2002, chiese un “gesto di clemenza”, appello ripetuto anche da Papa Bergoglio in occasione dell’inaugurazione dell’ultimo Giubileo. Dal 2006 ad oggi è invece prevalsa l’idea che un atto di clemenza collettiva sia una “resa dello Stato”. C’è da domandarsi invece se le condizioni attuali delle carceri italiane siano una vittoria, una medaglia di cui andare orgogliosi. Per coloro i quali credono che i confini costituzionali della pena siano valicabili, probabilmente sì. Ma per tutti gli altri? Davvero oggi la cultura liberale, quella cattolica, i riformisti e le tante sinistre istituzionali e non, si devono rassegnare all’idea che i valori costituzionali - oggi a proposito di carcere, ma domani di scuola, salute, lavoro - siano derogabili? Il Giubileo nelle carceri, partendo dalla storia di Cagliostro di Michele Anzaldi huffingtonpost.it, 8 gennaio 2025 Ricordare la prigione di San Leo ci fa capire quanta strada e quanti misfatti sono stati perpetrati dall’uomo, eccessi che almeno in Europa non esistono più. Ma le parole e gli atti del Papa ci ricordano che, in una pratica delicata e complessa come la carcerazione, c’è ancora molto da fare. Non so bene perché, ma mi è arrivata su WhatsApp una foto dell’apertura dell’anno giubilare nella Cattedrale di San Leo (Rimini). All’apparenza è una delle numerose chiese che celebreranno il Giubileo 2025. Per i siciliani San Leo non è un posto qualunque, o meglio per gli appassionati di alchimia, di paranormale, di magia e per gli studiosi di massoneria, ma soprattutto per i pochi che si occupano di maltrattamenti e delle condizioni inumane riservate ai detenuti, quel luogo è un simbolo. A San Leo, infatti, si trova una delle prigioni più dure e famose della storia, la fortezza o meglio la tomba in cui fu rinchiuso il Conte di Cagliostro, conosciuto (a Palermo) come Giuseppe Balsamo. La vita di Cagliostro è molto conosciuta e raccontata con passione dai palermitani, e vale la pena di essere riassunta non solo per l’abilità e la furbizia dell’uomo, ma anche per ricordare la cattiveria e gli abusi che altri uomini riescono a perpetrare sui loro stessi simili. Giuseppe Balsamo nasce a Palermo nel 1743 in una normalissima famiglia palermitana, il padre commerciante e la madre casalinga. A seguito della morte del padre viene mandato a studiare, dai preti del convento del Fatebenefratelli, l’applicazione delle erbe mediche sull’uomo. Dopo qualche anno e tanti espedienti e imbrogli, Balsamo lascia la Sicilia e si trasferisce a Roma, dove inizia una brillante e soprattutto movimentata vita di alchimista e guaritore. In questo campo diventa famoso e rinomato tanto da essere invitato e accolto nelle più grandi corti d’Europa, addirittura a Londra, San Pietroburgo, dove riesce a farsi notare da personalità come Schiller e Goethe (che nel suo celebre “viaggio in Italia”, subito quando sbarcò a Palermo chiese informazioni e fece ricerche sulle origini del Conte Cagliostro). Si narra addirittura di un suo coinvolgimento nel famoso “Affaire du collier” alla corte di Versailles, un complotto ordito da alcuni nobili ai danni del cardinale di Rohan e per diffamare la regina Maria Antonietta. Roma, ieri come oggi, è la città ideale per una personalità vivace come quella di Cagliostro, e infatti inizia la sua attività di falsificatore di documenti, diplomi, sigilli e quanto altro. Tutta una serie di imbrogli che, dopo un periodo di successo, lo porta a scappare via dall’Italia in Francia, dove conosce tra i tanti anche Giacomo Casanova, che lo definisce “un genio fannullone che preferisce una vita di vagabondo a un’esistenza laboriosa”. Una vita spettacolare che gli consente di girare con successo tutti i paesi d’Europa: Londra, Parigi, Spagna, Portogallo, Belgio, Germania, Malta e altri, ovunque prima ricercato, ossequiato, e poi costretto a fuggire. Ma questa vita piena di espedienti, false guarigioni e trucchi di ogni tipo trova una battuta di arresto quando decide di fondare a Londra una loggia massonica di rito egiziano e di assumere il titolo di gran cofto. Il Sant’Uffizio a questo punto decide che va fermato e il 27 dicembre del 1789 viene arrestato e rinchiuso nelle carceri di Castel Sant’Angelo. Viene sottoposto a un durissimo processo che alla fine lo condanna a morte per eresia e dispone la distruzione di tutti i suoi manoscritti. Cagliostro a questo punto, disperato, rinuncia pubblicamente ai principi della sua dottrina massonica, e così ottiene che la sua condanna a morte venga commutata in carcere a vita, da scontare nelle prigioni di San Leo. Per descrivere le inaccessibili e inospitali carceri di San Leo forse la cosa migliore è citare la descrizione che ne fa monsignor Gianmaria Lance, archiatra pontificio: “Non sono carceri ma sepolture… Non si sa in Roma che cosa sono le carceri di San Leo, onde sopra la sicurezza delle medesime si appoggia la facilità di mandarvi frequentemente lì delinquenti, quantunque il signor Castellano non lasci di descrivere in Roma la pessima qualità delle spelonche”. Cagliostro, a causa delle sue presunte abilità magiche e nel campo dell’alchimia, viene considerato un pericolosissimo detenuto e a rischio elevatissimo di fuga, e quindi viene relegato nella più sicura e più dura delle celle, la cosiddetta camera del pozzetto. Una cella di tre metri per tre, da dove si accede da una botola sul soffitto. Il detenuto viene calato e i viveri una volta al giorno vengono calati dal soffitto. Unica apertura una piccolissima finestra con triplice inferriata, da dove si vede solo la cattedrale. Chiaramente queste condizioni, insieme a freddo e umidità, fanno sì che nonostante l’ottima salute Cagliostro, dopo poco si ammali e muoia in cella. E finisce così la vita di questo innocuo ma geniale Mandrake siciliano. Oggi per fortuna non esistono più queste folli sentenze della Chiesa e neanche queste ignobili e inumane condizioni carcerarie, ma rimane un problema di dignità del carcerato. Un problema che ha denunciato il Papa, proprio nell’apertura di questo stesso Anno Giubilare celebrata nel carcere di Rebibbia, con parole inequivocabili: “La prima Porta Santa l’ho aperta a Natale in San Pietro, ma ho voluto che la seconda Porta Santa fosse qui in un carcere. Ho voluto che ognuno di noi tutti che siamo qui, dentro e fuori, avessimo la possibilità anche di spalancare le porte del cuore e capire che la speranza non delude”. Visitare la prigione di Cagliostro a San Leo ci fa capire quanta strada e quanti misfatti sono stati perpetrati dall’uomo, eccessi che almeno in Europa non esistono più. Ma le parole e gli atti del Papa ci ricordano che in una pratica delicata e complessa come la carcerazione c’è ancora molto da fare, e non domani ma oggi. Il rischio è quello di ammettere lo sbaglio dopo avere distrutto, in maniera esemplare, la vita di un innocuo ma geniale personaggio come Cagliostro. L’inizio del Giubileo e l’attenzione sulle carceri. Il 2025 sarà l’anno della svolta? di Giorgia Savoia mondointernazionale.org, 8 gennaio 2025 È iniziato il 2025, anno santo per la Chiesa cattolica, anno in cui si celebra il Giubileo. Questo evento, che si tiene ogni 25 anni, rappresenta un periodo di rinnovamento spirituale per i fedeli, offrendo l’opportunità di ottenere l’indulgenza plenaria attraverso la confessione, la comunione e la preghiera. “Pellegrini di speranza” è il tema scelto da Papa Francesco, che ha voluto dare un segnale forte e inedito: dopo aver aperto la prima Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, ha deciso di aprire la Seconda al carcere di Rebibbia. Nessun Papa prima d’ora l’aveva mai fatto. La speranza è stata il filo conduttore dell’omelia che ha tenuto durante la messa nel carcere, alla quale ha partecipato anche il Ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. Cuori aperti. E questo fa la fratellanza. I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza. La speranza non delude mai! Pensate bene a questo. Anche io lo penso, perché nei momenti brutti uno pensa che tutto è finito, che non si risolve niente […] È questo il messaggio che voglio darvi; a tutti, a tutti noi. Io il primo. Tutti. Non perdere la speranza. La speranza mai delude. Mai. Delle volte la corda è dura e ci fa male alle mani … ma con la corda, sempre con la corda in mano, guardando la riva, l’ancora ci porta avanti. Sempre c’è qualcosa di buono, sempre c’è qualcosa che ci fa andare avanti.” Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha dedicato parte del suo discorso di fine anno al tema delle carceri: “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine”. Un gesto simbolico quello del Papa e del Presidente della Repubblica per riportare all’attenzione dell’opinione pubblica le condizioni inammissibili di vita all’interno degli istituti penitenziari. La speranza è proprio ciò che manca, come è dimostrato da dati oggettivi: il 2024 è stato l’anno record per numero di suicidi in carcere, pari a 90. Oltre ai suicidi, il 2024 è stato in generale l’anno con il maggior numero di decessi, pari a 243. Questi dati non possono passare inosservati, come non può diventare lettera morta la promessa contenuta nell’art. 27, III comma, della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Se le pene non consistessero in trattamenti contrari al senso di umanità, non avremmo un numero così alto di suicidi, né un tasso di sovraffollamento pari al 132,6%, con oltre 62mila persone presenti che possono contare su poco meno di 47mila posti disponibili. La vera speranza per il 2025 è che la classe politica risponda all’appello del Papa e del Presidente della Repubblica, adottando le riforme necessarie per rendere i principi costituzionali contenuti nell’art. 27 effettivi. Solo in questo modo la pena potrà essere dignitosa, umana e orientata alla rieducazione del condannato, contribuendo alla sua reintegrazione nella società e alla prevenzione di eventuali recidive. L’intimità in carcere e le leggi di Davide Ferrario Corriere della Sera, 8 gennaio 2025 È uno dei grandi “non detti” del carcere: il fatto che, insieme alla libertà, si perda anche un diritto come quello all’intimità anche se questo non sta scritto esplicitamente da nessuna parte, tanto è vero che in molti altri paesi europei è prevista la cosiddetta “ora dell’amore”, vale a dire la possibilità, da parte del detenuto, di incontrarsi con moglie o fidanzata in modo privato e senza sorveglianza a vista. Ma in un paese cattolico come il nostro l’idea della pena fa scattare il riflesso condizionato della condanna del sesso - fisica e morale - in quanto peccato e quindi non pensabile come redenzione attraverso gli affetti, ma come ulteriore colpa da castigare. Molte sentenze, dalla Consulta a inizio 2024 all’ultima Cassazione di pochi giorni fa dopo il reclamo di un detenuto del carcere di Asti, stanno ribadendo che l’intimità è un diritto da garantire. Come, nelle condizioni attuali delle carceri italiane, a cominciare dal Lorusso e Cutugno, resta un mistero. Ricordo un aneddoto agrodolce di quando alle Vallette girammo Tutta colpa di Giuda. Prima delle riprese la sceneggiatura venne sottoposta all’ufficio competente del Ministero per verificare che non ci fossero problemi. La funzionaria addetta, dopo averlo letto, disse che un problema c’era: ma non riguardava, come mi aspettavo, i discorsi sulla religione che nel film si facevano, bensì la scena d’amore tra la protagonista, una volontaria (Kasia Smutniak) e il direttore del carcere (Fabio Troiano), scena che si svolgeva - con l’empito che queste situazioni prevedono - nel primo posto che gli capitava, vale a