Appello sulle carceri di Mattarella: applausi ma niente cambia. Intanto si continua a morire di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 7 gennaio 2025 Tutti gli “inquilini” del “Palazzo”, sia chi “governa”, sia chi è all’opposizione non hanno mosso rilievo alcuno al discorso del Presidente. È da credere che siano d’accordo. Tuttavia non hanno fatto e continueranno a non fare nulla per modificare la situazione, che, nel frattempo, si è ulteriormente incancrenita. Egiziano, 26 anni fra qualche giorno; avrebbe finito di scontare la sua pena nell’aprile del 2027. Si è fabbricato una corda rudimentale, se l’è messa al collo e si è lasciato andare. È “evaso” così, definitivamente, nella solitudine della sua cella della sezione accoglienza della casa circondariale di Firenze Sollicciano. Di lui non si sa nulla, nulla importa sapere. È il primo detenuto suicida di questo inizio anno. Un passo indietro: è il 18 marzo 2024, si festeggiano i 207 anni dalla costituzione della Polizia Penitenziaria. Interviene il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il suo non è un “saluto” formale. Si rivolge direttamente agli agenti, riconosce che sono costretti a operare in “…condizioni particolari di difficoltà. Questo richiede un sovrappiù di professionalità, e io vi ringrazio per il lavoro che spiegate e per l’impegno che viene manifestato dall’amministrazione di svilupparla il più possibile, costantemente. Conosco, naturalmente, altri ostacoli che gravano sul vostro compito e le vostre attività. Ostacoli che richiamano il compito di altre istituzioni”. Mattarella aggiunge che “dal sovraffollamento carcerario che rende difficile il vostro lavoro, molto più di quanto non dovrebbe essere, alle carenze di organico che pesano certamente, sovraffaticando il compito di ciascuno di voi, a quello che, in questo momento, è forse un elemento prioritario: l’esigenza di assistenza sanitaria dentro gli istituti penitenziari. È un’esigenza diffusa, ampia, indispensabile; la mancanza della quale fa sì che su di voi ricadano esigenze, sollecitazioni, richieste che non rientrano nei vostri compiti e nelle vostre funzioni”. Per questo (ora è evidente che si rivolge agli “inquilini” del “Palazzo”) “è indispensabile che si affronti sollecitamente questo aspetto di un’efficace assistenza sanitaria dentro gli istituti penitenziari. Tutti questi aspetti richiedono interventi urgenti: completamento di organici, risposte al sovraffollamento carcerario e - ripeto - sopra ogni cosa, assistenza sanitaria. Il numero dei suicidi nelle carceri dimostra quanto sia importante e indispensabile affrontarlo immediatamente, con urgenza. Tutto questo va fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione, che poc’anzi il Capo Dipartimento evocava e ricordava; per rispetto del vostro lavoro; per rispetto della storia del Corpo di Polizia penitenziaria e dei suoi caduti: vittime del terrorismo, della criminalità, e che ricordiamo con commozione. Anche per rispetto del loro sacrificio vanno assunti, dalle istituzioni, i provvedimenti necessari e le iniziative indispensabili, per rispetto della dignità di chi, negli istituti carcerari, lavora, e di chi vi è detenuto”. Dieci mesi dopo, in occasione del tradizionale messaggio di fine anno, Mattarella dedica un lungo passaggio del suo discorso alla questione delle carceri e alla condizione in cui è costretta a vivere l’intera comunità penitenziaria. Tutti gli “inquilini” del “Palazzo”, sia chi “governa”, sia chi è all’opposizione non hanno mosso rilievo alcuno al discorso del Presidente. È da credere che siano d’accordo anche per quel che riguarda il monito/appello relativo alle carceri e ai detenuti. Lo stesso monito/appello, gli stessi toni, lo stesso allarme già manifestato nel marzo del 2024. In dieci mesi gli “inquilini” del “Palazzo” non hanno fatto nulla per modificare la situazione, che, nel frattempo, si è ulteriormente incancrenita. Continueranno su questa strada, con questa sostanziale inerzia e indifferenza? A cosa serve plaudire il messaggio di Capodanno del presidente Mattarella, e inchinarsi al messaggio scandito dal Pontefice che ha voluto aprire una Porta Santa a Rebibbia, se noi non si fa quello che si può e si deve fare? Che cosa si aspetta, che sia il presidente della Repubblica, avvalendosi delle sue prerogative, a concedere massicce domande di grazia ad almeno quei detenuti che non si sono macchiati di gravi reati e la cui pena sta per finire? I momenti di intimità con il partner sono un diritto della persona in carcere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2025 Diniego possibile solo per motivi di sicurezza. Ma nei fatti nessun istituto è pronto. Quella delle persone detenute a potere ottenere momenti di intimità in spazi dedicati e non sorvegliati a vista non è una semplice aspettativa, ma un vero e proprio diritto. In quanto tale meritevole di tutela giurisdizionale. A un anno dalla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato l’ordinamento penitenziario che escludeva lo svolgimento di colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere e dell’assenza di ragioni di sicurezza ora tocca alla Cassazione intervenire. Con la sentenza n. 8 la Corte ha infatti annullato l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Torino con la quale era stata giudicata inammissibile l’impugnazione di un detenuto contro il provvedimento dell’istituto penitenziario che gli aveva negato un colloquio in intimità con la moglie perché la struttura non lo permetteva. Per il giudice la richiesta del detenuto non configurava un diritto, semmai un’aspettativa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria. Di parere opposto è stata invece la Cassazione che ha invece ricordato come, alla luce della pronuncia della Consulta, la libertà di godimento delle relazioni affettive costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, diritto che lo stato di detenzione può comprimere, ma non annullare con una previsione astratta e generalizzata ignara delle condizioni individuali del detenuto. E allora la richiesta della persona detenuta non può essere declassata al grado di semplice aspettativa. Anzi, una risposta negativa è possibile solo per ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina, afferma la sentenza. Dove però a compromettere tuttora l’applicazione del diritto sono soprattutto le difficoltà dell’amministrazione penitenziaria nell’individuare spazi dedicati. Tanto che, nel marzo scorso, il ministro della Giustizia Carlo Nordio annunciò la costituzione di un gruppo di lavoro dedicato, di cui si sono peraltro perse le tracce, mentre il coordinamento dei magistrati di sorveglianza, a fine ottobre, segnalava come in nessun istituto si fosse, sino ad allora, provveduto. Braccio di ferro sulla Consulta di Francesco Malfetano La Stampa, 7 gennaio 2025 A breve il Parlamento deve votare i quattro giudici mancanti. Trattative serrate tra partiti. A destra Zanettin la spunta su Sisto. A sinistra probabile Luciani. Ma resta il nodo di una donna. La riunione dei capigruppo prevista per domani potrebbe tentare un’accelerazione. Almeno, è quello che spera la maggioranza: riuscire a breve a far sì che il Parlamento in seduta comune elegga i quattro giudici mancanti della Corte costituzionale. Anche se dall’opposizione sono scettici: siamo ancora indietro, ripetono, c’è accordo sul metodo, ma non ancora sui nomi. Dopo il tentativo di blitz di Fratelli d’Italia a ottobre-il famoso “tutti in Aula” intimato via chat dalla premier Meloni e svelato dai giornali - le votazioni si sono succedute in un susseguirsi di schede bianche, per consentire di abbassare il quorum dai due terzi ai tre quinti del Parlamento. Intanto, le forze politiche hanno trovato un punto d’incontro su come dividersi i quattro posti vacanti: due alla maggioranza, uno all’opposizione, una quarta figura dovrà essere tecnica. Dal metodo ai nomi, però, passa tutta la fatica della trattativa. A destra, sembrano aver ormai deciso. Giorgia Meloni è irremovibile sul nome di Fratelli d’Italia, lo stesso che cercò d’imporre nello sfortunato tentativo d’autunno: dovrà essere il suo consigliere giuridico, Francesco Saverio Marini, figlio dell’ex presidente della Consulta Annibale e considerato la mente giuridica dietro alla “madre di tutte le riforme”, cioè il premierato. Il secondo nome spetta a Forza Italia, avendo la Lega già incassato il vicepresidente del Csm: dopo un ballottaggio anche aspro tra il viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto e il senatore Pierantonio Zanettin, l’avrebbe spuntata il secondo. Sisto partiva con un handicap non da poco: le sue dimissioni dal collegio parlamentare di Andria aprirebbero la strada a un’elezione suppletiva dove, teme la destra, potrebbe candidarsi Michele Emiliano, il presidente di Regione in scadenza tra pochi mesi che, causa terzo mandato, non può ripresentarsi. Né è durata molto l’ipotesi della ministra Maria Elisabetta Casellati, brevemente circolata per superare lo stallo tra i due contendenti e individuare anche un nome femminile: dopo Sangiuliano e Fitto, la premier non ci pensa nemmeno a sostituire un altro componente del governo. Però, il tema di una candidatura femminile è ben presente agli sherpa dei partiti. Sanno che sarebbe inaccettabile un pacchetto tutto al maschile: nel Pd avevano provato a mettere sul tavolo il nome dell’ex ministra Anna Finocchiaro e da Avs quello della costituzionalista Roberta Calvano. Ma nessuna delle due sarà probabilmente il nome su cui far convergere tutti. La segretaria del Pd Elly Schlein ancora coltiva l’idea di proporre Andrea Pertici, inizialmente scartato perché troppo targato dem, visto che fa parte della Direzione nazionale: ma se Meloni può imporre il suo consigliere giuridico, il ragionamento, perché i dem non potrebbero avanzare il nome di un uomo a loro altrettanto vicino? Il limite di Pertici, però, è che non tutta l’opposizione convergerebbe sul suo nome: ad esempio difficile che Italia viva possa votare l’uomo che è stato avvocato della procura di Firenze nel conflitto di attribuzione tra Senato e pm nell’ambito dell’inchiesta Open. Né sembra avere molte più chance Michele Ainis, che piacerebbe al Movimento cinque stelle. Il nome che circola con più insistenza, e che sembra raccogliere più consensi, è al momento quello di Massimo Luciani. A questo punto, il quarto profilo, quello tecnico, dovrà essere quello di una donna, ancora da individuare, mentre viene escluso quello, che pure era girato, di Sandro Staiano. Con il rientro dalle ferie, si intensificheranno i colloqui tra partiti per cercare di arrivare a chiudere l’accordo. Nel frattempo, è probabile che la settimana prossima, lunedì 13, la Corte dovrà riunirsi a ranghi ridotti (11 giudici su 15) per decidere l’ammissibilità del referendum sull’Autonomia differenziata. Meglio così, valutano dalla maggioranza: in fondo, meglio lasciare una decisione così delicata alla composizione già nota. Immettere nomi nuovi può sempre voler dire un rischio. Carriere separate, la riforma domani in aula alla Camera di Simona Musco Il Dubbio, 7 gennaio 2025 Il 2025 si apre con il voto sul provvedimento più atteso, oggetto di discussione, nelle stesse ore, anche al Csm. Sarà il primo provvedimento in aula nel 2025. Ed anche quello più atteso, andando a chiudere una parentesi tenuta aperta per 30 anni. La separazione delle carriere arriva domani alla Camera, con il voto sulle pregiudiziali, per poi tornare alla discussione, ufficialmente inaugurata il 9 dicembre. Giorno in cui, a Montecitorio, il dibattito si è diviso tra chi sostiene che la riforma darà finalmente la garanzia di un giudice terzo, contro lo strapotere della magistratura requirente, ponendo un freno al correntismo, e chi, invece, legge la riforma in ottica punitiva e come un tentativo di sottomettere i pm al potere politico. Contemporaneamente, a Palazzo Bachelet, il plenum del Consiglio superiore della magistratura discuterà le proposte di parere alla riforma. Due visioni contrapposte, che ricalcano quelle politiche, e già tacciate dalla maggioranza come un tentativo delle toghe di invadere il campo della politica, pur essendo i pareri previsti dalla legge. Ma non trattandosi di valutazioni vincolanti, l’impatto sul voto dell’aula dovrebbe essere minimo, considerando anche che a dare manforte al governo ci sono anche da Azione e Italia viva. “Si tratta di una riforma condivisa da tutto il centrodestra e non si piantano bandierine come ha giustamente detto il vicepremier Tajani. È certamente una priorità della maggioranza - ha dichiarato ad Affaritaliani. it il sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro. Quest’anno sarà la priorità del governo e della maggioranza e contiamo di concludere l’iter parlamentare entro la fine del 2025”. Il disegno di legge è composto da 8 articoli, separando i pubblici ministeri dai giudici con norme specifiche per ciascuna carriera. Vengono istituiti due distinti organi di autogoverno, che avranno competenze relative a assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, valutazioni