Abolire il carcere? Proposta provocatoria, come fu all’epoca chiudere i manicomi di Rosamaria Fumarola Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2025 Il giustizialismo sembra andare di moda e, anche se certe parti politiche da sempre sono forcaiole, non v’è dubbio che vi siano stati periodi nei quali esserlo non era cosa della quale farsi vanto: la stagione che ha portato alla chiusura dei manicomi e alle battaglie per i diritti civili degli anni 70, appartiene a quest’ultimo novero. Oggi assistiamo in Italia invece all’affermarsi di una tendenza che va in direzione diametralmente opposta: i cittadini invocano infatti quasi sempre il ricorso a pene più severe ed il carcere duro, ma la verità è che non sanno cosa sia quella prigione che esigono per gli altri. Fino a non molti anni prima della sua morte, il leader dei Radicali Marco Pannella ha fatto visite periodiche nelle carceri italiane. Alcuni dei filmati riguardanti quelle ispezioni (che parevano più incursioni), sono stati anche se di rado trasmessi dalle reti televisive nazionali. La visione di uno di questi, risalente forse agli anni 90, lasciò su di me un’impressione da cui faccio ancora oggi fatica a liberarmi. Ero a conoscenza del fatto che l’Italia fosse stata condannata a più riprese da vari organismi europei ed internazionali per le condizioni disumane riservate ai detenuti nei nostri istituti di pena, sempre sovraffollati e fatiscenti, ma quanto poteva vedersi in quelle registrazioni andava ben oltre ogni immaginazione. Non riuscivo a comprendere la ragione per la quale, mentre tutto pareva intorno a me destinato a migliorare per un progresso inarrestabile, ciò non riguardasse nemmeno in minima parte la condizione dei detenuti delle nostre galere. Le visite all’epoca di parlamentari come Pannella erano necessarie proprio perché per un cittadino qualunque non era e non è nemmeno oggi cosa semplice farsi un’idea concreta della vita carceraria, la cui componente fondamentale rimane la sottrazione di qualunque forma di dignità a chi vi entri da detenuto. Un girone dantesco in buona sostanza, il cui solo scopo raggiunto, ad onta di ogni garanzia costituzionale è la disumanizzazione e la riduzione alla condizione di schiavi privi di qualunque diritto, quanti vengano giudicati responsabili di aver violato la legge. Ne è prova il numero altissimo di suicidi a cui persino Mattarella ha fatto riferimento nel suo discorso di fine anno. Ciò cozza con il fine riabilitativo che invece le nostre leggi perseguono, anzi la sensazione che se ne ha è che non vi sia niente di più lontano dalle garanzie costituzionali della condizione dei detenuti nelle carceri italiane, vera terra di nessuno in cui a prevalere pare sia solo la legge del più forte. Ma “cui prodest?” la tortura inflitta ad esseri umani colpevoli di aver violato le norme del nostro ordinamento? Peraltro il sovraffollamento carcerario italiano non è dovuto all’alto numero di criminali incalliti che paiono nati per delinquere (ammesso che ve ne esistano), no. Nelle celle delle galere di questo paese sono rinchiusi soprattutto coloro i quali già fuori non godevano delle tutele che uno stato civile dovrebbe assicurare: extracomunitari, tossicodipendenti diventati piccoli spacciatori e soprattutto (lo dicono i numeri e non soggettive valutazioni di carattere morale) i poveri. Ma se sono soprattutto gli indigenti a finire in carcere, non sarebbe più opportuno intervenire affinché il loro numero fosse ridotto attraverso il ricorso a strumenti diversi dal carcere? La segregazione è peraltro fuorviante, poiché induce nell’erronea convinzione che chi delinque sia irrimediabilmente diverso da chi rispetta le leggi, senza che ci si ponga alcuna domanda sulle ragioni che stanno alla base della maggior parte delle violazioni. Giuristi come Gustavo Zagrebelsky ritengono che sia oggi giusto considerare obsoleto lo strumento della detenzione in carcere e dello stesso avviso sono l’ex magistrato Gherardo Colombo e il sociologo Luigi Manconi. La proposta di fare a meno di questo strumento può apparire provocatoria, ma non lo fu un tempo anche quella di abolire i manicomi? Carceri sovraffollate? Fate uscire chi è in attesa di giudizio di Marco Perduca nicolaporro.it, 6 gennaio 2025 Un terzo dei detenuti non ha sentenza definitiva, in virtù della presunzione d’innocenza non dovrebbero essere in carcere. Per la stragrande maggioranza dei politici che fanno finta di interessarsi delle carceri, specie sotto le feste, il lavoro sarebbe la chiave di volta. Il lavoro in carcere non rende forse liberi, come quando c’era quell’altro, ma sicuramente occupa il tempo, fa arrivare qualche euro e prepara al futuro. Queste banalità sono offerte da parlamentari in carica e/o altre figuri apicali della Repubblica italiana, tipo il presidente del Cnel e sono figlie della totale mancanza di pensiero liberale nel nostro paese: il lavoro viene prima di qualsiasi altra cosa, prima della salute e della libertà. Se in Italia il diritto alla salute nelle carceri fosse garantito molto probabilmente nel 2024 non avremmo registrato 89 suicidi nelle patrie galere - e tante altre nefandezze che ogni tanto emergono pubblicamente o che vengono raccontate a microfoni spenti. Questo insistere sul lavoro in carcere come una