dire, la palestra del carcere. Questo non era possibile, diceva la funzionaria, perché “i sindacati si sarebbero arrabbiati”. Io mi stupii parecchio, anche perché la scena non riguardava i detenuti ma due “liberi”. Ma, specificò la dottoressa, questo era un dettaglio. L’eccezione che non ammetteva regole, in carcere, era il fatto che qualcuno vi copulasse, evento che avrebbe configurato, nei confronti del personale, il reato di “omessa sorveglianza”. In altre parole, il carcere deve (doveva) essere sessuofobico a prescindere. Ma la realtà ha un suo modo di prendersi gioco dei divieti insensati. La storia più bella che venne fuori da “Tutta colpa di Giuda” fu l’incontro tra una delle produttrici e un detenuto. Nacque in sezione (castamente, come si può immaginare); proseguì durante una serie di licenze; sbocciò in un amore che dura ancora e che si è trasformato in matrimonio. L’amore, in galera, dovrebbe essere uno strumento per risocializzare le persone, se solo se ne accettasse la forza. Ma forse l’idea del sesso e dell’intimità che hanno le istituzioni rivela l’inconfessabile stortura che si nasconde dentro le leggi e le norme. La Cassazione ribadisce: l’affettività in carcere è un diritto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2025 La Corte ha annullato un’ordinanza del magistrato di Sorveglianza di Torino richiamando la storica sentenza della Consulta. Prima la Corte costituzionale, con la storica sentenza n. 10 del 2024 di quasi un anno fa, che ha riconosciuto il diritto dei detenuti a colloqui senza controllo visivo con il coniuge o convivente, ora interviene anche la Cassazione con una importante pronuncia che rafforza ulteriormente questo diritto fondamentale. La Prima Sezione Penale della Corte Suprema, con la sentenza numero 8 del 2025, ha infatti annullato l’ordinanza del magistrato di Sorveglianza di Torino che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di un detenuto di effettuare colloqui intimi con la propria moglie. Il magistrato aveva motivato il diniego sostenendo che tale richiesta “non configura un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale”. La Cassazione ha invece ribadito che, alla luce della sentenza costituzionale del gennaio 2024, il diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, che può essere limitato solo per specifiche ragioni di sicurezza, ordine e disciplina, o per la particolare pericolosità del detenuto. Non può quindi essere negato sulla base di mere difficoltà strutturali dell’istituto penitenziario. La questione solleva però una problematica di più ampio respiro. Gli istituti penitenziari italiani, notoriamente afflitti dal sovraffollamento, presentano spesso limiti strutturali dove, tuttora, non si vuole porre rimedio attraverso misure come la liberazione speciale anticipata, proposta da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Questo rischia di creare una situazione paradossale in cui la possibilità di godere di un’affettività piena con i propri cari finisce per dipendere dalle condizioni del carcere in cui si è reclusi. Si profila così una discriminazione tra detenuti: alcuni potrebbero vedersi negata per lungo tempo la possibilità di incontri intimi con i propri cari solo perché assegnati a strutture non adeguatamente attrezzate, mentre altri, più fortunati, potrebbero esercitare questo diritto fondamentale. Diritto, tra l’altro, tuttora negato. Tale disparità non solo viola il principio di uguaglianza, ma rischia di compromettere anche il percorso rieducativo dei detenuti, centrale nella nostra Costituzione. Se non si interverrà tempestivamente per risolvere questo problema, l’Italia si esporrà inevitabilmente a sanzioni e condanne in sede europea, con conseguenti obblighi risarcitori. La sentenza della Cassazione rappresenta quindi un monito importante: le carenze strutturali non possono giustificare la compressione di diritti fondamentali, e l’amministrazione penitenziaria ha il dovere di adoperarsi per renderne possibile l’esercizio in tutte le strutture. La palla passa ora al Ministero della Giustizia e all’amministrazione penitenziaria, chiamati a trovare soluzioni concrete per garantire al più presto l’effettività di questo diritto in modo uniforme, evitando che le carenze strutturali si traducano in una inaccettabile disparità di trattamento tra detenuti. L’affettività in carcere è un diritto, non un premio. E i giudici potrebbero ordinare di garantirlo di Emilia Rossi* Il Dubbio, 8 gennaio 2025 Data la difficoltà di dare seguito alla sentenza della Consulta, con la creazione di ambienti adatti ai colloqui intimi, si sta pensando alla possibilità di permessi ad hoc per i detenuti. Ma un diritto non bisogna mai “meritarlo”. A un anno e poco meno dalla sentenza 10/2024 con cui la Corte costituzionale ha stabilito il diritto delle persone detenute ad avere incontri intimi, cioè sottratti al controllo a vista del personale di custodia, con i partner di stabili relazioni affettive, una cosa è chiara: lo Stato, nelle sue articolazioni competenti del ministero della Giustizia, non ha fatto assolutamente nulla per rendere effettivo tale diritto. Con una indifferenza degna di nota verso le pronunce del Giudice delle leggi, non ha ottemperato, insomma, al precetto fissato nella sentenza e, a parte l’esperienza di Padova, non c’è Istituto penitenziario italiano in cui si siano predisposti ambienti idonei a ospitare i colloqui in intimità. Il tema, del resto, sconta l’incontro, davvero molto intimo, tra due impostazioni ideologiche piuttosto diffuse, nella cultura comune e in quella degli operatori del sistema della giustizia, che nei tempi attuali vivono un chiaro momento di rinvigorimento: la tradizionale pruderie italica verso il sesso, che si fa ma non si dice, e l’idea che la detenzione in carcere debba essere afflittiva, come elemento necessario della punizione. E quindi, in estrema sintesi, questo diritto all’intimità in carcere è visto come qualcosa di un po’ troppo: passi per gli incontri con la famiglia, ma il sesso no, altrimenti che pena è? Tant’è che, caso mai, si ritiene che si tratti di qualcosa che va meritato, un premio insomma: a questo si sta pensando, pare, al Tavolo del Dap cui partecipa il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, ipotizzando di risolvere la questione con la concessione di permessi ad hoc, come ha spiegato uno dei membri del Collegio indicandola come la soluzione più pratica. Peccato che i permessi ad hoc per “consentire di coltivare interessi affettivi” siano già previsti da una norma dell’Ordinamento penitenziario, l’art.30-ter, e siano soggetti a condizioni, di termini di pena e di meritevolezza, che non possono riguardare l’intera popolazione detenuta, come sottolinea la Consulta nella sua sentenza. Il permesso, del resto, è letteralmente il prodotto di una concessione, un beneficio, un premio, come lo definisce la norma, va meritato: un diritto è un diritto, non deve essere meritato mai. Quindi, a meno che il tavolo del Dap e del Garante inventi (e crei per legge) una nuova forma di permesso che apra le porte del carcere a tutti indistintamente per esercitare il diritto all’affettività, salvo le esigenze di sicurezza fissate nella sentenza della Corte, è con il diritto ai colloqui intimi in carcere che ci troviamo a che fare. Un diritto, non una aspettativa da nutrire in attesa che lo Stato adempi al suo dovere di dare realizzazione a un disposto dell’autorità giudiziaria regolatrice delle leggi, come ha espressamente chiarito la Corte di Cassazione con la recente sentenza 8/2025 annullando il decreto del giudice di Sorveglianza di Torino che a questo rango aveva declassato la “legittima espressione del diritto all’affettività”. Peraltro, se si derubricasse in aspettativa ogni diritto di cui lo Stato non si impegna a dare piena attuazione, si prenderebbe una china rischiosa per lo stesso Stato di diritto. Invece proprio dalla magistratura, da quella di sorveglianza, può venire la sollecitazione di un apparato statale inerte, che nelle condizioni di degrado e di sovraffollamento generate dall’inerzia politica e del governo trova la giustificazione della propria inerzia e coltiva il proprio disinteresse verso i principi statuiti dalla Corte costituzionale. Lo strumento è quello previsto, opportunamente, dalla norma dell’ordinamento penitenziario che regola il diritto di reclamo giurisdizionale: il potere del giudice di ordinare “all’amministrazione di porre rimedio” al pregiudizio di un diritto che ha realizzato, di farlo entro un detto termine e, nel caso mancato rispetto dell’ordine dato, di ordinare “l’ottemperanza”, nominando, se del caso, un commissario ad acta. Un potere forte, di cui dispongono i giudici della sorveglianza, i magistrati preposti anche (o soprattutto) a presidiare il rispetto dei diritti dei detenuti, che dà loro la possibilità di passare dalla teoria alla pratica, dall’affermazione di diritti al loro effettivo esercizio, dalle parole ai fatti, dalle aspettative al diritto. *Responsabile Commissione carcere e sorveglianza Camera penale Piemonte occidentale e Valle d’Aosta Carriere separate, Forza Italia: no al sorteggio dei membri laici di Valentina Stella Il Dubbio, 8 gennaio 2025 Un emendamento degli azzurri mira a mantenere il sistema attuale di elezione in seduta comune per i componenti non togati del Csm. Ma la Lega non ci sta. No al sorteggio per i membri laici del Consiglio superiore della magistratura. Questo prevede un emendamento di Forza Italia depositato al ddl costituzionale per la separazione delle carriere che domani torna nell’Aula della Camera a partire dalle 12. Il partito di Antonio Tajani vuole infatti lasciare l’elezione dei laici così com’è ora, cioè da parte del Parlamento in seduta comune. Il sorteggio resterebbe, invece, per i soli componenti togati. Il testo della riforma licenziato invece dalla Commissione Affari costituzionali, che ricalca quello voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, prevede per i laici una sorta di sorteggio temperato: una rosa scelta da deputati e senatori dalla quale pescare a sorte. L’emendamento, a prima firma del capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone, recita in particolare: “Gli altri componenti per un terzo sono eletti dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio e, per due terzi, sono estratti a sorte, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previste dalla legge. Ciascun Consiglio elegge il proprio vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento. I componenti elettivi e quelli designati mediante sorteggio durano in carica quattro anni e, rispettivamente, non sono immediatamente rieleggibili e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva”. Stessa prospettiva anche per l’Alta Corte disciplinare. Dell’emendamento si è discusso in una riunione che si è tenuta in mattina tra il vice ministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, il presidente dei senatori di Fi, Maurizio Gasparri, il capogruppo alla Camera Paolo Barelli, il capogruppo di Forza Italia in 2a al a Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin. Fonti del partito di Tajani spiegano così l’origine di questo emendamento: “Nei due Consigli superiori della magistratura (la riforma prevede lo sdoppiamento dell’attuale Csm in due Consigli diversi, uno per i giudicanti, l’altro per i requirenti, ndr) si è mantenuta la presenza di un terzo di membri laici e due terzi di magistrati. Per far fronte a questa superiorità e differenziazione perché non prevedere un sistema di selezione differente?”