professionali e conferimenti di funzioni. La presidenza di entrambi i Consigli sarà affidata al Presidente della Repubblica. I membri saranno scelti per un terzo tra professori e avvocati con almeno 15 anni di esperienza, e per due terzi tra magistrati giudicanti e requirenti, selezionati tramite sorteggio. Con la modifica dell’articolo 105, viene creata un’Alta Corte disciplinare con giurisdizione esclusiva sui magistrati, sia giudicanti che requirenti. L’Alta Corte sarà composta da 15 giudici, selezionati dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento e tramite sorteggio tra i magistrati. Il presidente dell’Alta Corte sarà scelto tra i componenti nominati dal Presidente della Repubblica e quelli sorteggiati dal Parlamento. Le sentenze dell’Alta Corte saranno impugnabili dinnanzi alla stessa Corte, che giudica in composizione differente. Una disciplina transitoria prevede un anno per l’adeguamento delle leggi sul Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare, mantenendo in vigore le normative esistenti fino all’entrata in vigore delle nuove disposizioni. La nuova architettura, secondo Delmastro, garantirà “finalmente il giusto processo, come da dettato costituzionale dell’articolo 111, con la terzietà, anche apparente e non solo effettiva, del giudice. Un giudice che, grazie al sorteggio, sarà libero dal peso delle correnti. Il meccanismo del sorteggio libererà quel 90% di giudici che vogliono compiere il loro dovere e che vogliono avanzare in carriera per meriti conseguiti sul campo e non per affiliazione a questa o a quella corrente”. L’attribuzione dei compiti disciplinari all’Alta Corte, ha aggiunto il sottosegretario, “sarà un elemento di garanzia: nessuno può essere giudice di se stesso sottolineo, infine, che non c’è alcun pericolo di sottomissione dei pubblici ministeri al potere esecutivo, perché ci sarà un doppio Csm. È evidente e solare che se oggi la garanzia di autonomia della magistratura è stata affidata ad un solo Csm, la previsione di due Csm, uno per la magistratura inquirente e uno per quella giudicante, dovrebbe raddoppiare le garanzie. Questo banale ragionamento dovrebbe convincere della strumentalità delle critiche su questo punto specifico”. Una riforma nel nome di Giovanni Falcone, ha concluso Delmastro, che aveva già indicato la necessità della separazione delle carriere senza perciò pensare ad una sottomissione dei pm al potere esecutivo. “La soverchia strumentalità della critica è la sua clamorosa inconsistenza mi fa intuire che è solo una questione di potere delle correnti - ha sottolineato -. Sono orgoglioso che la riforma sia all’insegna del pensiero di Falcone: un giudice che ha pagato molto l’isolamento proprio da quei centri di potere e che ha sempre e solo ed eroicamente voluto fare il suo dovere”. Giustizia, Delmastro (FdI): “Contiamo di concludere l’iter parlamentare della riforma entro la fine del 2025” di Alberto Maggi affaritaliani.it, 7 gennaio 2025 “Si tratta di una riforma condivisa da tutto il Centrodestra e non si piantano bandierine come ha giustamente detto il vicepremier Tajani. È certamente una priorità della maggioranza”. Così ad Affaritaliani.it il sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro sulla riforma del sistema giudiziario, rilanciata oggi dal vicepremier Antonio Tajani. “La riforma nel suo complesso prevede la separazione delle carriere, il sorteggio al Csm e l’Alta Corte con funzione disciplinare. La separazione delle carriere garantirà finalmente il giusto processo, come da dettato costituzionale dell’art. 111, con la terzietà, anche apparente e non solo effettiva, del giudice. Un giudice che, grazie al sorteggio, sarà libero dal peso delle correnti. Il meccanismo del sorteggio libererà quel 90% di giudici che vogliono compiere il loro dovere e che vogliono avanzare in carriera per meriti conseguiti sul campo e non per affiliazione a questa o a quella corrente”. “L’Alta Corte avrà il ruolo disciplinare e questo elemento sarà un elemento di garanzia: nessuno può essere giudice di se stesso Sottolineo, infine, che non c’è alcun pericolo di sottomissione dei pubblici ministeri al potere esecutivo, perché ci sarà un doppio Csm. È evidente e solare che se oggi la garanzia di autonomia della Magistratura è stata affidata ad un solo Csm, la previsione di due Csm, uno per la Magistratura inquirente e uno per quella giudicante, dovrebbe raddoppiare le garanzie. Questo banale ragionamento dovrebbe convincere della strumentalità delle critiche su questo punto specifico”. “Quando Giovanni Falcone parlava della necessità della separazione delle carriere non credo che si prefigurasse di sottomettere la Magistratura al potere esecutivo, ma semplicemente di garantire la parità fra accusa e difesa e la terzietà del giudicante, come in ogni sistema liberale. La soverchia strumentalità della critica è la sua clamorosa inconsistenza mi fa intuire che è solo una questione di potere delle correnti. Sono orgoglioso che la riforma sia all’insegna del pensiero di Falcone: un giudice che ha pagato molto l’isolamento proprio da quei centri di potere e che ha sempre e solo ed eroicamente voluto fare il suo dovere”. Quanto ai tempi della riforma costituzionale della giustizia, Delmastro conclude dicendo: “Quest’anno sarà la priorità del governo e della maggioranza e contiamo di concludere l’iter parlamentare entro la fine del 2025”. Io pm dico sì alla giornata per gli errori giudiziari. Ma basta coi pasdaran di Giuseppe Cascini* Il Dubbio, 7 gennaio 2025 Nonostante il carattere volutamente provocatorio della proposta, e nonostante i toni polemici e mistificatori che l’hanno accompagnata, l’iniziativa per la istituzione di una giornata in memoria delle vittime di errori giudiziari dovrebbe essere accolta con favore dalla magistratura. E anche la proposta del Ministro di prevedere forme di ristoro per chi sia stato ingiustamente sottoposto a processo merita attenzione. Nelle ultime settimane il dibattito pubblico sui temi della giustizia si è acceso attorno alla proposta di istituire una “giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”. Come spesso accade, ahimè ormai da molti anni, la discussione ha immediatamente assunto i toni dello scontro e della contrapposizione. La situazione si è ulteriormente complicata a seguito delle sentenze di assoluzione di due politici imputati in processi che hanno avuto una rilevante eco mediatica, alle quali sono seguite reazioni molto discutibili sul piano istituzionale sia da parte del Ministro della Giustizia, il quale in una intervista ha definito “temeraria” l’iniziativa penale in uno dei due processi, che da parte della Unione delle Camere Penali, che in un documento, ha definito “eversiva” l’azione della magistratura in quei due procedimenti. È davvero difficile comprendere come dei giuristi possano esprimere giudizi così severi sul merito di procedimenti ancora in corso, senza nemmeno conoscere le motivazioni delle sentenze di assoluzione. Ed è molto grave che il Ministro della Giustizia, il quale è titolare dell’azione disciplinare, si esprima in quei termini, realizzando una inammissibile interferenza nei confronti dei giudici che dovranno stilare le motivazioni e nei confronti della Procura della Repubblica che dovrà decidere sull’eventuale appello. In questi tempi difficili sembra ad alcuni che l’unico modo per farsi ascoltare sia quello di urlare il più possibile, di “spararla grossa”, mentre al contrario, a mio avviso, la moderazione del linguaggio e l’uso attento delle parole in un settore così delicato e ricco di sfumature quale quello della giustizia resta l’unico metodo possibile di ricerca di soluzioni nell’interesse generale. E, quindi, nonostante il rumore e le grida, abbiamo il dovere di continuare a provare a ragionare, a confrontarci e a dialogare. Per questo, nonostante il carattere volutamente provocatorio della proposta, e nonostante i toni polemici e mistificatori che l’hanno accompagnata, l’iniziativa per la istituzione di una giornata in memoria delle vittime di errori giudiziari dovrebbe essere accolta con favore dalla magistratura. E anche la proposta del Ministro di prevedere forme di ristoro per chi sia stato ingiustamente sottoposto a processo, al netto della grave sgrammaticatura istituzionale che l’ha accompagnata, merita attenzione. Quello del giudicare, diceva Montesquieu, è un “potere terribile”, che coinvolge la vita delle persone, la loro libertà, la loro dignità, il loro onore. Ogni “errore” può avere effetti devastanti e conseguenze irreparabili. E per questo l’intero sistema giudiziario e le sue regole sono finalizzati ad evitare gli “errori”. Un pubblico ministero indipendente e imparziale serve ad evitare gli “errori” della polizia, riducendo il rischio di prevalenza di una logica di risultato che sempre può prendere chi ha come scopo e funzione istituzionale quello della ricerca del colpevole. Su questo dovrebbero riflettere di più e meglio coloro che oggi si battono per far uscire dall’ordine giudiziario i magistrati del pubblico ministero. Soprattutto gli avvocati, che più degli altri dovrebbero, a mio avviso, comprendere i rischi che ne deriverebbero per le garanzie dell’accusato nella delicata fase delle indagini. Un giudice indipendente e imparziale, funzionalmente distinto dal pubblico ministero, serve ad evitare l’”errore” di una iniziativa penale infondata, con la possibilità di prosciogliere l’imputato nell’udienza preliminare in tutti i casi in cui ritenga “non prevedibile la condanna”. Un altro giudice indipendente e imparziale, funzionalmente distinto sia dal pubblico ministero che dal giudice dell’udienza preliminare, serve ad evitare l’”errore” di condannare un innocente, potendo pronunciare condanna solo quando la responsabilità dell’imputato risulti provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. E solo sulla base di prove raccolte nel processo e nel contraddittorio delle parti. Un altro giudice ancora, anch’egli indipendente e imparziale e funzionalmente distinto dal pubblico ministero, dal giudice dell’udienza preliminare e dal giudice del dibattimento di primo grado, serve ad evitare l’”errore” del giudice di primo grado, potendo annullare in grado di appello una condanna ingiusta. Infine un altro giudice ancora, quello di legittimità, sempre indipendente e imparziale e funzionalmente distinto da tutti gli altri, serve a verificare il rispetto delle regole del processo e del giudizio, e ad evitare l’”errore” di una decisione assunta in violazione di legge. Come si vede si tratta di un sistema molto articolato e complesso, che assicura un elevato standard di garanzie per le persone accusate di reato, sicuramente tra i più elevati al mondo, e che ha come scopo proprio quello di evitare gli “errori”. La sua complessità comporta, però, anche costi elevati, sia in termini di risorse necessarie che di tempi. E siccome le risorse ormai da molti anni scarseggiano, l’effetto è una dilatazione dei tempi, con grave nocumento per l’imputato che subisce la “pena del processo”, che spesso ha durata maggiore di quella eventualmente inflitta con la condanna. Per questo tutte le persone che hanno davvero a cuore le garanzie delle persone accusate di reato dovrebbero impegnarsi in via assolutamente prioritaria per un aumento delle risorse destinate alla giustizia e per una drastica riduzione del numero di “crimini” meritevoli di una sanzione privativa della libertà. Ma è sufficiente tutto questo, al netto di quanto detto su risorse e tempi, ad evitare gli “errori giudiziari”? Ovviamente no. Il giudicare è attività umana e, come tale, sempre suscettibile di errore. Potremmo anche provare ad aumentare i gradi di giudizio, portandoli a quattro o a cinque, il che avrebbe ovviamente una notevole incidenza sui tempi e sui costi. Ma questo potrebbe solo ridurre il margine di errore, mai eliminarlo. Dobbiamo quindi rassegnarci alla inevitabilità dell’errore? Ovviamente no. L’uomo è un essere imperfetto, ma la sua grandezza consiste nella tensione verso la perfezione. E noi tutti abbiamo il dovere di mantenere alta quella tensione per ridurre il più possibile il rischio di errori. Ogni operatore del diritto e, soprattutto, ogni magistrato deve sentire come imperativo categorico quello di evitare l’errore. E deve farlo attraverso il metodico e maniacale approfondimento degli elementi di prova, attraverso la predisposizione all’ascolto delle ragioni della difesa e, soprattutto, attraverso la pratica del dubbio. E in questo senso una giornata dedicata alla memoria delle vittime di errori giudiziari potrebbe certamente aiutare a mantenere alta quella tensione. Occorre, però, intendersi sul significato delle parole. L’errore giudiziario è, nella accezione in cui ne discutiamo in questa sede, la condanna di un innocente. Anche la condanna di primo grado, poi “rimediata” in appello, come fu per Enzo Tortora. E anche, per quello che si diceva sopra sulla “pena del processo”, il rinvio a giudizio di un imputato poi assolto. Ma errore non significa necessariamente “sbaglio” e, soprattutto, non significa necessariamente “colpa” di