delle possibili soluzioni cancella totalmente il problema dei problemi dell’amministrazione della giustizia (non solo in Italia naturalmente), in un mondo sempre meno violento, escludendo le zone di conflitto, dove anche in democrazia notoriamente più violente come gli Usa diminuiscono costantemente omicidi, e rapine, la stragrande maggioranza dell’attività legislativa si concentra sull’ampliamento delle maglie del diritto penale e sull’inasprimento delle pene. Delitti e pene che, proprio perché di condotte criminali ce ne sono sempre meno, si concentrano su azioni che non causano vittime, tipo ballare in un bosco o fumare dell’erba (forse) psicoattiva, ricorrere alla maternità surrogata all’estero, fare ricerca su una blastociste prodotta in Italia o piantare un organismo geneticamente modificato. Questi giuslavoristi, con rispetto parlando, dovrebbero prima interrogarsi sul perché ci sono troppe persone in carcere e poi correre ai ripari. Va ripetuto fino alla nausea: un terzo dei detenuti non ha sentenza definitiva, in virtù della presunzione d’innocenza non dovrebbe quindi essere in carcere, certo si possono essere dei casi in cui le persone possono scappare, cancellare le prove o ripetere il reato, ma quante mai potranno essere tra quei 18mila? Basterebbe mandare ai domiciliari questi per tornare alla cosiddetta capienza regolamentare delle nostre carceri. Va anche ricordato che un altro terzo (ma non è detto che non si tratti delle stesse persone) è in carcere per violazioni del testo unico sulle droghe incrociato con altre condotte criminali a esso connesse. Poi ci sono persone in carcere da una vita, pena non prevista dal nostro ordinamento per come comminata. Se tutto questo non si verificasse - tralascio le frescacce sull’invio alle comunità per “tossicodipendenti” (una terminologia da anni 90) utili solo a giustificare la diversione di buona parte dei fondi dell’8×1000 agli amici degli amici, molto spesso preti di destra - e se si applicassero sistematicamente le cosiddette pene alternative, delle attuali 62mila ce ne resterebbero si e no 40mila. Siccome non accade, e siccome né destra né sinistra hanno in loro un’oncia di liberalismo (anche se si contendono quella cagata di appellativo noto alla stampa come “garantismo”) quindi, per quanto vadano in chiesa la domenica non staranno dietro alla clemenza invocata dal Papa niente accadrà. Io confido che alla fine qualcuno che si assumerà le sue responsabilità, ma non al governo o in parlamento, lo si troverà e allora riderò. “Carcere, l’affettività è un diritto” di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 6 gennaio 2025 La cassazione contro la Sorveglianza, annullato il “no” al detenuto per l’incontro intimo con la moglie. “Tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari”. L’Osservatorio carcere della Camera penale: “Ora però gli istituti penitenziari devono adeguarsi”. È un diritto e non “una mera aspettativa”, da parte del detenuto, “la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità”: riprendendo la motivazione della storica sentenza della corte Costituzionale del 26 gennaio 2024 (numero 19), la prima sezione penale della Cassazione ha ribadito che “tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari”, e possono essere negati solo per “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato. Ed è per questo che la Cassazione - con sentenza numero 8, depositata il 2 gennaio - ha stabilito che il reclamo proposto da un detenuto trentaquattrenne del carcere di Asti non doveva essere dichiarato inammissibile dall’ufficio di Sorveglianza di Torino, ma valutato, a fronte di un presunto illegittimo diniego da parte dell’istituto di pena: che aveva rifiutato la richiesta dell’uomo, poiché “la struttura non lo consente”. Morale: annullamento con rinvio dell’ordinanza della Sorveglianza, accogliendo così il ricorso dell’avvocato Davide Gatti. Va da sé, le ragioni del diritto - e di un diritto - rischiano di scontrarsi con la situazione (disastrosa) delle carceri italiane: tant’è che, dopo la decisione della Consulta, il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, aveva proprio chiesto l’attenzione dell’amministrazione penitenziaria, “auspicando un pronto adeguamento della stessa ai dettami costituzionali”. “L’amministrazione penitenziaria si deve attrezzare - ragiona l’avvocata Emilia Rossi, responsabile dell’Osservatorio carcere della Camera penale “Vittorio Chiusano” - se un diritto, in uno Stato di diritto, non viene rispettato per difficoltà organizzative e materiali da parte delle autorità amministrative, prendiamo una brutta china”. E ancora: “È chiaro che gli istituti di pena hanno un’attenuante, che sono le condizioni di degrado e di sovraffollamento che determinano la compressione di tutti i diritti, ma soluzioni intermedie si possono e si devono trovare”. Resta il fatto che, già in precedenza, l’ufficio di Sorveglianza aveva dichiarato inammissibile un reclamo a fronte del diniego di poter avere colloqui in condizioni di intimità. E adesso? “La strada per ottenere risultati è l’affermazione del diritto da parte della magistratura - chiude Rossi - questa sentenza della Cassazione è fondativa”. Davanti a decisioni della Sorveglianza che, di fatto, sterilizzano la decisione della corte