. Poi una considerazione di carattere più generale: “Hanno già tagliato il numero di parlamentari, perché dovrebbero privarci anche della possibilità di scegliere i componenti laici del Csm?”. Secondo altre indiscrezioni la logica sottesa alla scelta di FI sarebbe quella di evitare un “precedente pericoloso” ossia “prevedere che un organo elettivo e politico come il Parlamento si trovi a dover sorteggiare membri di importanti organismi. La premessa è: noi parlamentari siamo eletti, i magistrati no”. Il tema è delicato: in una riunione di fine ottobre tra il Guardasigilli e la maggioranza, Nordio aveva invitato i partiti a presentare emendamenti condivisi tra tutti gli azionisti di Governo. Tuttavia, da quanto appreso, non sarebbe questo il caso. Infatti fonti autorevoli della Lega si sono dette assolutamente contrarie alla previsione degli azzurri. Al partito di Salvini va bene il testo così come licenziato a dicembre. A conferma di ciò la circostanza per cui il Carroccio non ha presentato proposte emendative. Invece Fratelli d’Italia starebbe facendo ancora valutazioni interne per capire il da farsi. E questo sarebbe in linea col fatto che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che segue il dossier giustizia per la premier, quando gli è stato comunicato l’oggetto dell’emendamento non avrebbe posto veti o ostacoli di nessun tipo. Non si tratta di un via libera da parte di Palazzo Chigi, semplicemente non lo si considera inopportuno e si lascia la libertà di discuterne nelle sedi parlamentari. Questo slancio in avanti di Forza Italia potrebbe essere letto sotto diversi punti di vista. Primo: una provocazione per risollevare il livello della polemica dopo la pausa delle feste natalizie, che si erano chiuse con un intiepidimento sulla necessità della riforma come conseguenza del proscioglimento di Matteo Renzi e l’assoluzione di Matteo Salvini. “Se i giudici non si appiattiscono sulla tesi accusatoria, non c’è bisogno di separarli”: questa la tesi diffusa dalle opposizioni e dalle toghe a ridosso delle decisioni. La seconda, più accreditata: gli azzurri vogliono intestarsi a pieno titolo la riforma, anche a costo di spaccare la maggioranza. Partita come riforma Cenerentola, ora è diventata la madre di tutte le riforme, quella che avanza più spedita rispetto alle altre due - autonomia differenziata e premierato - ormai rallentate. Certamente si è consapevoli che si tratta di una proposta che inasprisce ancora di più i rapporti con la magistratura, già contrariata dalla proposta del sorteggio perché svilirebbe l’autorevolezza dell’organo di rilevanza costituzionale. Tanto è vero che il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia così commenta al Dubbio: “Questo emendamento di Forza Italia aggrava ancora di più la situazione già prevista dal ddl costituzionale. All’interno del governo autonomo della magistratura ci deve essere omogeneità. Così la politica non sorteggiata governerà il Consiglio anche se i membri laici saranno in minoranza dal punto di vista numerico”. Comunque sono circa 170 gli emendamenti presentati dalle opposizioni al ddl costituzionale. In particolare ne sono stati presentati una settantina dal Partito democratico, 56 dal M5S, 36 da Avs e 7 da Iv. Nessun emendamento da Più Europa, né da Azione. Da segnalare che Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs in commissione Affari costituzionali della Camera, si è detto d’accordo con FI: “La parità di genere va garantita nella composizione del Csm: un nostro emendamento va esattamente in questa direzione, ora apprendiamo che anche Forza Italia chiede la nomina in parlamento dei componenti laici, rinunciando al sorteggio. Finalmente”. Mentre vota la Camera, pure il Csm si pronuncia sul ddl Nordio. Riecco il parlamento-ombra di Errico Novi Il Dubbio, 8 gennaio 2025 È solo una coincidenza, per carità, ma è incredibile che l’organo di governo dei magistrati si esprima in contemporanea con Montecitorio sulla riforma che riguarda proprio i magistrati. Domani, in contemporanea col voto sugli emendamenti alla Camera, anche il Csm dovrebbe esprimersi sulla separazione delle carriere. Non per licenziare la riforma, naturalmente, ma per formalizzare, a maggioranza, il proprio giudizio tecnico. Una competenza prevista dalla legge istitutiva del Consiglio (articolo 10 comma 2 della legge 195 del 1958). Il pronunciamento del plenum sulle diverse proposte di parere preparate in sesta commissione produrrà un’eccentrica stereofonia tra l’assemblea parlamentare, a cui compete la formazione delle leggi, e l’assemblea presidiata dalle toghe, che giudicheranno in real time, in un impeto di postmodernità, la maxi riforma relativa proprio a loro, ai magistrati. È evidentemente una circostanza molto singolare del sistema italiano, si può dire unica nel panorama delle democrazie avanzate. Un ordine giudiziario che, attraverso la maggioranza vantata nell’organo di governo autonomo, rintuzza il legislatore, anche quando si trova in una sorta di conflitto d’interessi. Si dirà che l’esame tecnico del Consiglio superiore della magistratura torna particolarmente utile: l’ex Palazzo dei Marescialli, oggi Palazzo Bachelet, annovera non solo valenti giudici e pm, ma anche esponenti dell’avvocatura e dell’accademia e altrettanto preparati giuristi in servizio presso l’Ufficio studi. Ma il punto è che i pronunciamenti del Csm sono tuttora sovraccarichi di una forte valenza politica, a causa dell’egemonia che, malgrado la riforma Cartabia, le correnti continuano a esercitare sulla componente togata. A piazza Indipendenza, a tutt’oggi, non è insediato semplicemente un “organo di alta amministrazione”, ma il parlamento-ombra delle toghe, integrato con una pattuglia di laici decisiva solo quando la magistratura non è compatta su certe decisioni. Capita, di fatto, con le nomine di procuratori capo e presidenti di Tribunale, sulle quali le correnti si fanno la guerra (divise in mini-coalizioni). Ma non capita praticamente mai per i pareri su riforme che vedono la magistratura contrapposta alla politica: in circostanze del genere, e la separazione delle carriere rientra perfettamente nella casistica, le correnti sono unite, e il più delle volte schierate contro la maggioranza di governo. Si può citare, a riprova dello schema, la divisione sui pareri che dovrebbero andare al voto domani in plenum: tutti i togati sostengono il documento critico sul ddl Nordio, affiancati dai laici di opposizione, mentre i soli laici “di centrodestra” voteranno il parere favorevole alla separazione delle carriere. Eccola, la Camera-ombra. Con tanto di gruppi e mini-gruppi parlamentari. Se davvero la separazione delle carriere entrerà in vigore, il Csm si sdoppierà: ne avremo uno per i giudici e uno per i pm. Sarà meglio o peggio? Nel disegno del guardasigilli Carlo Nordio, i due futuri Consigli superiori saranno meno politicizzati: il sorteggio dei togati dovrebbe sfumare la vocazione antagonista e far prevalere il profilo tecnico. Sicuramente il quadro sarebbe diverso dall’attuale: l’Anm e le sue correnti ne uscirebbero indebolite. E la singolarità italiana perderà un po’ del suo parossismo. Ma tra il dire che sarà cosi e la prova dei fatti, c’è di mezzo un mare di incognite, riassumibili nella parola referendum. E più ci si riflette, più si comprende quanto il voto che dovrà confermare la separazione delle carriere costituirà uno snodo epocale per l’assetto dei poteri nel nostro Paese. Sos procure: “A causa del codice rosso rischiamo la paralisi” di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 gennaio 2025 Le procure di tutta Italia sono inondate di procedimenti per presunte violenze domestiche e di genere, tanto da dover istituire gruppi specializzati che in alcuni casi coinvolgono più della metà dei magistrati in servizio presso l’ufficio. È allarme rosso per il “codice rosso”: le procure di tutta Italia sono inondate di procedimenti per presunte violenze, atti persecutori e maltrattamenti, tanto da dover istituire gruppi specializzati che in alcuni casi coinvolgono più della metà dei magistrati in servizio presso l’ufficio. Neanche si fosse di fronte a un’emergenza nazionale. A confermare le tante difficoltà sono al Foglio diversi dirigenti di uffici requirenti di grande, media e piccola dimensione, sparsi per il territorio italiano. Ad aggravare la situazione è stata la riforma approvata dal Parlamento nel settembre 2023, che ha modificato la legge originaria sul “codice rosso” del 2019. “La riforma ha introdotto una serie di adempimenti, non solo procedurali ma anche burocratici, molto gravosi per il funzionamento dell’ufficio. Il tutto senza stanziare maggiori risorse economiche e di personale, soprattutto amministrativo. Il sacrificio che queste disposizioni richiedono in termini di energia e tempo non vale il risultato che perseguono”, dichiara al Foglio il dirigente di un’importante procura del nord. La legge n. 69 del 2019, oltre a prevedere un massiccio inasprimento delle pene, ha introdotto una corsia preferenziale per le denunce e le indagini riguardanti casi di violenza domestica e di genere: dopo l’iscrizione della notizia di reato, i pubblici ministeri entro tre giorni devono assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato. La riforma del 2023 ha previsto tre novità fondamentali. La prima: qualora il magistrato designato per le indagini preliminari non rispetti il termine dei tre giorni, il procuratore può revocargli l’assegnazione del procedimento e provvedere ad assumere, senza ritardo, le informazioni che sono state omesse, direttamente o mediante assegnazione del procedimento a un altro magistrato. La seconda: entro 30 giorni dall’iscrizione dell’autore del reato nel registro delle notizie di reato, il pm deve richiedere l’applicazione delle misure cautelari. La terza novità: ogni tre mesi le procure devono trasmettere alle procure generali presso le Corti d’appello i dati sul rispetto del termine dei tre giorni. Di fronte all’introduzione di questi obblighi e scadenze, e a quello che viene definito un “aumento esponenziale” del numero di denunce per violenze domestiche e di genere, le procure sono state costrette a reagire assegnando il maggior numero di magistrati che hanno a disposizione ai gruppi specializzati nella trattazione di questi reati. In tutte le procure ormai i “pool” più corposi sono proprio quelli dedicati al contrasto alla violenza domestica e di genere. In alcune piccole procure si arriva persino a vedere, su dieci magistrati totali, sei pm assegnati al pool del codice rosso. Uffici di piccole dimensioni si ritrovano a gestire ogni anno circa 1.200-1.400 procedimenti noti per reati di codice rosso su un totale di circa 8.000-9.000. Numeri impressionanti, che diventano ancora più gravi nelle procure più grandi. Alla procura di Milano, ad esempio, arrivano fino a 30 denunce al giorno per reati da codice rosso. “È evidente che l’introduzione di tutta questa serie di adempimenti costringe le procure a sottrarre i propri magistrati alla trattazione di altri reati”, sottolinea un procuratore, che attacca: “Siamo di fronte all’ennesima riforma a costo zero. Ci sono uffici in cui manca il 50 per cento del personale amministrativo, eppure il legislatore continua a introdurre adempimenti che impegnano sempre di più l’attività degli uffici”. Il paradosso, notato da un altro dirigente di procura, è che intanto “i numeri sull’andamento dei reati introdotti dal codice rosso risultano stabili se non addirittura in aumento”: “I dati confermano che il problema non è giudiziario. Non è il tribunale