chi ha agito. L’errore giudiziario può derivare da una serie di sfortunate coincidenze, dalla cattiva memoria di un testimone o di un pentito o dalla alterazione di una prova scientifica, oppure può derivare da una attività dolosa, da calunnie o da false testimonianze, da prove alterate. Ma l’errore può derivare anche, anzi quasi sempre, banalmente o semplicemente da una diversa valutazione di un fatto o di una prova. È quello che succede nel calcio. Il difensore tocca la palla con una mano nell’area di rigore. L’arbitro, per decidere se dare o no il rigore, deve valutare una serie di circostanze di fatto, quali la distanza del braccio dal corpo o la distanza tra i due giocatori. E deve interpretare le norme del regolamento che definiscono tale infrazione. Quindi deve prendere una decisione. Gli addetti al Var, se non condividono la sua scelta, possono invitarlo a rivedere l’azione. Ma alla fine è lui a decidere. I tifosi di una squadra diranno che la decisione è giusta, quelli dell’altra squadra diranno che si è trattato di un errore. E anche i commentatori delle varie moviole potranno avere opinioni diverse. Ma, salvo casi rari di clamoroso svarione, non si può dire, oggettivamente, se aveva ragione l’arbitro o l’addetto al Var. E quindi si sceglie di applicare una regola di giudizio formale, quella consacrata nel famoso brocardo dell’indimenticabile Boskov: “Rigore è quando arbitro fischia”. Lo stesso accade nel processo penale. Con alcune, non secondarie, differenze. In primo luogo noi non abbiamo il Var. E quindi per ricostruire un fatto dobbiamo affidarci ad un ragionamento di tipo induttivo sulla base degli elementi di prova a nostra disposizione. Elementi che possono anche cambiare nelle diverse fasi del procedimento, perché si scopre una prova nuova o perché un testimone cambia versione nel processo oppure perché un teste della difesa offre una diversa ricostruzione dei fatti. Poi, le regole da applicare in un giudizio penale sono sovente molto più complesse e incerte di quelle del gioco del calcio. I numerosi contrasti di giurisprudenza, con i quali tutti gli operatori del diritto sono costantemente chiamati a confrontarsi, documentano quanto articolata e complessa, e spesso anche mutevole, sia l’attività di interpretazione delle norme. Infine, ma soprattutto, il brocardo fondamentale su cui si fonda il giudizio penale non è quello di Boskov, ma quello del Digesto Giustinianeo: “In dubio pro reo”. L’assoluzione dell’imputato, dunque, in qualunque fase del giudizio intervenga, rappresenta l’esito fisiologico di un procedimento finalizzato all’accertamento di una verità convenzionale, cui si perviene sulla base di regole epistemiologiche, tutte innervate da quel principio del favor rei. L’esito assolutorio non può mai, dunque, considerarsi come prova di “errore” del pubblico ministero che ha agito, del giudice dell’udienza preliminare che ha disposto il rinvio a giudizio, del giudice di primo grado che ha pronunciato condanna. E, anzi, sarebbe molto pericoloso, proprio per le garanzie dell’imputato, considerarlo tale, perché rischierebbe di condizionare la libertà di giudizio del giudice. Salvo i casi di clamorosi svarioni, che già possono essere sanzionati sulla base delle attuali regole in materia disciplinare e di valutazione di professionalità, l’esito assolutorio è semplicemente frutto di una diversa valutazione delle prove ovvero di una diversa interpretazione delle norme, che per regola convenzionale e di garanzia, ridonda a favore dell’imputato. Certo, dal punto di vista di chi ha subito il processo si è trattato di un errore. Anzi di una “ingiustizia”. Ed è ragionevole dunque pensare a forme di ristoro, sulla falsariga di quanto già previsto per i casi di ingiusta detenzione. Ed è giusto, anche, che di quella sofferenza ognuno di noi faccia memoria. Ma sarebbe un grave errore, mi si passi il gioco di parole, sovrapporre l’applicazione di un millenario principio di garanzia alla ossessiva e spasmodica, a tratti paranoica, ansia di punizione nei confronti dei “giudici che sbagliano”, che spesso trasuda dalle parole e dalle azioni di alcuni pasdaran. Perché un giudice intimidito e intimorito sarebbe un giudice meno libero e meno indipendente. E questo sarebbe un danno soprattutto per le garanzie di libertà dei cittadini. *Magistrato, già segretario dell’Anm L’Associazione Nazionale Magistrati al voto per il dopo Santalucia di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 gennaio 2025 A fine gennaio il sindacato delle toghe rinnova i suoi vertici. Le correnti hanno formalizzato i programmi e propri i candidati. Tutti uniti contro la riforma costituzionale. Magistratura indipendente sfida Area, Md lancia Patarnello. L’Associazione nazionale magistrati si prepara a rinnovare i suoi vertici. Un appuntamento importante sul piano politico e istituzionale, in un 2025 che dovrebbe vedere l’approvazione della riforma della separazione delle carriere e del Csm (il ministro Carlo Nordio punta a chiudere la partita entro l’estate), con probabile successivo referendum. Dal 26 al 28 gennaio i magistrati di tutta Italia eleggeranno i 36 rappresentanti del comitato direttivo centrale dell’Anm, il cosiddetto “parlamentino” delle toghe. Quest’ultimo eleggerà poi i dieci membri della giunta esecutiva centrale, tra cui il presidente, che sostituirà Giuseppe Santalucia, che ha deciso di non ricandidarsi. Negli ultimi giorni le correnti hanno formalizzato i programmi e propri i candidati alle elezioni. Tutti i gruppi sono uniti nell’opposizione alla riforma costituzionale, ritenuta pericolosa per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, tanto da dichiararsi pronti a ogni forma di protesta, incluso lo sciopero. La magistratura si presenta alle elezioni divisa, come da tradizione, in tre tronconi: quello conservatore rappresentato da Magistratura indipendente (Mi), quello centrista di Unicost e quello della sinistra giudiziaria, a sua volta diviso tra i gruppi Area e Magistratura democratica (Md). Magistratura indipendente appare favorita, se si considera anche che rispetto alle elezioni del 2020 non è più presente il gruppo di Autonomia e Indipendenza, fondata da Piercamillo Davigo da una scissione da Mi. Seppur ritenuta una corrente vicina al governo, anche Mi mette al primo posto del suo programma la “difesa dell’attuale assetto costituzionale della magistratura”. Il gruppo, tuttavia, sottolinea la sua visione moderata del ruolo della magistratura, affermando che non spetta all’attività giudiziaria “elaborare e attuare le trasformazioni della società”. Un netto distanziamento dalle posizioni della sinistra giudiziaria. Tra i numerosi candidati di Mi, spiccano i nomi di Antonio D’Amato (capo della procura di Messina ed ex componente togato del Csm), Cesare Parodi (procuratore aggiunto a Torino), Giuseppe Tango (giudice del tribunale di Palermo) e la giovane Mariachiara Vanini (giudice del tribunale di Milano). Il gruppo di Unicost punta tutto su nomi nuovi, che non sembrano proprio in grado di trascinare le folle. Tra i candidati, Monica Mastrandrea (giudice del tribunale di Torino), Marcello De Chiara (giudice del tribunale di Napoli) e Gaspare Sturzo (oggi in servizio alla procura generale della Corte di cassazione, ma conosciuto - oltre che per essere il pronipote del fondatore del Partito popolare - per aver gestito alcuni procedimenti delicati quando era gip a Roma, come uno dei filoni del caso Consip). Il gruppo di Area propone nel suo programma di proseguire con una giunta unitaria dell’Anm, come quella uscente, per avere maggiore forza nel contrastare la riforma costituzionale (che metterebbe a repentaglio i “pilastri dell’assetto democratico e della separazione dei poteri”). La corrente di sinistra candida due componenti uscenti del comitato direttivo centrale, Rocco Maruotti (pm a Rieti) e Paola Cervo (giudice di sorveglianza a Napoli). Tra gli altri candidati, si segnalano Domenico Pellegrini (giudice del tribunale di Genova), Chiara Valori (giudice del tribunale di Milano) e Ida Teresi (pm a Napoli). Il gruppo di Magistratura democratica cerca di sparigliare le carte (a danno in realtà soprattutto di Area), candidando due toghe tanto di peso quanto divisive. Il primo nome è quello di Marco Patarnello, sostituto procuratore generale della Cassazione, finito lo scorso ottobre al centro delle polemiche per un messaggio inviato alla mailing list dell’Anm in cui definiva “l’attacco alla giurisdizione” condotto da Meloni persino più pericoloso di quello di Berlusconi, perché la premier non ha inchieste a suo carico. Il secondo nome è Emilio Sirianni, giudice della Corte d’appello di Catanzaro, finito nell’occhio del ciclone (e all’attenzione del Csm) per aver offerto consigli giuridici e non solo all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, quando questi era indagato per le irregolarità nella gestione dei migranti. Trentino Alto Adige. Troppi detenuti nelle carceri, l’associazione Coscioni: “Sovraffollamento al 133%” ildolomiti.it, 7 gennaio 2025 Nel 2024, nella Casa circondariale di Spini, si sono toccate più volte punte di 380 persone presenti, con una crescita significativa in particolare delle donne. Difficile la situazione per quanto riguarda detenuti con diagnosi psichiatriche maggiori. Un sovraffollamento che non si ferma e che continua a creare problemi all’interno delle Case circondariali di Trento e Bolzano. Questa volta a denunciarlo è l’associazione Luca Coscioni che ha pubblicato i dati riferiti alla presenza di detenuti negli istituti penitenziari. Al 9 dicembre 2024 in Italia sono 62.283 le persone detenute a fronte di una capienza ufficiale di 51.165 posti (dati del Ministero della Giustizia). Di questi, però, 4.478 posti non sono disponibili. Il tasso di affollamento è quindi del 133,4%. Durante l’estate era poco sotto il 130%. “Per questo, e di fronte al silenzio delle istituzioni, ad agosto scorso - spiega l’associazione - abbiamo diffidato le 102 aziende sanitarie competenti per la salute nelle 189 carceri italiane per chiedere loro di adempiere al ruolo, previsto per legge, di fornitrici di servizi socio-sanitari e di monitoraggio delle condizioni degli istituti”. Le diffide ricordavano che “la responsabilità per la mancata applicazione e i ritardi nell’attuazione delle misure previste per lo svolgimento dell’assistenza sanitaria penitenziaria sono imputabili al Direttore Generale della Asl”. Nel 2024, nella casa circondariale di Spini, si sono toccate più volte punte di 380 persone presenti, con una crescita significativa in particolare delle donne che sono arrivate anche a raggiungere recentemente la cifra record di 53. I dati sono stati ricordati anche dalla Garante dei detenuti, la professoressa Antonio Menghini, che nell’ultimo rapporto ha anche sottolineato la difficile situazione che si sta vivendo per quanto riguarda i detenuti con diagnosi psichiatriche maggiori (spettro psicosi, spettro disturbi depressivi, gravi disturbi spettro ansioso e ossessivo, gravi disturbi di personalità, gravi disturbi del controllo degli impulsi e doppia diagnosi), che nel primo semestre 2024, erano 83 (il 22% rispetto al numero complessivo di presenti) di cui 21 in doppia diagnosi (in condivisione con il SerD), 65 uomini e 18 donne (60% rispetto al numero di donne presenti). Alle richieste che sono state inviate dall’associazione Coscioni, “Meno della metà delle Aziende sanitarie ha risposto” ha ricordato Marco Perduca, che coordina l’iniziativa “abbiamo quindi deciso di procedere con delle richieste di accesso agli atti per ottenere le relazioni delle visite in carcere e pubblicizzato la possibilità di condividere in modo sicuro e anonimo critiche relative al diritto alla salute in carcere sul sito FreedomLeaks.org”. Il sovraffollamento “crea condizioni invivibili” prosegue Perduca “per questi motivi nel 2013 la Corte europea dei diritti umani ha adottato una sentenza, nota come Torreggiani, che ricordò che la disponibilità di uno spazio inferiore ai tre metri quadri continua a essere ritenuta di per sé sufficiente ad integrare un trattamento inumano e degradante, altrimenti noto come tortura.” Monza. Resta in carcere anche se assolto per un disturbo psichiatrico. Il dramma di Salvatore di Manuela D’Alessandro agi.it, 7 gennaio 2025 Da 26 giorni un uomo di 49 anni è rinchiuso in cella a Monza. Manca una Rems libera che ospiti chi è ritenuto socialmente pericoloso per problemi di salute mentale. Da 26 giorni il signor Salvatore D., 49 anni, si trova nel carcere di Monza da assolto. Assolto per vizio totale di mente per incapacità di intendere e di volere al momento dei fatti a causa di un grave disturbo psichiatrico, è in cella perché non si trova una Rems libera, cioè la struttura che, per legge, deve accogliere le persone ritenute socialmente pericolose affette da seri problemi di salute mentale. “Il 12 dicembre è stato assolto definitivamente dal gup di Lodi alla fine del processo con rito abbreviato per totale incapacità di intendere e di volere e il magistrato ha disposto il suo collocamento in una Rems - spiega all’AGI l’avvocata Federica Liparoti, che lo assiste -. Già il 6 luglio era stata revocata dal pm la custodia cautelare in carcere ma, nonostante ciò, ha atteso in prigione il processo per via della carenza delle strutture. Quindi il signor Salvatore D. è in carcere da assolto, senza titolo, essendo venuta meno anche la possibilità di applicare qualsiasi misura cautelare, incompatibile con un’assoluzione”. Era accusato di rapina in farmacia, di avere minacciato e molestato l’anziana madre e di avere lanciato un sasso contro la porta del municipio del piccolo paese nel Milanese dove viveva. La giudice di Lodi, Ivonne Fiorella Calderon, assolvendolo per incapacità di intendere e di volere lo aveva assegnato per un periodo non inferiore a sei mesi a una Rems “individuata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Il 23 dicembre il Dap ha rivolto un appello a varie autorità affinchè trovasse “il prima possibile” una Rems in Lombardia. Ricerca al momento fallita. “Finora mi risulta che sia stato chiesto solo alla Rems di Castiglione delle Stiviere che non aveva disponibilità” afferma l’avvocata Liparoti secondo la quale tenere in carcere una persona assolta per vizio di mente “è assimilabile a una forma di tortura”. In Italia ci sono 31 residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Dall’analisi di dati recenti risultano 600 persone ricoverate e 700 in attesa in tutta Italia perché non ci sono abbastanza posti. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è intervenuta in più occasioni censurando la violazione dei diritti fondamentali in casi analoghi e sottolineando il cronico problema delle liste d’attesa. Monza. Assolto, rimane in cella: “Il giudice ha ordinato il ricovero in una Rems ma non c’è disponibilità” di Massimiliano Saggese Il Giorno, 7 gennaio 2025 Il 49enne di San Zenone al Lambro era accusato di rapina e minacce alla madre. L’avvocata Liparoti: “Dichiarato totalmente incapace d’intendere e volere. Potrebbe anche chiedere un risarcimento per ingiusta detenzione”. Da 27 giorni nonostante sia stato assolto resta in carcere perché manca il posto nella Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), struttura che deve accogliere le persone ritenute socialmente pericolose affette da seri problemi di salute mentale. Protagonista di questa assurda storia all’italiana è Salvatore D. un uomo di 49 anni residente a San Zenone al Lambro che si trova attualmente nel carcere di Monza. Un’assoluzione per vizio totale di mente: incapacità di intendere e di volere al momento dei fatti a causa di un grave disturbo psichiatrico. Era accusato di una rapina in farmacia, di avere minacciato e molestato l’anziana madre e di avere lanciato un sasso contro la porta del municipio di San Zenone. Il gup di Lodi Ivonne Fiorella Calderon lo ha assolto definitivamente il 12 dicembre alla fine del processo con rito abbreviato, per totale incapacità di intendere e di volere e il magistrato ha disposto il suo collocamento per un periodo non inferiore a sei mesi in una Rems individuata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Castiglione delle Stiviere. “Già il 6 luglio era stata revocata dal pm la custodia cautelare in carcere ma, nonostante ciò, il mio cliente ha atteso in prigione il processo per via della carenza delle strutture - spiega l’avvocata Federica Liparoti, che lo assiste. Il 23 dicembre il Dap ha rivolto un appello a varie autorità affinché trovasse “il prima possibile” una Rems in Lombardia. Ricerca al momento fallita. Finora mi risulta che sia stata chiesta la disponibilità ad accoglierlo solo alla Rems di Castiglione delle Stiviere che non aveva posto”. Le Rems che possono accogliere persone sottoposte a tale misura devono essere nei paraggi della residenza? “No, su base regionale, e Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova è disponibile ma non ha posti, per questo Salvatore resta in carcere ingiustamente”. Il suo cliente potrà chiedere i danni per ingiusta detenzione? “Dal momento della sentenza di assoluzione sì. La Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) ha già condannato per questo motivo l’Italia. Non potrà invece chiedere risarcimento per la detenzione durante il processo. I familiari però non sono interessati ai risarcimenti, bensì al fatto che Salvatore venga scarcerato e curato in un centro specializzato”. Per Salvatore la reclusione in una cella con altri detenuti è una sofferenza maggiore? “Che sia solo o con altri, non deve stare in cella perché è stato assolto. La speranza è che si trovi una soluzione in tempi brevi e che io non debba rivolgermi alla Cedu. Mi rifiuto di pensare che il Servizio sanitario nazionale non abbia migliori risposte”. Ci sono precedenti? “In un caso singolo che ho seguito direttamente siamo andati in appello per collocamento in comunità. Non vorrei dover fare la stessa cosa per Salvatore. C’è stato un altro caso, che non ho seguito io come legale, dove il detenuto si è tolto la vita. Per fortuna il mio assistito non sembra avere tendenze simili. In Italia ci sono 31 residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e secondo le stime ci sarebbero 700 persone in attesa perché non ci sono abbastanza posti”. Firenze. Carcere di Sollicciano: “Demolire e ricostruire. Il governo si muova” di Niccolò Gramigni e Pietro Mecarozzi La Nazione, 7 gennaio 2025 La sindaca di Firenze Funaro interviene sulle condizioni del carcere fiorentino. Per tutte le opposizioni la questione non è più rinviabile. Per quanto forte l’espressione “una tomba per vivi”, usata dall’attivista per i diritti Enzo Brogi, descrive bene la situazione del carcere di Sollicciano. Dove il 2025 è iniziato nello stesso modo del 2024. I suicidi aumentano, due negli ultimi 13 mesi (e l’ultimo lo scorso 3 gennaio), mentre sono stati 64 i tentati di suicidio. C’è poi la questione direzione: per Sollicciano, con la direttrice Antonella Tuoni assente per malattia, Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha nominato due nuovi vicedirettori che dovrebbero entrare in servizio nei prossimi giorni. Si tratta di Valentina Angioletti e Valeria Vitrani. Sul fronte giudiziario: alcuni mesi fa sono stati presentati cento ricorsi contro il carcere inumano da altrettante persone che stanno scontando una pena definitiva nella casa circondariale. Ricorsi dall’esito pressoché scontato, in virtù di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a cui si appellano i ricorrenti, che fissa i paletti della dignità ambientale dietro le sbarre. Quella che a Sollicciano è stata smarrita. La sindaca Sara Funaro è intervenuta sul tema, come aveva già fatto prima di Natale. “Sono anni - spiega - che sto dicendo che l’unica soluzione per il carcere di Sollicciano è quella di demolirlo e ricostruirlo completamente, le condizioni” del penitenziario fiorentino “sono disumane, è necessario fare interventi che” siano “incisivi perché non è dignitoso né per chi è detenuto” né “per le persone che ci lavorano”. L’auspicio, continua la sindaca, “è che il governo possa prestare attenzione e dare quelle risposte che da tanto, troppo tempo stiamo chiedendo”. E allora che si fa? Alessandro Draghi di Fdi non si nasconde: “Pensare ad un nuovo carcere tra Firenze e Prato è impossibile - dichiara - Sollicciano non puoi buttarlo giù tutto insieme, altra cosa impossibile. E allora troverei i fondi per ristrutturare un padiglione alla volta, mi pare l’unica soluzione”. Non la pensa così Dmitrij Palagi, capogruppo di Spc a Palazzo Vecchio: “Sollicciano va chiuso e non va ricostruito, servono percorsi alternativi alla detenzione carceraria - spiega -. È evidente che ci sono reati per cui devi andare in carcere, ma questi sono una percentuale minima”. Massimo Sabatini della lista Schmidt spiega che circa la “ristrutturazione sono per realizzarla completamente, partendo da demolizione e ricostruzione”. Alberto Locchi di FI afferma che “in questo momento dentro Sollicciano” c’è un sovraffollamento del “20-25% e questo è inaccettabile”. Per Francesco Casini, capogruppo di Iv, “in tutto il Paese serve un reale piano carceri. È un tema non rinviabile. Una questione di civiltà che è alla base delle politiche sulla sicurezza”. “Sollicciano va chiuso e ripensato da capo”, conclude Francesco Grazzini di Iv. “Occorre innanzitutto nominare subito il nuovo Garante dei detenuti - spiega invece Cecilia Del Re -, capire se nei termini dati dal Dap sono poi stati fatti gli interventi necessari perché in assenza di quegli interventi occorre traferire altrove i detenuti, come certificato anche da recenti sentenze in merito”. Livorno. Lo schifo del carcere: Asl e Giudice perché tacciono? di Angela Stella L’Unità, 7 gennaio 2025 Rita Bernardini annuncia un esposto. Ha visitato le celle e la situazione è tragica. Piove dal tetto, manca l’acqua calda, muffa ovunque. Rita Bernardini ha presentato due giorni fa un esposto al procuratore di Livorno per denunciare le “indegne” condizioni di detenzione nella casa circondariale del capoluogo toscano. Il 30 dicembre 2024, la presidente di “Nessuno Tocchi Caino” aveva visitato l’istituto di pena assieme ad altri militanti dell’Associazione e all’avvocato Elena Augustin, dell’Osservatorio Carceri dell’Unione camere penali. In particolare, si legge nella denuncia, “le sezioni di Media sicurezza in cui sono ristretti 105 detenuti sono molto sovraffollate. Nelle celle costruite per ospitare una persona, per esempio, spesso ci sono tre letti. Il letto a due piani impedisce l’apertura delle finestre”. Durante la visita “è stato riferito che il tetto dell’edificio è puntellato alla meno peggio perché è a rischio crollo come certificato - sembra - dai vigili del fuoco che hanno effettuato un sopralluogo: fatto sta che in molte celle piove dentro per le infiltrazioni d’acqua e che l’umidità e la muffa sono diffuse dappertutto sia nelle parti comuni che in quelle che eufemisticamente vengono definite ‘stanze di pernottamento’. Le mura sono luride e la sporcizia regna sovrana. I corridoi sono ingombri di stendini pieni di indumenti lavati approssimativamente e che difficilmente asciugheranno in poco tempo. I fili dell’elettricità sovente sono volanti: un incidente può capitare in qualsiasi momento”. Aspetto gravissimo “nelle celle non c’è l’acqua calda né tantomeno le docce: il wc è in un unico ambiente assieme al lavandino e alla ‘cucina’. Le immonde docce sono esterne, piene di muffa con le pareti rigonfie per la condensa: per farsi la doccia senza il rischio di prendersi una malattia i detenuti dovrebbero entrarci con gli stivali ma ci entrano con le ciabatte di plastica”. “Anche la zona dove c’è il polo scolastico, oggetto di ristrutturazione dieci anni fa, ha il problema delle infiltrazioni d’acqua, così come l’infermeria”. Infine “la cifra della vita detentiva in media sicurezza è l’ozio, nonostante la professionalità e l’impegno dell’area educativa e dei pochi agenti in forte carenza di organico. Mancano gli spazi per le attività trattamentali”. Bernardini parla poi anche di “beffa”: “dal 2012 sono stati chiusi per ristrutturazione due reparti detentivi costati milioni (forse decine) di euro del contribuente. Da anni notizie di stampa affermano che questi due padiglioni sono prossimi alla consegna ma, allo stato attuale, ancora devono essere collaudati. Si tratta di circa 200 posti regolamentari che avrebbero dovuto essere costruiti secondo il regolamento penitenziario”. L’esposto si conclude chiedendo al procuratore Agnello se “non siano ravvisabili ipotesi di reato a carico di coloro nelle cui mani sono affidate le persone detenute”. Bernardini chiama in causa “il Dirigente Sanitario della ASL in cui insiste l’Istituto penitenziario” che “deve predisporre due visite all’anno allo scopo di accertare, anche in base alle segnalazioni ricevute, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie degli istituti”. Ma tutto ciò è stato fatto? E poi il magistrato di sorveglianza: “mi chiedo se abbia ricevuto le relazioni della ASL di riferimento e se abbia verificato le eventuali prescrizioni in esse contenute sulla salubrità dei luoghi” Prato. Dogaia, un altro anno difficile: cinque suicidi e 80 eventi critici di Claudia Iozzelli La Nazione, 7 gennaio 2025 Cinque suicidi in un anno e 80 eventi critici certificati. Ma le problematiche sono mediamente all’ordine del giorno, “a stare bassi”, dicono dai sindacati. È il bilancio “nero” di un anno (il 2024) del carcere della Dogaia, da sempre alle prese con problemi strutturali, di personale, di sovraffollamento, di gestione di detenuti difficili. Insomma, non c’è nulla che funziona nonostante i tanti appelli di istituzioni, avvocati, sindacati, di tanti sopralluoghi, visite e commissioni parlamentari. Purtroppo, nulla è cambiato. I problemi della Dogaia restano sempre gli stessi, da anni. Solo negli ultimi giorni del 2024, si sono registrati parecchi “episodi critici”: il caos creato da una decina di detenuti la sera dell’ultimo dell’anno che ha costretto gli agenti a restare in servizio ben oltre l’orario di lavoro per poter riportare la calma; il detenuto che ha incendiato due bombolette