Costituzionale, lasciandola sulla carta. Modena. Un altro morto suicida nel carcere di Sant’Anna di Giovanni Balugani Gazzetta di Modena, 6 gennaio 2025 È un giovane marocchino di 29 anni. Il 31 dicembre un altro detenuto si era tolto la vita, e ora la Camera Penale lancia l’allarme. Un’altra vittima di suicidio al carcere Sant’Anna. È un giovane di origini marocchine nemmeno trentenne. A dicembre aveva tentato il suicidio ferendosi in modo gravissimo, finendo in terapia intensiva a Baggiovara. E qui sabato sera si è costatato il decesso. È il secondo morto in pochissimi giorni al Sant’Anna, dove il 31 dicembre è stato trovato privo di vita un 37enne macedone in seguito a inalazione di gas nella sua cella. Una situazione sempre più drammatica, a Modena come in altre carceri del Paese, sulla quale è intervenuto il Consiglio Direttivo della Camera Penale Carl’Alberto Perroux di Modena: “Si tratta di un episodio che lascia sgomenti, non solo perché è accaduto a distanza di poche ore dalla morte di un altro detenuto (la cui vita si è spenta agli albori del nuovo anno presso la casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna), ma anche in considerazione del fatto che il tragico evento si pone lungo una scia di suicidi (91 per quanto concerne il 2024), che appare inarrestabile. La notizia giunge peraltro a pochi giorni dall’annuncio di un altro decesso avvenuto presso la casa circondariale”. Continuano gli avvocati: “È di tutta evidenza che ci si trovi di fronte ad una emergenza sociale che, ad oggi, costituisce una emorragia sistematica che non è stata tamponata neppure in minima parte, ancorché un intervento strutturale, che sia volto ad arginare concretamente la crisi che da tempo affligge il sistema carcerario nazionale, non sia più rinviabile. Le recenti parole pronunciate dal Presidente della Repubblica, sulla necessità di trattare con dignità ed umanità i detenuti tutti, oltre che il gesto simbolico compiuto dal Pontefice di apertura della Porta Santa presso il carcere di Rebibbia, devono cogliere nel segno e non rimanere unicamente nell’etere”. “Occorre, ora più che mai, che siano adottate ed attuate scelte risolutive che pongano freno alla catena di decessi intramurari che continuano inesorabilmente ad essere registrati e che, contestualmente, mirino a reperire le risorse umane ed economiche, necessarie per alimentare efficacemente e per favorire il ricorso a misure alternative alla detenzione”, chiosa la Camera Penale. Firenze. Emergenza Sollicciano: è una tomba per i vivi. Unica soluzione chiuderlo di Enzo Brogi* La Nazione, 6 gennaio 2025 Suicidi a ripetizione. I tentativi di risanamento sono stati un fallimento. Scandaloso che accada in Toscana, da sempre all’avanguardia nei diritti civili- Nel carcere di Sollicciano il nuovo anno è iniziato nel peggiore dei modi. Giovedì pomeriggio un detenuto di origini egiziane si è suicidato nella sua cella. Nel 2024 invece sono stati 64 i tentati suicidi nel carcere fiorentino, e due i detenuti che si sono tolti la vita. Sempre l’anno scorso, il penitenziario è stato teatro di una rivolta dove due sezioni sono state date alle fiamme. Sul fronte giudiziario: alcuni mesi fa sono stati presentati cento ricorsi contro il carcere inumano da altrettante persone che stanno scontando una pena definitiva nella casa circondariale. Ricorsi dall’esito pressoché scontato, in virtù di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a cui si appellano i ricorrenti, che fissa i paletti della dignità ambientale dietro le sbarre. Quella che a Sollicciano è stata smarrita. Per Sollicciano, inoltre, con la direttrice Antonella Tuoni assente per malattia, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha nominato due nuovi vicedirettori che dovrebbero entrare in servizio nei prossimi giorni. Si tratta di Valentina Angioletti e Valeria Vitrani. Neppure una settimana è trascorsa dall’inizio del nuovo anno e già si conta il primo suicidio nel carcere di Sollicciano. Un ragazzo di 25 anni, con neppure due anni di pena residua, ha deciso di togliersi la vita. Era fragile e aveva già tentato il suicidio in passato. Subito dopo capodanno ce l’ha fatta, e come lui un altro giovane la vigilia di Natale. Stesse celle degradate, lo stesso ambiente indecoroso, lo stesso dramma umano. In qui lugubri e scalcinati corridoi del carcere fiorentino, risuonano tragicamente vuote le parole di papa Francesco che, solo pochi giorni fa, aprendo il Giubileo, aveva voluto spalancare simbolicamente una porta nel carcere di Rebibbia, richiamando l’attenzione sul rispetto della dignità umana, anche per chi ha sbagliato, perché quella negata ai colpevoli diventa inevitabilmente dignità negata a tutti. Eppure, nelle nostre carceri, tra le peggiori d’Europa per condizioni di disumanità, sovraffollamento e carenze igienico-sanitarie, quella dignità sembra essere sistematicamente calpestata. L’Italia è stata più volte sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e inserita dal Consiglio d’Europa tra i Paesi con le prigioni meno vivibili. Quasi 100 suicidi si sono verificati lo scorso anno: una cifra che conferma come il carcere, così com’è oggi, non sia un luogo di rieducazione, ma un amplificatore di Quello di Sollicciano, a Firenze, rappresenta uno degli esempi