la sede in cui risolvere il fenomeno della violenza domestica e di genere, che ha purtroppo origini culturali e sociali”. Maltrattamenti, condizionale solo con adesione a programmi di recupero senza consenso del reo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2025 Non è necessario che la richiesta di applicazione della pena contenga il preventivo consenso dell’imputato a seguire lo specifico percorso in quanto esso è condizione imposta automaticamente dalla legge per fruire del beneficio. In caso di patteggiamento subordinato alla concessione della sospensione condizionale della pena, non serve che nell’accordo sia esplicitato il consenso dell’imputato ad adempiere alla condizione che la legge impone automaticamente per godere del beneficio. Come l’obbligo di seguire specifici percorsi di recupero previsto per chi si sia macchiato del reato di maltrattamenti in famiglia. La concessione della sospensione condizionale nel caso di condanna per i reati indicati al comma 5 dell’articolo 165 del Codice penale è forzatamente subordinata all’adempimento della condizione imposta dalla legge. Il giudice non può quindi in via generale negare la sospensione della pena per l’assenza di un esplicito consenso al programma di recupero, in quanto la legge non lo richiede, ma impone solo che si realizzi da parte del condannato l’adempimento imposto. Per tale motivo la Cassazione ha accolto - con la sentenza n. 303/2025 - il ricorso dell’imputato che aveva concluso l’accordo, ma ne aveva subordinato la validità alla concessione della sospensione condizionale della pena. La Cassazione boccia il ragionamento del giudice di appello che aveva ridotto la pena, ma non l’aveva sospesa in quanto non risultava uno specifico consenso del condannato a seguire il dovuto corso di recupero. Afferma, infatti, la Cassazione che la condizione di seguire un dato percorso, imposta a chi riporti una condanna per maltrattamenti in famiglia, al fine di vedersi sospendere la pena è applicabile d’ufficio dal giudice. Se nella richiesta di applicazione della pena non è menzionata tale condizione e il relativo consenso dell’imputato ad adempiervi ciò è del tutto irrilevante ai fini della concessione della sospensione della pena e non determina alcuna mancanza di correlazione tra domanda e decisione finale se questa riconosce il beneficio. Ossia la condizione prevista non è oggetto di mediazione giudiziale in quanto contenuta nella legge che la impone in via automatica senza lasciare discrezionalità al giudice. Resta quindi fuori discussione che la sospensione della pena per maltrattamenti comporti necessariamente che il condannato faccia un percorso di riabilitazione in relazione al tipo di reato cui il Legislatore ha voluto porre una specifica attenzione attraverso l’obbligo imposto, rappresentato dalla “partecipazione, con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero”. Emilia Romagna. Suicidi in carcere, potenziati i fondi per l’assistenza sanitaria dei detenuti di Francesco Galli reggionline.com, 8 gennaio 2025 Stanziati oltre 18 milioni, anche per la salute mentale e la lotta alle dipendenze. Il macabro conteggio è ripreso. Sono già tre i suicidi in carcere in Italia nel 2025, ben due avvenuti nella casa circondariale di Modena, dove l’ultimo caso riguarda un 49enne italiano accusato di femminicidio. Una vera emergenza sociale, se si pensa che lo scorso anno i reclusi che si sono tolti la vita sono stati 89, cui si devono aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria. Non basta spiegare il fenomeno con lo stato delle carceri nel nostro Paese, il sovraffollamento e la carenza di personale anche se a fronte di 16mila detenuti nell’organico della Polizia penitenziaria, secondo i sindacati, mancano 18mila addetti. A fronte di gravi deficienze strutturali, infrastrutturali, logistiche, organizzative, diventa indispensabile agire sul fronte dell’assistenza sanitaria. Per questo la Regione Emilia Romagna ha deciso di stanziare oltre 18 milioni di euro per cure sanitarie, lotta alle dipendenze e supporto psichiatrico delle persone detenute. Delle risorse stanziate, 7,2 milioni provengono dal Fondo sanitario regionale e 10,8 milioni da quello nazionale. 16,9 milioni di euro sono destinati alla sanità penitenziaria, 660mila euro alle Atsm di Reggio Emilia e Bologna, che si occupano di tutela della salute mentale, e 510mila euro andranno al contrasto e alla cura delle dipendenze, droga o alcol, in carcere. Sette le Ausl, sede di Istituti Penitenziari, destinatarie delle risorse. Per quanto riguarda Reggio Emilia alla Ausl arriveranno 1,3 milioni di euro, cui si aggiungono poco più di 40mila euro per il contrasto alle dipendenze, mentre l’Atsm riceverà 500mila euro. “Un sostegno importante - afferma l’assessore alle Politiche per la salute, Massimo Fabi - per permettere agli Istituti penitenziari di rafforzare la capacità di risposta alle esigenze sanitarie di una fascia di popolazione particolarmente fragile, caratterizzata da bisogni che spaziano da malattie croniche alla salute mentale e dipendenze patologiche. L’obiettivo è garantire, non solo un’assistenza efficace, ma anche una continuità di cura tra il carcere e il territorio, essenziale per ridurre recidive e promuovere la riabilitazione. Non a caso si tratta di uno dei primi provvedimenti sanitari che approviamo in questa legislatura, in un contesto che richiede interventi mirati per colmare le disuguaglianze e tutelare il diritto alla salute anche nelle realtà più complesse”. Modena. Terzo morto in carcere in una settimana. “Interrogazione urgente al ministro Nordio” Gazzetta di Modena, 8 gennaio 2025 Una nota dei parlamentari modenesi del Partito Democratico Stefano Vaccari e Maria Cecilia Guerra: “Occorre che il Governo prenda misure rapide. Non si può risolvere il sovraffollamento tollerando i suicidi come effetti collaterali”. In una settimana, nel carcere Sant’Anna di Modena, si è registrata la morte di tre persone detenute. Un dato allarmante che si è aggravato proprio oggi, martedì 7 gennaio, con la notizia del terzo decesso: si tratta di un uomo italiano di 49 anni, Andrea Paltrinieri, in carcere per il femminicidio dell’ex moglie Anna Sviridenko commesso lo scorso 10 giugno. Prima di lui, martedì 31 dicembre era stato trovato privo di vita un 37enne macedone, in seguito all’inalazione di gas nella sua cella, mentre domenica 5 gennaio era morto un giovane marocchino nemmeno trentenne che si trovava ricoverato all’ospedale di Baggiovara dopo aver tentato il suicidio ferendosi in modo gravissimo. “In meno di venti giorni, nel carcere Sant’Anna di Modena, si è registrata la morte di tre persone detenute - scrivono Stefano Vaccari e Maria Cecilia Guerra, parlamentari modenesi del Pd -. La prima il 31 dicembre, e non è ancora chiaro se si sia trattato di un gesto volontario o di una tragica fatalità, poi la seconda, sulla cui natura intenzionale non vi sono purtroppo dubbi, e ora una terza. A queste si aggiungono un altro suicidio avvenuto a Piacenza il 30 dicembre, e un altro decesso nel carcere di Bologna il 3 gennaio. Si tratta di numeri scandalosi, intollerabili, sia nel caso dei suicidi che in quello dei presunti incidenti. Nel nostro sistema giuridico la pena deve avere un valore rieducativo, non deve rappresentare una condanna a una disperazione la cui unica via d’uscita arrivi a essere rappresentata da un gesto estremo. Per questo, domani, presenteremo un’interrogazione al ministro della Giustizia, domandano a Nordio se e come il governo intende occuparsi della situazione spesso inumana in cui versano quelle che, non dimentichiamolo, sono persone, che sono certo detenute, ma non per questo dovrebbero cessare di godere dei diritti fondamentali. A meno che il Governo non penso che la situazione del sovraffollamento carcerario si possa risolvere tollerando i suicidi e le morti come effetti collaterali, come Partito Democratico esigeremo che si prendano provvedimenti concreti per invertire una tendenza insostenibile. Da più parti - associazioni di tutela, organi di controllo, operatori e cittadini - si sente ripetere che il livello di civiltà di un Paese lo si misura anche da come quello stesso Paese tratta le persone detenute: in questo senso, i troppi, tragici eventi che continuano a ripetersi nel carcere di Modena sono lo specchio di una civiltà che sembra volersi fermare sulle soglie degli istituti di pena”. Anche il consiglio direttivo della Camera Penale Carl’Alberto Perroux, dopo il secondo decesso, aveva lanciato un grido d’allarme: “Si tratta di un episodio che lascia sgomenti non solo perché è accaduto a distanza di poche ore dalla morte di un altro detenuto a Modena, ma anche in considerazione del fatto che il tragico evento si pone lungo una scia di suicidi (91 nel 2024 nelle carceri italiane), che appare inarrestabile. È di tutta evidenza che ci si trovi di fronte ad una emergenza sociale che, ad oggi, costituisce una emorragia sistematica che non è stata tamponata neppure in minima parte, ancorché un intervento strutturale, che sia volto ad arginare concretamente la crisi che da tempo affligge il sistema carcerario nazionale, non sia più rinviabile. Le recenti parole pronunciate dal Presidente della Repubblica, sulla necessità di trattare con dignità ed umanità i detenuti tutti, oltre che il gesto simbolico compiuto dal Pontefice di apertura della Porta Santa presso il carcere di Rebibbia, devono cogliere nel segno e non rimanere unicamente nell’etere. Occorrono, ora più che mai, scelte risolutive”. Firenze. Nel carcere di Sollicciano due detenuti morti in soli 10 giorni novaradio.info, 8 gennaio 2025 Santoro (L’Altro diritto): “È l’effetto della disumanità del carcere, i malati psichici non stiano in carcere”. Due morti in 10 giorni: è il drammatico bilancio registrato nel carcere fiorentino di Sollicciano nel corso di queste ultime festività. Il 23 dicembre è morto in carcere un 28enne somalo, Mohammed Wardi Ahmed (le cause sono ancora da accertare, probabilmente un’eccessiva assunzione di farmaci e alcol), mentre il 3 gennaio scorso a togliersi la vita è stato un giovane di 25 anni originario dell’Egitto, affetto da problemi di natura psichica e seguito dai servizi sanitari. Immediata stavolta la reazione da parte della politica e delle istituzioni: “Quanto accaduto” a Sollicciano “purtroppo non mi meraviglia. Sono anni che dico che va chiuso perché è inumano e indecoroso” ha dichiarato il garante regionale Giuseppe Fanfani. Sulla stessa linea la sindaca di Firenze, Sara Funaro: “Sono anni che sto dicendo che l’unica soluzione per il carcere di Sollicciano è quello di demolirlo e ricostruirlo completamente, le condizioni” del penitenziario fiorentino “sono disumane”. “Il mio auspicio - ha aggiunto - è che il governo possa prestare attenzione e dare quelle risposte che da tanto, troppo tempo stiamo chiedendo”. Il governatore Giani ha detto di voler chiedere un incontro al Ministro della Giustizia Nordio. “Una sollecitazione comprensibile ma poco realizzabile” quella delle demolizione-ricostruzione per Emilio Santoro, dell’associazione L’Altrodritto, secondo cui gli ultimi casi non fanno altro che evidenziare la disumanità delle condizioni detentive della struttura, le difficoltà di assicurare le cure necessarie ai malati psichici da parte della sanità carceraria, e il tema della mancata applicazione di misure alternative: “Anziché destinare le persone con malattia psichica in strutture sanitarie fuori dal carcere abbiamo creato delle sezioni psichiatriche in carcere, di fatto contravvenendo il detto della