a gas nella sala colloqui creando un’esplosione che ha demolito un muro di divisione; un altro detenuto che il 20 dicembre è riuscito a evadere scavalcando il muro di recinzione (e che poi è stato catturato la sera stessa a Firenze); i palloni tirati dentro alla Dogaia contenenti sei telefoni cellulari destinati ad alcuni detenuti. Questi sono solo i casi più eclatanti ma le difficoltà sono quotidiane, continue. “Lottiamo da anni con una carenza di organico che sfiora il 70% - spiegano dal sindacato Sinappe (sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria) - Scopertura di organico che arriva fino al 78% per quanto riguarda i sottufficiali. I detenuti sono circa 600, molti di gestione complicata. Gli eventi critici certificati, nel 2024, sono stati 80 ma le problematiche sono giornaliere, talvolta anche due o tre al giorno. Da anni manca un direttore responsabile e non c’è neppure un comandante titolare fisso. Questo costringe gli agenti a restare in servizio ben oltre l’orario di lavoro facendo turni tripli, 12-13 ore al giorno. Spesso siamo aiutati dal nucleo traduzione e piantonamento che è sempre disponibile a darci una mano, come avvenuto la sera del 31 dicembre. Senza di loro non ce l’avremmo fatta”. Senza un motivo la Dogaia è diventato il carcere dove vengono assegnati i detenuti problematici, spostati dal altri carceri toscani o umbri dove hanno creato disordini. Per gli agenti della polizia penitenziaria significa dover fare il doppio del lavoro perché queste persone hanno bisogno di una attenzione e custodia particolari. A rendere più complessa la situazione ci sono le problematiche strutturali: il caldo d’estate per la mancanza di condizionatori, le docce (solo nella prima sezione c’è una doccia ogni cella), le linee telefoniche per ogni sezione che ancora non funzionano e che creano tensione fra i detenuti. “Nonostante i tanti buoni propositi e le promesse nulla è cambiato. L’amministrazione penitenziaria regionale non ha ottemperato alle nostre richieste”. E per il nuovo anno le prospettive non sono migliori. Lucca. Lo psicologo del carcere San Giorgio: “Tolto l’ufficio, ridotti i colloqui” di Maria Nudi La Nazione, 7 gennaio 2025 Michele Vito Cornacchia si rivolge alle istituzioni: “Il supporto dei professionisti è fondamentale”. Gli hanno tolto l’ufficio nel marzo del 2024 e ora gli hanno limitato le ore di colloquio con i detenuti, colloqui attraverso i quali Michele Vito Cornacchia, psicologo del carcere San Giorgio di Lucca per 29 anni, ha salvato tante vite, vite di persone che hanno sì commesso degli errori e per le quali il carcere, lo scontare della pena, dovrebbe essere una seconda possibilità. E allora Vito Michele Cornacchia in questo nuovo contesto professionale ha detto basta e ha rinunciato anche allo stipendio. Un gesto eclatante per il quale non si sente un eroe, ma con il quale vuole soprattutto scuotere le coscienze, vuole lanciare un allarme e un messaggio forte in un anno che ha registrato un numero di suicidi elevato. Un anno record. L’ultimo gesto estremo in ordine di tempo è avvenuto a Sollicciano dove nel fine settimana il 2025 ha registrato la prima vittima. Tragedia per la quale il governatore Eugenio Giani ha chiesto un incontro con il ministro della giustizia Carlo Nordio. Uno sfogo amaro quello del dottor Cornacchia. “Nelle condizioni attuali non posso lavorare, non posso esercitare la mia professione in modo qualificato e soprattutto non posso essere di aiuto alla popolazione carceraria - dice Cornacchia -. In questi anni mi sono occupato soprattutto dei ‘nuovi giunti’ di quelle persone che vengono arrestate e che si trovano a vivere una situazione devastante, senza entrare nel merito del reato che hanno commesso. Negli anni della mia professione nei penitenziari per me sono venute prima le persone, ho sempre visto prima loro, aldilà di cosa avessero commesso, che non ho mai voluto sapere e che ho appreso in fase successiva. Per questo ho sempre cercato di rapportarmi a queste persone tenendo ben impressa una parola: la dignità, la dignità delle persone. Ho sempre cercato di instaurare con loro un dialogo umano, quante volte ricordo di aver preso per braccio uno di loro. Ora senza un ufficio e con un orario che oserei definire ‘svizzero’, perché poco prima delle 18 mi sollecitano a lasciare il carcere. Ma come si fa in questo contesto a svolgere la mia professione? Allora ho deciso ho deciso di tagliare corto. Agli inizi di dicembre ho scritto una lettera al Provveditore e alla Amministrazione penitenziaria toscana, lettera in cui ho raccontato cosa stesse succedendo e nella quale ho chiesto una opinione sul perché di questa scelta. Spero che il mio gesto parli alle coscienze” racconta Vito Michele Cornacchia con tono amareggiato, ma accompagnato da grande determinazione. La Nazione lo ha raggiunto telefonicamente mentre è in viaggio verso il carcere di Viterbo. “Negli anni di professione nel carcere di Lucca, ma ho svolto attività professionale anche in altri istituti penitenziari, ho salvato tante persone dal suicidio e da altri gesti autolesionistici, ma ho bisogno di tempo, la mia professione non può avere delle restrizioni severe. Ho sempre inteso il lavoro che svolgo come un aiuto alle persone. E chi viene arrestato e viene privato della libertà è una persona che ha bisogno di ascolto, ha bisogno di sentirsi, qualsiasi reato abbia commesso, una persona, e questo nonostante tutto. La popolazione degli istituti penitenziari ha bisogno di ascolto. Ho una lista di colloqui, nessuno può immaginare del bisogno di ascolto che hanno queste persone. Con la mia decisione che mi crea anche grande dolore, perché so quanto sia importante accogliere con il supporto psicologico chi entra in carcere o parlare con chi sta scontando la pena, vorrei accendere un riflettore sulla realtà delle carceri. Vorrei che in Toscana per una volta si mettessero da parte le casacche politiche e vorrei che tutti facessero fronte comune per risolvere le problematiche che emergono dagli istituti penitenziari - prosegue Michele Vito Cornacchia -. Il materiale che ho raccolto in quasi trenta anni di professione nel carcere di Lucca è raccolto in due grandi scatole. Le storie, le vite salvate oltre trenta, sono tutte lì dentro. La mia speranza e di poter tornare a lavorare e di incontrare altre persone che vivono in carcere, perché, non dimentichiamolo, stiamo parlando di persone”. Torino. Dall’alberghiero all’informatica. “Ma il lavoro in carcere è chance per pochi” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 7 gennaio 2025 Tesi di laurea sul diritto dei detenuti: senza un mestiere, finisci per tornare dentro. Che nelle carceri italiane molte cose non vanno come dovrebbero - pure nel campo rieducazione - lo si capisce già dal titolo: “Il lavoro penitenziario: un diritto per tutti, una possibilità per pochi”, tesi di laurea in sociologia giuridico-penale scritta da Giorgio Genovese, con relatore il professor Giovanni Torrente. A partire dai dati, raccolti dal ministero della Giustizia, secondo i quali “c’è una netta disparità tra coloro che svolgono un lavoro intramurario e coloro che prestano la loro attività all’esterno dell’istituto”. Il che fa la differenza: il secondo, “da un punto di vista umano e professionale, rappresenta un significativo aiuto per il reinserimento in società del detenuto”; e, ovviamente, “ad oggi non è molto diffusa questa tipologia di attività”. Motivo, un grande classico: “In primis - spiega Genovese - a causa delle lungaggini processuali e burocratiche che condizionano l’ottenimento di permessi, e, in secondo luogo, perché, in virtù della poca possibilità e conoscenza di investimento, le imprese pubbliche e private hanno molte difficoltà ad affacciarsi nel settore”. Da carcere a carcere, si tenta di darsi da fare: a Torino, per dire, “c’è un corso di formazione alberghiero dalla durata di sei mesi, che offre la possibilità alle persone ristrette di imparare un nuovo mestiere realmente spendibile una volta scontata la pena”. E ancora, altri “corsi di formazione attengono anche la qualifica di tecnico informatico o cyber security”, offrendo “dei veri e propri certificati, non solo simbolici, ma utilizzabili per lavorare all’esterno”. Dopodiché, “indubbiamente, è necessaria un’effettiva predisposizione all’apprendimento”. Racconta un detenuto: “I corsi di formazioni all’interno dell’istituto sono molto validi e non ti fanno sprecare il tempo, se li fai bene. Aiutano non solo a riempire la giornata, ma anche a ottenere una certifica da utilizzare una volta fuori”. Studiare e imparare un mestiere ha notevoli, e positivi, impatti pure per l’anima, almeno secondi i dati messi in fila da una ricerca durata tre anni e condotta dalla fondazione Emanuele Zancan, insieme ad altri enti promotori, e patrocinata dal ministero della Giustizia. “Il primo dato significativo - sottolinea Genovese - è la diminuzione della depressione tra coloro che svolgono un’attività lavorativa durante il periodo detentivo (20 per cento per i dipendenti di cooperative e 25 per i lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria); e coloro che sono invece inattivi (in questo casso la percentuale si alza al 55 per cento)”. Di più: “Lo svolgimento di un’attività lavorativa incide positivamente anche sul tasso di obesità e sull’aumento dell’autostima (82 per cento per i lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 96,1 per i lavoratori nelle cooperative)”. Cambiano anche gli atteggiamenti nei confronti della pena: “Tra coloro che non svolgono un lavoro solo il 30,8 per cento considera giusta la propria condanna; diversamente, per chi ha la possibilità di lavorare la percentuale sale al 39,8 tra i soggetti che prestano servizio a favore dell’amministrazione penitenziaria e al 41,2 tra quelli che sono stati assunti da una cooperativa”. Morale: “È fondamentale fornire una speranza ai detenuti”, perché “la vita, una volta scontata la pena, continua fuori dal carcere”. Bastano le parole di un detenuto: “Quando si torna fuori bisogna essere capaci di fare qualcosa, sennò si torna dentro in un attimo”. Napoli. A scuola di caffè, parte progetto nel carcere di Secondigliano nanotv.it, 7 gennaio 2025 Insegnare a un gruppo di detenuti l’arte di preparare il caffè, ma anche come lavorare il terreno, come coltivare il chicco affinché un domani possa nascere ‘il caffè di Secondigliano’. È l’obiettivo del progetto ‘Un chicco di speranza’, programma di reinserimento rivolto a dieci detenuti del carcere partenopeo, che vede insieme Kimbo, azienda leader del settore, il penitenziario di Secondigliano e la Diocesi di Napoli. Tre le direttrici su cui si sviluppa il progetto: attività di training funzionale alla formazione professionale di barista e come manutentore tecnico come opportunità di reinserimento sociale e lavorativo; d’intesa con i referenti dell’istituto penitenziario, sarà allestito all’interno dell’istituto un magazzino ricambi per le macchine bar di proprietà di Kimbo da riparare o rigenerare, da utilizzare nel settore Ho.Re.Ca., nonché, per i detenuti in semi-libertà, ci sarà la possibilità di prelievo e riconsegna presso i punti vendita bar delle macchine da caffè di proprietà di Kimbo su cui intervenire tecnicamente; e infine la realizzazione e coltivazione di una piccola piantagione di caffè su un terreno di 10mila mq situato all’interno dell’istituto penitenziario. Un progetto che vede il coinvolgimento anche del Dipartimento di Agraria dell’Università Federico II di Napoli per capire quale sia il tipo di pianta di caffè più adatta alle potenzialità organolettiche del terreno. “Abbiamo ricevuto tanto dalla città di Napoli in 60 anni e più di attività e significativamente siamo e restiamo in questa area della città per manifestare la nostra gratitudine - ha affermato Mario Rubino, presidente Kimbo - Se oggi Kimbo è il caffè di Napoli, distribuito in 100 Paesi del mondo, lo dobbiamo anche alle nostre radici: siamo nati nel rione Sanità nel 1963 e i fondatori della nostra azienda, Elio, Francesco e Gerardo Rubino, hanno scelto Melito di Napoli come area per impiantare lo stabilimento industriale credendo e investendo sul territorio. Oggi sentiamo il dovere di restituire a chi tanto ci ha dato e spero di non essere l’unico e di riuscire a coinvolgere presto altri imprenditori nella mia visione di benessere e di sostenibilità sociale”. Al fianco di Kimbo, del carcere di Secondigliano e della Diocesi di Napoli anche la magistratura di sorveglianza che vigilerà e supporterà le attività e gli spostamenti dei detenuti, anche con l’emissione di provvedimenti eventuali che, nei termini di legge, dovessero rendersi necessari. Il progetto è partito dall’Ufficio del lavoro dell’Arcidiocesi che si è adoperato a sensibilizzare la Kimbo affinché proponesse a favore dei detenuti dell’istituto penitenziario di Secondigliano un progetto di formazione e di avviamento al lavoro “reale e costruttivo per creare i presupposti di una cittadinanza attiva”. Il progetto inoltre gode dell’assenso del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Is