più desolanti di abiezione architettonica e gestionale. La struttura, con ampi spazi inutilizzabili e luoghi di vita compressi e angusti, sembra progettata per mortificare il recluso e allontanarlo da ogni possibilità di rieducazione. A queste scelte strutturali si aggiungono anni di degrado e abbandono: molte celle umide e gelide d’inverno, torride d’estate, servizi igienici che funzionano a intermittenza, acqua calda spesso assente, e una fauna indesiderata di zecche e scarafaggi a infestare materassi e cuscini. Si tratta di un luogo che sembra non poter essere ristrutturato: ogni tentativo di risanamento si è rivelato un inutile spreco di risorse pubbliche. La sua chiusura parrebbe l’unica soluzione sensata. Le carceri dovrebbero essere spazi dedicati alla rieducazione, non tombe per i vivi. Eppure, Sollicciano - come molte altre strutture italiane - ospita persone in condizioni inaccettabili: detenuti in attesa di giudizio, tossicodipendenti che necessiterebbero di percorsi di recupero in comunità, stranieri che potrebbero essere trasferiti nei Paesi di origine. A questo si aggiungono una scarsissima presenza di personale sanitario e di custodia, la quasi totale assenza di supporto psicologico e psichiatrico, difficoltà nelle comunicazioni con i familiari e una cronica carenza di attività educative, scolastiche e lavorative. Ore e ore trascorse in una cella di 14 metri quadrati, in condivisione con altre tre o quattro persone di età, cultura, lingua, reati e religione diverse, senza nulla da fare, non sono una punizione costruttiva: sono un moltiplicatore di rabbia, rancore e disperazione. Il carcere non dovrebbe ammalare o uccidere, ma restituire alla società persone sane, corrette e rieducate. È scandaloso che questa situazione si verifichi anche in Toscana, una regione da sempre all’avanguardia nei diritti civili, che per prima abolì la pena di morte e la tortura, e che ogni anno celebra il proprio primato illuminato. Si onori la nostra Costituzione, anche l’articolo 27, che prevede che le pene debbano essere umane e volte alla rieducazione. La reintegrazione sociale non è un favore concesso al detenuto, ma una responsabilità collettiva che rafforza la comunità intera, riduce la recidiva e i costi sociali ed economici legati alla criminalità, contribuisce a rendere una società più sicura e coesa. Non c’è più tempo per Sollicciano: le Istituzioni devono agire con urgenza. Il Consiglio Regionale e il Comune di Firenze dovrebbero convocare sedute straordinarie per affrontare questa emergenza e incalzare il Governo affinché intervenga. E, nonostante tutto questo drammatico paradosso, è ancora in bella mostra, all’ingresso della prigione, la targa ‘Nuovo complesso penitenziario’. Già, che così com’è non fa rima né con giusto né con giustizia. *Attivista per i diritti, già Consigliere regionale Taranto. Il carcere è sovraffollato: le detenute chiedono dignità di Vittorio Ricapito L’Edicola del Sud, 6 gennaio 2025 La situazione all’interno del penitenziario tarantino è diventata ancora più insostenibile, anche per le detenute della sezione femminile, che ieri hanno ricevuto la visita di una delegazione del Movimento cinque stelle, guidata dal senatore e vice presidente del movimento, Mario Turco. “Chi sta scontando una pena si ritrova a sopravvivere in condizioni disumane, in una condizione d’emergenza che si è cronicizzata in modo alquanto preoccupante”, dice Turco. “Se è vero che “chi sbaglia paga”, è anche vero che la pena deve essere scontata in maniera dignitosa e puntare alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo. Invero, i detenuti vivono quotidianamente uno stato di marginalità sociale, che ha condotto l’anno appena trascorso a segnare un record nero di suicidi nelle carceri italiane e che, purtroppo, ha coinvolto anche il personale penitenziario, costretto a lavorare in ambienti insicuri e indecenti. La delegazione ha incontrato il direttore Luciano Mellone, il dirigente di polizia penitenziaria Bellisario Semeraro e donato alcuni regali destinati ai bambini delle detenute. Le critiche al governo - Per Turco “il governo è completamente assente: il decreto Carceri non risolve il sovraffollamento e non inverte la rotta del sottodimensionamento del personale di polizia penitenziaria, amministrativo e sanitario. Il caso Taranto - Quello del “Magli”, per il M5s è una vera e propria emergenza nazionale: nella casa circondariale ionica è detenuto il doppio della capienza, circa 950 persone, con una carenza del personale del 30% circa rispetto all’organigramma previsto in condizioni di normalità. A ciò si aggiungono le numerose lacune in tema infrastrutturale. “Puntiamo sul “dopo” - dice Turco - poiché dai colloqui con le detenute è emersa l’enorme difficoltà di affrontare la libertà al termine della pena, nell’ottica del reinserimento nella società civile anche attraverso precorsi di formazione e lavoro. L’emergenza più grande riguarda i figli delle recluse, che pagano lo scotto di un mancato reinserimento sociale anche sulla propria pelle”. Firenze. A Casa Caciolle l’accoglienza degli ex detenuti diventa inclusione di Francesco Martinelli perunaltracitta.org, 6 gennaio 2025 Intervista a Vincenzo Russo, cappellano del “carcere fuori”. La vita mi ha condotto lì. Mi è stato