Riforma Basaglia”. L’associazione intanto sta proseguendo nel patrocinare i ricorsi dei detenuti contro le condizioni di inumana detenzione (ex art. 3 cedu) che già in passato hanno portato ad importanti sconti di pena e ordinanze di trasferimento: “Finora però, ad ogni trasferimento, il posto veniva occupato da un nuovo detenuto. Provvedimenti cui ci siamo opposti, e ora la Magistratura di sorveglianza sta iniziando a darci ragione, imponendo al DAP di provvedere al miglioramento delle condizioni”. La situazione a Sollicciano, da anni afflitto dai noti problemi di invivibilità, carenza di personale e servizi, è tornata ad essere allarmante anche sul fronte sovraffollamento: 511 i detenuti complessivi, che rispetto ai posti effettivamente disponibili (al netto delle sezioni chiuse per lavori) registrano un tasso di sovraffollamento del 132%. il tutto aggravato dal fatto che da diverse settimane la direttrice Antonella Tuoni è in malattia, e solo pochi giorni fa dal DAP è arrivato il provvedimento di nomina di due vicedirettori stabili, mancanti da anni. Manca anche il nuovo Garante dei detenuti: quello uscente è in regime di “prorogatio” da 6 mesi, in attesa dalla nomina del successore da parte del Consiglio Conunale, ma il bando ancora non è uscito. Nei prossimi giorni invece è attesa una nuova visita in carcere della Commissione consiliare politiche sociali. San Nicola Baronia (Av). Morto 57enne detenuto in Rems: si era lanciato ieri da un ponte Il Mattino, 8 gennaio 2025 Il dramma in provincia di Avellino, non ce l’ha fatta il 57enne. Non ce l’ha fatta il paziente detenuto nella Rems (struttura sanitaria residenziale) di San Nicola Baronia, in provincia di Avellino, che ieri mattina, durante una passeggiata all’esterno della struttura con gli operatori sanitari, in preda ad un raptus si è lanciato da un ponte da un’altezza di diversi metri. Le sue condizioni si sono aggravate nella tarda serata di ieri dopo il ricovero nell’ospedale di Ariano Irpino. I primi esami avevano escluso gravi lesioni interne. L’uomo, un 57enne originario della provincia di Benevento, è deceduto prima del trasferimento in eliambulanza all’ospedale Cardarelli di Napoli disposto dai sanitari quando le sue condizioni si sono aggravate. Sono venti gli ospiti autori di reato affetti da patologie psichiatriche della struttura sanitaria affidata alla Asl di Avellino. Firenze: Carcere di Sollicciano, l’alternativa è un progetto di restauro senza la demolizione di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 8 gennaio 2025 La proposta dell’ex assessore Biagi e dell’associazione Pantagruel: no demolizione. Otto anni di lavori e 34 milioni di euro di investimento. L’ex assessore all’urbanistica, architetto e volontario dell’associazione Pantagruel Gianni Biagi lancia un’ipotesi di lavoro per ristrutturare (e non demolire come chiesto dalla sindaca Sara Funaro) il carcere di Sollicciano, uno dei penitenziari più critici d’Italia e da anni in attesa di essere ammodernato. Nello specifico, Biagi, propone “una ristrutturazione radicale ma non la sua demolizione” perché “demolire un’infrastruttura importante è sempre un gesto estremo” e “ogni infrastruttura costituisce un capitale fisso sociale che è anche un valore economico”. Secondo Biagi, “la sua distruzione deve essere una scelta derivante dalla impossibilità di migliorarne la funzionalità”, ma “non è questo il caso del carcere di Sollicciano che ha spazi e dimensione per essere riorganizzato”. È pur vero che sono già in corso alcuni interventi di ristrutturazione voluti dal ministero, come la manutenzione delle facciate e anche interventi di efficientamento energetico, con la sistemazione della copertura e l’installazione di pannelli solari e la sostituzione degli infissi. “Tuttavia - spiega Biagi - questi interventi, pur necessari, non modificano, se non marginalmente, le condizioni di vita dei detenuti”. Ecco perché, il cuore dell’intervento auspicato, a cui ha collaborato anche il garante dei detenuti Eros Cruccolini, sarebbe quello di trasferire temporaneamente porzioni di detenuti accanto alla struttura principale di Sollicciano, ristrutturando due ali, ovvero “il grande spazio del magazzino oggi in disuso che è nell’area fra il carcere di Sollicciano e il carcere Gozzini” e poi, “adiacente al capannone, e collegato ad esso con un passaggio coperto, un secondo edificio più piccolo presumibilmente già utilizzato per uffici. Quest’area si presta perfettamente per essere utilizzata come spazio volano per l’allestimento di un reparto di detenzione nuovo, realizzato secondo i canoni di una detenzione coerente con la Costituzione, che possa consentire poi di ristrutturare per parti l’attuale carcere di Sollicciano”. All’interno di quest’ultimo edificio, secondo l’ex assessore, “sarebbero ricavabili circa 80 alloggi di 25 mq, ciascuno dove poter allestire un posto letto, un bagno e doccia e un angolo cottura e tavolo per mangiare e scrivere”. Si schierano contro la demolizione di Sollicciano anche la capogruppo di Firenze Democratica, Cecilia Del Re, e il consigliere di quartiere 1, Stefano Di Puccio: “Occorrono interventi immediati andando oltre la richiesta di demolizione e ricostruzione che non risolve i problemi”. Secondo Del Re e Di Puccio serve “nominare subito il nuovo garante dei detenuti, capire se sono stati fatti gli interventi di ristrutturazione necessari perché altrimenti occorre trasferire i detenuti. Per intervenire in tempi più rapidi sul sovraffollamento, potrebbe essere utile collocare i semiliberi altrove, anche utilizzando delle strutture del Ministero in città”. Livorno. Il Procuratore risponde a Rita Bernardini: “verifiche sul carcere” di Angela Stella L’Unità, 8 gennaio 2025 Dopo l’esposto della presidente di Nessuno tocchi Caino per denunciare le condizioni “indegne” dell’istituto toscano, il capo della Procura le scrive: “Situazione che riflette le condizioni in cui versa gran parte degli istituti penitenziari italiani”, e annuncia accertamenti. “Troveremo un Procuratore della Repubblica in Italia?” si chiedeva due giorni fa la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, nell’annunciare un suo esposto alla procura di Livorno per denunciare le “indegne” condizioni di detenzione nella casa circondariale del capoluogo toscano. Il procuratore capo Maurizio Agnello ha dato un primo segnale rispondendo alla radicale. Sta seguendo con “estrema attenzione” la denuncia che “purtroppo riflette le condizioni in cui versa gran parte degli istituti penitenziari italiani”. Il magistrato ha assicurato che disporrà “tutti i dovuti accertamenti per verificare se i fatti oggetto della missiva a sua firma integrino estremi di reato”. Il 30 dicembre 2024, la radicale aveva visitato l’istituto di pena assieme all’avvocato Elena Augustin dell’Osservatorio Carceri dell’Unione camere penali. Avevano riscontrato nelle sezioni di Media sicurezza un alto tasso di sovraffollamento, infiltrazione d’acqua, muffa, sporcizia, assenza di attività. Addirittura “nelle celle non c’è l’acqua calda né tantomeno le docce: il wc è in un unico ambiente assieme al lavandino e alla ‘cucina’. Le immonde docce sono esterne, piene di muffa con le pareti rigonfie per la condensa: per farsi la doccia senza il rischio di prendersi una malattia i detenuti dovrebbero entrarci con gli stivali ma ci entrano con le ciabatte di plastica”. Una situazione degradante a cui la radicale nell’esposto chiedeva conto alla Asl e al magistrato di sorveglianza. “Trovo davvero importante - ci dice Bernardini - la tempestiva risposta del Procuratore della Repubblica di Livorno che, giustamente, rimarca che la situazione del carcere livornese riflette le condizioni in cui versa la maggior parte dei nostri istituti. È fondamentale la sua manifestata intenzione di disporre tutti i dovuti accertamenti per verificare se i fatti oggetto del mio esposto integrino estremi di reato. Mi sembra un segnale di attenzione non scontato - per come sono andate le cose fino ad oggi - sulla legalità dell’esecuzione penale in carcere nel nostro Paese. In cuor mio mi auguro anche ch’egli voglia avvalersi della prerogativa prevista dall’art. 67 dell’Ordinamento penitenziario che gli consente di visitare senza autorizzazione gli istituti penitenziari che ricadono sotto la sua giurisdizione. Non so quanti procuratori lo abbiano fatto fino ad oggi, ma sono convinta che sia più che mai valida in questo frangente la massima di Piero Calamandrei quando esortava a visitare le carceri: “bisogna aver visto, perché ciò che non si vede sembra non esistere”. Prato. La Garante dei detenuti: “Mancano psicologi ed educatori. Investire sul reinserimento” di Maristella Carbonin La Nazione, 8 gennaio 2025 Margherita Michelini, ex direttore penitenziario in pensione, da poco più di due anni ricopre l’incarico. Cinque suicidi: 2024 anno nero alla Dogaia. “Occorre un direttore stabile: darebbe certezze al personale”. “È una questione di scelta. Investire per tenere sempre più persone in carcere, come sembra stia avvenendo con il decreto sicurezza, o spendere sul reinserimento della persona?”. Margherita Michelini, fiorentina di 69 anni, è in carica da più di due anni come Garante dei detenuti a Prato. Alle spalle ha una lunga esperienza: è un ex direttore penitenziario in pensione. “Si può dire che tutta la mia vita sia stata legata al carcere. Sono entrata come amministrativa a fine ‘82. Poi ho fatto il concorso per educatore”. È stata a Venezia, a Sollicciano, poi ha vinto il concorso per vicedirettore ed è arrivata a San Vittore, per riavvicinarsi poi in Toscana: ha lavorato per vari anni al Solliccianino (il Gozzini), poi l’ultimo anno e mezzo prima della pensione è stata direttore aggiunto a Sollicciano. Dopo la pensione ha fatto richiesta per diventare Garante dei detenuti a Prato... “Sì, ricordo che è un lavoro volontario, non retribuito”. Come si svolge? “Io lavoro da sola, vado periodicamente in carcere, sento i detenuti e cerco di risolvere qualche problema. A volte mi sento più una ‘tappabuchi’ che una garante. C’è tanto da fare”. La Dogaia è una delle emergenze di Prato. Il 2024 è stato un anno nero. Cinque suicidi (considerando anche quello di fine dicembre 2023) e 80 eventi critici certificati… “Non ero ancora Garante, ma la situazione è peggiorata nel periodo covid: essendosi bloccati i colloqui con i familiari c’erano stati vari disordini. Già da allora certe attività che venivano fatte in carcere con i volontari hanno smesso giocoforza di essere portate avanti. E quando poi si è tornati nella normalità si è persa tutta una serie di attività. Penso ad alcuni corsi di formazione, ad esempio. Ora ci stiamo impegnando con il Comune per cercare nuovi volontari, anche perché il magistrato sorveglianza ha abitudine di dare i primi permessi con accompagnamento. Per cui ci occorrono volontari e ci stiamo attivando”. La Dogaia non ha un direttore stabile… “Esatto, mancano le figure apicali. Il direttore Tedeschi è facente funzione e anche il comandante di reparto non è stabile. Un direttore effettivo darebbe più certezze anche al personale. Mancano soprattutto ispettori e sovrintendenti: sono un po’ le figure-ponte tra detenuti e direzione”. Cosa può fare la politica? “Purtroppo credo possa fare poco. Ricordo che la sindaca Bugetti aveva anche invitato il ministro Nordio al consiglio comunale straordinario sul carcere. Nulla”. Spesso si tende ad avvertire come ‘lontano’ il tema dei detenuti e in generale del carcere. Ne conviene? “Vero. Già da una trentina d’anni le carceri vengono fatte sempre più in