Arenas (Arbus). La poesia in carcere, il progetto sociale di Davide Forte di Alessia Vacca teleregionelive.it, 7 gennaio 2025 Lo scrittore villacidrese Davide Forte ha recentemente ultimato il suo progetto di scrittura immersiva presso il carcere di Is Arenas ad Arbus, dal quale è nata una raccolta di poesie intitolata Granelli di sabbia. “Coltivo l’idea di una scrittura collettiva da circa nove anni quando ho presentato il mio primo libro e ho chiesto al pubblico di scrivere in forma anonima le proprie percezioni legate ai temi principali del libro come i sogni e le speranze di gioventù. All’inizio ero un po’ timoroso dell’esito ma poi ho notato che il pubblico ha risposto con grande entusiasmo e partecipazione. Così ho progettato qualcosa di simile in un contesto, però socialmente più profondo e ricco di contraddizioni come la realtà carceraria” - ha spiegato Forte - “All’interno di un’aula, i detenuti che hanno partecipato al progetto, hanno ricreato una sorta di famiglia, esprimendo nero su bianco i loro pensieri, le loro sensazioni e le loro speranze a partire da immagini o pagine scelte a caso di qualsiasi testo. Gli incontri sono stati vissuti ludicamente ma con la finalità di far affiorare le sensazioni più intime e nascoste. La vera ricchezza è stata nella forza del gruppo da cui è nata Granelli di sabbia: penso che nella raccolta si possano trovare tanti suggerimenti tra quelli che i detenuti hanno lasciato, significati che a me magari sono sfuggiti ma che possono essere facilmente colti da altri, perché l’interpretazione del mondo è diversa in ognuno di noi” - ha concluso lo scrittore. Grande emozione fra i detenuti che hanno voluto ringraziare Davide Forte con una dedica riportata all’interno della raccolta: “Non dimenticheremo mai il modo in cui hai fatto emergere in noi dei sentimenti che un contesto come il carcere soffoca. Avere una penna in mano ci ha tolto dal silenzio”. Pistoia. Calcetto in carcere, i giovani atleti e il progetto con i detenuti Il Tirreno, 7 gennaio 2025 L’iniziativa si chiama “Non solo piedi buoni” per gli Juniores dell’Ac Capostrada. Un’esperienza particolare e bella quella che stanno vivendo alcuni calciatori della squadra Juniores regionali dell’Ac Capostrada: ogni mercoledì, dalle 14 alle 16, si incontrano con i detenuti della casa circondariale di Pistoia per una partita di calcio a 5 e per uno scambio di esperienze. Lo fanno dallo scorso giugno e continueranno a farlo fino a maggio, aderendo al progetto educativo “Non solo piedi buoni”, iniziativa dalla forte valenza sociale organizzata dal Settore giovanile e scolastico della Figc Toscana. Tutto questo è stato possibile grazie alla disponibilità e alla sensibilità di alcune persone che hanno messo insieme le energie necessarie: Loredana Stefanelli, direttrice del carcere pistoiese, che ha accettato la bella sfida; il diacono Tommaso Giani, promotore e coordinatore del progetto; il presidente della Lega nazionale dilettanti-FigcToscana Paolo Mangini, che in Giani ha creduto; Luca Fontana e Mauro Palandri, rispettivamente presidente e diesse del settore giovanile del Capostrada Belvedere, che hanno sposato con entusiasmo l’idea. Il progetto - “Si tratta di un progetto molto formativo per i ragazzi. Ringrazio le famiglie che lo hanno compreso e apprezzato - spiega Fontana - considerandolo positivo per la crescita dei figli. Partecipano solo i maggiorenni - precisa - essendo vietato ai minori. I ragazzi si arricchiscono di uno spaccato di società a loro in precedenza ignoto. Mi fa piacere che i minori ci dicano che non vedono l’ora di compiere 18 anni per provarla”. Fontana rivela come con Tommaso Giani sia scattata da subito una bella intesa. “Dopo averlo ascoltato - sottolinea - gli raccontai dei nostri inizi, quando ormai mezzo secolo nascemmo dalle ceneri della squadra parrocchiale di don Pollacci. Gli spiegai che iniziammo senza mezzi e che crescemmo piano piano. Ne fu entusiasta. L’inclusione è per noi un aspetto fondamentale. È stato perciò facile aderire alla proposta”. A Fontana fa eco Mauro Palandri, colui che ogni settimana accompagna i suoi calciatori all’interno della casa circondariale di Santa Caterina in Brana. “È questa la cosa più importante del mio percorso nell’Ac Capostrada, che dura da tanti anni” afferma, per poi raccontare un aneddoto: “Fu una roba forte entrare la prima volta. Mi sentivo osservato da 40/50 grate. A farmi uscire dall’imbarazzo sono stati i ragazzi, più bravi e coinvolgenti di quanto mi sarei aspettato. Mi sento talmente arricchito che già penso a una nuova iniziativa solidale per l’anno prossimo: vorrei introdurre i ragazzi verso un’attività a favore dei senza tetto. L’idea è in embrione. Un mio cruccio è che parte della squadra non abbia ancora aderito, ma dedicherò tutto il mio impegno a convincere tutti”. Eccoci infine a lui: Tommaso Giani, quarantunenne diacono, celibe, della Diocesi di San Miniato. “Le partite nella casa circondariale di Pistoia sono miste (detenuti e calciatori compongono entrambe le squadre) - spiega - I detenuti sono felici di poter giocare con dei ragazzi che alzano il livello tecnico delle partite. Presenze fisse sono il capitano e il regista del Capostrada. Tra l’altro, quella del mercoledì è una finestra in più. I match durano un’ora, poi c’è un tempo analogo per un incontro in cui i giovani e i detenuti si scambiano le loro esperienze. Ne scaturisce un arricchimento per tutti”. Il ritorno inatteso - I ragazzi vengono a contatto con una realtà difficile, i detenuti tornano a respirare il clima esterno. Prima di Natale è accaduto un episodio molto significativo. “Sugli spalti - racconta Giani - durante una partita a Capostrada dei ragazzi che partecipano al progetto, a cui era presente pure l’assessore allo sport di Pistoia, si sono presentati due detenuti che avevano partecipato ai nostri incontri: uno era nel frattempo tornato in libertà, l’altro aveva goduto di un permesso premio. La loro scelta di presentarsi per assistere a quella partita è molto significativa”. Giani racconta poi uno spaccato della sua vita che fa capire lo spirito che lo anima, anche nel suo percorso nel carcere pistoiese. “Da cinque anni - spiega - vivo per scelta in un dormitorio a San Croce sull’Arno. Vivo le storie di emarginazione che arrivano. Aiutano a capire quale strada si debba seguire. Ho goduto finora di sostegni importanti ma non nego di ambire a uno sponsor che sostenga future iniziative di solidarietà analoghe a queste” rivela. Detenuti e poveri, viaggio nelle carceri alla ricerca di quella speranza perduta Il Riformista, 7 gennaio 2025 I volti della povertà in carcere, di Ruggiero e Pernaselci, è una meditazione religiosa sulla fiducia nel domani. La prefazione del cardinale Zuppi: “La sicurezza è data dalla rieducazione, diamo spazio alle pene alternative”. “Questo è un viaggio non “per” ma “con” i detenuti, con donne e uomini che si sono raccontati attraverso immagini e parole; una raccolta di storie, tra le più significative storie di povertà in carcere scolpite nel cuore e nella memoria”, scrive Rossana Ruggiero che - con Matteo Pernaselci - ha realizzato “I volti della povertà in carcere” (Edb), con la prefazione del cardinale Matteo Zuppi. Ora che finalmente la questione carceri è così fortemente posta all’attenzione dell’opinione pubblica e, speriamo, del mondo politico (l’apertura della Porta Santa a Rebibbia da parte di Papa Francesco e la menzione del problema nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica ne sono stati momenti essenziali), un libro come questo ha un’importanza particolare. È un viaggio nel disagio carcerario, un ascolto partecipato delle “voci di dentro”, è una meditazione religiosa sulla speranza. Dentro la questione carceraria, una vera e propria emergenza, esiste un nucleo duro rappresentato dalla tragedia della povertà. Qui, per capirci, si legge di un detenuto che preferisce il carcere alla condizione di miseria che inevitabilmente vivrebbe una volta “fuori”. Ma - a parte le meritorie associazioni di volontariato, per lo più cattolico - chi si occupa di questo aspetto? C’è la Chiesa, ma dov’è lo Stato? Perché il problema è proprio dello Stato. “Quando nei luoghi della sofferenza il processo della speranza si interrompe”, allora crolla il senso stesso della pena intesa come rieducazione. E il libro è una raccolta di esperienze in questo senso durissime, con racconti e pensieri che non cessano di essere monito per un paese civile, giacché - come scrive monsignor Zuppi - “un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno “italiano” perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene. Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che possono aiutare a cambiare, a guardare il futuro”. Non si tratta - precisa - di “concessioni “buoniste”. Si tratta di civiltà. Purtroppo ne siamo lontani. Ecco perché un libro come questo realizzato da Ruggiero e Pernaselci serve. E molto. Povertà educativa minorile, Finanziaria e fondi tagliati: è stata solo una “svista”? di Elisa Messina Corriere della Sera, 7 gennaio 2025 Il Governo non ha prorogato i contributi per gli “interventi sperimentali” per i minori svantaggiato. L’allarme dell’impresa sociale “Con i Bambini” e la lettera a Meloni e Giorgetti. Tra i tagli alla spesa pubblica previsti dalla legge Finanziaria approvata negli ultimi giorni del 2024 ce n’è uno che non ha mai occupato le prime pagine dei giornali o le notizie di apertura dei tg, e neppure è stato motivo di sciopero o mobilitazione di massa. Sto parlando del mancato rinnovo del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, che era stato introdotto nel 2016 dal governo Renzi per attuare “interventi sperimentali finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori”. Partendo dal punto fermo che povertà economica e povertà educativa si intrecciano e si autoalimentano e che quindi aiutare i minori svantaggiati significa incidere sul futuro del Paese, in questi 8 anni gli “interventi sperimentali” hanno messo fondamenta, sono cresciuti e sono diventati progetti strutturali anche grazie a un sistema che, per una volta, era ben congegnato. Perché si basa su un’alleanza tra fondazioni di origine bancaria, Terzo Settore e Governo e ha un valido sistema di rendicontazione. Ogni anno le Fondazioni alimentavano il Fondo con centinaia di milioni grazie allo Stato che metteva loro a disposizione 55 milioni di euro annui di credito d’imposta. Complessivamente, il Fondo è arrivato ad avere un valore di oltre 800 milioni di euro ed è stato - ed è ancora - operativo grazie all’impresa sociale “Con i bambini”. Ma per il 2025 il Governo, nel silenzio generale, non ha previsto nessuna proroga. “I progetti partiti sono coperti per fortuna, ma poi?” si chiede con sconcerto Fedele Salvatore, che in provincia di Napoli ha messo in piedi diversi progetti con il Fondo gestito da “Con i Bambini” tra cui quello della Rete “Respiro” dedicata agli “orfani speciali”, ovvero i figli delle vittime di femminicidio. Vittime due volte, di cui lo Stato si era dimenticato per anni. Ovviamente i progetti pensati e realizzati grazie al Fondo sono moltissimi e vanno in direzioni diverse se si pensa che in Italia circa 1,4 milioni di minori vivono in povertà assoluta e altri 2,2 milioni sono in povertà relativa. Attenzione, non stiamo parlando di “bonus” distribuiti a pioggia per comprare libri e concerti ma di interventi infrastrutturali che coinvolgono le comunità locali. Amministrazioni di tutti i colori politici oggi usufruiscono di questi progetti. Per questo, oggi molti operatori del Sociale sono sgomenti. Salvatore ha espresso il suo sconcerto in una lettera aperta alla presidente del Consiglio e al ministro dell’Economia. “Vi sarete confrontati su questa decisione così importante? Avrete soppesato le gravissime conseguenze di questa scelta? Con chi di noi, impegnati quotidianamente su questo “fronte”, ne avete parlato? O tutto è stato deciso asetticamente (e colpevolmente!) come uno dei tanti tagli-e-cuci alla ricerca degli equilibri di bilancio?”