chiesto come servizio da rendere nella comunità Cristiana, e ho accettato. Non avevo dubbi che questa sarebbe stata per me una scelta fondamentale, decisiva. Non ho esitato un momento nel dire sì, poiché sapevo che questa esperienza sarebbe stata per me l’opportunità più grande per comprendere realmente la vita e le persone. È nel carcere che si entra in relazione con la dimensione più profonda della vita umana, con le ferite e le luci che caratterizzano l’esperienza umana. Ciò che non va e occorre cambiare è proprio nel carcere che si rivela. Dove c’è un carcere c’è una società che non funziona, c’è un’umanità che si è persa e che ha smarrito la capacità di costruirsi e di aprirsi al futuro, finendo per privilegiare ciò che cancella la relazione, la comunità. Prima di Sollicciano c’è stato l’OPG di Montelupo. Sin da lì ho avuto chiara la percezione che l’incontro con l’umanità più vera potevo averlo solo in quel contesto, dove ogni velo cadeva. Cosa hai condiviso con i detenuti? Con i detenuti ho condiviso la vita. Non i singoli e ricercati momenti, quasi creati apposta e finalizzati allo svolgimento formale del ruolo di cappellano (catechesi, liturgia, colloquio). Ho condiviso tutto, cioè la loro vita, investendo in ciò me stesso interamente. In altre parole: ho preso parte attiva alla loro vita e loro alla mia. Sia quella presente, che quella passata, che quella ancora da costruire. È stata evidenza di ciò il fatto che quasi da subito ho iniziato concretamente ad accogliere i detenuti presso di me, ospitandoli, dando loro la possibilità di un’alternativa al carcere. Ho aperto le porte di casa. È solo così, ero e sono convinto, vivendo gomito a gomito, quotidianamente, che si costruisce una vera relazione, che si può davvero entrare nella conoscenza della persona. I detenuti non sono numeri e fascicoli, così come sono trattati dal nostro sistema. Sono persone che attendono di essere conosciute, che vogliono raccontare e raccontarsi, che hanno bisogno di ascolto e accoglienza, di una nuova possibilità. Solo la condivisione piena e vera di ogni aspetto della loro vita, solo entrando in contatto con i loro vissuti, le loro storie ed esperienze, si può davvero fare qualcosa per loro e consentire quel percorso che dovrebbe condurli ad una vita fuori realmente nuova e libera. Questo ci chiede di fare la Costituzione, ci impone di fare la nostra coscienza ed umanità. Cosa chiedono i detenuti ad una figura come la tua? In poche parole chiedono di USCIRE. Non subito e solo nel senso materiale, cosa che dipende da molti altri fattori esterni in cui non sempre potevo incidere. Certamente, anche uscire dalla cella, luogo nel quale vivono totalmente tutti i disagi legati ai trattamenti inumani che sono costretti a subire per le mancanze ed ingiustizie che caratterizzano le nostri carceri, ed eminentemente, Sollicciano. Ed in questo, come detto, mi adoperavo e faccio tuttora con le accoglienze! Ma la prima uscita cui mi riferisco è quella da un domani non realizzabile, da un sentirsi condannati per sempre allo stato di disperazione e abbandono che si vive in carcere. Uscire, cioè, dalla loro condizione di isolamento, di disperazione, di sfiducia in sé e negli altri, di inconsapevolezza, dal loro non poter far nulla per confidare in un domani possibile. Essere cappellano a poco serve se, oltre ad offrire momenti ed attività fuori dalla cella, non si costruisce una relazione vera, la quale può davvero farli uscire, e non solo per un’ora, da una condizione di chiusura totale al futuro e aprirli alla prospettiva della speranza. Questa relazione si è costruita nel tempo, sempre più, e cresceva con il mio occuparsi di loro, delle loro problematiche concrete, nel dar voce alla loro denuncia. Fare con loro, denunciare con loro ciò che non andava…in una parola essere vera presenza accanto a loro. Ero il cappellano? Sì, in parte, ma prima di tutto ero “uno con loro, uno insieme a loro”. Questo ho voluto essere e questo era ciò che loro chiedevano che fossi. Hai esperienze o aneddoti? Faccio fatica a riferirmi ad un singolo fatto o ad una singola esperienza. Direi che la dimensione della condivisione e della relazione nella quale mi sono immerso per vivere il mio servizio di cappellano è stata la mia unica e grande esperienza. Quella che mi ha portato a toccare con mano il dolore, il dramma di quelle persone. Voglio solo ricordare l’intensità delle sofferenze che ho raccolto facendo visita alle persone appena entrate in carcere. Ho in mente il loro volto, sfigurato, sconvolto, i primi giorni del loro arrivo, tra isolamento e disorientamento. Vivono un vero trauma, uno strappo inimmaginabile, con il fuori e con tutto il loro passato, mentre allo stesso tempo sono inseriti in un contesto molto più grande di loro, inconoscibile, diffidente, giudicante, disinteressato a loro. La pesantezza dei vissuti di quei momenti schiaccerebbe chiunque. Tutto questo mi ha sempre colpito, così come la consapevolezza che ciò è noto solo a chi varca quella soglia. Fuori, nulla di tutto ciò trapela, non si comprende e, con cinica cialtroneria ed indifferenza, si continua ad esultare per una carcerazione che faccia soffrire fino in fondo il “cattivo” di turno! L’esperienza di quel volto, così come quella, incancellabile nella