periferia, come per non mostrarle alla vista. Investire nel reinserimento sociale e nella formazione dei detenuti potrebbe restituire al territorio persone che non andassero poi più a delinquere”. Psicologi ed educatori sono supporti importanti in vista appunto di un reinserimento sociale dei detenuti. Come siamo messi a Prato? “Mancano psicologi rispetto all’organico. Non sono sufficienti. Vale anche per gli educatori: c’è un organico vecchio rispetto alla popolazione carceraria. Siamo a 600 detenuti alla Dogaia. Il numero di educatori, assistenti sociali e mediatori culturali andrebbe ricalcolato”. Alessandria. Fredde, in degrado e sovraffollate: bocciate San Michele e Don Soria di Adelia Pantano La Stampa, 8 gennaio 2025 Il nono Dossier sullo stato di salute dei penitenziari piemontesi tratteggia le criticità dei due storici istituti di reclusione di Alessandria. Il 2024 è stato l’ennesimo anno chiuso in emergenza per le due carceri di Alessandria. Tra sovraffollamento, criticità strutturali, sporcizia, carenza di personale, la casa di reclusione di San Michele e la casa circondariale del Don Soria sono sempre più in affanno. A dirlo è il 9° Dossier sulle carceri piemontesi commissionato dal Consiglio regionale, che ha posto l’attenzione anche sulle strutture alessandrine. San Michele sovraffollato - Il San Michele ha chiuso l’anno con 372 detenuti, un numero nettamente superiore ai posti disponibili che sono 256. Ancora una volta viene messo in evidenza l’abbandono degli spazi dedicati al progetto “Agorà”, realizzato insieme all’Upo, che stenta a decollare. “Gli spazi sono luminosi e ampi ma se non pienamente sfruttati per le varie attività rischiano di rappresentare il fallimento di un progetto ambizioso” è scritto nel dossier voluto dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, con la collaborazione dei diversi garanti locali. Sempre per San Michele è stato sottolineato come l’edificio risulti freddo in tutte le sue zone, con la mancanza di acqua calda nei bagni delle celle. In un’intera porzione della sezione di isolamento sono state riscontrate diverse criticità strutturali: infissi rotti, tubature con ingenti perdite d’acqua, muffe alle pareti, infiltrazioni, sanitari danneggiati. È inagibile anche il campo da calcio all’interno del padiglione dei collaboratori di giustizia e per il quale la Garante per i detenuti di Alessandria, Alice Bonivardo, chiede la bonifica e il ripristino. “È un’area che non necessita di grandi interventi, ma è chiusa e questo non permette a chi è già in una sezione dedicata di poter avere uno sfogo esterno” spiega. Un capitolo a parte è dedicato alla casa circondariale Don Soria, in pieno centro città. In questa struttura, a fronte dei 233 posti disponibili, sono presenti 205 detenuti con intere aree dell’edificio che, però, sono inutilizzate e inagibili. In particolare la sezione “4B”, dopo un incendio nel marzo scorso con diverse persone rimaste intossicate, è ancora chiusa in attesa di essere bonificata. Molti locali e sotterranei sono inagibili a causa di grosse quantità di detriti e rifiuti accatastati. “Le generali condizioni di degrado - si legge nel dossier - richiedono interventi di tinteggiatura delle camere e delle docce. Così come l’umidità e la condensa hanno danneggiato gli infissi rendendoli pericolosi”. La sezione dedicata ai detenuti “articolo 21” (ossia coloro che hanno la possibilità di lavorare all’esterno) ospita poche persone ed è perlopiù occupata da detenuti in attesa di essere ricollocati. Sempre al Don Soria manca una sala colloqui adatta ai minori. La posizione del Garante - “Sono tante le difficoltà dei due istituti ma siamo anche consapevoli dell’importante ruolo che Alessandria riveste nell’amministrazione penitenziaria piemontese” sottolinea il garante regionale Bruno Mellano. Che si sofferma in particolare sul Don Soria. “Questo edificio, adeguatamente ristrutturato, potrebbe avere un ruolo chiave perché è un carcere in città: permetterebbe a tante persone di essere ammesse al lavoro esterno”. Siracusa. Battitura di protesta nel carcere: “Vogliamo solo essere ascoltati” di Andrea Aversa L’Unità, 8 gennaio 2025 L’iniziativa dopo che per un giorno non è stato distribuito il pranzo. Ferme anche le attività lavorative in cucina. Agitazioni e proteste nel carcere di Cavadonna a Siracusa. Secondo le segnalazioni giunte all’associazione Sbarre di Zucchero, i detenuti hanno bloccato le attività lavorative previste in cucina e promosso una battitura che andrà avanti ad oltranza nei seguenti orari: dalle 18 alle 18:30 e dalle 20 alle 20:30 e dalle 24:00 alle 24:30. Il motivo? La direzione del carcere ha imposto molti divieti relativi all’ingresso e alla vendita di alimenti dentro il penitenziario. Secondo quanto appreso da l’Unità, è stato vietato ai reclusi di possedere abiti di marca, salumi, pesce, gamberetti, formaggi (solo se stagionati), farina, lievito, vino e birra. Il tutto sarebbe stato stabilito all’improvviso e ai detenuti che hanno cercato un dialogo con l’amministrazione, sarebbe stato negato anche un confronto. Per vari imprevisti logistici e organizzativi, ai detenuti - in questi giorni - sarebbe capitato anche di non ricevere il pranzo. Oggi, il Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Siracusa Giovanni Villari, si è recato nel penitenziario per verificare qual è al momento la situazione. Anche il Garante della Regione Sicilia Santi Consolo si è già mobilitato. Varese. Miogni, mano tesa ai detenuti. Assistenza e reinserimento. Il Patronato entra in carcere di Lorenzo Crespi Il Giorno, 8 gennaio 2025 Varese, prende il via con il nuovo anno il progetto per gli ospiti della Casa circondariale. L’iniziativa prevede sostegno gratuito su previdenza, invalidità e politiche attive del lavoro. Un servizio che risponde in modo puntuale alle richieste avanzate dalla popolazione detenuta. Con il nuovo anno prende il via presso la Casa circondariale di Varese l’attività dello sportello patronato. La direttrice dell’istituto penitenziario Carla Santandrea ha siglato, con l’avallo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la convenzione con la Camera del lavoro di Varese, tramite il patronato Inca Cgil e la sua direttrice Alessandra Lo Biundo. Si tratta di un’opportunità importante nell’ottica del reinserimento dei diritti socio-lavorativi dei detenuti. La convenzione, non onerosa, permette di garantire un servizio di assistenza all’espletamento delle pratiche per il conseguimento di prestazioni assistenziali e previdenziali e l’erogazione di servizi e misure di politica attiva del lavoro, come previsto dall’ordinamento penitenziario. L’apertura dello sportello diventa effettiva in seguito ai numerosi incontri di programmazione tra gli operatori del carcere e quelli del patronato, tra cui Francesco Vazzana, responsabile del Dipartimento politiche sociali e sociosanitarie della Cgil di Varese. Una volta al mese gli operatori di Inca saranno presenti ai Miogni per fornire ai detenuti informazioni, consulenza e assistenza in materia previdenziale (dalle pensioni alla Naspi) e di tutela della salute, in tema di invalidità e inabilità. Gli addetti del patronato manterranno uno stretto contatto con la direzione della struttura e con i funzionari giuridico pedagogici, che fungeranno da punto di riferimento per le attività da svolgere. Il nuovo servizio inaugura il 2025 al termine del periodo natalizio, che ha visto una serie di appuntamenti presso il carcere a partire dalla visita del vicario episcopale don Franco Gallivanone. Quindi uno spettacolo teatrale e un momento di festa tra i detenuti e i loro figli. Tra le attività proposte negli ultimi mesi all’interno del carcere varesino tre diversi laboratori, dedicati a cucina, giornalismo e teatro e drammaterapia. I detenuti hanno potuto seguire dieci incontri su scrittura creativa, narrazione, giochi espressivi ed improvvisazioni per riconnettersi con il proprio corpo, il proprio vissuto emotivo e le proprie storie. Milano. Il ricamo della redenzione: storia di una vita ricostruita in carcere di Giorgio Paolucci Avvenire, 8 gennaio 2025 Antonio Aparo è un mago del ricamo a punto croce. Un’arte antica, inconsueta per mani maschili, che affonda nei ricordi della sua infanzia quando vedeva ricamare la sorella, e che da tempo è divenuta inseparabile compagna delle sue giornate. Non ha molto altro da fare, Antonio, nella sua cella del reparto di alta sicurezza del carcere di Opera dove è rinchiuso. Racconta così la passione che ogni giorno gli fa compagnia: “È un tema letterario ricorrente quello del prigioniero che ritrovandosi messo ai ferri prende l’uncinetto e sferruzza la catenella per allentare le catene della vita. Io ho scelto il ferro dell’ago, io ricamo. I compagni mi guardano e non si danno ragione della fatica del corpo su uno sgabello, della schiena piegata, delle mani pazienti e rapide, la passione delle dita, degli occhi concentrati fino a diciotto ore al giorno. In silenzio ho cominciato a imprigionare i giorni, i mesi, gli anni, mentre il tempo si è messo a tessermi le rughe in volto. Curvo la schiena su idee che prendono la forma di fili colorati, accolgo la storia che la tela mi offre come accettazione della vita e imparo a renderla al meglio. La stoffa è data come la vita, a me la possibilità di renderla migliore. In ogni ricamo racconto quello che non ho saputo fare e che ho imparato: serro il filo dell’ago, entro nella tela e raggiungo il rovescio, sfogo la voglia di tornare indietro e invertire il corso degli eventi, risalgo e poi rientro, cucire e scucire diventano così processi di revisione interiore. Infilo lo sguardo sul fondo di un ricordo, seguo la legge del passo, trasformo il vuoto in un punto, ripasso le ragioni, comprendo gli errori”. Il ricamo come trama dell’esistenza. Di un’esistenza popolata di trasgressioni, trame mafiose, reati efferati commessi nella sua terra siciliana, processi e condanne, una galera cominciata il 5 luglio 1990, quando aveva 32 anni, che ancora non si è conclusa. E forse mai si concluderà: nel linguaggio giudiziario, asciutto e tremendo, fine pena mai. C’è una sera d’estate, il 16 giugno 1990, che ha segnato per sempre la vita di Antonio, quando la guerra tra le cosche imperversava e lui era già sottoposto a misure di prevenzione, con l’obbligo di firma tre volte al giorno. Dal terrazzo di casa sente alcune scariche di armi, si affaccia e vede due uomini che sparano al fratello Salvatore e si dileguano in auto, lui si precipita in strada sperando che sia ancora vivo, lo prende tra le braccia, si ritrova imbrattato di sangue e di una materia vischiosa: il cervello di Salvatore. In luglio finisce in carcere per una rapina, in settembre tre uomini vengono arrestati con l’accusa di avere ucciso suo fratello, Antonio giura in cuor suo che gli assassini sarebbero stati raggiunti un giorno dalla sua vendetta. Processato e condannato per una lunga serie di reati, trascorre ventisette anni da sepolto vivo nel girone infernale del “41 bis” coltivando rancore e sete di rivalsa, nel 2017 esce dal regime di carcere duro e viene trasferito a Voghera. È lì che accade un altro fatto decisivo. Un giorno nella sezione in cui è rinchiuso vede un uomo malconcio con i segni evidenti del Parkinson che trema, barcolla, cade a terra. Lui si avvicina per rialzarlo, lo riconosce: è Giuseppe Di Benedetto, il killer di suo fratello. “In quel momento ho sentito il dolore salire dalle viscere fino alla testa, invadere il cuore. Il dolore offriva la mano alla vendetta che mi diceva: “Fallo ora, fallo subito, non avrai un’altra opportunità, sono ventisette anni che aspetti”. Ma quando mi sono trovato di fronte a lui, una voce mi ha parlato: “Antonio, Antonio, sei tu? Cosa vuoi fare, adesso?”