. Faccio mie le sue domande, i suoi dubbi e il suo appello. Con una speranza. Che dietro questo taglio - che fa più male di altri perché colpisce gli ultimi - ci sia solo una dimenticanza dovuta alla fretta di chiudere la Legge di Bilancio entro il 31 dicembre. Una svista. A cui si può ancora rimediare. Altrimenti significa che allo Stato, oggi, non interessa più coltivare quella cultura della solidarietà che vada oltre vecchie e superate pratiche di assistenzialismo. La sicurezza, una priorità (anche per la sinistra) di Walter Veltroni Corriere della Sera, 7 gennaio 2025 È un problema che riguarda tutti, ma in particolare chi ha di meno. Il rischio è dare ragione a chi identifica i dem con la Ztl. Sbaglia la sinistra a pensare che il problema della sicurezza dei cittadini non sia una priorità, non la riguardi. Che sia solo un’invenzione o una semplice percezione indotta da social, media, politica. E non sbaglia solo perché così lascia spazi enormi alla destra e a derive securitarie che possono essere pericolose per la stessa convivenza pacifica. Sbaglia perché tradisce una vetusta concezione delle dinamiche sociali e psicologiche di questo tempo. Le società occidentali invecchiano, quella italiana più di altre. Non si fanno bambini, le famiglie non sono più “quelle di una volta” e si invecchia spesso da soli, spesso senza figli. La percezione di ansia diffusa tra i più giovani, malattia sociale ignorata, si salda con la fragilità di una società sempre più con i capelli bianchi. La “colonna sociale” di cui parlava l’indimenticato Giorgio Ruffolo si è fatta ancora più sgranata, separando con maggiore distanza la testa dei pochi ricchi dalla coda dei molti poveri. Ma, di più, la colonna sociale si muove lenta, appesantita da due valigie pesanti, cariche una di ansia e l’altra di fragilità. La sicurezza è un problema che riguarda tutti, ma in particolare chi ha di meno. Non capire questo significa rischiare di dare ragione a quella semplificazione ingiusta che identifica la sinistra con la cosiddetta Ztl. È dove c’è meno luce, più degrado, ci sono meno scuole, uffici, teatri, negozi, cinema, che le persone sono più esposte. E la sicurezza riguarda anche gli anziani. Che hanno il privilegio di vivere molto di più del passato ma si trovano ad affrontare, dopo la pensione, un tempo lungo di vita spesso da soli e sempre dovendo fronteggiare una società che richiede conoscenza e uso di tecnologie che inevitabilmente gli sono ostiche. Se una donna sale su una metropolitana il suo diritto a non essere saccheggiata prevale su quello di chi le sfila dalla borsa il portafoglio con la pensione. È la legge, oltre che il buonsenso, a dirlo. Nessuno può dire di aver affrontato davvero questo tema con successo. In questi venticinque anni destra e sinistra si sono infatti equamente divise la responsabilità del ministero dell’Interno. La sicurezza dei cittadini non la si garantisce alterando le leggi o accettando la diffusione dell’autodifesa o, peggio, della diffusione delle armi. E neanche identificando propagandisticamente la violenza con l’immigrazione. I fatti di cronaca ce lo dimostrano. La maggioranza degli autori di femminicidi o i camorristi parlano la nostra lingua. Ma le leggi, quelle che ci sono, vanno fatte rispettare. Da tutti, senza distinzione di passaporto. E se qualcuno le viola, rubando, scippando, aggredendo una ragazza o un anziano, non deve, dopo pochi giorni, essere in grado di farlo di nuovo. Il discorso è complesso e questo, in una stagione di diffuso disturbo dell’attenzione, già affatica i più. Il tema della sicurezza chiama in causa molte cose: la condizione della giustizia, la inumana condizione carceraria, la lotta al traffico della droga e ai poteri criminali che la gestiscono, le difficoltà dei processi educativi, il governo dei flussi migratori e, in generale, il grande tema della giustizia sociale. Più una società è squilibrata e più tende alla violenza. Chi è consapevole della opportunità, non solo della necessità, di una società multietnica, deve saper garantire più di altri che accoglienza e responsabilità individuale vadano di pari passo, che chi arriva nel nostro Paese sia disponibile a rispettarne le leggi e a intraprendere processi di formazione e di integrazione a fronte dei quali abbia la garanzia della totalità dei diritti individuali. Lo ius soli serve proprio a questo. Affrontare questi temi, nella loro complessità e con una visione d’insieme, dovrebbe essere il compito della politica. E paradossalmente la sinistra dovrebbe essere la più attrezzata alla comprensione della natura di “sistema” che il tema della sicurezza porta con sé. Ma non ci si rifugi dietro il paravento di soluzioni delegate alla “futura umanità”. Il tema della sicurezza personale dei cittadini non è rinviabile con formule sociologiche. È qui, è oggi. Non è accettabile che in tutto il Paese proliferino zone, quartieri, strade off limits, sotto il controllo di organizzazioni di spacciatori, di camorristi, di bande di ragazzi senza identità e speranze. Se non si vuole che certe idee violente, razziste, autoritarie si diffondano ancora più velocemente, bisogna avere il coraggio di capire che la vita concreta dei cittadini di questo tempo è fatta di tre priorità. Tre, non due. Lavoro, sanità e sicurezza. Come reagire alle detenzioni arbitrarie di Filippo di Robilant Il Foglio, 7 gennaio 2025 Repressione interna o “hostage diplomacy”, una pratica nella quale il regime degli Ayatollah eccelle, ma non è il solo. Urge creare strumenti sovranazionali ai quali le vittime possano ricorrere. Il ruolo dell’Italia e dell’Europa. Il caso di Cecilia Sala ha riportato alla ribalta il dilemma di come affrontare le detenzioni arbitrarie, una deprecabile pratica nella quale il regime degli Ayatollah eccelle sia riguardo alla repressione interna sia nei rapporti con altri stati. Recenti cronache hanno riportato la vicenda del diplomatico svedese e funzionario europeo, Johan Floderus, arrestato nell’aprile del 2022 all’aeroporto di Teheran, accusato di spionaggio per conto d’israele e di essere colpevole di “Mofsed fel-arz”, cioè di diffondere la corruzione sulla Terra. Difficile difendersi con gli strumenti del diritto da un’accusa così vaporosa, per non dire inverosimile. Floderus è stato liberato nel giugno 2024 in uno scambio con Hamid Nouri, un agente iraniano detenuto in Svezia con l’accusa di crimini contro l’umanità in quanto responsabile di centinaia di esecuzioni di prigionieri politici negli anni 80. C’è poi il caso di Olivier Vandecasteele, un operatore umanitario belga, arrestato nel febbraio 2022 con l’accusa di spionaggio e condannato a 40 anni di prigione e 74 frustate, e liberato dopo 455 giorni di carcere duro nel maggio 2023 in uno scambio con Assadolah Assadi, un ex diplomatico iraniano condannato dalla giustizia belga nel 2021 a 20 anni di prigione per aver programmato, senza riuscire a portarlo a termine, un attentato contro l’opposizione iraniana in Francia. La mobilitazione e la copertura mediatica furono fondamentali, sia in Belgio sia in Francia, per spingere il governo belga a trovare una base giuridica per lo scambio, nonostante i dissidenti iraniani residenti nei due paesi fossero contrari (pour cause!), come rischia di esserlo la diaspora iraniana in America sul caso Sala. Alla fine ci vollero il varo di un trattato di mutuo trasferimento dei prigionieri da parte del Parlamento belga e, dopo alcuni ricorsi, il via libera della Corte costituzionale. Due classici casi di diplomazia - si fa per dire - degli ostaggi così come condotta, dal 1979 in poi, dalla Repubblica islamica dell’iran. La disparità tra i profili degli ostaggi e degli individui oggetto di scambio è deprimente ma attualmente non esiste uno strumento sovranazionale per gestire casi di persone arbitrariamente detenute per ragioni politiche o vittime incolpevoli di ritorsioni tra stati. La questione centrale che si pone è l’impunità degli stati rispetto a diritti fondamentali sanciti da convenzioni internazionali spesso da loro stessi sottoscritte. Nei regimi autoritari o illiberali, tra i metodi per intimidire attivisti e oppositori, c’è, appunto, l’abuso del sistema giudiziario. La persecuzione giudiziaria rappresenta una forma insidiosa di oppressione perché coopta l’autorità giudiziaria nel meccanismo repressivo dello stato: il potere giudiziario si asservisce all’autorità politica e diventa esso stesso strumento di repressione. Le incriminazioni possono variare da vaghe accuse di supposta interferenza con l’armonia sociale o l’ordine pubblico ad accuse di terrorismo, sovversione o crimini contro la sicurezza dello stato. I processi si svolgono solitamente a porte chiuse, per ragioni di “sicurezza nazionale”, e senza le opportune garanzie della difesa. In questi casi, la tortura e altre forme di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, sono all’ordine del giorno e gli “imputati” hanno la possibilità di ricorso solo appellandosi agli stessi giudici che hanno assecondato la procedura di cui sono vittime. In tale situazione, l’autorità giudiziaria cessa di svolgere il proprio ruolo in maniera indipendente e diventa il soggetto attuatore di procedimenti vessatori come la custodia cautelare prolungata, continui rinvii delle udienze, l’utilizzo di confessioni estorte, nuovi ed estemporanei capi d’imputazione e sentenze definitive spropositate. Urge, quindi, creare strumenti sovranazionali ai quali le vittime possano ricorrere. Le detenzioni arbitrarie - come la pena di morte, le mutilazioni genitali femminili o i matrimoni forzati - sono un fenomeno planetario che può solo essere affrontato a livello multilaterale. L’italia ha dato il proprio endorsement all’iniziativa canadese sulle detenzioni arbitrarie nelle relazioni tra stati (2021) ma senza eccessivo trasporto o volontà di dare seguito in qualche modo all’individuazione di uno strumento multilaterale che possa, soprattutto, agire da deterrente. Oggi, gli stati continuano ad aspettare che cada loro una tegola in testa per negoziare, spesso con scambi sotto banco o triangolazioni inconfessabili, alimentando quindi il fenomeno anziché arginarlo. E, se da una parte occorre fare i conti con i casi individuali della hostage diplomacy, dall’altra ci sono decine di migliaia di detenuti politici arbitrariamente imprigionati dai propri governi autoritari. Un vero e proprio flagello: dalla Russia alla Turchia, dall’Egitto alla Bielorussia, dalla Birmania alla Cina, fino alla Tunisia di Kais Saied con il quale l’unione europea, spinta da Meloni in persona, ha pensato bene di firmare un amichevole accordo di partenariato nel luglio 2023. L’Italia deve tornare a un ruolo virtuoso nelle organizzazioni internazionali, lavorando per l’affermazione di un ordine internazionale basato sulle regole e contrastando ogni tentativo di spostare l’equilibrio dei valori universali lontano dai principi della Carta delle Nazioni Unite. Effettivamente è molto chiedere a un governo come quello guidato da Meloni ma l’Italia e l’unione europea dovrebbero ambire a diventare la spina nel fianco dei regimi autoritari, non i loro fiancheggiatori. Bulgaria. “Arrestati e minacciati per aver salvato tre migranti” di Alberto Giulini Corriere della Sera, 7 gennaio 2025 Tre insegnanti torinesi in carcere per una notte in Bulgaria a Natale. Sono attivisti del Collettivo Rotte balcaniche, Su Facebook il racconto della disavventura alla vigilia di Natale, nella stazione di polizia di Malko Tarnovo. “Arrestati per aver salvato vite umane”. Si apre così il lungo post pubblicato su Facebook da Simone Zito. Insegnante torinese, è stato arrestato in Bulgaria insieme alle colleghe Lucia Randone e Virginia Speranza per aver soccorso tre migranti in difficoltà. I tre sono parte del Collettivo Rotte balcaniche, gruppo di attivisti che opera prima in Bosnia e Serbia e ora in Bulgaria. La richiesta di aiuto - “Approfittiamo delle vacanze natalizie, interrompiamo lavori e studio per venire in Bulgaria - racconta -. Dopo 40 ore di viaggio e 12 ore fermi in Croazia per via di un ingorgo epico, a poche ore dal nostro arrivo riceviamo una richiesta di soccorso. È il 24 dicembre pomeriggio. Tre ragazzi marocchini sono stremati nel bosco, uno è ormai semi-incosciente e in iniziale stato di ipotermia. Le temperature sono glaciali, si congela anche indossando vestiti tecnici e tute da sci. In 15 minuti prepariamo cibo, vestiti, acqua, tè caldo, mantelline termiche e borsa di primo soccorso. Usciamo da casa. Facciamo lunghi giri in strade sconnesse e a tratti pericolose. L’intento è evitare di essere fermati dalla polizia di confine che nella migliore delle ipotesi ci fermerebbe per ore facendoci perdere tempo prezioso o ci impedirebbe di recarci sul posto (questo accadrà due giorni dopo causando la morte di almeno tre adolescenti). I tre ragazzi non comunicano più con il cellulare. La batteria deve essersi esaurita. Arriviamo sul posto senza essere fermati né seguiti. È già un successo”. L’incontro - Quindi l’incontro con i migranti: “Troviamo rapidamente i tre ragazzi, uno è in condizioni gravi, gli altri due sembrano stare meglio. C’è il terrore nei loro occhi quando diciamo che per chiamare l’ambulanza e salvare il loro amico, arriverà sicuramente la polizia bulgara. Ci vuole molto tempo per rassicurarli che, grazie alla nostra presenza, non verranno picchiati, ma condotti in un centro di detenzione per due settimane e poi in un campo aperto dove sarà loro possibile chiedere asilo in Bulgaria. A seguito del nostro intervento, il ragazzo in situazione critica si stabilizza lentamente e inizia ad essere cosciente. 