memoria, del corpo appeso al lenzuolo nel rigore della morte, sono cose che segnano e per sempre, che ti cambiano la prospettiva. Voglio però anche citare la presenza di esperienze belle e felici, tutte quelle delle persone detenute che, ricevuta fiducia ed una opportunità, si sono aperte ad una vita nuova, dimostrando grandi capacità e rivelandosi in grado di costruire relazioni vere e sane, con le quali contribuire in modo maturo e responsabile alla comunità. Ne ho incontrate tante di queste persone, accompagnandone i percorsi. La religiosità in carcere? Dobbiamo partire da una prima considerazione. Oggi in carcere troviamo persone provenienti da paesi e culture diverse; sono numerosi i gruppi etnici e le culture che si contano a Sollicciano. Di conseguenza parlare oggi di religione in carcere non comporta un discorso univoco e monolitico ma deve portare alla considerazione più vasta della convivenza di sensibilità e credi differenti fra loro. C’è, però, diciamo una caratteristica di fondo prevalente, che si può attribuire alle forme espressive di religiosità, cristiane e non, che si incontrano in carcere e cioè che si tratta non tanto di una dimensione spirituale del credo religioso quanto del suo aspetto culturale. Indubbiamente in carcere è prevalente questa accezione della religione, cioè appunto l’aspetto culturale. Non manca, a tal proposito, anche l’esposizione dei simboli religiosi (collane o anellini a rosario, crocifissi ecc.), che sono il manifestarsi, nella maggior parte dei casi, di identità culturali che appartengono alla propria storia e che continuano a sussistere anche in quel momento della vita nel quale, semmai, si amplificano in ragione del venire meno di altre dimensioni. Il cappellano è chiamato ad essere uomo del dialogo e a sapersi fare vicino ad ogni sensibilità religiosa, considerandone la valenza culturale e, semmai, valorizzando tutto ciò che in tale ambito può essere di aiuto nella relazione. Quello che deve emergere ed essere valorizzato è il rispetto ed il valore della persona, che deve attraversare ciascuna di queste sensibilità. Anche i momenti delle celebrazioni, che di per sé sembrerebbero esclusivi di una sola fede, devono essere parte di questa religiosità più vasta, capace di raggiungere ogni persona ed includere tutti. Voglio condividere un’ulteriore riflessione, a proposito di simboli religiosi e, in particolare, del crocifisso. La sua presenza addosso a qualche detenuto potrebbe sembrare esibizione sfacciata e non consona, di una dimensione solo culturale, forse superstiziosa. Senza entrare in questo ambito, voglio però osservare quanto segue. Non è sbagliato considerare che, in quelle persone, le quali vivono un vero dramma, possiamo ravvisare dei veri “crocifissi”. Non è una contraddizione che chi è reo di un reato porti il simbolo della Vittima Innocente per antonomasia. Certo, essi scontano un errore, diversamente da Gesù, ma come non considerare che, se un giorno hanno agito il ruolo di “carnefice” per il quale adesso pagano le conseguenze, allo stesso tempo ciò che hanno subito dalla vita prima e che li ha portati al reato, insieme a ciò che continuano a subire adesso, li ha resi e rende delle vittime. Quindi, da vittima prima a carnefice poi, per continuare ad essere vittima in carcere. La croce, non è quindi immagine inappropriata su di loro e, anzi, è emblematica della loro condizione. Ora che non sei più cappellano, a cosa ti dedichi? Non entro più dentro il carcere, mi è impedito, ma ciò non toglie che io continui ad occuparmi delle persone detenute. Occuparsi di carcere e dei detenuti non presuppone necessariamente entrare dentro quelle mura. Quello è solo un aspetto e, forse, nemmeno il principale. Voglio qui, in particolare, sottolineare a tal proposito due cose. Intanto c’è un’attività centrale nell’occuparsi di carcere che è quella dell’accoglienza; a questa io continuo a dedicarmi, attraverso l’esperienza di Casa Caciolle. Non ci si può prendere cura fino in fondo delle persone detenute e non è possibile offrire loro un’effettiva possibilità - stante così la situazione all’interno del carcere - se non si offrono contesti e relazioni capaci di tirare fuori da quell’ambiente di morte. Quindi accogliere, prima come attitudine e poi come fatto concreto, è una delle attività principali di chi si occupa di carcere, anche del cappellano. Oggi continuo a dedicarmi a questo con grande energia, così come facevo anche prima come cappellano. In più, è assolutamente fuorviante pensare che il carcere sia limitato alla realtà confinata dentro le mura dell’Istituto. Il carcere è qualcosa di più vasto, che va oltre, che precede e attraversa quelle mura. Io sono solito parlare di un carcere fuori, che è causa del carcere dentro. Il carcere fuori è diffuso, quasi nascosto, ma molto concreto. È la condizione nella quale oggi si vivono disagi, povertà, ingiustizie e violazioni di diritti nei nostri quartieri, particolarmente in quelli periferici. È qui che tutto nasce, è qui che si alimenta il reato, è qui che ci genera carcere. È qui che, senza colpa alcuna, si è già condannati e prigionieri. Ecco, io non sono più cappellano del “carcere dentro” ma continuo ad essere cappellano del “carcere fuori”. E credetemi, in questo carcere fuori, il lavoro è ancora