. Era la voce del perdono che bussava alla porta del mio cuore. Dio mi aveva raggiunto proprio in quell’istante, quando ero pronto a consumare una vendetta vanamente attesa per tanti anni. Guardai in faccia Giuseppe, mentre l’abbracciavo per rialzarlo rivivevo l’abbraccio con mio fratello, in lui ritrovavo Salvatore agonizzante. In quel momento ho capito che la vendetta non mi apparteneva più, che non avrebbe risolto nulla: per molto tempo era stato un fuoco da coltivare, ma stava accadendo qualcosa di inatteso. Nella mentalità mafiosa quell’abbraccio con l’assassino di mio fratello è un gesto inconcepibile, significa ammettere la propria debolezza. Per me invece è stato un momento di liberazione, ho compreso che potevo diventare migliore dell’uomo che ero stato in passato”. Dopo alcuni giorni Giuseppe Di Benedetto viene trasferito a Opera dove due anni dopo arriva anche Antonio, seppure in una sezione diversa. I due tornano a frequentarsi: mentre la salute di Giuseppe declinava sempre più Antonio lo ha accompagnato, si è preso cura di lui che ormai si muoveva solo sulla sedia a rotelle. Accudendolo ha dato un senso alle sue giornate, alla sua carcerazione senza fine. Nulla era dimenticato o cancellato, tutto era perdonato. Giuseppe è morto il 10 giugno di quest’anno, Antonio lo ha ricordato durante un incontro dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” nel teatro di Opera: “Era un nemico, è morto come un fratello, come mio fratello”. Da tempo Aparo, che ha sulle spalle 34 anni di detenzione, chiede di ottenere i permessi per poter uscire di galera e di accedere alla libertà condizionale, una possibilità riconosciuta dalla legge ma che finora gli è stata negata, le sue istanze sono state tutte rigettate ma lui non demorde. “Non reclamo la mia innocenza, mi sono pubblicamente assunto la responsabilità per ciò che ho fatto, ho fatto una revisione critica del mio passato criminale di cui provo vergogna. Ma chiedo rispetto per la persona che sono diventato: un uomo cambiato, che vuole osservare la legge, riconciliarsi con la società e testimoniare la sua volontà di riscatto. So che non posso riparare il danno procurato alla società né ridare la vita a chi l’ha persa per causa mia. Spero, un giorno, di poter restituire tutto quanto sarà nelle mie forze. Il giuramento che ho pronunciato quando sono entrato nella mafia mi ha tenuto prigioniero per tanti anni, oggi mi sono sganciato da quelle catene, mi sento un uomo libero anche nella condizione di detenuto”. Si è iscritto all’università, frequenta il corso di laurea in storia, partecipa alle attività teatrali in carcere, frequenta un laboratorio di mosaico, fa di tutto per sentirsi vivo. “In questi ultimi anni ho incontrato educatori e volontari che hanno accompagnato il mio percorso di cambiamento e ne sono testimoni. Il recluso ha bisogno di confrontarsi con persone che lo aiutano a interrogarsi sul perché si trova rinchiuso in carcere, e a ritrovare ragioni che alimentino la speranza. A volte la vita si ferma, ma accadono incontri che la fanno ripartire. Ogni incontro diventa una possibilità”. Alcuni dei ricami che ha realizzato sono pubblicati sul profilo Instagram gestito dal figlio (“Il ricamo della redenzione”), testimonianza muta ed eloquente del suo percorso e del desiderio di riparare la tela di una società che tante volte ha lacerato con i suoi gesti. “La mia vita prosegue oltre gli strappi, l’ergastolo non l’ha fermata, e come un’esperta ricamatrice sutura le ferite. Prego, e spero che Dio sappia perdonare il mio passato. Ricamare è un esercizio di espiazione e insieme di ripartenza umana, cucendo con un filo che chiamo speranza”. Un poeta restituito al sole di Murat Cinar Il Manifesto, 8 gennaio 2025 La storia Ilhan Sami Comak racconta i suoi trent’anni trascorsi nelle carceri turche dopo essere stato costretto a firmare una confessione sotto tortura. “Ma la mia parola non è mai caduta per terra”. Nel tempo è diventato un autore di versi riconosciuto anche a livello internazionale. “La poesia mi ha offerto un tempo diverso rispetto alla vita in cella. Era come un ramoscello afferrato in mare per arrivare a riva. Se oggi sono sano di mente, lo devo alla poesia”. “Oggi è una giornata solare e bella. In carcere non è possibile vedere il sole perché i muri sono molto alti. O per mancanza di potenza, oppure perché si vergognava di vedere la nostra condizione, il sole non si abbassava mai al nostro livello. Alla fine sono riuscito ad abbracciare queste belle giornate solari. È stato difficile, ma ce l’ho fatta”. Ilhan Sami Comak risponde così alla domanda “Come sta?”, con un sorriso da ragazzino stampato sul volto. DOPO 30 ANNI DI DETENZIONE in semi-isolamento, Comak è uscito dal carcere il 26 novembre scorso. Nato nel 1973 nella città di Bingöl, si trasferisce a Istanbul nel 1992 per studiare geografia all’Università degli Studi di Istanbul. Due anni dopo, nel 1994, viene arrestato e, da quel giorno, non è più uscito dal carcere. A 21 anni, Comak viene accusato di aver causato tre incendi in luoghi distanti nello stesso momento. Il processo contro di lui fu condotto in fretta e si concluse con una condanna a morte, poi commutata in ergastolo. La decisione del giudice fu presa “anche se non c’erano prove sufficienti”. Nonostante avesse dichiarato più volte di essere stato torturato e costretto a firmare una confessione mentre era incosciente, il tribunale non tenne conto di questo, né del referto medico legale che attestava tracce di tortura sul suo corpo. Il percorso legale di Comak è stato segnato da processi che si aprivano e si chiudevano, dalle decisioni della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) e dalle misure prese dal Comitato disciplinare penitenziario. Così sono trascorsi trent’anni, in una lunga lotta per la giustizia. Comak racconta le sue prime sensazioni dopo la scarcerazione: “La varietà del mondo, la profondità dello spazio e la natura mi hanno colpito una volta uscito dal carcere. Durante le visite potevo avere un contatto fisico con le persone a me care, ma una volta fuori le potevo toccare per quanto tempo volevo. Tutto ciò mi ha sorpreso un po’, ma soprattutto mi ha reso molto felice perché finalmente raggiungevo quel mondo che da anni mi mancava”. Durante la detenzione, Comak ha scritto dodici libri. Inoltre, è stato pubblicato un volume in inglese che raccoglie alcune delle sue poesie, Separated from the Sun, curato da Caroline Stockford e pubblicato da Smokestack Books. Le sue opere sono state premiate in Turchia e all’estero. Tra i riconoscimenti ricevuti figurano il premio di poesia Metin Altiok, il premio Sennur Sezer e quello per la Libertà di espressione del ministero della Cultura norvegese. Nel 2020, il quotidiano britannico The Guardian ha pubblicato un appello firmato da numerosi intellettuali per la sua liberazione. Nello stesso anno, il prestigioso circolo poetico londinese The Poetry Society ha dedicato una serata intera alla sua poetica. “Non ho mai smarrito la mia strada e la mia parola non è mai caduta per terra”, ha detto Comak appena uscito dal carcere. Spiega così il significato delle sue parole: “Sono entrato in carcere come una persona buona e ne sono uscito allo stesso modo. Quelle parole rappresentano le responsabilità che avevo nei confronti degli altri, in termini di relazioni umane. Il carcere mi ha portato via trent’anni, tre mesi, sei giorni e cinque ore, ma sono uscito come una persona migliore, anche come poeta. Sono diventato un poeta conosciuto nel mondo per la mia letteratura. E non ho mai rinunciato all’idea di essere una persona buona”. Ilhan Sami Comak racconta che, prima di entrare in carcere, era una persona semplice e non conosceva la poesia: “Avevo letto alcune poesie di Hikmet, Majakovskij, Neruda, Esenin e T. S. Eliot. Non avevo né l’obiettivo né la capacità di diventare un poeta. Tuttavia, una volta condannato a una pena pesante, ho realizzato che la mia vita non poteva continuare in quel modo. Il tempo in carcere è lento, non scorre, ti contagia ed è monotono. Tutto ciò è contro la natura umana, e io non volevo consegnare la mia anima a questo oscuramento. Così ho scelto di dedicarmi alla poesia”. All’inizio, Comak scriveva tanto, ma spesso non si trattava di vera poesia. “Ho tentato molte volte, ho fallito, ma non ho mollato. A un certo punto ho capito di aver raggiunto l’obiettivo e ho iniziato a migliorare. La poesia mi ha offerto un tempo diverso rispetto alla vita in carcere. Era come un ramoscello che ho afferrato in mare per arrivare a riva. Se oggi sono sano di mente, lo devo alla poesia”. In cella Comak ha conosciuto decine di poeti da tutto il mondo. “Ora vorrei incontrarli di persona, parlare con loro e vedere la luce nei loro occhi”. Tra i progetti di Comak c’è ora la pubblicazione di un libro, in Turchia e in Europa, composto dalle poesie di diversi autori scritte per lui durante la sua detenzione. “Trent’anni in carcere - racconta Comak - sono stati difficili. Molte persone care sono morte, non ho potuto assistere ai loro funerali, e in alcuni casi l’ho saputo tardi. È stata una grande oppressione e una dura prova. Tuttavia, ne sono uscito come una persona buona e un bravo poeta, quindi penso di aver superato l’esame. Spero che anche altre persone ancora in carcere possano essere toccate dalla bellezza”. Comak riassume così, con emozione e sobrietà, la sua esperienza. Mentre inizia ad abbracciare la vita da uomo e da poeta libero. Il volontario è in cerca d’identità di Giulio Sensi Corriere della Sera - Buone Notizie, 8 gennaio 2025 In campo 4milioni e mezzo di persone. Ma si fa fatica a garantire la continuità. Il 57%impegnato in modo occasionale. I progetti delle Fondazioni bancarie. Partecipazione? Costruire nuovi modelli. Si rimboccano le maniche e si mettono in moto per dare una mano a chi ha bisogno. Secondo gli ultimi dati del Censimento permanente di Istat i volontari in Italia sono più di 4,5 milioni nelle organizzazioni di Terzo settore, ma fanno sempre più fatica a trovare tempo e energie per uscire di casa, staccare dal lavoro e mettersi in gioco. I numeri parlano da tempo di un calo dei volontari, ma anche di cambiamenti nella forma di impegno: gli occasionali sono di più, i continuativi meno. Questo perché l’attrazione resta, ma impegnarsi gratuitamente costa più di ieri. “Anche il volontariato - sostiene Elisabetta Cibinel di Percorsi di secondo welfare - è figlio del nostro tempo. I dati raccontano che l’Italia invecchia, diminuiscono le persone e questo pesa anche qui. Ma anche che le donne sono molto attive, però da una certa età in poi sono più assorbite dai lavori di cura e hanno meno tempo da dedicare al volontariato. I giovani invece lo vivono in un modo diverso rispetto alle altre generazioni, soprattutto per le prospettive lavorative più precarie”. Generali Italia ha realizzato con CSVnet il Rapporto Terzo settore 2024 per capire come i volontari vivano il loro impegno: dalla ricerca emerge che il 57,5% di loro lo fa in modo occasionale o informale e questo implica “una serie di sfide - spiega Piero Fusco, responsabile Business Unit Enti Religiosi e Terzo Settore di Generali - che il Terzo settore è chiamato ad affrontare nell’immediato futuro in relazione anche e soprattutto agli elementi di novità introdotti dalla Riforma che favorisce coprogrammazione e coprogettazione con la pubblica amministrazione e alla