20 minuti dopo la nostra chiamata al 112, arriva la polizia di confine. Dopo aver urlato e intimidito i presenti, ci viene chiesto di andare verso la loro auto. Lì, aspettiamo per 3 ore sotto pioggia e neve: i tre ragazzi sono esausti e assiderati, faticano a camminare, scarpe e giacche sono zuppi d’acqua. Ci chiedono insistentemente di non lasciarli da soli con la polizia. Sono ancora molto spaventati. Chiediamo alla polizia di confine se almeno il ragazzo in condizioni più critiche possa ripararsi nella loro macchina. Non trema per il freddo, sembrano quasi convulsioni. Il poliziotto ci risponde sorridendo che non fa freddo e ci provoca dicendo che se ci teniamo possiamo dargli una delle giacche che stiamo indossando”. La richiesta dei passaporti - Quindi l’attenzione dei poliziotti viene rivolta anche ai tre insegnanti italiani: “Un agente cerca di intimidirci chiedendo i passaporti, che come sappiamo non sono necessari. Le carte d’identità verranno richieste più volte durante le successive 3 ore. Dopo una lunga attesa finalmente arriva un’ambulanza e fa un rapido controllo medico a tutti, ma se ne va presto vuota. Durante le 3 ore di attesa, il ragazzo più in difficoltà si lamenta ad alta voce e ripetutamente; contrae il volto in espressioni di dolore intenso: ha i piedi con piaghe e congelati, quindi glieli puliamo, disinfettiamo e mettiamo delle bende prima di indossare calzini asciutti. Due di noi per ore staranno fisicamente attorno, abbracciandolo cercando di non far scendere la sua temperatura. Le barrette energetiche vengono distribuite più volte. I telefoni dei tre ragazzi vengono presi dalla polizia di confine”. In arresto - Quindi la svolta: “Dopo lunghe ore di attesa, tensione e gelo un ufficiale della polizia ci dice che saremo arrestati e che dobbiamo consegnare i telefoni. Diciamo che glieli daremo solo quando saremo ufficialmente arrestati e riceveremo i documenti relativi. Per il momento possiamo continuare ad usarli. Per ultima arriva una terza auto della polizia di confine con un agente presentato come ‘il capo’. Ci comunica che saremo in stato di arresto per 24 ore. Perquisiscono a fondo la nostra auto senza trovare nulla di interessante. Due di noi vengono ammanettati. Condotti alla stazione di polizia di Malko Tarnovo veniamo reclusi in una stanza spoglia, molto sporca e con la finestra senza infissi e, quindi, impossibile da chiudere. Due di noi vengono interrogati, ma non ci viene rilasciato nessun verbale. Vogliono sapere chi ci dà le informazioni, se siamo una organizzazione e molte altre cose. Le condiscono con intimidazioni tipo “Qui in Bulgaria sappiamo come far tornare la memoria”, minacce di arresti per traffico illegale di migranti e provocazioni becere tipo “Voi aiutate? bene aiuta me, dammi cibo, dammi dell’acqua ora!” oppure “Voglio una macchina, perché non mi regalate una macchina?”. Ci chiedono di lasciare le impronte digitali e la foto segnaletica, ma ci rifiutiamo. Il fatto che non ci abbiano obbligato e che usciremo da quella caserma senza averle date, ci fa pensare che sia l’ennesimo abuso di un potere esecutivo sempre più indisciplinato alla legge (oltre che, neanche a dirlo, alla giustizia)”. In carcere - Il racconto si sposta dunque sulla difficile permanenza all’interno del carcere: “Cerchiamo di dormire per terra e su sedie puzzolenti. Quando chiediamo di andare in bagno ci portano in un sotterraneo. C’è un largo corridoio buio e spoglio con ai lati una decina di lastre di ferro chiuse con pesanti lucchetti. Capiamo solo dopo che, verosimilmente, sono i luoghi dove vengono reclusi i migranti. Le ‘porte’ ci colpiscono perché non hanno una maniglia, né uno spioncino, solo una lastra pesante di metallo leggermente convessa. Cerchiamo di allontanare il pensiero di quello che può accadere in quei luoghi quando non ci sono testimoni. Arrivati al fondo del corridoio il poliziotto fa un sorriso e ci indica una porta. Aperta, troviamo uno sgabuzzino mefitico con piscio e merda ovunque. Un secchio a lato del WC rotto che tracima di carta e fazzoletti sporchi pieni di feci. Quell’espressione sul volto del poliziotto stona proprio, è la seconda volta che sorridono facendo qualcosa di crudele. Tornando dal bagno siamo ‘felici’ di vedere i tre ragazzi marocchini spaventati, infreddoliti ma nella stessa stazione di polizia. Siamo ormai praticamente certi siano ‘salvi’. Che ristabiliti potranno fare della loro vita quello che vorranno e quello che stati-nazione e capitalismo gli permetteranno. Il sogno di uno di loro è arrivare a Torino a Porta Palazzo e lavorare con lo zio che fa il macellaio. Anche in uno stato di semi incoscienza, nella foresta, gli si illuminava il volto quando ci mimava le corna delle mucche e ne imitava il verso”. Il rilascio - Quindi la libertà, dopo una notte in cella: “Al mattino veniamo liberati, ci chiedono di firmare dei fogli in bulgaro ma ci rifiutiamo. Siamo abbastanza sicuri di aver salvato stanotte tre persone e di aver dovuto fare un po’ di galera per questo. Oggi, in Europa, va così. Siamo sereni”. La diplomazia vale più delle armi: la lezione che arriva dal Sahel di Laura Berlingozzi e Marta Cavallaro Il Domani, 7 gennaio 2025 Bisogna chiedersi cosa ne sarebbe oggi delle insorgenze jihadiste africane se alle prospettive di dialogo fosse stata data più fiducia. E cosa ne sarà domani di Hezbollah e di Hamas, del Medio Oriente nel complesso, se la violenza bruta rimarrà il canale esclusivo. Mai come oggi è evidente l’affanno delle diplomazie nell’affrontare crisi regionali che sono solcate da guerre sanguinose: conflitti armati che continuano ad alimentarsi, approfondirsi ed espandersi. In questo contesto di escalation che pare generalizzata, emerge una riflessione sempre più urgente: a nessuna latitudine la retorica della vittoria e le risposte militari stanno portando alla pace, mentre i combattimenti preparano il terreno per nuove ondate di radicalizzazione ed estremismo. Ovunque si guardi, l’impiego massiccio della forza, anche quando sostenuto dall’innovazione tecnologica, non ha fermato la violenza. In Africa occidentale a settembre è stato sferrato un duro attacco armato nella capitale del Mali, Bamako. Era dal 2015 che non accadeva: sono stati assaltati l’aeroporto internazionale Modibo Keita e una scuola della gendarmeria non lontana dalla capitale. Il gruppo jihadista Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimin (Jnim) appartenente alla galassia qaedista ha rivendicato l’attacco che, secondo l’organizzazione, ha provocato almeno 77 morti e oltre 255 feriti. I limiti dell’approccio militare - L’attacco è stato una dimostrazione di forza del gruppo insorgente che, così come lo Stato islamico nel Sahel, controlla un ampio territorio in Mali, Niger e Burkina Faso. Da più di un decennio, gli sforzi locali e internazionali per rispondere alla sfida jihadista nel Sahel sono stati di carattere puramente militaristico e coercitivo, con un successo a dir poco limitato. Infatti, le operazioni di controterrorismo sponsorizzate da Francia, Unione Europea e Stati Uniti, non hanno contenuto l’espansione jihadista, generando forte frustrazione da parte dei militari locali. Anzi, hanno ottenuto l’effetto opposto: generando simpatia per la Russia, che ha trovato spazio per inviare proprie truppe mercenarie (Wagner, poi diventata Africa Corps) al fianco delle giunte militari instauratesi nella regione saheliana fra il 2020 e il 2023. In Mali e in Niger le risposte militari all’insorgenza jihadista hanno alimentato sentimenti di vendetta e risentimento verso quello stesso stato le cui forze armate hanno colpito indiscriminatamente civili. In Burkina Faso, le milizie governative hanno preso di mira specifici gruppi etnici, come i Peul, accusati di sostenere i jihadisti, intensificando conflitti che hanno spinto i membri delle comunità a unirsi ai gruppi armati per protezione o vendetta. Le operazioni militari hanno portato anche alla distruzione di infrastrutture aggravando la crisi umanitaria e rendendo alcune aree più vulnerabili al reclutamento da parte di gruppi jihadisti, che sfruttano la mancanza di servizi e sostegno da parte dello Stato per guadagnare consenso locale. La percezione di sottostare ad un’occupazione straniera o ad operazioni militari sponsorizzate da attori esterni ha legittimato la narrazione jihadista secondo cui l’insurrezione è una forma di resistenza contro invasori stranieri e governi collaborazionisti. In questo contesto, i russi sono stati salutati come genuinamente interessati a riportare l’ordine, e prevedibilmente hanno perseguito a loro volta un’agenda di controinsorgenza che, dopo qualche sporadico successo tattico, ha finito per esacerbare ulteriormente le tensioni e aumentare la violenza nei confronti della popolazione civile, come testimoniato da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch. Le dinamiche del conflitto con formazioni jihadiste nel Sahel hanno una rilevanza che va al di là della regione africana. Quanto di quello che succederà in Medio Oriente è già stato scritto? Se il controterrorismo storicamente tende a creare più terroristi di quanti ne elimina, possiamo aspettarci delle recrudescenze. Sono 1.700 i combattenti o simpatizzanti di Hezbollah evirati o amputati. Più di 95mila i feriti tra Gaza e Cisgiordania, che hanno perso un braccio, una gamba, ma soprattutto qualche parente, amici, affetti. Che tipo di risentimento potranno nutrire dopo anni di guerra percepita come ingiusta, asimmetrica e totale? Una scelta pragmatica - In un contesto come questo, aprire al dialogo allora potrebbe essere non solo una scelta umanitaria ma anche quella più pragmatica. E infatti, nonostante il mantra pubblico sia sempre stato quello del “coi jihadisti non si dialoga” e “al terrorismo non si concede niente”, molto spesso con i jihadisti si è dialogato e al terrorismo è stato concesso, anche se all’ombra, anche se lontano dai riflettori pubblici. Negli ultimi dieci anni, vari tentativi di dialogo con i gruppi jihadisti sono stati portati avanti, riducendosi poi di intensità dopo l’ascesa delle giunte militari. Nel Sahel centrale, i tentativi di dialogo con i gruppi jihadisti affondano le radici nel 2012, quando il Mali ha esplorato più vie di negoziazione con Ansar al-Din, capeggiato da Iyad ag Ghali, ora leader di Jnim. Tra gli sforzi più significativi, quelli dell’imam salafita Mahmoud Dicko, che viaggiò nel nord del Mali, e l’iniziativa di Blaise Campaoré, allora presidente del Burkina Faso, che riuscì a incontrare personalmente ag Ghali. Nel frattempo, l’Algeria ospitò una delegazione di Ansar al-Din, culminando negli Accordi di Algeri del 2015, che misero fine alla ribellione tuareg nel nord del paese. Nonostante nessun cessate il fuoco definitivo, questi tentativi di dialogo divisero il movimento jihadista e portarono al recupero di alcuni dei suoi membri moderati. Il 2020 ha visto nuovi sviluppi: colloqui tra il gruppo jihadista Katiba Macina e milizie locali hanno portato a un accordo di pace, mentre discussioni con l’esercito maliano hanno facilitato uno scambio di ostaggi. Anche il Burkina Faso ha ammorbidito la sua posizione sul dialogo con i jihadisti nel 2022, sebbene non si sia mai giunti a un negoziato formale ma, nel breve termine, i funzionari aprono linee di comunicazione dirette con gli insorti e ottengono un cessate il fuoco temporaneo in vista delle elezioni presidenziali di quell’anno. In Niger, lo stesso anno, l’ex presidente Mohamed Bazoum ha liberato prigionieri e inviato emissari nelle zone più colpite, una mano tesa per indicare la disponibilità e l’apertura al dialogo del suo governo. Impossibile poi non citare “modello mauritano”: tra il 2009 e il 2011, la Mauritania ha avviato un processo di dialogo religioso con i jihadisti nelle carceri per comprendere le ragioni alla base della radicalizzazione e reintegrare i detenuti nella società, che si è rivelato fondamentale per arginare la minaccia terroristica nel paese. E si potrebbe poi andare avanti, al di là dei confini dell’Africa occidentale, e citare la recente apertura del governo somalo ad avviare un dialogo con al-Shabaab, mediato dal Qatar, secondo un modello simile a quello che ha ispirato i negoziati con i Talebani in Afghanistan. O si potrebbe tornare indietro nel tempo, e citare il dialogo che nel 1997 contribuisce a porre fine alla guerra civile in Algeria e che, pur non includendo attori chiave come il Gruppo Islamico Armato o il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, permette di “recuperare” un alto numero di ex-combattenti, contribuendo così alla pace. Un’alternativa da cercare - Ci potremmo allora chiedere cosa ne sarebbe oggi delle insorgenze jihadiste nel Sahel se alle prospettive di dialogo fosse stata data più fiducia. E ci potremmo anche chiedere cosa ne sarà domani di Hezbollah e di Hamas, del Medio Oriente nel complesso, se la violenza bruta rimarrà il canale esclusivo di engagement con il terrorismo. È evidente come nel contesto delle recrudescenze violente sia in Medio Oriente che nel Sahel, gli approcci militari non abbiano portato a soluzioni durature, alimentando spesso nuove ondate di radicalizzazione e risentimento. Il dialogo, per quanto complesso e spesso ostacolato, potrebbe rappresentare un’alternativa indispensabile per delineare percorsi di stabilità. Riconoscere il valore e la possibilità di un ingaggio che vada al di là della violenza, anche con attori considerati spesso irrecuperabili, potrebbe essere non solo una scelta più etica, ma anche una chiave più pragmatica per uscire dall’impasse di una serie conflitti che, per ora, rimangono irrisolti.