più arduo e, allo stesso tempo, urgente. L’esperienza di Casa Caciolle... L’esperienza di Casa Caciolle nasce come una scommessa, innovativa ed importante. Alla sua base un desiderio alimentato da solida consapevolezza: se le persone detenute trovano un contesto aperto, accogliente, inclusivo, se ricevono fiducia e opportunità, esse manifestano, in gran parte, la capacità di rispondere positivamente e, partendo dalla parte sana e buona che c’è in ognuno, sono in grado di scrivere una nuova e diversa pagina nella loro vita. Ebbene, dopo molti anni di attività, posso dire che Casa Caciolle è proprio la dimostrazione di questo: in ogni detenuto c’è una parte, più o meno solida e sicura, sulla quale si può costruire. Non è vero, quindi, in senso assoluto, che la recidiva non è abbattibile. Non lo è se affidiamo la vita di queste persone all’istituzione carcere. Ma perché questa ricostruzione e rinascita avvengano è necessario offrire vera accoglienza, che non è tanto e solo un tetto, un alloggio dove stare. Certo questo è importante per accedere alle misure alternative, ma sarebbe poco se non fosse accompagnato da altro. Quello che occorre è un’accoglienza totale della persona sotto il profilo esistenziale. Essa deve sentirsi benvoluta, accettata, deve sentire di essere oggetto di fiducia, di essere utile, di poter dare un contributo, di essere parte di una comunità più grande che è tutta la comunità territoriale. Qui si tocca l’aspetto principale di Casa Caciolle. Il detenuto che lì è accolto non è accolto da quella struttura-comunità, ma è accolto dal Territorio, che entra in Casa Caciolle. Sì, Casa Caciolle è, in un certo senso, una PIAZZA, dove il Territorio vive. Perciò chi è accolto lì scopre e vive la dimensione di una inclusione più vasta e generale. Quindi, più propriamente, si può dire che a Casa Caciolle non si accoglie ma si include... Questa dimensione è favorita, appunto, dall’apertura della Casa al Quartiere e la Città, cosa che avviene in varie forme ma, particolarmente, attraverso esperienze ed attività legate alla cultura e all’arte. Casa Caciolle, sempre più, è centro polivalente che ospita eventi culturali (libri, musica, teatro, arti visive, cinema) e che, attraverso questi linguaggi, vuole favorire l’incontro tra dentro e fuori, tra agio e disagio, promuovendo una riflessione intorno alle questioni più urgenti del vivere sociale. Il mio auspicio è che realtà come questa fioriscano anche altrove, perché da simili esperienze può nascere davvero l’opportunità di un cambio di paradigma intorno al tema della pena e del carcere. Ciò che giudica, isola e chiude (il carcere) non genera percorsi educativi e di vita; ciò che accoglie ed include, invece, apre alla vita e rigenera la società. Legami con Fuori Binario... Fuori Binario è voce di chi non ha voce, è “casa” per i senza dimora, è riferimento per chi non ha riferimenti, identità per chi è invisibile, opportunità per chi non ha nessuno che si prenda cura di lui, relazione per chi è abbandonato da tutti. Tutto questo dice un legame profondo con Casa Caciolle e con ciò di cui mi occupo. Al di là di ciò che si fa, delle attività messe in campo, si evidenza il fine condiviso e, soprattutto, il comune impegno del prendersi cura di coloro che potremmo definire i figli di questo nostro ingiusto sistema, figli della speculazione, della finanza selvaggia, del giustizialismo più becero. I detenuti sono dei “senza dimora”. Non hanno una “casa” intesa come luogo di affetti e relazione; spesso non hanno avuto e non hanno nemmeno quella fisica. Nessuno si occupa realmente di loro; come un po’ i senza tetto, sono di fatto cittadini di serie B, o forse addirittura considerati non cittadini, invisibili, quasi solo un peso ed un problema. Di loro, intorno, c’è prevalente desiderio di non vederne più traccia. La mia esperienza, il mio impegno, la realtà di Casa Caciolle e quella di Fuori Binario camminano in senso contrario e vogliono guardare il mondo proprio partendo da loro. È il passo di chi non ha nulla e tale è considerato, che muove e trasforma la società verso il suo vero bene. In assenza di tale passo è vera ingiustizia e piena contrarietà ai principi di umanità. Spoleto (Pg). Parlamentare Pd Verini in carcere per l’apertura della Porta Santa fatta dai detenuti ansa.it, 6 gennaio 2025 “Sono stato tante volte a visitare le carceri, anche in Umbria. Ma la giornata di sabato al carcere di Maiano di Spoleto è stata davvero indimenticabile ed emotivamente intensa. Come Papa Francesco a Rebibbia, così monsignor Boccardo (arcivescovo di Spoleto e presidente della Conferenza dei vescovi umbri) ha voluto aprire una Porta santa giubilare in un istituto di pena”: a dirlo è Walter Verini, segretario della commissione Giustizia del Senato e capogruppo del Pd in Antimafia. “Una porta fatta dai detenuti, decorata con immagini dei Vangeli contornate dalle coperte termiche che si usano per salvare i migranti, ultimi della terra” ha aggiunto. “C’erano tanti detenuti - ricorda Verini in una nota -, che hanno anche espresso auspici e preghiere durante la messa: per loro stessi, per avere una seconda chance dopo la pena. Per i loro figli e le famiglie. Per gli agenti di polizia penitenziaria e il personale di Maiano. Per la pace. A loro hanno fatto eco