volontà di creare collaborazioni con il profit per costruire nuove reti sociali”. In generale dal rapporto “emerge una nuova concezione del volontariato sempre più liquido”. A confermare questa tendenza è Maddalena Recla di Csv Trentino che racconta: “Se andassi per strada e chiedessi alle persone cosa significa per loro “volontariato” riceverei tante risposte diverse: oggi non si dovrebbe parlare più di tanto di volontariato, ma di volontariati”. È una situazione che richiede la capacità di progettare modelli di partecipazione più differenziati, inclusivi e flessibili. In questo senso proprio a Trento, Capitale Europea del Volontariato 2024, è nato “Gic - Giovani Idee per la Comunità”, bando promosso da Fondazione Caritro, Provincia e Csv per promuovere il protagonismo giovanile puntando sul valore educativo del volontariato e sulla intergenerazionalità. Altro caso interessante è “Tu per Tu”, progetto della Fondazione Ufficio Pio di Torino in cui un tutor volontario affianca persone migranti in conversazioni per migliorare l’italiano e sviluppare nuove relazioni: il percorso di apprendimento si gioca tutto sulla libertà delle persone coinvolte, che scelgono che cosa fare, dove incontrarsi e come trascorrere insieme una parte del proprio tempo “libero”. O, ancora, ci sono i bandi “Una mano a chi sostiene” e “People Raising 2024” di Fondazione Cattolica che aiutano le organizzazioni a trovare modi inediti per coinvolgere nuovi volontari tenendo conto delle diverse disponibilità di tempo, dell’evoluzione delle motivazioni e dei nuovi linguaggi. Azioni filantropiche come queste sono fondamentali soprattutto nelle aree interne e più periferiche con meno servizi e la tendenza allo spopolamento. “Qui - spiega Cibinel - le relazioni sociali devono essere rafforzate, per “ricucire” le persone e gli Enti del territorio. Il volontariato fa qualcosa che non può essere fatto da nessun altro, perché si basa su uno scambio gratuito che rafforza relazioni di fiducia su cui si possono creare le condizioni anche per invertire le dinamiche di sviluppo economico e sociale. Se ad esempio un’associazione garantisce il doposcuola o le attività estive nel tuo paesino significa che tu puoi lavorare mentre tua figlia li frequenta. Dove i servizi pubblici sono più rarefatti, come nelle aree interne, il volontariato ha ancora più significato”. Il caso Marche Come nelle Marche, dove il volontariato è in prima linea per rigenerare le aree colpite dal terremoto del 2016. “Ci siamo resi conto - racconta il presidente del Csv regionale Simone Bucchi - che il volontariato ha modo di dare opportunità e speranza di vita alle persone, contrastando lo spopolamento. Il civismo qui è attivo e sostiene i servizi che mancano ancora: le persone che vivono in quei luoghi, soprattutto quelle anziane, sono disponibili a fare percorsi di partecipazione e si dedicano ad attività che fanno bene al territorio. È il caso dello sport legato al turismo, il trekking e la bicicletta, che spesso è possibile solo grazie al volontariato. Ma perché le cose cambino davvero - conclude Bucchi - è essenziale che la pubblica amministrazione e il terzo settore dialoghino per fare assieme nuovi e ambiziosi progetti”. Iran. Cecilia Sala è libera e in volo per l’Italia. L’annuncio di Palazzo Chigi di Luca Liverani Avvenire, 8 gennaio 2025 La giornalista arrestata in Iran è stata scarcerata ed è già in viaggio. La premier Giorgia Meloni ha chiamato personalmente i genitori. Libera. Cecilia Sala, la giornalista italiana detenuta in Iran dal 19 dicembre, nonostante i permessi ottenuti dalle autorità iraniane per svolgere il suo lavoro, è stata rilasciata. L’aero, decollato poco dopo le 11 da Teheran per riportarla a casa, dovrebbe atterrare all’aeroporto romano di Ciampino attorno alle 15,30. La notizia arriva da Palazzo Chigi che in una nota spiega che “grazie a un intenso lavoro sui canali diplomatici e di intelligence, la nostra connazionale è stata rilasciata dalle autorità iraniane e sta rientrando in Italia. Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esprime gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile il ritorno di Cecilia, permettendole di riabbracciare i suoi familiari e colleghi”. La nota del governo spiega anche che la presidente del consiglio “ha informato personalmente i genitori della giornalista nel corso di una telefonata avvenuta pochi minuti fa”. ll direttore dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, Giovanni Caravelli, è andato personalmente a Teheran per prendere Cecilia Sala ed è in viaggio sull’aereo che sta riportando in Italia la giornalista. “È in volo l’aereo che riporta a casa Cecilia Sala da Teheran”. ha dichiarato sui social anche la premier: “Grazie a un intenso lavoro sui canali diplomatici e di intelligence, la nostra connazionale è stata rilasciata dalle autorità iraniane e sta rientrando in Italia. Ho informato personalmente i genitori della giornalista nel corso di una telefonata”, ha scritto Giorgia Meloni, esprimendo “gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile il ritorno di Cecilia, permettendole di riabbracciare i suoi familiari e colleghi”. “Diplomazia e lavoro di squadra: Cecilia Sala sta tornando a casa!” il commento del vicepremier e ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani. “Cecilia Sala liberata, è in viaggio per l’Italia, bentornata!” dichiara anche il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. “È la notizia più bella. Grazie al governo, ai servizi, alla famiglia. Siamo commossi e felici: oggi festeggia tutto il Paese senza distinzioni e polemiche. Evviva”, dice il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. “Un enorme sollievo per tutti - aggiunge il leader di Azione Carlo Calenda - ed è doveroso riconoscere al governo il merito per l’ottimo lavoro svolto in questo difficile caso”. Grande soddisfazione del presidente della Camera Lorenzo Fontana: “Accogliamo con gioia e sollievo la notizia del ritorno a casa di Cecilia Sala. Esprimo un ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito alla sua liberazione: dalle autorità italiane, impegnate con determinazione, al personale diplomatico e a quanti hanno collaborato per giungere a questo risultato. A Cecilia Sala va il nostro abbraccio, con l’augurio che possa presto ritrovare serenità accanto ai suoi cari”. In Senato la notizia è stata accolta dai senatori in piedi e con un lungo applauso. L’annuncio dalla presidente di turno Mariolina Castellone. Gioia grande tra i familiari. “Sono orgoglioso di lei”, dice il padre Renato all’Ansa: “Ho pianto soltanto tre volte nella mia vita. Credo che il governo del nostro Paese abbia fatto un lavoro eccezionale. Se mi sente la voce rotta, è perché non vedevo l’orizzonte. È stato un lavoro di coordinamento straordinario. Confidavo nella forza di Cecilia, sono orgoglioso di lei e della capacità e la compostezza che ha avuto in questa vicenda. Nei suoi giorni di prigionia l’ho sentita tre volte. In questo periodo - aggiunge Renato Sala - ho avuto l’impressione di una partita a scacchi, ma i giocatori non erano soltanto due. A un certo punto la scacchiera si è affollata e questo ha creato forti timori in un genitore come me, che purtroppo ignora le mosse”. “L’ho sentita, mi ha detto: “ci vediamo tra poco”. Era emozionata e contentissima. Le ho risposto: “anche io, ci vediamo a Roma”, aggiunge Daniele Raineri, compagno di Cecilia Sala. Bulgaria. La polizia lascia morire 3 ragazzini nella neve di Angela Nocioni L’Unità, 8 gennaio 2025 Gli agenti hanno impedito a attivisti di andare a salvarli e, ricevute le esatte posizioni dei ragazzi, non li hanno soccorsi. La denuncia di “Collettivo rotte balcaniche”. Avevano 15, 16 e 17 anni Alì, Samir e Yasser. Egiziani. Sono morti di freddo, i corpi sono stati in parte mangiate da animali selvatici. È accaduto vicino alla città di Burgas nella zona sudorientale della Bulgaria in piena rotta balcanica. La Bulgaria è appena entrata nell’area Schengen. Potevano facilmente essere salvati tutti e tre, erano riusciti a far arrivare la loro posizione a attivisti di No name kitchen e del Collettivo rotte balcaniche che hanno tentato in ogni modo di raggiungerli ma la polizia di frontiera bulgara ha impedito agli attivisti di di soccorrerli in tempo. Hanno potuto solo recuperare i loro corpi. Nelle prime ore del mattino del 27 dicembre era arrivata la segnalazione di tre minorenni soli e a rischio immediato di morte. I video mostravano due di loro sdraiati, privi di sensi, sulla neve. Gli attivisti hanno chiamato il numero di emergenza 112 numerose volte, chiedendo assistenza immediata. Raccontano gli attivisti di essersi organizzati in “squadre di soccorso che hanno subito cercato di raggiungere le persone al più presto, ben sapendo per esperienza che la polizia di frontiera è solita omettere il soccorso delle persone in movimento o respingerle in Turchia, pratica dichiarata illegale da tutti i trattati internazionali, specie se nei confronti di minori non accompagnati” e di essere stati “bloccati più volte dalle pattuglie della polizia di frontiera” che gli ha impedito di raggiungere i minori. “Hanno quindi esortato la polizia a farlo ma sono state minacciate e brutalmente allontanate. Il 28 dicembre, le squadre di soccorso sono riuscite finalmente a raggiungere i luoghi delle prime due segnalazioni, condivise il giorno prima con il 112, e hanno trovato due adolescenti morti. Uno era coperto di neve, l’altro era sdraiato con la testa in una pozzanghera”. Il 29 dicembre sono andati nell’ultima posizione ricevuta. “Non solo hanno trovato il terzo corpo, ma parti di esso erano lacerate: un piede e la testa erano stati mangiati dagli animali. Mentre il primo corpo è stato trovato a 20 metri dalla posizione segnalata alle autorità, gli ultimi due corpi sono stati trovati alle precise coordinate GPS fornite al 112 ed erano chiaramente visibili lungo il sentiero”. Il Collettivo rotte balcaniche denuncia: “Sulle risposte delle autorità sembrano esserci due sole spiegazioni possibili: o hanno visto e abbandonato le persone moribonde dopo averle trovate, oppure non hanno mai raggiunto le loro posizioni, pur avendo chiare indicazioni. Distinte impronte di stivali militari sulla neve intorno a uno dei corpi - poi cancellate quando la Polizia di frontiera ha dovuto recuperare il corpo - suggeriscono che degli agenti erano presenti nelle ore precedenti, ma non hanno soccorso la persona, forse quando poteva ancora essere salvata. Sebbene su scala minore, le autorità sono state violente anche verso gli attivisti: oltre a numerose intimidazioni, la Polizia di frontiera ha costretto una squadra a camminare al gelo di notte per ore, ha ordinato a un soccorritore di trasportare a mano uno dei corpi senza vita, e altri ad essere trasportati nel bagagliaio dell’auto della polizia. Pratiche in linea con quanto avviene da tempo e di cui il Collettivo Rotte Balcaniche è testimone dall’estate del 2023. Omissioni di soccorso nei confronti di persone che richiedono assistenza medica urgente, respingimenti in Turchia di persone in gravi condizioni mediche, morti e una repressione sempre più dura nei confronti di chi porta la propria solidarietà”. Solo pochi giorni prima, dopo aver soccorso tre persone, quattro soccorritori del Collettivo Rotte Balcaniche sono state detenute per l’intera notte in una stanza fatiscente e senza materassi in una caserma (l’Unità ne ha dato notizia il 4 gennaio in rima pagina), e lo stesso è avvenuto il 29 dicembre ad alcuni componenti di No name kitchen ed è la quinta volta da settembre.