le parole di monsignor Boccardo, fondate sulla possibilità che la speranza interiore e la voglia di costruire nuovi percorsi di vita siano in grado di abbattere muri, quelli del dolore, del buio. E anche Bernardina Di Mario, storica direttrice di Capanne e oggi a Spoleto, ha trovato le parole giuste per parlare di pena come occasione di rieducazione e reinserimento. C’era commozione, ieri, anche da parte degli agenti di polizia che, a partire dal loro comandante Luca Bontempo, vivono ogni giorno le problematicità, spesso drammatiche, del carcere. Suicidi, sovraffollamento, mancanza di personale, di affettività, di attività lavorative, di formazione, di sport e cultura. Scarsa attenzione a problemi sanitari. Pochissimi psicologi e mediatori linguistici. Tanto uso di psicofarmaci, a partire da troppi che dovrebbero stare non in carcere, ma in comunità a curarsi. E vuoto. Ore di vuoto. Nessun rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Queste sono le carceri italiane, vere e proprie discariche sociali. A Spoleto ci sono enormi problemi, ma anche segni di speranza come la giornata di ieri (o come le straordinarie attività teatrali guidate da anni dal prof. Flamini). La politica, le istituzioni, hanno l’obbligo di non girarsi dall’altra parte, di assumere subito, ora, decisioni coraggiose, prima che i drammi del 2024 divengano ancora di più esplosivi. Lo chiediamo da tempo, lo abbiamo chiesto in questi giorni, continueremo a farlo”. Alessandria. La Birra prodotta nel carcere arriva sul mercato di Cristina Palazzo La Repubblica, 6 gennaio 2025 C’è la birra “Pentita”, da bere senza rimorso. La Rubentjna, nata da luppoli “rubati” a Torino e portati ad Alessandria. E la Sbirra, agrumata, “illegale non berla”. Sono le birre nate dal luppoleto Galeotto, realizzato nel carcere di Alessandria nel 2021 e interamente curato dai detenuti. Luppolo in inglese si dice “hop”, quasi come la parola speranza (“hope”) e proprio con questa mission la cooperativa Idee in Fuga ha dato vita a Fuga di Sapori, il marchio che oggi racchiude un orto e una pasticceria in carcere, un bistrot sulla cinta muraria e anche la linea di birre. Alla linea presto se ne aggiungerà un’altra, sempre prodotta nel birrificio Trunasse di Castelletto di Stura, nel Cuneese, pensata senza glutine nell’ottica dell’inclusione anche a tavola. La birra sarà la protagonista del progetto B4HOPES nel programma Nodes di cui l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo è capofila. L’obiettivo della ricerca, che coinvolge un team guidato dal prof Michele F. Fontefrancesco dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, con la professoressa Luisa Torri e le dottoresse Nazarena Cela e Chiara Nervo di Scienze Gastronomiche, è indagare l’attitudine dei consumatori verso le birre sociali, che arrivano quindi dall’economia carceraria, ma anche cercare con la tecnologia blockchain di migliorare la trasparenza e la comunicazione, aumentando la consapevolezza sull’impatto sociale di un acquisto. Creare in pratica un sistema integrato di tracciabilità e certificazione della filiera basato sulla tecnologia, parte che sarà seguita da Dgs. “Abbiamo ideato un questionario per indagare l’interesse dei consumatori verso le birre sociali e capire se il consumatore è favorevole all’adozione della blockchain per avere informazioni veritiere e affidabili e quindi costruire fiducia”, spiega Nazarena Cela, ricercatrice dell’Università di Pollenzo. La nuova birra finirà sul mercato a giugno, “la sfida sarà raccontare il luppolo come via per dare una seconda possibilità”. Una via che Carmine Falanga, presidente della Cooperativa Idee in Fuga conosce bene. La realtà dalla sua nascita nel 2017 ha dato lavoro a decine di detenuti, anche dopo il periodo di detenzione, “il principale rischio è quello di recidiva: il 75 per cento delle persone torna in carcere, noi finora abbiamo assunto 27 detenuti ed è accaduto solo per due di loro”. In questi anni i progetti di economia carceraria della cooperativa sono aumentati: hanno una falegnameria fuori dalla casa circondariale, “il primo lavorò furono delle cassette per il Baladin, ora stiamo consegnando oltre mille casette per uccelli e insetti all’università Bicocca”. Poi hanno puntato anche sulla produzione agroalimentare, creando un orto e una pasticceria in carcere e il bistrot Fuga di Sapori, dove si possono assaporare “Assaggi di libertà” in antipasto o “Taglia la corda passando dall’orto” tra i secondi. Infine il luppoleto, con trecento piante ma la birra, per regolamenti interni sull’alcol, viene prodotta all’esterno, nel birrificio Trunasse. In tutto sono 15 i detenuti che oggi lavorano per la cooperativa. “Cerchiamo di dare una reale possibilità di costruirsi un futuro, con un lavoro certo, uno stipendio dignitoso e apprendendo un mestiere”. Se la speranza batte la politica incivile di Massimiliano Panarari La Stampa, 6 gennaio 2025 Una “riscoperta” quanto mai opportuna. Tornano a circolare nel dibattito corrente alcune riflessioni sulla speranza. Nel messaggio di fine anno il Capo dello Stato - esponente di quella tradizione del cattolicesimo politico democratico che con questa categoria ha una vera dimestichezza - vi ha fatto segnatamente riferimento quale orizzonte da abbracciare per superare